Minime. 647



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 647 del 22 novembre 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Nicole Kidman: Il diritto di ogni donna
2. Messaggio del Segretario generale dell'Onu in occasione della Giornata
mondiale per l'eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre
2008)
3. Barbara Romagnoli intervista Alan Clements
4. Barbara Romagnoli intervista Zhang Je
5. Tommaso Di Francesco, Emanuele Giordana: Voci critiche di generali
6. L'agenda "Giorni nonviolenti 2009"
7. L'Agenda dell'antimafia 2009
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. NICOLE KIDMAN:  IL DIRITTO DI OGNI DONNA
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 21 novembre 2008 col titolo "Nicole Kidman:
Una su tre subisce abusi, la vita senza violenza e' il diritto di ogni
donna"]

Una donna su tre puo' subire abusi e violenze nel corso della sua vita. Si
tratta di una tremenda e diffusa violazione dei diritti umani e nondimeno
rimane una pandemia in gran parte invisibile e sottostimata. Provate a
pensarci: essere una donna o una bambina vi mette in pericolo. Altrettanto
inquietante e' il fatto che troppe persone - gente della strada come
esponenti di governo - ritengono inevitabile la violenza contro le donne.
Dobbiamo cambiare questa mentalita'. E' di vitale importanza che si prenda
coscienza del problema della violenza contro le donne e che la si consideri
una forma di violazione dei diritti umani. Si tratti di violenza domestica,
di stupri in tempo di guerra o di pratiche quali la mutilazione genitale
femminile o i matrimoni forzati o in eta' quasi infantile, la violenza
contro le donne e' un crimine che non puo' essere tollerato. La violenza
contro le donne, dovunque si verifichi, va contrastata con il massimo rigore
della legge.
Sono diventata ambasciatrice del Fondo delle Nazioni Unite per le donne
(Unifem) per dare voce alle donne e alle bambine che hanno subito violenze e
abusi. In un numero crescente di Paesi le donne si stanno rifiutando di
essere vittime passive. Le donne si stanno organizzando, si fanno sentire,
chiedono che i colpevoli rispondano dei loro atti e che si intervenga e
dicono "no" alla violenza che sono costrette a subire per il solo fatto di
essere donne o bambine.
E' compito di tutti porre fine alla violenza contro le donne. Per questa
ragione nel mese di novembre dell'anno passato in occasione della Giornata
internazionale per eliminare la violenza contro le donne, l'Unifem ha
lanciato su Internet la campagna "Dite no alle violenza contro le donne"
chiedendo alla gente di tutto il mondo di far sentire la propria voce e di
aggiungere il proprio nome ad un movimento che si va facendo sempre piu'
grande.
Ad un anno circa di distanza centinaia di migliaia di persone di ogni parte
del mondo hanno risposto alla campagna "Dite no" e hanno vinto una grossa
battaglia contro la violenza di genere: Nujood Ali, una bambina yemenita di
dieci anni, e' fuggita dalla casa del marito che era stata costretta a
sposare, e la sua avvocata, Shada Nasser, si e' battuta per garantire la
liberta' della bambina. Dopo aver subito ripetute percosse e violenze
sessuali, Nujood, andata in sposa all'eta' di nove anni, e' scappata di casa
cercando scampo in tribunale in cerca di aiuto. A differenza delle decine di
migliaia di bambine che sopportano la terribile tradizione dei matrimoni in
eta' pressoche' infantile, Nujood ha avuto coraggio e ha avuto la fortuna di
trovare una avvocata altrettanto coraggiosa nella persona di Shada,
specializzata nella difesa dei diritti umani. Il loro caso ha fatto il giro
del mondo ad aprile quando, grazie all'intervento di Shada, Nujood non solo
ha ottenuto il divorzio, ma ha visto premiato il suo coraggio e indicato una
strada per la difesa dei diritti umani delle donne e delle bambine. Nujood
e' tornata a scuola e quando gli si chiede cosa intende fare in futuro
risponde: "Voglio esercitare la professione di avvocato".
In passato in Kosovo ho avuto modo di ascoltare molte donne che, travolte da
quel conflitto, avevano subito brutali violenze sessuali da parte dei
soldati. I loro racconti avrebbero potuto essere ripresi dai titoli di
giornale di oggi. La violenza sessuale e' un'arma di guerra, uno strumento
di terrore che colpisce la vita delle donne e degli uomini, manda in
frantumi le comunita' e costringe le donne a scappare di casa. E tuttavia
troppo a lungo le violenze sessuali in tempo di guerra sono state avvolte
nel silenzio e dimenticate dalla storia.
Il 20 giugno 2008 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha dato una
risposta al peso di quel silenzio adottando all'unanimita' la Risoluzione
1820 che riconosce esplicitamente che non possono esservi ne' pace ne'
sicurezza fin quando le comunita' vivono all'ombra del terrore sessuale. La
Risoluzione auspica uno sforzo maggiore da parte di tutti coloro che sono
coinvolti in un conflitto per proteggere le donne e le bambine dalle
aggressioni. E' di tutta evidenza che porre fine alla violenza contro le
donne e' un tema ormai in cima alla lista delle priorita' dei governi e di
importanti organismi quali le Nazioni Unite.
