Minime. 770



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 770 del 25 marzo 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. L'apartheid
2. Zlata Filipovic ed altre ed altri: Bambini
3. Tommaso Di Francesco: Dieci anni dopo
4. Miodrag Lekic: Dieci anni dopo
5. Fabio Mini: Dieci anni dopo
6. Danilo Zolo: Dieci anni dopo
7. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. L'APARTHEID

Il cosiddetto "pacchetto sicurezza" del governo intende introdurre in Italia
il regime dell'apartheid.
Non si puo' essere neutrali o indifferenti: chi non si oppone al razzismo ne
e' complice.

2. TESTIMONIANZE. ZLATA FILIPOVIC ED ALTRE ED ALTRI: BAMBINI
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 19 marzo 2009 col titolo "Quando Kon e
Ishmael deposero il mitra", il sommario "La testimonianza. Zlata era una
ragazzina durante la guerra in Bosnia. Ora insieme a Save The Children da'
voce a tutti quei bambini strappati dalle scuole e arruolati alla guerra.
Aiutiamoli a riscrivere il futuro" e la nota "Zlata Filipovic, nata a
Sarajevo, Bosnia, ha scritto Il diario di Zlata: vita di una bambina a
Sarajevo durante la guerra, ed e' tra i fondatori del Network of Young
People Affected by War (Nypaw) insieme con Ishmael Beah (Sierra Leone), Kon
Kelei (Sudan), Grace Akallo (Uganda), Emmanuel Jal (Sudan) e Shena A. Gacu
(Uganda), coautori dell'articolo"]

Ricordo che stavo tentando di scrivere una relazione su un libro quando udii
i primi spari della mia vita; rumori che nessun bambino, in nessuna parte
del mondo, dovrebbe mai sentire. Cercai di concentrarmi sui compiti
preoccupata di quello che avrebbe potuto dirmi l'insegnante il giorno
seguente. Nei due anni successivi funestati dal conflitto in Bosnia non
avrei mai piu' scritto una relazione su un libro. La mia scuola di Sarajevo
fu bombardata e chiusa e un enorme foro prodotto da un razzo faceva mostra
di se' sulla parete della classe di letteratura. Lasciai alcuni bei temi da
me scritti nell'armadietto che una granata fece saltare in aria. Non ho mai
saputo cosa ne e' stato della mia insegnante. Non la rividi mai piu'.
Sappiamo cosa sono le emergenze - le abbiamo sentite sulla nostra pelle,
sono diventate parte della nostra vita, l'hanno distrutta, fatta a pezzi e
ridotta ad uno specchio rotto. Le emergenze ci hanno rubato l'innocenza,
l'umanita', la fanciullezza, la famiglia. In tutti i nostri casi i conflitti
ci hanno portato via uno dei nostri diritti fondamentali di bambini e di
ragazzi: l'istruzione.
E' la prima cosa che ci e' stata sottratta quando gli orrori della guerra
hanno avuto inizio. La chiusura della scuola era il segno che stava
avvenendo qualcosa di tremendamente sbagliato. Un giorno lasciammo cadere la
penna, abbandonammo i quaderni, disertammo i banchi di scuola. Le aule
abbellite dai nostri disegni dove risuonavano le nostre risatine e dove ci
passavamo dei bigliettini tra compagni di classe, si svuotarono. La paura di
essere chiamati alla lavagna per risolvere un problema di matematica e la
magia di scoprire la scrittura svanirono. Le scuole diventarono rifugi,
luoghi dove venivano distribuiti gli aiuti umanitari, edifici spettrali
bombardati, spazi vandalizzati, magazzini di armi, demarcazioni delle zone
nemiche e del fronte di guerra.
Chiusa in casa, terrorizzata dal mondo esterno dove la morte poteva
sorprenderti in qualunque momento, non feci che leggere cercando di
continuare a crescere. Poi, un giorno, alcune giovani donne del mio
quartiere aprirono una "scuola di guerra". Non c'erano delle vere aule, ma
ci incontravamo di tanto in tanto nelle giornate relativamente tranquille e
per un momento potevamo essere nuovamente bambini. Queste giovani donne non
potevano assistere passivamente allo spettacolo di bambini abbandonati a se
stessi e cosi' ci dedicarono il loro tempo e condivisero con noi
generosamente la loro immaginazione, la loro creativita' e il loro sapere.
Non dimentichero' mai ne' loro ne' quanto fecero per noi - posso solo
sperare che in circostanze analoghe saprei essere altrettanto generosa e
troverei la forza di svolgere il nobile compito dell'insegnante.
*
Ogni giorno in tutto il mondo bambini come me, come noi, finiscono nelle
celle, nei nascondigli, nei campi profughi o nell'esercito. Con loro
scompare il futuro del loro Paese e del mondo intero. Muoiono, vengono
mutilati, traumatizzati, piegati - e questa e' la fine di futuri leader,
servitori dello Stato, padri, madri e insegnanti.
