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Voci e volti della nonviolenza. 293
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 293
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 27 Jan 2009 08:36:41 +0100
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 293 del 27 gennaio 2009 In questo numero: 1. Primo Levi: Al visitatore 2. Alcuni estratti da "La Germania nazista e gli ebrei" di Saul Friedlaender (parte prima) 1. MAESTRI. PRIMO LEVI: AL VISITATORE [Da Primo Levi, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, pp. 1335-1336, riportiamo il testo pubblicato per l'inaugurazione del Memorial in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio nazisti. Fascicolo edito a cura dell'Associazione nazionale ex deportati politici nei campi di sterminio nazisti, aprile 1980] La storia della Deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo, non puo' essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: dai primi incendi delle Camere del Lavoro nell'Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania del 1933, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto. E' vecchia sapienza, e gia' cosi' aveva ammonito Heine, ebreo e tedesco: chi brucia libri finisce col bruciare uomini, la violenza e' un seme che non si estingue. E' triste ma doveroso rammentarlo, agli altri ed a noi stessi: il primo esperimento europeo di soffocazione del movimento operaio e di sabotaggio della democrazia e' nato in Italia. E' il fascismo, scatenato dalla crisi del primo dopoguerra, dal mito della "vittoria mutilata", ed alimentato da antiche miserie e colpe; e dal fascismo nasce un delirio che si estendera', il culto dell'uomo provvidenziale, l'entusiasmo organizzato ed imposto, ogni decisione affidata all'arbitrio di un solo. Ma non tutti gli italiani sono stati fascisti: lo testimoniamo noi, gli italiani che siamo morti qui. Accanto al fascismo, altro filo mai interrotto, e' nato in Italia, prima che altrove, l'antifascismo. Insieme con noi testimoniano tutti coloro che contro il fascismo hanno combattuto e che a causa del fascismo hanno sofferto, i martiri operai di Torino del 1923, i carcerati, i confinati, gli esuli, ed i nostri fratelli di tutte le fedi politiche che sono morti per resistere al fascismo restaurato dall'invasore nazionalsocialista. E testimoniano insieme a noi altri italiani ancora, quelli che sono caduti su tutti i fronti della II Guerra Mondiale, combattendo malvolentieri e disperatamente contro un nemico che non era il loro nemico, ed accorgendosi troppo tardi dell'inganno. Sono anche loro vittime del fascismo: vittime inconsapevoli. Noi non siamo stati inconsapevoli. Alcuni fra noi erano partigiani; combattenti politici; sono stati catturati e deportati negli ultimi mesi di guerra, e sono morti qui, mentre il Terzo Reich crollava, straziati dal pensiero della liberazione cosi' vicina. La maggior parte fra noi erano ebrei: ebrei provenienti da tutte le citta' italiane, ed anche ebrei stranieri, polacchi, ungheresi, jugoslavi, cechi, tedeschi, che nell'Italia fascista, costretta all'antisemitismo dalle leggi di Mussolini, avevano incontrato la benevolenza e la civile ospitalita' del popolo italiano. Erano ricchi e poveri, uomini e donne, sani e malati. C'erano bambini fra noi, molti, e c'erano vecchi alle soglie della morte, ma tutti siamo stati caricati come merci sui vagoni, e la nostra sorte, la sorte di chi varcava i cancelli di Auschwitz, e' stata la stessa per tutti. Non era mai successo, neppure nei secoli piu' oscuri, che si sterminassero esseri umani a milioni, come insetti dannosi: che si mandassero a morte i bambini e i moribondi. Noi, figli di cristiani ed ebrei (ma non amiamo queste distinzioni) di un paese che e' stato civile, e che civile e' ritornato dopo la notte del fascismo, qui lo testimoniamo. In questo luogo, dove noi innocenti siamo stati uccisi, si e' toccato il fondo delle barbarie. Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu venga, tu non sei un estraneo. Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento: fa che il frutto orrendo dell'odio, di cui hai visto qui le tracce, non dia nuovo seme, ne' domani ne' mai. 2. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "LA GERMANIA NAZISTA E GLI EBREI" DI SAUL FRIEDLAENDER (PARTE PRIMA) [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Saul Friedlaender, La Germania nazista e gli ebrei. Volume I: Gli anni della persecuzione, 1933-1939, Garzanti, Milano 1998, 2004 (ed. originale: Nazi Germany and the Jews. Volume I The Years of Persecutions, 1933-1939, 1997)] Indice del volume Ringraziamenti; Introduzione; Parte 1: Un inizio e una fine. Capitolo 1: Dentro il Terzo Reich; Capitolo 2: Elite consenzienti, elite minacciate; Capitolo 3: Antisemitismo redentivo; Capitolo 4: Il nuovo ghetto; Capitolo 5: Lo spirito delle leggi; Parte II: In trappola. Capitolo 6: Crociate e schedari; Capitolo 7: Parigi, Varsavia, Berlino, Vienna; Capitolo 8: Un modello austriaco? Capitolo 9: L'assalto; Capitolo 10: Il crollo; Note; Bibliografia; Indice analitico. * Da pagina 9 Introduzione La maggior parte degli storici della mia generazione, nati alla vigilia dell'era nazista, ammette, esplicitamente o implicitamente, che il rivangare gli eventi di quegli anni comporta non solo un'opera di scavo e di interpretazione di un passato collettivo simile a qualunque altro, ma anche un processo di recupero di elementi decisivi delle nostre stesse vite e di confronto con essi. Tale ammissione e' ben lungi dal generare un qualsiasi tipo di accordo su come definire il regime nazista, come interpretarne la dinamica interna, come illustrarne in modo adeguato la natura assolutamente criminale e al contempo assolutamente ordinaria, o su dove e come collocarlo all'interno di un piu' ampio contesto storico. E tuttavia, nonostante le nostre controversie, credo che nel descrivere questo passato sia comune a molti di noi un senso di coinvolgimento personale che carica di un'ansia particolare le nostre ricerche. Per la generazione di storici successiva alla nostra - e ormai anche per quella che le succedera' -, cosi' come per la gran parte dell'umanita', il Reich hitleriano, la seconda guerra mondiale e il destino degli ebrei d'Europa non costituiscono una memoria comune. E tuttavia, paradossalmente, la centralita' di questi eventi nella coscienza storica appare oggi ancora maggiore rispetto a qualche decennio addietro. I dibattiti su questi argomenti tendono a perpetuarsi con acredine immutata via via che i fatti vengono contestati e le prove negate, che interpretazioni e tentativi di commemorazione vengono a scontrarsi, e che nuove dichiarazioni sulle responsabilita' di quei fatti storici vengono periodicamente alla ribalta. Forse in questo nostro secolo di genocidi e di criminalita' di massa, lo sterminio degli ebrei d'Europa, a prescindere dal suo specifico contesto storico, e' percepito da molti come parametro ultimo del male in base al quale commisurare i vari livelli di malvagita'. In tutti questi dibattiti, il ruolo dello storico e' fondamentale. Per la mia generazione, essere al contempo depositari della memoria storica e partecipi delle odierne conoscenze di tale passato puo' creare un'inquietante dissonanza, ma anche, al contempo, alimentare intuizioni interpretative che sarebbero altrimenti precluse. Produrre una narrazione storica dell'Olocausto che abbracci le iniziative politiche dei suoi responsabili, gli atteggiamenti della societa' circostante e il mondo delle vittime in un unico e strettamente integrato quadro interpretativo continua a essere impresa quanto mai ardua. Alcuni dei piu' noti resoconti storici di questi eventi sono incentrati principalmente sulla macchina di persecuzione e morte nazista e prestano scarsa attenzione alla societa' nel suo complesso, al piu' ampio scenario europeo e mondiale o al destino stesso delle vittime. Meno di frequente, altri hanno focalizzato l'attenzione esclusivamente sul mondo delle vittime, offrendo un'analisi solo parziale della politica nazista e dello scenario circostante. Questo studio intende offrire una narrazione in cui la politica nazista costituisca l'elemento centrale, ma nella quale il mondo circostante e gli atteggiamenti, le reazioni e il destino delle vittime siano parte altrettanto integrante di un quadro complessivo. In molti studi, l'implicito presupposto della generale passivita' che caratterizzo' le vittime, o della loro incapacita' di mutare il corso degli avvenimenti che porto' al loro sterminio, ha trasformato le vittime stesse in un elemento statico, astratto, degli eventi accaduti. Troppo spesso si dimentica che non e' possibile comprendere appieno gli atteggiamenti e le iniziative naziste senza conoscere la vita e finanche i sentimenti degli stessi uomini, donne e bambini ebrei. Ecco perche' qui, in ciascuna fase illustrativa della politica nazista - nonche' degli atteggiamenti della societa' tedesca ed europea laddove questi ne influenzano l'evolversi - si e' inteso dare grande importanza al destino, agli atteggiamenti e a volte alle iniziative stesse delle vittime. Ritengo infatti che le loro voci siano essenziali per una piu' piena comprensione di questo passato. Sono infatti le loro voci che rivelano quanto sappiamo e quanto invece potremmo sapere; e sono le sole voci in cui viene a fondersi la piu' lucida presa di coscienza e la totale cecita' di esseri umani posti innanzi a una realta' del tutto nuova e assolutamente terrificante. La