L'Unifem, unitamente al Segretario generale delle Nazioni Unite, auspica un
sostegno di gran lunga maggiore al Fondo delle Nazioni Unite per porre fine
alla violenza contro le donne che fornisce alle organizzazioni locali dei
Paesi in via di sviluppo le risorse necessarie a trovare soluzioni pratiche
e operative. Le sovvenzioni del Fondo dell'Onu hanno consentito di sventare
il traffico di esseri umani in Ucraina, hanno aiutato le superstiti delle
violenze domestiche a Haiti e hanno contribuito a far approvare una nuova
legge sullo stupro nella Liberia tormentata dalla guerra.
Progetti come questi e molte iniziative in ogni parte del mondo dimostrano
che la pandemia di violenza contro le donne e' un problema che ha una
soluzione. Laddove ci sono impegno e risorse, maggiori sono le possibilita'
di cambiare le cose: le politiche possono essere modificate, si possono
istituire servizi e si possono formare giudici e agenti di polizia.
Di conseguenza in questo 25 novembre incoraggiamo i governi a tenere fede ai
loro impegni e gli uomini e le donne a partecipare alle iniziative delle
loro comunita' per mettere fine alla violenza contro le donne e a far sapere
alle autorita' dei loro Paesi che attuare politiche volte a porre fine alla
violenza contro le donne e' importante per loro perche' una vita senza
violenza e' il diritto di ogni donna.

2. DOCUMENTI. MESSAGGIO DEL SEGRETARIO GENERALE DELL'ONU IN OCCASIONE DELLA
GIORNATA MONDIALE PER L'ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE (25
NOVEMBRE 2008)
[Riceviamo e diffondiamo il seguente messaggio del Segretario generale
dell'Onu del 21 novembre 2008]

Ovunque nel mondo, in paesi ricchi e poveri, le donne sono sottoposte a
sevizie, percosse, stupri, assassinii, e sono vittime del traffico di esseri
umani. Si tratta di violazioni dei diritti umani che vanno ben oltre il
danno individuale, perche' rappresentano una minaccia a sviluppo, pace e
sicurezza di intere societa'.
Dovunque le donne sono a rischio, ma quante tra loro vivono in societa' alle
prese con conflitti armati fronteggiano pericoli ancora maggiori. In
presenza di conflitti sempre piu' complessi, anche il modello di violenza
sessuale si e' evoluto. Ora le donne non sono piu' solamente in pericolo
durante il periodo del conflitto; la possibilita' di essere aggredite da
eserciti, milizie, ribelli, criminali, perfino polizia, e' la stessa in fasi
di maggiore calma.
Non conosciamo il reale numero delle vittime, ma sappiamo che i crimini sono
maggiori di quanti ne vengano denunciati, e molti di questi restano
impuniti. E' ancora troppo diffusa la concezione dello stupro come un
marchio di infamia che spinge le donne a disertare quegli stessi tribunali
che dovrebbero tutelarle. In alcuni paesi, le donne vengono brutalizzate due
volte: prima durante lo stesso atto criminoso, poi dal sistema giudiziario,
dove possono addirittura arrivare a doversi difendere da accuse di
adulterio, con il rischio di scontare le pene ad esso collegate.
Anche quando gli autori della violenza sono identificati, spesso riescono a
farla franca, specialmente se si tratta di personale in uniforme. A volte,
si tratta di reati particolarmente odiosi. Nella travagliata provincia del
Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, dove la media di stupri
denunciati si attesta intorno ai 350 casi, le vittime sono talvolta
sottoposte a mutilazione genitale.
Ancora piu' preoccupante e' l'eta' di molte vittime. Il 50% delle giovani
donne in certe aree violente di Haiti e' rimasto vittima di stupri o
attacchi a scopo sessuale. Una su tre, tra le poche tra loro che cercano
giustizia, ha meno di tredici anni. In Liberia, nel corso di un mese
particolarmente violento, all'inizio dell'anno, la maggioranza delle vittime
di stupri denunciati aveva meno di dodici anni, e alcune di loro non
arrivava ancora a cinque anni.
Questi esempi vengono da paesi nei quali esiste una presenza di forze di
pace delle Nazioni Unite. Grazie alla decisiva risoluzione del Consiglio di
Sicurezza 1820, adottata lo scorso giugno, l'utilizzo della violenza
sessuale come strumento di tattica bellica e' ora riconosciuto come una
questione relativa a pace e sicurezza internazionali. In base alla
risoluzione, le missioni di pace, in particolare quelle il cui mandato si
estende alla protezione dei civili, devono ora includere la tutela di donne
e bambini da ogni forma di violenza nei loro rapporti periodici sulle
situazioni conflittuali. La risoluzione 1820 da' anche mandato di attuare la
politica di tolleranza zero in materia di sfruttamento sessuale da parte del
personale Onu della missione, e fa appello ai paesi che forniscono truppe e
polizia affinche' siano pienamente responsabili in casi di violenza.