I conflitti terminano e i bambini sono fortunati se sopravvivono o riescono
a fuggire. Come per qualsiasi trauma il recupero e' lento. Il processo di
recupero poggia su molti elementi, ma e' l'istruzione che garantisce un
futuro alle vite e ai Paesi devastati, ai giovani piegati e alle coesistenze
distrutte.
Kon ricorda il suo primo anno di scuola dopo essere fuggito dall'Esercito di
liberazione del Sudan. Non era aggressivo con gli insegnanti e i compagni di
classe, ma non si fidava di nessuno. Al pari di moltissimi soldati-bambini
sapeva che il solo modo per risolvere i problemi era combattere. Imparare a
fidarsi degli insegnanti e dei compagni di classe fu la sua salvezza - e
l'inizio di una nuova vita. L'istruzione gli ha consentito di recuperare -
dopo essere stato un bambino di guerra - il suo senso dell'umanita'. Senza
questo - dice oggi Kon - gli effetti della guerra te li porti dietro fin
quando esplodono e ti inducono a fare del male ad altra gente.
Quando Grace riusci' a fuggire dall'Esercito di Resistenza del Signore in
Uganda, il mondo aveva gia' considerato la sua una generazione perduta. A
peggiorare le cose il fatto che nella societa' in cui viveva, essere una
donna non era certo un vantaggio. In Uganda le persone piu' emarginate e
invisibili sono le madri-bambine che hanno dovuto subire quella situazione e
hanno visto il loro futuro distrutto.
Dopo la guerra in Sierra Leone, molte cose hanno aiutato Ishmael a
riprendersi, in modo particolare il processo di reinserimento e una famiglia
molto solida. Tuttavia la guarigione e' stata possibile solo perche' ha
avuto la possibilita' di frequentare la scuola. Grazie alla scuola ha
imparato a recuperare il senso della sua umanita' e a riaffermare che non e'
solo capace di violenza, come aveva finito per credere negli anni della sua
fanciullezza, ma anche di altre cose.
*
E' nelle scuole che realizziamo le nostre potenzialita', che diventiamo
esseri sociali, cresciamo e ci sviluppiamo come persone attive, socievoli e
generose nelle nostre comunita' e nel mondo. Dopo un conflitto e' a scuola
che si viene informati sul pericolo delle mine di terra, sulla prevenzione
del virus hiv/aids e sul processo di riconciliazione. E' a scuola che si
scambiano le armi con il sapere e la formazione ed e' a scuola che i
messaggi portatori di pace si intrecciano con le conoscenze e le capacita'
professionali.
Perche' la pace sia sostenibile, siamo fermamente convinti che l'istruzione
debba essere parte integrante di qualunque accordo di pace e che sia
necessario dedicare la giusta attenzione ai progetti educativi nei Paesi
tormentati dai conflitti e nei periodi che seguono la fine della guerra.
L'istruzione consente ai bambini colpiti dalla guerra di recuperare la loro
fanciullezza, di scoprire la loro umanita' e di dare il loro contributo al
genere umano. L'istruzione e' anche un antidoto alla violenza in qualunque
societa'. L'istruzione offre ai giovani la possibilita' di usare la mente in
maniera positiva e costruttiva o di ricostruire le basi dei loro sogni e
delle loro speranze.
Per questa ragione molti bambini colpiti dalla guerra stanno sostenendo
iniziative quali "Riscrivere il futuro" di Save the Children che si propone
di convincere i leader mondiali e le organizzazioni internazionali a
garantire la possibilita' di frequentare la scuola a tutti i bambini colpiti
dalla guerra in Paesi dalle strutture statali distrutte e non funzionanti.
Siamo stati fortunati. Siamo sopravvissuti e abbiamo potuto ricostruire la
nostra vita grazie all'istruzione. Oggi possiamo far sentire la nostra voce
e voi potete sentirci proprio perche' abbiamo avuto la possibilita' di
tornare sui banchi di scuola.
Ogni anno 750.000 bambini sono costretti ad abbandonare la scuola o sono
impediti dal frequentarla a causa di svariati disastri umanitari. Milioni di
bambini non vedono un'aula scolastica da anni. Un terzo della popolazione
mondiale ha meno di 15 anni. Tutti dovrebbero godere del diritto ad una
istruzione obbligatoria e gratuita a dispetto delle guerre, dei disastri
naturali, della poverta', delle malattie, delle epidemie e delle difficolta'
conseguenti alla ricostruzione nell'immediato dopoguerra.
Fidatevi di noi perche' sappiamo di cosa stiamo parlando. Ci hanno strappato
la penna di mano, ma per nostra fortuna ce la siamo ripresa. E abbiamo di
nuovo una voce. Ci auguriamo che possiate sentirci anche a nome di tutti
coloro che voce non hanno.