costante presenza, in questo libro, delle vittime - elemento gia' di per se' fondamentale da un punto di vista storico - mira altresi' a collocare l'operato dei nazisti nella sua prospettiva piu' completa. E' abbastanza facile individuare i fattori che determinarono il contesto storico globale entro cui fu perpetrato lo sterminio di massa nazista. Tali fattori determinarono metodi e portata della "soluzione finale", e contribuirono altresi' a creare quel clima generale che spiano' la strada allo sterminio. Basti qui menzionare la radicalizzazione ideologica - con l'acceso nazionalismo e l'accanito antimarxismo (poi antibolscevismo) a fungere da forze propulsive principali - emersa negli ultimi decenni del XIX secolo e che raggiunse l'apice dopo la prima guerra mondiale (e la Rivoluzione russa), la nuova dimensione dei massacri di massa introdotti da quella guerra, il crescente controllo tecnologico e burocratico esercitato dalle societa' moderne, e gli altri tratti caratteristici essenziali della modernita' in quanto tale, che costituirono un aspetto preponderante del nazismo. Tuttavia, per quanto essenziali queste condizioni possono essere state nel preparare il terreno all'Olocausto - e in quanto tali costituiscono parte integrante della nostra storia - esse non offrono, da sole, un quadro completo di tutti gli elementi che caratterizzarono il corso degli avvenimenti che vanno dalla persecuzione allo sterminio. Riguardo a tale processo, ho inteso enfatizzare il ruolo personale di Hitler e della sua ideologia nella genesi e realizzazione pratica delle misure antiebraiche del regime nazista. Cio', tuttavia, non e' assolutamente da considerare come un ritorno a vecchie e riduttive interpretazioni incentrate esclusivamente sul ruolo (e la responsabilita') del leader supremo. Mi sembra, tuttavia, che col passare del tempo le interpretazioni opposte si siano spinte troppo in la'. Il nazismo non fu un fenomeno alimentato essenzialmente dal caotico scontro di feudi burocratici e di partito in reciproca competizione, ne' la pianificazione delle sue iniziative antiebraiche fu affidata a meri calcoli contabili di tecnocrati. In tutte quelle che furono le sue decisioni piu' importanti, il regime dipese da Hitler. E soprattutto in relazione agli ebrei, Hitler fu guidato da ossessioni ideologiche che nulla hanno a che vedere con gli studiati artifici di un demagogo. Intendo dire che egli porto' un tipo di antisemitismo del tutto particolare alle piu' estreme conseguenze. Definisco tale peculiare aspetto della sua visione del mondo "antisemitismo redentivo". E' qualcosa di diverso, seppur correlato, rispetto ad altri tipi di odio antiebraico comuni in tutta l'Europa cristiana, e anche ai comuni tipi di antisemitismo razziale tedesco ed europeo. Fu questa dimensione redentiva, questa sintesi di furore omicida e di un fine "idealistico" - pienamente condivisa dal nucleo centrale del partito - che porto' Hitler alla decisione finale di sterminare gli ebrei. Ma le scelte politiche di Hitler non furono determinate soltanto dall'ideologia, e l'interpretazione offerta in questo libro sottolinea l'interazione tra il Fuehrer e il sistema all'interno del quale egli agi'. Il leader nazista non prese le sue decisioni indipendentemente dalle organizzazioni di partito o di Stato. Le sue iniziative, soprattutto durante i primi anni di regime, furono influenzate non solo dalla sua visione del mondo, ma anche da pressioni interne, da vincoli burocratici, a volte dall'opinione pubblica tedesca nel suo complesso e finanche dalle reazioni di governi e popoli stranieri. In che misura il partito e il popolo condivisero l'ossessione ideologica di Hitler? L'"antisemitismo redentivo" fu moneta comune tra l'elite del partito. Studi recenti hanno altresi' dimostrato come tale antisemitismo estremo non fosse inusuale nelle organizzazioni che avrebbero fatto da perno alla realizzazione delle politiche antiebraiche, quali ad esempio il servizio di sicurezza delle SS di Reinhard Heydrich (il Sicherheitsdienst, o SD). Per quanto riguarda gli elementi cosiddetti radicali del partito, essi erano spesso mossi da quella sorta di risentimento sociale ed economico sfociato poi in iniziative antiebraiche di segno estremo. In altre parole, all'interno del partito - nonche', come vedremo, al suo esterno - esistevano dei nuclei di antisemitismo irriducibile abbastanza potenti da trasmettere e propagare l'impulso dato dallo stesso Hitler. E tuttavia, tra le elite tradizionali e tra la popolazione nel suo complesso, l'atteggiamento antiebraico era piu' simile a una sorta di tacita acquiescenza o a una piu' o meno partecipe condiscendenza. Sebbene la maggior parte della popolazione tedesca fosse pienamente