L'adozione della risoluzione 1820 e' parte di una crescente tendenza globale
volta a debellare tale piaga. Il Forum che si e' tenuto nel febbraio scorso
a Vienna sulla lotta al traffico di esseri umani, e il continuo ruolo di
vigilanza e guida esercitato dall'Assemblea generale sono altre indicazioni
dell'impulso ad agire su scala internazionale.
Sul piano nazionale, un numero sempre maggiore di paesi si adegua
all'obbligo di tutelare le donne attraverso un'ampia attivita' legislativa,
un rapporto di collaborazione piu' intenso e sforzi accresciuti di
coinvolgere uomini e ragazzi nell'affrontare il problema.
Si tratta di un segno positivo, che non nasconde pero' le lacune che ancora
esistono. Occorre fare di piu' per dare esecuzione alle leggi esistenti e
combattere l'impunita'. Bisogna combattere atteggiamenti che tendono a
perdonare, tollerare, giustificare o ignorare la violenza commessa contro le
donne. E vanno aumentati gli stanziamenti finanziari a sostegno delle
vittime e delle donne sopravvissute alla violenza.
Ho una ferma determinazione a moltiplicare tali sforzi, anche attraverso la
mia Campagna globale ìUniti per porre fine alla violenza contro le donneî,
che punta ad aumentare il livello di consapevolezza pubblica, nonche' la
volonta' politica e le risorse a disposizione, oltre che a creare un
ambiente propizio a trarre pieno profitto dagli impegni politici esistenti.
La responsabilita' di contribuire a porre fine alla violenza contro le donne
incombe su tutti noi, donne e uomini, soldati e operatori di pace, cittadini
e governanti. Gli Stati devono onorare il proprio impegno a prevenire la
violenza, consegnare i responsabili alla giustizia e risarcire le vittime. E
ognuno di noi ha il compito di diffondere questo messaggio in famiglia, nei
luoghi di lavoro, nelle comunita', come contributo alla lotta per far
cessare la violenza contro le donne.

3. RIFLESSIONE. BARBARA ROMAGNOLI INTERVISTA ALAN CLEMENTS
[Dal sito www.barbararomagnoli.info riprendiamo la seguente intervista del
novembre 2008 dal titolo "Sfidare gli oppressori con la compassione.
Intervista ad Alan Clements" apparsa sul quotidiano "Liberazione".
Ringraziamo Barbara Romagnoli (per contatti: barbara0romagnoli at gmail.com)
per avercela messa a disposizione]

Non lesina parole, ha voglia di raccontare e lo fa con pacatezza e passione
assieme. Alan Clements e' un giornalista statunitense e non ha ancora chiaro
il perche' sia diventato monaco buddista. A distanza di trent'anni dalla sua
scelta e' sicuro che allora, negli anni Settanta, ovunque si girasse vedeva
"solo guerre, genocidi, stupri e degrado. Politici che non facevano che
mentire, interessi societari programmati solo per rispondere alle necessita'
di alcune lobby. Mi sentivo un alieno, tutto questo non mi apparteneva. Se
non fossi stato cosi' attento a quello che mi accadeva intorno probabilmente
sarei diventato anche io cosi', avrei vissuto a Washington, con due figli e
un garage, magari sarei diventato anche un diplomatico...".
Racconta che a spingerlo verso questa trasformazione profonda della sua vita
e' stato un misto "di desiderio di cambiamento e terrore. Ho lasciato il
college dove avevo una borsa di studio e mi sono iscritto ad una universita'
buddista, volevo studiare la filosofia orientale con i detentori di quella
tradizione, poi dovevo scegliere se andare in Tibet o Birmania in un
monastero e sono andato in Birmania, anche se non conoscevo nulla di quel
paese e non sapevo neanche che fosse governato da una dittatura".
Da quel momento la sua vita e' cambiata ma il mondo e' ancora pieno di
guerre e la Birmania e' sempre governata da un regime che tiene reclusa da
circa vent'anni il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Clements e'
riuscito ad incontrare Aung San Suu Kyi piu' di dieci anni fa. Da quella
lunga conversazione e' nato un libro, per la prima volta tradotto anche in
Italia (La mia Birmania, Corbaccio editore, 368 pagine, 18 euro) con una
edizione aggiornata con nuove interviste. Un libro disarmante, nel quale
Aung San Suu Kyi spiega cosa significa portare avanti con determinazione una
tenace lotta nonviolenta contro i soprusi e le ingiustizie. A volte puo'
sembrare un testo lontano anni-luce da noi, forse per via dell'approccio
buddista cosi' diverso dalle nostre culture occidentali. Un ritratto
complesso e non lineare di una donna che non smette di ripetere, anche
grazie all'impegno di molti altri, che la lotta del popolo birmano per la
liberta' e la democrazia e' anche la nostra lotta. Negli ultimi anni
Clements, che abbiamo incontrato a Roma nelle scorse settimane, ha fondato
il World Dharma Instuitute (www.worlddharmaonlineinstitute.com) che e'
diventato un network internazionale di artisti, monaci e attivisti impegnati
a sostenere la causa del popolo birmano.
*
- Barbara Romagnoli: E' piu' tornato in Birmania?