3. 1999-2009. TOMMASO DI FRANCESCO: DIECI ANNI DOPO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 marzo 2009 col titolo "Dieci anni fa.
La pagina bianca. E quella nera"]

"Italiano, Aviano", era l'accusa ripetuta da tutti nel commissariato dove
finimmo guardati a vista da un soldato armato, io e il fotografo Mario
Boccia, a Bujanovac (Valle di Presevo) presso il confine serbo-macedone.
Fuori erano cominciati i raid della Nato. Ci cacciarono. Ma 24 ore dopo
entravo a nord, verso Novi Sad su un'autostrada deserta. Nella notte la
meraviglia dei tre ponti moderni della citta' venne spezzata. Anche li', il
giorno dopo, su un bus verso Pancevo-Belgrado, qualcuno ci sussurro':
"Italiano, Aviano". Eravamo diventati un sinonimo doloroso. Ma il dolore
vero fu correre per giorni a raccogliere notizie e resti umani. A Surdulica
ci accolse un cratere tra case contadine con i resti di decine di anziani e
bambini. "Italiano, Aviano". Difficile raccontare che tra le case popolari
di Belgrado avevamo visto chiuse nei rifugi tante famiglie terrorizzate. Lo
comunicai in redazione a Luigi Pintor. Anche perche' la guerra aveva come
primo target l'informazione: i media internazionali pendevano ancora dalle
labbra di Jamie Shea, il portavoce della Nato che cianciava di "effetti
collaterali" e "bombe intelligenti". Ma invece della "guerra umanitaria"
scoprivamo stragi di civili. Piovevano 35.450 cluster bomb su case, scuole,
ospedali, fabbriche, ambasciate. Tutti furono costretti a scriverlo. Poi un
giornalista britannico si complimento' con noi per una prima pagina del
"Manifesto" che faceva il giro del mondo: era bianca e in calce gridava "i
bambini non ci guardano". Ma ci furono anche troppe pagine nere, come quelle
che giustificarono il bombardamento della tv di Belgrado, con 16 vittime,
colpita dai Cruise in mezzo ai panni stesi sui terrazzi, con i cavi
tranciati che piovevano nel quartiere una neve chimica.
A dieci anni di distanza, a che sono servite quella guerra e quelle
menzogne? La menzogna diplomatica di Rambouillet che imponeva alla
Jugoslavia di essere tutta presidiata dalla Nato? La bugia di Racak, il
casus belli sostenuto dall'uomo della Cia William Walker che guidava la
missione Osce che doveva mediare tra le parti? Perche' fino al 24 marzo
c'erano vittime e profughi da una parte e dall'altra. Come dimostra
l'incriminazione dell'ex premier Ramush Haradinay, capo dell'Uck nella
Drenica, all'Aja per stragi di civili rom e serbi gia' nel 1998. E come
denuncia Carla Del Ponte nel suo libro (La caccia, Feltrinelli): nel 1998
molti civili serbi furono sequestrati per un barbaro mercato di espianto di
organi. Cosi' si volevano salvare i profughi in fuga albanesi? Con l'uso
sproporzionato della forza - come quello d'Israele su Gaza - che uccise
centinaia di civili serbi e albanesi? Profughi che fuggivano non solo per
timore delle milizie serbe ma, secondo la stessa Corte penale
kosovaro-albanese che lo stabili' in un processo nel 2001, anche perche'
terrorizzati per i raid della Nato. E avevano ragione, perche' in molti
furono inceneriti dai missili "intelligenti".
Ma i risultati di quella "guerra sciagurata" - ha scritto Claudio Magris -
ci sono. Eccome. La Nato da coalizione di difesa e' diventata offensiva, da
li' in poi dispiegata in tutto il mondo; la contropulizia etnica di 300.000
serbi e rom cacciati sotto gli occhi della Nato e mai piu' rientrati,
insieme alla distruzione di 150 monasteri ortodossi. Inoltre l'edificazione
a Camp Bondsteel della piu' grande base militare Usa in Europa. Infine
l'indipendenza autoproclamata del Kosovo, che spacca il Consiglio di
sicurezza Onu ed e' riconosciuta solo da 54 paesi su 192 delle Nazioni
Unite. Nel disprezzo del diritto internazionale, perche' la guerra
umanitaria dei 78 giorni di raid fini' con la pace di Kumanovo del giugno
1999: imponeva alla Serbia il ritiro temporaneo del suo esercito, permetteva
l'ingresso dei contingenti Nato ma riconosceva la sovranita' di Belgrado sul
Kosovo. Ora quell'accordo e' carta straccia, anche grazie all'Italia che ha
riconosciuto l'ultima indipendenza etnica dei Balcani. Un precedente
pericoloso che insanguina il mondo, come ha dimostrato il conflitto tra
Georgia e Russia corsa in armi a difendere il "suo Kosovo" in Ossetia e
Abkhazia.