consapevole, gia' molto prima della guerra, delle misure sempre piu' dure adottate contro gli ebrei, non vi furono che aree minoritarie di dissenso (e quasi tutte per motivi economici e ideologico-religiosi). Sembra, tuttavia, che la maggioranza dei tedeschi, pur indubbiamente influenzata da varie forme di antisemitismo tradizionale e pronta ad accettare la segregazione degli ebrei, fosse contraria ad azioni di violenza diffusa nei loro confronti e fosse ben lungi dall'invocarne l'espulsione dal Reich o il loro annientamento fisico. Dopo l'attacco all'Unione Sovietica, quando la decisione dello sterminio totale era gia' stata presa, le centinaia di migliaia di "tedeschi comuni" (vale a dire distinti, ad esempio, dalle fortemente ideologizzate unita' SS), che parteciparono attivamente agli eccidi agirono in modo perfettamente simile agli altrettanto numerosi e "comuni" cittadini austriaci, romeni, ucraini, baltici e di altri paesi europei che divennero i piu' solerti esecutori della macchina omicida operante nei loro paesi. Cio' nonostante, che ne fossero coscienti o meno, tali killer tedeschi e austriaci erano stati indottrinati dall'incessante propaganda antiebraica del regime, che penetro' ogni piega della societa' e i cui slogan furono almeno in parte interiorizzati, principalmente nel contesto della guerra ad Est. Nel sottolineare il fatto che Hitler e la sua ideologia ebbero un'influenza decisiva sul corso assunto dal regime, non intendo in alcun modo affermare che Auschwitz non fu altro che il naturale e preordinato epilogo dell'avvento al potere di Hitler. Le politiche antiebraiche degli anni Trenta vanno interpretate nel loro contesto, e fin anche la furia omicida di Hitler e la sua esplorazione dell'orizzonte politico alla perenne ricerca delle scelte piu' estreme non sembrano indicare l'esistenza di un piano di sterminio totale negli anni precedenti l'invasione tedesca dell'Unione Sovietica. Al contempo, tuttavia, nessuno storico puo' dimenticare dove fini' quella strada. Di conseguenza, si intendono qui sottolineare anche quegli elementi che sappiamo, a posteriori, aver avuto un ruolo importante nell'evoluzione di quel processo e nel suo drammatico epilogo. La storia della Germania nazista non va scritta esclusivamente dal punto di vista del periodo bellico e delle sue atrocita', ma la pesante ombra gettata da quanto accadde in quegli anni oscura in misura tale gli eventi degli anni prebellici che uno storico non puo' fingere che gli avvenimenti successivi non influenzino la valutazione dei fatti e il giudizio sul corso complessivo di tale storia. I crimini perpetrati dal regime nazista non furono ne' il mero risultato di un casuale, involontario, impercettibile e caotico dipanarsi di eventi slegati, ne' il realizzarsi di un mostruoso copione preordinato. Essi furono il risultato di fattori convergenti, dell'interazione tra intenzioni e contingenze, tra cause discernibili e pura e semplice casualita'. Grandi obiettivi ideologici e tatticismi politici si influenzarono reciprocamente e restarono sempre aperti a iniziative piu' radicali parallelamente al mutare delle circostanze. In termini generali, la narrazione di quest'opera rispetta la sequenza cronologica degli eventi: la loro evoluzione prebellica e, in un prossimo volume, il mostruoso culmine raggiunto negli anni di guerra. Tale quadro temporale complessivo evidenzia gli elementi di continuita' e indica il contesto dei principali mutamenti, consentendo altresi' di spostare i piani narrativi all'interno di uno stabile quadro cronologico. Tali spostamenti derivano dai cambiamenti di prospettiva imposti dall'approccio interpretativo da me adottato, ma sono anche frutto di un'altra scelta: contrapporre livelli di realta' del tutto diversi - ad esempio, dibattiti ad alto livello sulla politica antiebraica e decisioni successive a comuni scene di persecuzione al fine di creare un senso di estraniazione che si contrapponga alla nostra tendenza ad "assuefarci" a quel particolare passato e ad ammorbidirne l'impatto mediante spiegazioni slegate e interpretazioni standardizzate. Credo che tale senso di estraniazione rifletta la percezione delle vittime del regime, almeno negli anni Trenta, di una realta' assurda e minacciosa, di un mondo al contempo grottesco e agghiacciante sotto una patina di ancor piu' agghiacciante normalita'. Dal momento in cui le vittime furono intrappolate nel processo poi sfociato nella "soluzione finale", la loro vita di collettivita' - dopo un periodo di accresciuta coesione - inizio' a disintegrarsi. Ben presto la storia di tale collettivita' venne a fondersi con quella delle misure amministrative e criminali del loro sterminio, riducendosi ad astratta espressione statistica. La