- Alan Clements: No, nel 1996 sono stato cacciato dal paese e messo in una
lista nera. Ho provato piu' volte a tornare ma ho ricevuto solo rifiuti e
sono stato dichiarato nemico dello stato.
*
- Barbara Romagnoli: Abbiamo saputo che Aung San Suu Kyi ha fatto
recentemente uno sciopero della fame, lei ha altre notizie e contatti piu'
diretti?
- Alan Clements: Adesso su Aung Su San Suu Kyi ho le stesse notizie che
avete voi. Ma quello che ha fatto non era un vero e proprio sciopero della
fame. Ha rifiutato il cibo che le viene mandato dal regime e ha utilizzato
solo le poche scorte che aveva in casa. Un modo per esprimere il suo
dissenso a chi la opprime.
*
- Barbara Romagnoli: Qual e' il messaggio fondamentale che Aung San Suu Kyi
le ha trasmesso quando vi siete incontrati?
- Alan Clements: Quando ho incontrato Aung San Suu Kyi lei mi ha pregato di
far sapere al mondo che tutti in Birmania sono prigionieri nel loro stesso
paese. Mi sembra di vedere lei rispondere a questa domanda, per lei la cosa
piu' importante e' che si sappia che cinquanta milioni di persone sono
isolate, imprigionate, torturate, sottoposte dal regime ad abusi e ai lavori
forzati. Muoiono di fame in un paese dove non ci sono diritti umani. Il
mondo deve conoscere questa situazione.
*
- Barbara Romagnoli: A proposito di questo, nel libro Aung San Suu Kyi
ripete piu' volte che non intende essere vista come una eroina o che venga
sottolineato solo l'aspetto del sacrificio che la sua scelta implica. Eppure
spesso il focus e' concentrato solo su di lei, che cosa si puo' fare perche'
non diventi un mito o un simbolo vuoto?
- Alan Clements: Credo che la cosa migliore sia come ha fatto lei,
espandersi. Da madre di due figli a madre di una nazione. Credo si debba
capire come lei rappresenti una lotta epica, nel senso di una lotta che
sfida gli oppressori attraverso la ricerca e l'espressione di sentimenti di
amore e compassione. Lei dice che il suo isolamento e' insignificante
rispetto allo stato in cui versa la sua nazione e la sua lotta e' simbolica
nel senso che e' globale. Ognuno di noi e' un microcosmo. La rivoluzione
dello spirito di cui parla lei non e' solo individuale ma e' globale perche'
c'e' un legame spirituale che riguarda tutte e tutti. Solo quando avremo
compreso questo capiremo la lotta di queste persone in Birmania. E forse
avremo chiaro che come l'ossigeno e' indispensabile per vivere, cosi' lo
sono i diritti umani e la liberta'. Per questo lei ci chiede di usare la
nostra liberta' per sostenere la loro causa.
*
- Barbara Romagnoli: Non crede ci sia dell'ipocrisia da parte delle
democrazie occidentali, da una parte fanno tante dichiarazioni di principio
anche sulla causa dei diritti umani in Birmania, dall'altro mettono in piedi
Guantanamo e politiche spesso solamente discriminatorie e securitarie?
- Alan Clements: Questo e' un argomento che prendono in considerazione gli
stessi membri della dittatura. Perche', dicono, dovremmo seguire il modello
di coloro che ci hanno oppresso per molti anni? La Birmania e' stata
colonizzata dal Regno Unito per circa 150 anni e quando un membro
dell'Unione Europea o dell'Onu va a parlare al regime di democrazia e' visto
come se Hitler parlasse agli ebrei. Hanno addirittura accusato Aung San Suu
Kyi di aver sposato un inglese. Si', forse c'e' una forma di ipocrisia in
generale, e certamente il problema e' piu' complesso di come viene
presentato. Ma Aung San Suu Kyi non guarda alla democrazia americana o
italiana, guarda alla sua gente che adesso e' in estrema difficolta'. Aung
San Suu Kyi e con lei i birmani vogliono che si smetta di sostenere
economicamente le persone che li opprimono, di non vendergli armi o creare
le risorse perche' la giunta possa comprare le armi. La domanda che loro
pongono e': ci odiate cosi' tanto da volere che la gente continui a vivere
prigioniera e che non sia instaurata la democrazia? Il popolo birmano e' il
primo a pagare il prezzo dell'ipocrisia occidentale e proprio per questo ha
diritto alla liberta'.
*
- Barbara Romagnoli: Nella versione italiana del suo libro c'e' anche
l'intervista a U Gambira, uno dei monaci protagonisti delle proteste del
2007. In questo momento e' ancora in prigione, sa quali sono le sue
condizioni?
- Alan Clements: U Gambira deve affrontare ben 17 capi di accusa e tra
questi c'e' anche il tradimento, quindi potrebbe andare incontro alla pena
di morte. E' gravemente malato e di recente ha detto ai suoi avvocati di non
occuparsi piu' di lui perche' la giustizia e' cosi' compromessa che non vale
la pena che perdano tempo con il suo caso. Senza dimenticare che ci sono
altri 2.170 prigionieri politici che subiscono torture e ingiustizie nelle
carceri birmane.