Ferite che si riaprono. Anche se oggi la realpolitik dopo l'avvento di
Obama, fa pensare che forse una guerra aerea contro la Serbia non sarebbe
possibile. Un fatto e' certo. Quello del 1999 non e' l'ultimo conflitto
armato dei Balcani, ma la prima guerra post-moderna sospesa tra l'uso della
forza che riproduce la forza e l'immaginario del potere. "Perche' cosi' - ha
scritto l'ex premier Massimo D'Alema per spiegare il protagonismo
dell'Italia - abbiamo conquistato lo status di grande paese".

4. 1999-2009. MIOGRAD LEKIC: DIECI ANNI DOPO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 marzo 2009 col titolo "Missione
fallita", il sommario "I jet dell'Alleanza atlantica con duemila azioni
d'attacco scaricarono sulla Jugoslavia 21.700 tonnellate di esplosivo, tra
cui 35.450 cluster bomb. 'Bombe intelligenti' per Usa e Ue. Non colpirono
gli obiettivi militari, fecero stragi tra i civili e distrussero case,
ospedali, ponti, scuole, fabbriche" e la nota "L'autore e' ex ambasciatore
jugoslavo in Italia"]

Se sul mio diario, durante la "guerra dei 78 giorni", annotavo, giorno per
giorno, gli argomenti salienti della giornata, cosa potrei dire oggi a dieci
anni di distanza? Forse basta associarsi a quanto ha scritto sulla
prestigiosa rivista "Foreign Affairs", nel numero di settembre-ottobre 1999,
Michael Mandelbaum, che, nel suo editoriale, ha cosi' riassunto l'esito
della guerra: a perfect Failure (un fallimento perfetto).
Nella scatola nera della guerra si potrebbero leggere, se lo si volesse
fare, una serie di segnali di controversa lettura. Senza dubbio, la guerra
contro la Jugoslavia (Serbia e Montenegro), ha posto un gran numero di
interrogativi: le radici storiche del conflitto, le vere ragioni
dell'intervento della Nato, il modo come la guerra e' stata condotta da
entrambe le parti, le implicazioni sul piano internazionale, le conseguenze
sull'ordinamento giuridico, il fenomeno mediatico, gli scenari geopolitici
nei Balcani del dopoguerra, i danni alla salute e all'ambiente causati dai
bombardamenti indiscriminati e dall'uso di armi proibite...
Ad esempio, le ragioni del conflitto vanno ricercate nella storia? E se si',
quando? Nel lontano 1389, ai tempi della battaglia di Kosovo Polje, o forse
ai tempi delle ben piu' vicine guerre balcaniche, quando - nell'ottobre del
1912 - l'esercito serbo, dopo la vittoria sugli Ottomani, ha liberato dal
dominio turco il Kosovo e parte della Macedonia vardarica? O ancora nel
1941, con la creazione della Grande Albania, di cui il Kosovo era parte
integrante, sotto il protettorato dell'Italia fascista? O nel 1988, quando
l'autonomia kosovara e' stata ridotta da parte delle autorita' serbe col
consenso di tutta la Lega comunista nelle sue articolazioni repubblicane? O
nel periodo successivo alla pace di Dayton, quando le potenze internazionali
sembravano non prestare particolare attenzione al Kosovo, atteggiamento
letto da serbi e albanesi in diverso modo?
Un evidente paradosso di questa strana guerra sta nel fatto che e' stata
iniziata da parte della Nato emarginando le Nazioni Unite (ponendosi al di
fuori della legalita' internazionale che prescrive che sia il Consiglio di
Sicurezza ad "autorizzare" le guerre) e la Russia, storico alleato
dell'ortodossa Serbia. Ma questa stessa guerra non ha potuto essere conclusa
che grazie alla mediazione di Cernomyrdin (ex-premier russo) e ad una
risoluzione delle Nazioni Unite. E, per ironia della storia, nel 2008 il
modello della "guerra umanitaria" e' stato abilmente utilizzato da Mosca
nella sua guerra-lampo contro la Georgia per difendere le ragioni del loro
"Kosovo caucasico", cioe' le regioni separatiste di Abkhazia e Ossezia del
sud.
E' comunque ancora oggetto di discussione se la guerra fosse motivata dalla
difesa dei valori o dovesse costituire la prova generale della nuova Nato,
in cerca di legittimazione dopo il 1989. Da una parte, infatti, i governanti
dei paesi della Nato e gran parte del sistema informativo occidentale
volevano che la guerra passasse alla storia per la sua dimensione etica,
"umanitaria". Anche se, come notava allora finemente lo svizzero Denis de
Rougemont, noto scrittore e pensatore, "Quand la morale triomphe, il se
passe des choses tres vilaines" (Quando trionfa la morale, succedono sempre
brutte cose). Ma il ricorso all'etica si accompagnava alla superiorita'
tecnologico-militare. Erano in un certo senso due facce dello stesso
"idealismo pratico". A Belgrado invece si pensava (e molti, persino tra
coloro che erano nel 1999 oppositori di Milosevic, lo pensano ancora) che la
guerra che la Serbia ha combattuto sia stata la risposta difensiva ad una
brutale aggressione, dovuta al fatto che il paese si e' trovato sulla strada
di cospicui interessi strategici e geopolitici occidentali e che il Kosovo
ha costituito soltanto il necessario casus belli. Dopo la costruzione della
nuova mega-base militare americana a Camp Bondsteel, e piu' tardi la
proclamazione dell'indipendenza del Kosovo, riconosciuta da una buona parte
dei paesi Nato (la Ue si e', una volta di piu', divisa sulla questione del
riconoscimento), tale opinione si e' ancora rafforzata.