sola storia concreta che e' possibile recuperare resta quella testimoniata dalle esperienze personali. Dalla fase di disintegrazione collettiva a quella della deportazione e della morte, questa storia, perche' la si possa scrivere, deve essere rappresentata sotto forma di narrazione organica di destini individuali. Sebbene menzioni la mia generazione di storici e le potenziali intuizioni interpretative derivateci dalla nostra particolare collocazione cronologica, non posso ignorare la tesi secondo la quale un coinvolgimento emotivo personale in questi eventi preclude un approccio razionale alla narrazione storica. La "memoria mitologica" delle vittime e' stata posta in contrapposizione alla comprensione "razionale" degli altri. Non intendo certo riaprire vecchie dispute, ma bensi' semplicemente suggerire che gli storici tedeschi ed ebrei, al pari di quelli di ogni altra provenienza e formazione, non possono sfuggire, chi piu' chi meno, a una sorta di "transfert" nei confronti di questo passato. Tale coinvolgimento finisce inevitabilmente con l'influenzare chi scrive di storia. Non necessariamente, tuttavia, cio' preclude allo storico quel certo distacco indispensabile per il proprio lavoro, purche' egli sia dotato di un sufficiente grado di consapevolezza. In realta', potrebbe rivelarsi ancor piu' arduo evitare di cadere nell'eccesso opposto. Se un approccio costantemente autocritico puo' aiutare e ridurre gli effetti della soggettivita', esso presenta tuttavia un altro e non meno grave rischio: quello di generare indebiti freni morali e una paralizzante cautela. Le persecuzioni e gli stermini nazisti furono perpetrati da persone comuni che vissero e operarono in una societa' non diversa dalla nostra, una societa' che aveva prodotto sia loro sia i metodi e gli strumenti per la realizzazione delle loro azioni. Gli obiettivi di tali azioni, tuttavia, furono formulati da un regime, una ideologia e una cultura politica del tutto fuori dal comune. E questo rapporto tra ordinario e straordinario, questa fusione tra potenziali istinti omicidi comuni anche al nostro mondo e la peculiare furia apocalittica del regime nazista nei confronti del "nemico mortale", l'ebreo, che attribuisce significato universale e specificita' storica alla "soluzione finale della questione ebraica". * Da pagina 17 Dentro il Terzo Reich [...] Il principale obiettivo politico del nuovo regime e del suo sistema di terrore, almeno nei primi mesi successivi all'ascesa al potere dei nazisti, non furono gli ebrei, ma i comunisti. All'indomani dell'incendio del Reichstag del 27 febbraio, la caccia anticomunista porto' all'arresto e all'internamento in campi di concentramento appositamente creati di quasi diecimila membri e simpatizzanti di partito. Dachau era sorta il 20 marzo e fu ufficialmente inaugurata dal capo delle SS Heinrich Himmler il primo aprile. A giugno, il capogruppo SS Theodor Eicke assunse la direzione del campo, e un anno dopo fu nominato "ispettore dei campi di concentramento", in tal modo diventando, sotto l'egida di Himmler, il padrone della vita (e della morte) quotidiana dei detenuti nei campi della nuova Germania hitleriana. * Da pagina 41 Secondo l'ottica razziale nazista, la comunita' nazionale tedesca traeva la propria forza dalla purezza del sangue e dalla profondita' delle proprie radici nel sacro suolo tedesco. Tale purezza razziale era il risultato di una creazione culturale superiore e della costruzione di uno Stato potente, garanzia di vittoria nella lotta per la sopravvivenza e il dominio della razza. Sin dall'inizio, dunque, le leggi del 1933 mirarono a escludere gli ebrei da tutte le aree chiave di tale utopistica visione: la struttura stessa dello Stato (legge sui pubblici funzionari), la salute biologica della comunita' nazionale (legge sui medici), il tessuto sociale della comunita' (radiazione dall'albo degli avvocati ebrei), la cultura (le leggi sulle scuole, le universita', la stampa, le professioni culturali) e, infine, il sacro suolo (la legge agraria). La legge sui pubblici funzionari fu l'unica di tali misure a trovare piena applicazione in questa prima fase, ma le dichiarazioni simboliche che esse esprimevano ed il messaggio ideologico di cui erano portatrici non lasciavano adito a dubbi. Furono pochissimi gli ebrei tedeschi che colsero nelle implicazioni delle leggi naziste una strategia di terrore diffuso. Uno di questi fu Georg Solmssen, portavoce del consiglio di amministrazione della Deutsche Bank e figlio di un ebreo ortodosso. In una lettera del 9 aprile 1933 indirizzata al presidente del consiglio di amministrazione della banca, dopo aver affermato che finanche la parte non nazista della popolazione sembrava considerare le nuove misure "ovvie", Solmssen aggiunse: "Temo che siamo semplicemente all'inizio di un processo volto, in modo mirato e secondo un piano prestabilito, all'annientamento economico e morale di tutti i membri, senza distinzioni di sorta, della razza ebraica residenti in Germania. La completa passivita' non solo di quei ceti sociali vicini al partito nazionalsocialista, l'assenza di qualsivoglia sentimento di solidarieta' tra quanti hanno fino a ieri lavorato fianco a fianco con colleghi ebrei, il desiderio sempre piu' manifesto di trarre vantaggi personali dalle posizioni che vanno liberandosi, il voler sottacere l'onta e la vergogna inflitta a persone che, sebbene innocenti, assistono alla distruzione del proprio onore e della propria esistenza da un giorno all'altro: tutto cio' e' indice di una situazione cosi' disperata che sarebbe un errore non affrontarla di petto, senza tentare di abbellirla". [...] La citta' di Colonia proibi' l'utilizzo degli impianti sportivi comunali agli ebrei nel marzo del 1933. A partire dal 3 aprile le richieste degli ebrei di Prussia di cambiare nome dovettero essere sottoposte al Ministero della Giustizia, "per impedire l'occultamento delle proprie origini". Il 4 aprile l'Associazione pugilistica tedesca espulse tutti i pugili ebrei. L'8 aprile tutti gli assistenti universitari ebrei dello Stato del Baden furono licenziati in tronco. Il 18 aprile il capo distrettuale di partito (Gauleiter) della Westfalia decise che un ebreo "avrebbe potuto lasciare la prigione solo se le due persone che avevano versato la cauzione o il medico che aveva firmato il certificato medico, fossero state disposte a prenderne il posto in cella". Il 19 aprile l'uso dello yiddish fu proibito nei mercati di bestiame del Baden. Il 24 aprile fu proibito il ricorso a nomi ebraici per scandire le lettere di una parola durante le conversazioni telefoniche. L'8 maggio il sindaco di Zweibruecken proibi' agli ebrei di prendere in affitto degli stand in occasione del prossimo mercato cittadino annuale. Il 13 maggio fu vietato il cambio da un nome ebraico a uno non ebraico. Il 24 maggio fu ordinata la completa arianizzazione dell'organizzazione delle palestre tedesche, con l'obbligo per i tesserati di certificare la piena discendenza ariana di tutti e quattro i nonni. Se ad aprile i medici ebrei erano stati esclusi dalle istituzioni assicurate dallo Stato, a maggio fu ordinato alle istituzioni assicurate da privati di rimborsare le spese per le cure effettuate da medici ebrei solo se i pazienti erano a loro volta non ariani. Entro giugno sarebbero stati pronti due elenchi distinti di medici ebrei e non ebrei. * Da pagina 47 La "Legge per la prevenzione della progenie con malattie genetiche" (Gesetz zur Verhuetung erbkranken Nachwuchses) fu approvata il 14 luglio 1933, il giorno in cui entrarono in vigore le leggi contro gli ebrei orientali (cancellazione della cittadinanza, stop all'immigrazione e via dicendo). La nuova legge consentiva la sterilizzazione di chiunque fosse riconosciuto affetto da supposte malattie ereditarie quali frenastenia, schizofrenia, follia maniaco-depressiva, epilessia genetica, corea di Huntington, cecita' genetica, sordita' genetica e gravi forme di alcolismo. [...] Partendo dalle politiche di sterilizzazione e finendo con la legge sull'eutanasia dell'agosto 1941 - nonche' con l'inizio, pressappoco in quella data, della "soluzione finale" - la politica riguardo agli handicappati e i malati di mente da un lato e quella antiebraica dall'altro ebbero uno sviluppo simultaneo e parallelo. Le loro origini e i loro obiettivi, tuttavia, erano ben diversi. Se la sterilizzazione e l'eutanasia miravano esclusivamente a preservare la purezza della Volksgemeinschaft ed erano sostenute da un calcolo costi-benefici, la segregazione e lo sterminio degli ebrei - sebbene anch'esso un processo di purificazione razziale - fu essenzialmente una lotta contro un formidabile nemico che, si riteneva, stava minacciando la sopravvivenza stessa della Germania e del mondo ariano. Cosi', oltre all'obiettivo della pulizia razziale, identico a quello perseguito con la campagna di sterilizzazione ed eutanasia e in opposizione a essa, la lotta contro gli ebrei fu vista come uno scontro di dimensioni apocalittiche. * Da pagina 49 Elite consenzienti, elite minacciate [...] A giudicare dalle apparenze, l'atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti del nuovo regime sarebbe dovuto essere piu' risoluto di quello dei protestanti. Negli ultimi anni di vita della repubblica la gerarchia cattolica aveva manifestato un certo grado di ostilita' nei confronti del movimento di Hitler, ma questa posizione era determinata esclusivamente da interessi di parte e dalle mutevoli fortune politiche