*
- Barbara Romagnoli: Pensa ci sia una maggiore informazione dopo le proteste
del 2007 che sono andate praticamente in diretta mondiale? Che altro si puo'
fare?
- Alan Clements: Non c'e' dubbio che le proteste dello scorso anno sono
state immortalate in tempo reale, bastava un cellulare per poter diventare
giornalisti in quel momento e il mondo intero ha visto con i propri occhi i
monaci uccisi e quelli che hanno rischiato la vita. Se si potessero far
entrare milioni di cellulari in Birmania, pensando di far cadere il regime,
ben venga. Ma il dato di fatto e' che adesso si rischiano fino a dieci anni
di prigione per un cellulare non registrato. I giovani rischiano la galera
anche solo se provano a fotografare il sole, simbolo della nascita della
democrazia, e questo dimostra che e' una situazione ai limiti della paranoia
che potrebbe anche portare a breve al crollo del regime.
*
- Barbara Romagnoli: Allora c'e' ancora speranza che torni la rivoluzione
color zafferano...
- Alan Clements: Vaclav Havel diceva che durante i regimi totalitari la
creativita' e' cosi' fortemente oppressa che le persone si trovano a
camminare in maniera inconscia per le strade, non hanno piu' contatto con
quella che dovrebbe essere la resistenza, che rischia di cadere nell'oblio.
Lo stesso potrebbe accadere in Birmania, ma come dice Aung San Suu Kyi la
rivoluzione e' allargare gli orizzonti, andare oltre i propri interessi
personali e non avere paura.

4. RIFLESSIONE. BARBARA ROMAGNOLI INTERVISTA ZHANG JE
[Dal sito www.barbararomagnoli.info riprendiamo la seguente intervista del
novembre 2008 dal titolo "Non ci sono parole per la gente del secolo scorso.
Intervista a Zhang Jie" apparsa sul quotidiano "Liberazione". Ringraziamo
Barbara Romagnoli (per contatti: barbara0romagnoli at gmail.com) per avercela
messa a disposizione]

Vincitrice nel 1989 del premio letterario internazionale Malaparte e
candidata al Nobel per la letteratura, Zhang Jie e' tornata in Italia per
presentare il suo ultimo romanzo (Senza parole, Salani editore, 316 pagine,
16,80 euro) che nella traduzione italiana e' uscito in un solo volume,
mentre la versione cinese e' di oltre 800.000 caratteri.
In Cina esistono tre generi letterari narrativi - racconti brevi, medi e
romanzi - e gli scrittori possono ambire a riconoscimenti per ognuno di
essi, Zhang Jie e' l'unica finora ad aver ottenuto premi per tutte le
categorie e con Senza parole ha ricevuto per la seconda volta il prestigioso
premio nazionale Mao Dun. Nata nel 1937 nel Liaoning, una delle province
cinesi piu' industrializzate, dopo essersi laureata in Economia
all'Universita' del Popolo, Zhang Jie ha lavorato come funzionaria statale
nel settore industriale ed e' ancora membro del Partito comunista cinese. Ha
cominciato a scrivere a quarant'anni racconti e romanzi che sono ormai
famosi in tutto il mondo (L'amore e' indimenticabile, Ali di piombo e
Mandarini cinesi). Zhang Jie dice che "non ci sono parole per la vita della
gente del secolo scorso" ma su questo, sostiene il sinologo Francesco Sisci,
"scrive un romanzo impetuoso. E' profondamente taoista, intimamente cinese,
contraddittorio, contorto, ironico e vero".
*
- Barbara Romagnoli: Ha impiegato diversi anni per scrivere questo romanzo,
cosa l'ha impegnata di piu': la costruzione della trama o la ricerca sulle
parole?
- Zhang Je: Tutti e due gli aspetti mi hanno impegnata molto. La costruzione
della trama ha richiesto molto lavoro perche' e' molto complessa. Per
reperire il materiale ho fatto molte ricerche, sono andata in diversi luoghi
a intervistare molte persone. Anche la scelta delle parole e' stata
complicata perche' in cinese l'ordine dei caratteri e' molto importante,
quindi anche su questo ho dovuto riflettere a lungo. Alcuni amici mi hanno
detto che non era necessario fare cosi' perche' il lettore non percepisce la
questione dell'ordine. Ma io conosco la differenza. Ti racconto una storia.
In Cina c'era un falegname che realizzava delle cose molto raffinate,
soprattutto decorava i singoli pezzi su tutti i lati. Un amico gli disse:
"non c'e' bisogno che per fare un tavolo ci impieghi tutto questo tempo o
che decori anche l'interno, perche' tanto l'interno non lo vedra' nessuno".
"Ma io si'", ha risposto il falegname. Lo stesso vale per il mio romanzo e
percio' ho dato cosi' importanza all'ordine delle parole.
*
- Barbara Romagnoli: Questa spiega gli oltre 800.000 caratteri presenti nel
testo, come mai allora un titolo che a noi appare quasi paradossale, "Senza
parole"?
- Zhang Je: Perche' questo si riferisce al fatto che i dolori piu' grandi o
le esperienze piu' intense non c'e' lingua che possa esprimerle, non c'e'
codice che possa trasmetterle. Puoi scrivere tantissimo e ritenere di non
aver mai scritto abbastanza perche' tratti di qualcosa, l'esperienza umana,
che e' molto difficile da esprimere.