Forse, a dieci anni di distanza, si puo' affermare senza equivoci che quella
fu una guerra per l'indipendenza del Kosovo, anche se, nel 1999, gran parte
dei governanti occidentali lo negava pubblicamente. Ma val la pena di
ricordare che la Risoluzione 1244, che ha concluso il conflitto, riconosceva
la sovranita' di Belgrado sul Kosovo, cui veniva garantito il diritto ad una
sostanziale autonomia. Le numerose violazioni del diritto internazionale ed
umanitario commesse nel 1999 hanno costituito un pericoloso precedente per
l'invasione dell'Iraq del 2003. D'altra parte, e' innegabile che la
massiccia fuga dei kosovari albanesi e alcuni evidenti episodi di
repressione da parte dei serbi durante la guerra hanno costituito poi una
giustificazione a posteriori. Mentre la brutalita' dei 78 giorni di
bombardamenti, che non hanno risparmiato la popolazione civile, ha
certamente costituito un "regalo" degli occidentali al potere di Milosevic,
allora presidente jugoslavo, impegnato nella "difesa patriottica" del
territorio nazionale.
Ne' va dimenticato che la "guerra umanitaria", che viene presentata oggi
come assolutamente necessaria, e giustificata dall'atteggiamento serbo
duramente repressivo, non appariva tale ancora il 21 gennaio 1999 al
ministro degli Esteri Lamberto Dini, che quel giorno dichiarava in
Parlamento: "(Il governo serbo) ha accettato i 2.000 verificatori dell'Osce
che sappiamo essere dei militari, ma non sono in divisa e non sono armati...
Vorrei anche sottolineare che arrivare all'occupazione militare e'
l'obiettivo dell'Uck. Quindi, non dovremo sorprenderci se continueranno
azioni di conflitto, uccisioni di alcuni militari e paramilitari serbi.
Anzi, direi che, considerando il rapporto tra gli uccisi albanesi e quelli
serbi, questi ultimi negli ultimi mesi sono stati uccisi in numero superiore
rispetto agli albanesi. Questo e' quanto ci dicono i dati riconosciuti anche
dai principali paesi europei e della Nato" (Ministero degli Affari Esteri,
Testi e Documenti sulla Politica estera dell'Italia 1999). Ma un altro
italiano ha dato un illuminante contributo sulla vera natura della guerra.
Carlo Scognamiglio, Ministro della Difesa durante il conflitto, nel suo
libro La guerra del Kosovo (Rizzoli) si intrattiene per molte pagine
sull'incontro con il generale Wesley Clark, il 17 dicembre 1998, che gli
aveva spiegato come la guerra contro la Jugoslavia "sara' una campagna senza
perdite per noi" (p. 72) e che sarebbe iniziata in marzo. Alla domanda di
Scognamiglio: "Generale, quando Lei dice inizio di primavera intende il 21
marzo?", "Una data intorno a quella, fu la risposta" ( p. 77).
Ricordiamo che nell'autunno del 1998, quando, nel corso di conversazioni
confidenziali, si dava gia' per scontato l'inizio della guerra in primavera,
le trattative di Rambouillet non erano ancora iniziate, e che i
bombardamenti sulla Jugoslavia hanno rispettato puntualmente i tempi
previsti dal generale Clark. Nei miei tanti incontri di allora con i
politici italiani (Veltroni, Fini, Bossi, Violante, Cossiga, Cossutta,
Andreotti, ecc.) avvertivo in loro anche un senso di disagio. Ma
l'atteggiamento italiano puo' forse essere condensato in una folgorante
frase del presidente Cossiga, con cui ho avuto una lunga conversazione il 29
marzo in Senato: non e' chiaro il senso politico della guerra, ma l'Italia
deve comportarsi da leale alleato della Nato. Insomma, se posso riassumere
in due frasi latine: "Credo quia absurdum" e "Pacta sunt servanda". Dopo
dieci anni molte cose sono cambiate nei Balcani e nel mondo: anch'io ho
vissuto un grande cambiamento. Nel 1999 ero ambasciatore della Repubblica
federale di Jugoslavia (Serbia - compreso il Kosovo - e Montenegro). Oggi
sono un cittadino montenegrino e Serbia e Kosovo sono per me l'estero. Ma
questa e' una storia cominciata ancora anni prima. Nel 1991 quando Croazia e
Slovenia uscirono dalla Federazione jugoslava. In realta' cominciava allora
quella "primavera dei popoli" che ha causato tanti sanguinosi conflitti,
infinite sofferenza e ha portato alla dissoluzione della Jugoslavia, paese
verso il quale sento ancora nostalgia. Ancora una volta non posso che
esprimere la mia solidarieta' per le tante sofferenze patite da tutte le
parti in conflitto.