del Partito del Centro cattolico. L'atteggiamento di molti cattolici tedeschi verso il nazismo prima del 1933 rimase fondamentalmente ambiguo: "Molti pubblicisti cattolici... sottolineavano gli elementi anticristiani del programma nazista, dichiarandoli incompatibili con l'insegnamento cattolico. Essi tuttavia passavano poi a parlare dell'anima sana del nazismo, che invece era da apprezzare: la sua riaffermazione di valori quali religione ed amore per la madrepatria, la sua funzione di baluardo contro il bolscevismo ateo". L'atteggiamento generale della Chiesa cattolica nei riguardi della questione ebraica in Germania e altrove puo' essere definita come un "antisemitismo moderato" che appoggiava la lotta contro "l'indebita influenza ebraica" nella vita economica e culturale. Come ebbe a esprimersi il vicario generale di Mainz, Mayer, "In Mein Kampf Hitler aveva 'descritto in modo appropriato' l'influenza negativa degli ebrei sulla stampa, sul teatro e sulla letteratura. E tuttavia, non era da cristiani odiare altre razze e sottoporre gli ebrei e gli stranieri a penalizzazioni mediante leggi discriminatorie che avrebbero prodotto null'altro che rappresaglie da parte di altri paesi". Appena giunto al potere, e impegnato com'era a firmare il Concordato con il Vaticano, Hitler tento' di stornare le possibili critiche cattoliche alle sue politiche antiebraiche e di scaricare la responsabilita' delle sue argomentazioni sulla Chiesa stessa. Il 26 aprile ricevette il vescovo Wilhelm Berning di Osnabrueck, delegato della Conferenza vescovile riunitasi in quei giorni. La questione ebraica non figurava tra gli argomenti di discussione di Berning, ma Hitler provvide personalmente a sollevarla. Secondo una bozza di verbale vergata dall'assistente del vescovo, Hitler parlo' "in tono caldo e tranquillo, a volte emozionato, senza mai pronunciare una sola parola contro la Chiesa e mostrando sempre rispetto per i vescovi: 'Sono stato attaccato per il modo in cui ho trattato la questione ebraica. Per millecinquecento anni la Chiesa cattolica ha considerato gli ebrei degli appestati, li ha rinchiusi nei ghetti, e via dicendo, perche' giudicavano gli ebrei per quello che erano. Nell'epoca del liberalismo questo pericolo ha cessato di essere riconosciuto. Io sto tornando all'epoca in cui venne applicata una tradizione durata millecinquecento anni. Non pongo la razza al di sopra della religione, ma considero i rappresentanti di questa razza pestilenziali per lo Stato e per la Chiesa e dunque sto forse rendendo al Cristianesimo un grande servigio cacciandoli dalle scuole e dai pubblici uffici'". Il verbale non registra alcuna risposta da parte del vescovo Berning. In occasione della ratifica del Concordato, nel settembre del 1933, il segretario di Stato cardinale Pacelli invio' all'incaricato d'affari tedesco una nota in cui illustrava la posizione di principio della Chiesa: "La Santa Sede approfitta di questa occasione per aggiungere una parola a difesa di quei cattolici tedeschi passati dall'ebraismo alla religione cattolica o che discendono in prima generazione, o ancor piu' lontanamente, da ebrei che hanno abbracciato la fede cattolica e che per motivi noti al governo del Reich stanno parimenti patendo difficolta' economiche e sociali". In teoria, questa sarebbe stata anche in futuro la posizione delle chiese cattolica e protestante, sebbene in pratica entrambe finissero col piegarsi alle misure naziste contro gli ebrei convertiti allorche' questi ultimi vennero definiti razzialmente come ebrei. * Da pagina 60 Heidegger era diventato rettore dell'Universita' di Friburgo nell'aprile del 1933. Gia' in passato era intervenuto sul tema della presenza degli ebrei negli atenei tedeschi. In una lettera del 20 ottobre 1929 a Victor Schwoerer, presidente facente funzioni del Fondo di emergenza creato per sostenere gli studiosi bisognosi, il filosofo aveva affermato che le due sole soluzioni possibili erano o un sistematico rafforzamento della "nostra" vita intellettuale tedesca o la sua resa definitiva alla "crescente giudaizzazione, nel senso piu' e meno ampio del termine". Allorche' il professore di matematica di Heidegger, Alfred Loewy, fu costretto nell'aprile del 1933 ad andare anticipatamente in pensione perche' ebreo, il nuovo rettore gli auguro' di trovare "la forza per superare i patimenti e le difficolta' arrecate da quest'epoca di cambiamenti". Elfride Heidegger ripete' quasi testualmente tali parole nella sua lettera del 29 aprile 1933 a Malvine Husserl, moglie del mentore ebreo di suo marito, il filosofo Edmund Husserl, aggiungendo, tuttavia, che per quanto dura potesse essere, la legge sui pubblici funzionari era ragionevole da un punto di vista tedesco. Poco prima della