*
- Barbara Romagnoli: Rispetto all'esperienza che ha tentato di narrare,
quanto c'e' di biografico?
- Zhang Je: C'e' l'esperienza di tutti in questo romanzo, qualcosa che parte
da me ma che riguarda tante altre persone.
*
- Barbara Romagnoli: Si riferisce all'esperienza del popolo cinese o parla
piu' in generale? Pensa che certi valori siano universali?
- Zhang Je: Ci sono due aspetti da considerare: il primo riguarda il fatto
che molte persone leggendo questo romanzo possono ritrovarci la loro storia,
il secondo riguarda dei sentimenti e delle percezioni universali, come la
sofferenza che riguarda tutti gli esseri umani. In generale, penso che la
vita degli umani sulla terra sia davvero difficile. L'esperienza umana e'
uguale per tutti nel sentire questa difficolta' della vita. Le emozioni e le
difficolta' che sono indicibili non riguardano solo le questioni legate alla
sussistenza come il cibo, ma anche quelle psicologiche provocate da danni
morali.
*
- Barbara Romagnoli: Riguardo alla sofferenza, in questo romanzo c'e' anche
il tema della follia. Quando la protagonista Wu Wei impazzisce leggiamo che
sua madre invece non era impazzita perche' aveva delle responsabilita', come
se Wu Wei, rispetto alla madre, si fosse potuta permettere di impazzire.
Secondo lei qual e' il ruolo della societa' rispetto alla follia di un
singolo? E quali responsabilita' ha la societa'?
- Zhang Je: Nel caso di Wu Wei il problema e' che i suoi modi di vivere sono
troppo contrastanti con la nostra societa'. Molto spesso la sofferenza
deriva dal conflitto che c'e' tra il pubblico e il privato, tra il personale
e il pubblico. Immagino che anche in Italia c'e' questo problema...
*
- Barbara Romagnoli: Si', certo. A proposito di rapporto tra pubblico e
privato, questa distinzione rimanda anche a quella tra personale e politico.
Lei ha piu' volte rifiutato di essere definita femminista, ne' vuole che la
sua sia considerata letteratura femminile, eppure anche in Senza parole al
centro della vicenda c'e' una genealogia di donne con una spiccata
personalita' ed autonomia. Perche' non si ritiene femminista?
- Zhang Je: Se scrivo di donne e delle loro sofferenze non significa che io
sia femminista. Del femminismo non condivido che si imputi interamente agli
uomini la diseguaglianza esistente tra uomini e donne. Penso che ci sono
molte responsabilita' anche delle donne. Molto spesso le donne sfruttano il
potere degli uomini e in Cina sono molto soggiogate dagli uomini potenti.
Non capisco perche' si debbano appoggiare a loro invece di combattere per la
loro autonomia.
*
- Barbara Romagnoli: Cosa dovrebbero fare?
- Zhang Je: Io non ho ricette, per quanto mi riguarda mi impegno. Faccio
quello che devo fare al meglio, se tu fai le cose che dici le persone non
possono non tenerne conto. Sembra facile da dire ma sappiamo che non e'
cosi'.
*
- Barbara Romagnoli: Torniamo al libro. Non e' un saggio ne' una narrazione
di tipo giornalistico, come mai ha sentito l'esigenza di fare cosi' tante
ricerche sul campo?
- Zhang Je: Penso che se sei uno scrittore serio non puoi non documentarti.
Non puoi lasciare al lettore qualcosa che e' frutto dell'irresponsabilita'.
Voglio essere sicura che quello che scrivo sia vero, anche i dettagli
minuscoli li voglio verificare.
*
- Barbara Romagnoli: Possiamo definirlo un romanzo storico?
- Zhang Je: Si', assolutamente.
*
- Barbara Romagnoli: Come mai e' stata fatta una versione italiana del
romanzo, quali sono le principali differenze con la versione originale?
- Zhang Je: Perche' ci sono alcuni dettagli che riguardano ad esempio le
guerre che racconto che perfino i cinesi non conoscono, percio' se li avessi
lasciati nella versione italiana il lettore si sarebbe annoiato. Ho
raccontato la storia di un secolo, e' pieno di tante cose che neanche io
conoscevo.
*
- Barbara Romagnoli: Percio' proprio gli aspetti storici del romanzo vengono
penalizzati?
- Zhang Je: Si', anche perche' erano troppo scollegati rispetto alla storia
occidentale. Non ci sono omissioni di principio, solo la volonta' di rendere
la lettura piu' scorrevole. Altrimenti sarebbe stato ancora piu' lungo...
*
- Barbara Romagnoli: Quali sono gli scrittori occidentali che le piacciono
di piu', ci sono state delle influenze nella sua scrittura?
- Zhang Je: Credo che la patria della letteratura sia la Russia, apprezzo
molto Tolstoj e Dostoevskij. Ma anche gli autori francesi e inglesi
classici. Gli italiani li conosco meno, mentre mi piace molto l'opera e la
pittura italiana.