5. 1999-2009. FABIO MINI: DIECI ANNI DOPO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 marzo 2009 col titolo "Kosovo
1999-2009", il sommario "E per la prima volta la maschera della pace. La
prevalenza della logica etnica e dei clan" e la nota "L'autore e' generale,
ex comandante della Nato in Kosovo"]

In un libro-intervista del 2003 l'ambasciatore statunitense Christopher
Hill, uno dei protagonisti della vicenda del Kosovo e responsabile del
fallimento diplomatico che porto' alla guerra, pronuncia queste illuminanti
frasi: 1) "ai diplomatici piace pensare di doversi occupare di questioni
importanti. In realta' si occupano di questioni urgenti". 2) "Molto spesso
si definiscono urgenti le questioni violente". 3) "Holbrooke (l'artefice di
Dayton e del mostro istituzionale bosniaco) divenne (nel 1998) molto attivo
nel cercare di convincere Washington che le cose in Kosovo erano gravi". La
guerra del Kosovo di dieci anni fa sembra aver seguito il filo logico di
queste parole che si possono leggere come una constatazione, una
premonizione o un cinico piano nel quale la catastrofe umanitaria e la
violenza servono a rendere le cose gravi e urgenti e quindi a giustificare
qualsiasi intervento soprattutto se illogico, illegittimo e non risolutivo.
Nel 1995 tutti sapevano che il Kosovo era altrettanto importante della
Bosnia. Tutti sapevano che una soluzione doveva essere regionale e non
cantonale. Eppure il Kosovo non fu incluso nei dibattiti di Dayton, con
enorme disappunto dei kosovari che ci speravano, sia perche' Milosevic
difendeva la sovranita' della Serbia, sia perche' la questione non era
"urgente". Vale a dire che non era ancora sufficientemente violenta. A
Dayton fu pero' ribadito il messaggio gia' chiaramente lanciato da quanti, a
partire dal 1991, si erano affrettati a riconoscere l'indipendenza dei nuovi
stati balcanici: la politica internazionale prediligeva la prevalenza
etnica, specialmente se coincideva con quella culturale e religiosa.
Dal 1995 al 1998 in Kosovo si avviarono percio' molte iniziative per colmare
la "lacuna" della violenza e per adeguarsi al criterio dominante. Il governo
serbo s'impegno' nel trapianto in Kosovo dei serbi sfuggiti ai massacri dei
croati e nella lotta ai "terroristi" albanesi, mentre i kosovari ricorrevano
alla consulenza jihadista, al finanziamento tramite i traffici illeciti e
alla diligente frequenza dei corsi di addestramento al combattimento
generosamente offerti o finanziati dai servizi segreti di Stati Uniti e
altri paesi europei. Ed e' proprio nel 1998 che matura la violenza militare
che consente ai diplomatici di occuparsi non di cio' che e' importante ma di
cio' che "finalmente" e' urgente. Considerando cio' che e' seguito, i
massacri, le pulizie e contropulizie etniche, le vittime della guerra e la
resa dei conti, la guerra del Kosovo non appare dissimile da tutte quelle
balcaniche in cui i pretesti e gli attivismi diplomatici sono spesso serviti
a far precipitare gli eventi e ad avviare improbabili esperimenti
sociopolitici.