sua partenza dalla Germania nell'estate del 1933, Hannah Arendt aveva scritto in quella che e' forse la piu' dura delle sue lettere a Heidegger, suo maestro e amante, di aver sentito parlare del suo [di Heidegger] atteggiamento distaccato e ostile nei confronti dei colleghi e studenti ebrei. Il tono della risposta di Heidegger - cosi' come ci e' raccontato da Elzbieta Ettinger - in quella che sarebbe stata la sua ultima lettera alla Arendt fino a dopo la guerra, e' illuminante: "Agli studenti ebrei... egli concedeva generosamente il proprio tempo, per quanto cio' nuocesse al proprio lavoro, dando loro stipendi e discutendo insieme le loro tesi di laurea. Chi correva da lui in caso di emergenza? Un ebreo. Chi insisteva affinche' leggesse con urgenza la sua tesi di laurea? Un ebreo. Chi gli inviava ponderosi lavori chiedendogli urgentemente una recensione? Un ebreo. Chi gli chiedeva aiuto per ottenere dei fondi? Gli ebrei!". Il 3 novembre 1933, Heidegger annuncio' che sarebbe stata negata ogni forma di sostegno economico a studenti "ebrei o marxisti", o a chiunque fosse definito "non ariano" in base alle nuove leggi. Il 13 dicembre cerco' un aiuto finanziario per un volume di discorsi filohitleriani di professori tedeschi da distribuire in tutto il mondo, concludendo la propria richiesta con un'assicurazione: "Non occorre dire che i nomi dei non ariani non compariranno sulla copertina". Il 16 di quello stesso mese scrisse al capo dell'Associazione dei docenti nazisti di Gottinga in merito a Eduard Baumgarten suo ex studente e collega: Baumgarten "frequentava, assai attivamente, l'ebreo Fraenkel, che insegnava a Gottinga e che era stato appena licenziato". Al contempo, Heidegger si rifiuto' di continuare a seguire le tesi di laurea di studenti ebrei, passandoli a Martin Honecker, professore di filosofia ecclesiastica. L'atteggiamento di Heidegger nei confronti di Husserl resta poco chiaro. Sebbene, secondo il suo biografo Ruediger Safranski, non sia vero che Heidegger avesse proibito ad Husserl l'accesso al dipartimento di filosofia, egli ruppe di fatto ogni contatto con lui (cosi' come con tutti gli altri colleghi e discepoli ebrei) e non fece nulla per alleviare il crescente isolamento di Husserl. Quando Husserl mori', Heidegger era malato. Se non lo fosse stato, avrebbe partecipato al suo funerale insieme all'unico altro membro di facolta' "ariano" che si senti' in dovere di farlo, lo storico Gerhard Ritter? La dedica a Husserl della sua opera magna, Essere e tempo, fu cassata dall'edizione del 1941 su richiesta degli editori, ma la nota a pie' di pagina in cui l'autore esprimeva riconoscenza al proprio mentore fu lasciata. Le contraddizioni abbondano, e forse la piu' strana di tutte e' l'elogio di Spinoza fatto da Heidegger negli anni Trenta, e la dichiarazione che "se la filosofia di Spinoza era ebraica, allora tutta la filosofia da Leibniz a Hegel era anch'essa ebraica". Il 22 aprile 1933 Heidegger invio' una petizione a Carl Schmitt, il piu' famoso politologo e filosofo del diritto tedesco dell'epoca, chiedendogli di non voltare le spalle al nuovo movimento. L'iniziativa fu del tutto superflua, avendo Schmitt gia' fatto la propria scelta. Al pari di Heidegger - sembra che questa fosse la prima regola da seguire - egli aveva cessato di rispondere alle lettere di colleghi, studenti e altri studiosi ebrei con i quali aveva in passato allacciato stretti rapporti (uno degli esempi piu' clamorosi di tale voltafaccia fu l'interruzione netta e repentina del suo rapporto epistolare con il filosofo della politica Leo Strauss). E per accertarsi che la sua posizione non si prestasse a fraintendimenti, Schmitt inseri' alcune osservazioni esplicitamente antisemite nella nuova (1933) edizione del suo Il concetto di "politico". Ad ogni modo, le posizioni antiebraiche di Schmitt avrebbero finito col diventare piu' esplicite, estreme e violente di quelle del filosofo di Friburgo. Nel corso del semestre estivo del 1933, sia Schmitt sia Heidegger parteciparono alla serie di conferenze organizzate dagli studenti di Heidelberg. Heidegger parlo' della "Universita' nel nuovo Reich"; il tema di Schmitt fu "La nuova legge costituzionale". Entrambi furono preceduti dall'intervento del dr. Walter Gross, capo dell'ufficio politica razziale del Partito nazista, che affronto' il tema "Il medico e la comunita' razziale". Il primo maggio, a Friburgo, Heidegger era diventato il membro di partito numero 3-125-894; in quello stesso giorno a Colonia, Schmitt prese la tessera numero 2-098-860. (Parte prima - segue) ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 293 del 27 gennaio 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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