*
- Barbara Romagnoli: Quale influenza ha avuto la sua formazione di studi
economici sull'attivita' di scrittrice?
- Zhang Je: Nella composizione del mio primo romanzo, Ali di piombo, ha
avuto certamente un influsso, perche' ho potuto dall'interno capire e
seguire lo sviluppo economico della Cina. Mi occupavo del settore
dell'industria e quindi ho avuto modo di osservare cose che normalmente non
si conoscono e questo mi ha particolarmente aiutata nello scrivere un
romanzo in qualche modo politico.
*
- Barbara Romagnoli: Lei ha assistito a diversi momenti importanti nella
storia del suo Paese, tra questi e' stata coinvolta in prima persona
nell'esperienza della rivoluzione culturale. Oggi che giudizio da' di quegli
anni?
- Zhang Je: E' stato un errore politico, non doveva accadere. Perche'
seguire l'unico pensiero di Mao ha fatto si' che si moltiplicassero i
cattivi e i nemici, soprattutto c'e' stato un accanimento nei confronti
degli intellettuali.
*
- Barbara Romagnoli: Adesso in Cina si riconosce quell'errore? Si parla di
quel periodo oppure no?
- Zhang Je: No, non se ne parla molto, i giovani poi non hanno nessun
interesse. Solo tra chi ha una certa eta' magari si dice qualcosa. La
societa' attuale e' edonista, non interessa il passato.
*
- Barbara Romagnoli: Ma e' colpa solo dei giovani o c'e' stata una mancata
trasmissione da parte dei piu' anziani, di chi quel periodo lo ha vissuto?
- Zhang Je: I giovani credono che quel fatto non abbia un rapporto con loro.
Solo gli ultracinquantenni possono tornare su quell'argomento. Tempo fa in
un saggio avevo parlato della rivoluzione culturale e il titolo era "I semi
da mangiare" che e' stato completamente travisato perche' pensavano si
trattasse di un libro di cucina mentre io mi riferivo al fatto che in quel
periodo le persone non avevano cibo e mangiavano le foglie degli alberi.
*
- Barbara Romagnoli: Secondo lei, in questo nuovo contesto cinese, quale
puo' essere il ruolo sociale dello scrittore?
- Zhang Je: Non c'e' qualcuno che ti dice cosa devi o non devi fare, e in
fondo ognuno ha un compito diverso. Dipende anche dall'atteggiamento che hai
nei confronti della vita. Conosco persone che lavorano come pazze non
perche' gli venga richiesto ma perche' lo sentono come una loro esigenza e
bisogno. Nel caso del lavoro intellettuale ci puo' essere un valore aggiunto
rispetto all'educazione delle giovani generazioni ma questo non implica
nulla perche' anche da una stessa formazione possono poi crescere persone
totalmente diverse. In tutto il mondo gli insegnanti dicono di fare una cosa
e gli studenti fanno il contrario.

5. DOCUMENTAZIONE. TOMMASO DI FRANCESCO, EMANUELE GIORDANA: VOCI CRITICHE DI
GENERALI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 novembre 2008 col titolo "Generale
disaccordo" e il sommario "Dalla guerra 'umanitaria' della Nato in Kosovo, a
quella 'contro il terrore' in Afghanistan e all'Iraq, emerge la figura del
militare che, dopo attenta verifica 'sul terreno', contraddice apertamente
le scelte dei leader politici di abbracciare di petto il conflitto armato.
Se non sono pacifisti, almeno sono alleati?"]

Il sogno piu' bizzarro per un pacifista potrebbe esser quello di stare a
braccetto con un generale a una marcia per la pace? C'e' un "disaccordo" tra
i militari sul destino delle guerre post-moderne? Passi per quei militari
americani che, sconfitti, hanno dichiarato l'impossibilita' di condurla sul
campo, subito rimossi, com'e' accaduto in Iraq. Ma un generale apertamente
contrario alle motivazioni delle nuove guerre "umanitarie" e' davvero un
fatto nuovo, soprattutto perche' vengono assunte invece di petto dai nuovi
leader politici del mondo come decisione "costituente" che va a legittimare
le forme del potere.
Non e' un paradosso. Per quanto sorprendente possa sembrare, i migliori
alleati di chi vuole la pace in Afghanistan sono in questo momento proprio i
generali. E sono stati i generali ad avere le maggiori perplessita' sulla
guerra di bombardamenti aerei contro l'ex Jugoslavia - antefatto in casa
delle guerre d'Oriente. Non tutti e con accenti diversi. Ma se si mettono in
fila le dichiarazioni di diversi comandanti militari ne viene fuori un
quadro ben lontano dallo stereotipo. E c'e' un perche'. I generali, e i
soldati che comandano, sono "sul terreno" e vedono il conflitto in modo
assai meno sfumato che dai palazzi della politica. Si capisce se ha una
legittimita' rispetto al diritto internazionale com'e' accaduto per il
Kosovo nel 1999, se puo' o meno essere vinto, se si combatte per finta o
davvero e soprattutto se l'opzione militare, fin qui sbandierata come
l'unica necessaria a stabilizzare un paese come l'Afghanistan, funziona
oppure no. A quanto sembra, no.