Ma il Kosovo e' molto di piu' e la differenza si vede dagli sviluppi
post-bellici. In quest'ultimo decennio il Kosovo e' stato costruito come un
"non-stato" su base monoetnica, sottratto ad una legittima sovranita'
nazionale, finanziato e occupato da forze internazionali che non devono
interferire con gli affari locali, legali o illegali. Chiunque si sia
opposto a questa costruzione e' stato minacciato, eliminato o considerato un
criminale e chiunque ne abbia favorito la realizzazione e' stato ben
retribuito e perfino premiato. L'esempio del Kosovo e' diventato il
paradigma della prevalenza della logica etnica e dei clan su quella
dell'ordine e della sovranita' degli Stati. In questo senso ha compromesso
il principio fondante delle Nazioni Unite. Inoltre, il Kosovo ha dimostrato
di essere il primo esempio di una guerra moderna particolarmente subdola e
violenta: la guerra che non finisce mai, che si maschera da operazione di
pace; la guerra che non tende alla vittoria e alla stabilita', ma alla
realizzazione dell'entropia, del collasso organizzativo e delle istituzioni;
la guerra che determina il crollo dei criteri fondamentali della politica
internazionale e della stessa etica politica. Il Kosovo e' riuscito a dare
un nuovo significato alla balcanizzazione, ancora legato alla faida, ma
connesso con l'asimmetria istituzionale che consente la rottura degli
equilibri interni ed internazionali, l'alterazione del bilancio dei poteri e
della condivisione delle responsabilita'. Il Kosovo dovrebbe essere un
esempio negativo ed insegnare nuove filosofie e approcci ai problemi
internazionali, ma non si percepisce ne' la volonta' d'imparare ne' quella
di cambiare. I fautori e fiancheggiatori di questo Kosovo ne sono orgogliosi
e lo sostengono. La dinastia Clinton che arrivo' alla guerra gestisce quella
diplomazia che prima d'intervenire deve assicurarsi che le cose siano
urgenti. Holbrooke e' inviato speciale per l'Afghanistan e il Pakistan e il
suo pupillo Hill e' responsabile dell'area Asia-Pacifico e sara' prossimo
ambasciatore in Iraq. Tutte aree in cui c'e' bisogno di tutto tranne che
della loro urgenza.

6. 1999-2009. DANILO ZOLO: DIECI ANNI DOPO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 marzo 2009 col titolo "I frutti
avvelenati della guerra. Target umanitario" e il sommario "Dieci anni fa, il
24 marzo 1999, i bombardamenti della Nato contro la Jugoslavia. Durarono per
78 giorni, in assoluta violazione della Carta dell'Onu. Fu un sanguinoso
vulnus del diritto internazionale che apri' la stagione delle guerre
"umanitarie"]

Sono trascorsi dieci anni da quando, il 24 marzo 1999, iniziarono i
bombardamenti della Nato contro la Repubblica Federale Jugoslava. Durarono
ininterrottamente per 78 giorni, in assoluta violazione della Carta delle
Nazioni Unite. Oltre diecimila furono le missioni d'attacco da parte di
circa mille aerei alleati, furono usati piu' di 23.000 ordigni esplosivi,
fra missili e bombe, senza contare le decine di migliaia di proiettili
all'uranio impoverito. Ormai e' ampiamente riconosciuto che la motivazione
umanitaria della guerra - la liberazione del Kosovo dalla "pulizia etnica"
praticata dalla Serbia - era infondata e pretestuosa. Tanto che potrebbe
ricredersi persino l'allora presidente del consiglio italiano, Massimo
d'Alema, che di quella aggressione fu un convintissimo sostenitore. Lo
strumento bellico si e' subito rivelato, com'era facile prevedere,
incommensurabile e contradditorio rispetto alla difesa dei diritti della
minoranza kosovaro-albanese, che gli aggressori proclamavano come il loro
nobile obiettivo. La "guerra dal cielo" voluta dal presidente Clinton non ha
portato la pace, la democrazia e la stabilita' nei Balcani. L'odio, la
violenza, la corruzione, la poverta', la prostituzione, lo squallore
ambientale sono stati il lascito di questa guerra, come di molte altre
guerre di aggressione. I territori e i centri urbani colpiti dai
bombardamenti - da Pristina a Nis, a Belgrado, a Novi Sad, all'area
danubiana - sono stati ridotti in condizioni preindustriali e ancora oggi,
dopo dieci anni, portano i segni profondi della "guerra umanitaria".
Migliaia di serbi e di albanesi hanno perso la vita o hanno subito gravi
mutilazioni a causa dei bombardamenti. Ed altre persone innocenti hanno
continuato ad essere vittime delle mine che le cluster bomb hanno lasciato
sul terreno, e della contaminazione prodotta dai proiettili all'uranio
impoverito sparati dagli aerei statunitensi. Com'e' noto, nel Kosovo la
"pulizia etnica" non e' stata fermata dalla guerra: ha soltanto mutato
direzione. Dopo la "liberazione" sono stati gli estremisti kosovaro-albanesi
ad usare spietatamente la violenza contro quello che e' rimasto della
minoranza serba. E altrettanto si puo' dire per il dramma dei profughi. I
kosovaro-albanesi, che in gran numero avevano abbandonato la loro patria
dopo l'inizio dei raid della Nato, sono rapidamente rientrati nei loro
territori. Ma centinaia di migliaia di serbi e di rom - in parte gia'
cacciati con la forza dalla Krajina e dalla Slavonia orientale - sono ancora
oggi ammassati in territorio serbo, in condizioni altamente precarie. Stessa
sorte e' toccata a oltre duecentomila serbi e rom che vivevano nel Kosovo.
Quali sono state le vere motivazioni e i veri obiettivi strategici della
guerra di aggressione degli Stati Uniti e della Nato contro la Repubblica
Federale Jugoslava? Questo e' un punto cruciale, ancora oggi di grande
attualita'. E' sempre piu' evidente che la "guerra umanitaria" della fine
del scolo scorso ci ha definitivamente introdotti nel New World Order
progettato dagli Stati Uniti dopo il crollo dell'impero sovietico: il
disegno strategico di un assetto unipolare delle relazioni internazionali
dominato dalla superpotenza americana. La principale lezione che la guerra
per il Kosovo ha impartito e' che i processi di globalizzazione e di
concentrazione del potere internazionale richiedono nuove forme di uso della
forza. Come hanno sostenuto Alvin e Heidi Toffler, gli Stati Uniti, gia' a
partire dalla Guerra del Golfo del 1991, si sono mostrati pronti ad
affrontare la nuova situazione del mondo puntando, oltre che sul loro
assoluto predominio nucleare, su sofisticate strategie informatico-militari.
In poco piu' di dieci anni le strutture militari degli Stati Uniti hanno
subito una trasformazione radicale - tecnologica, organizzativa, strategica,
logistica - e questo e' stato perfettamente confermato dalla "guerra dal
cielo" contro la Repubblica Jugoslava, che ha traumatizzato il mondo intero
poiche' ha mostrato l'irraggiungibile superiorita' militare della potenza
americana. La vittoria degli Stati Uniti e' stata assoluta. La costruzione
(illegale) dell'immensa base militare di Camp Bondsteel a Urosevac, nel
cuore del Kosovo, ne e' ancora oggi la piu' concreta, irrefutabile
dimostrazione. E' la prova che, grazie alla "guerra umanitaria" della Nato,
gli Stati Uniti hanno ottenuto il controllo militare dell'intero
Mediterraneo orientale e del Vicino Oriente, oltre che dei Balcani. E' sullo
sfondo di questo contesto che si spiega sia l'imponente sviluppo del
terrorismo internazionale a partire dalla guerra del Golfo del 1991, sia la
serie di guerre preventive scatenate dagli Stati Uniti e dai loro piu'
stretti alleati contro l'Afghanistan nel 2001 e contro l'Iraq nel 2003. E si
spiegano le pressioni che oggi vengono esercitate, con la complicita' dello
Stato di Israele, nei confronti della Siria e soprattutto dell'Iran.
Quella che chiamiamo "globalizzazione" non e' un processo spontaneo di
unificazione del mondo grazie alla leggi del mercato, secondo la retorica
neoliberista. La globalizzazione, per le crescenti discriminazioni
economiche e politiche che comporta, richiede una costante vigilanza a
livello globale, come emerge dalle strategie geopolitiche elaborate dai
"cartografi" statunitensi nei primi anni Novanta del secolo scorso. Gli
interessi vitali dei paesi industriali - si e' sostenuto - sono diventati
piu' vulnerabili per quanto riguarda l'accesso alle fonti energetiche, la
sicurezza dei traffici marittimi ed aerei, la stabilita' dei mercati
finanziari, il controllo della produzione delle armi biologiche, chimiche e
nucleari. L'uso preventivo della forza nella guerra globale contro il
terrorismo deve essere percio' previsto e pianificato dalle potenze
occidentali per la semplice ragione che esso e' inevitabile: la
globalizzazione deve essere sostenuta da robuste protesi militari. Si vedra'
nei prossimi mesi, soprattutto in Afghanistan, se con la presidenza di
Barack Obama il modello della guerra umanitaria e preventiva verra'
abbandonato per una strategia almeno tendenzialmente multilaterale e
post-egemonica. Oggi nessuna previsione ottimistica e' legittima.
L'ottimismo e' impedito dall'idea, espressa dal nuovo presidente e dal suo
Segretario di Stato, Hillary Clinton, che il terrorismo si sconfigge in
Afghanistan e che per questo e' necessario intensificare e concentrare
nell'area afghano-pakistana l'impegno militare degli Stati Uniti e dei loro
alleati europei, ancora una volta sotto l'egida illegale della Nato.

7. APPELLI. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il
seguente appello]

Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile
sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di
promozione sociale).
Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente
soldi gia' destinati allo Stato.
Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e'
facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il
numero di codice fiscale dell'associazione.
Il Codice Fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235.
Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 per mille.
Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non
fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola
quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato,
la gratuita', le donazioni.
I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del
Movimento Nonviolento e in particolare per rendere operativa la "Casa per la
Pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la
generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la
promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi
estivi, eccetera).
Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre
quarant'anni, con coerenza, lavora per la crescita e la diffusione della
nonviolenza. Grazie.
Il Movimento Nonviolento
*
Post scriptum: se non fate la dichiarazione in proprio, ma vi avvalete del
commercialista o di un Caf, consegnate il numero di Condice Fiscale e dite
chiaramente che volete destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento.
Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261
(corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle
Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a
tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno.
*
Per contattare il Movimento Nonviolento: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax: 0458009212, e-mail: redazione at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 770 del 25 marzo 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web:
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