Sul Kosovo, il pronunciamento piu' in controtendenza e' stato quello del
colonnello Marco Bertolini, capo di stato maggiore della Nato presso l'Osce
che monitorava il sud dell'ex Jugoslavia. Mancavano due giorni all'attacco
della Nato che duro' 78 giorni di bombardamenti aerei su Serbia e Kosovo,
con una sequenza ininterrotta e sanguinosa di effetti collaterali, vale a
dire stragi, tra i civili. A 48 ore da quell'inferno, Bartolini in una
intervista al "Corriere della sera", semplicemente diceva: "I raid non
risolveranno il problema, una guerra combattuta nei Balcani, a pochi
chilometri da casa nostra, sarebbe la peggiore eredita' possibile da
lasciare alla prossima generazione", e aggiungeva: "l'azione diplomatica non
potra' mai essere soppiantata dall'uso della forza. Una societa' che crede
di poter delegare i propri problemi internazionali a una spedizione militare
si sbaglia. Per quanto numerosi e potenti siano quei soldati. Si sbaglia di
grosso". Bartolini, medaglia d'oro per la missione in Libano del 1982-'83,
venne subito richiamato "per spiegazioni". Era premier Massimo D'Alema che
non esito' a rimuovere un anno dopo il vicecomandante della Kfor-Nato Silvio
Mazzaroli, generale degli alpini, reo di avere dichiarato: "L'Italia non ha
politica estera, i nostri soldati sono abbandonati" ad una guerra fatta con
la finta della pace.
Sempre sulla crisi dei Balcani e la guerra Nato in Kosovo, vale la
testimonianza e l'analisi del generale Heinz Loquai, consigliere militare
tedesco presso la rappresentanza dell'Osce che a pochi mesi dal conflitto
denuncio' in un libro, Il conflitto del Kosovo. Percorsi di una guerra
evitabile (Der Kosovo Konflikt. Wege in einen vermeidbaren Krieg, Baden
Baden 2000) come la scelta della guerra fosse da tempo precostituita con
l'imbroglio del vertice di Rambouillet. Testimonianza ben piu' cogente
tocco' al generale Luke Neimann, capo dell'intelligence Kfor, colonnello dei
servizi segreti tedeschi che intercetto' la telefonata dell'Uck al
"mediatore" dell'Onu Martti Ahtisaari con tanto di offerta in denaro se
appoggiava - come accadde - l'indipendenza del Kosovo. Fu subito richiamato.
Per quello che riguarda l'Afghanistan - primo scalino della "guerra
infinita" di Bush, unica risposta all'11 settembre - la madre di tutte le
dichiarazioni e' del britannico Mark Carleton-Smith, combattente tutto d'un
pezzo e "guerriero" che e' difficile tacciare di disfattismo o scarsa
conoscenza del terreno. Intervistato in Afghanistan da Christina Lamb,
esperta giornalista del "Times", il generale dice la sua verita': spiega
che, per come va, la guerra coi talebani non puo' essere vinta e che
l'opinione pubblica britannica si deve aspettare non una ´"vittoria militare
decisiva" ma un possibile dialogo col nemico: un accordo, senti senti, coi
talebani. E' il 5 ottobre e forse sta soltanto lavorando allo stesso quadro
che in quei giorni, a La Mecca, si dipana faticosamente nel primo incontro
tra inviati del mullah Omar e di Karzai. Ma il generale non e' solo. Cinque
giorni dopo l'ammiraglio Michael Mullen, a capo dello stato maggiore, dice
davanti al Congresso degli Stati Uniti che, per vincere la guerra in
Afghanistan (e in Pakistan), non ci si potra' basare solo sulla soluzione
"piu' truppe". Aggiunge che si puo' essere ottimisti solo a patto che vi sia
un maggior impegno nella ricostruzione del paese e in una nuova iniziativa
verso la regione tribale del Pakistan. Mullen non puo' essere contrario al
mantra che va per la maggiore, da Bush a Obama, e cioe' che in Afghanistan
ci vogliono piu' uomini: 3.500 per adesso ma forse 20.000 entro il 2009.
Eppure mette in guardia sul solo far conto nell'aumento dei soldati. Che non
puo' essere l'unica strada.
Com'e' noto tutto riposa su un trasferimento della strategia del "surge"
dall'Iraq all'Afghanistan, affidata al generale David Petraeus al comando
del CentCom, che dall'Asia centrale al Golfo Persico, ai mari africani,
dovra' tentare un'unica strategia per far uscire dalla palude la "guerra al
terrore". Ma anche Petraeus ha gia' i suoi critici: Francis West detto
"Bing", un altro militare: veterano del Vietnam che ha servito al ministero
della Difesa all'epoca di Reagan, autore di saggi sulla guerra in Iraq,
pensa che Petraeus avra' parecchie difficolta' ad adattare all'Afghanistan
quanto fatto in Iraq. E cosi' anche il responsabile britannico dello staff
della difesa. A un "surge" in Afghanistan il Regno Unito, dice Sir Jock
Stirrup, non prenderebbe parte. Il 20 di ottobre intanto, anche il generale
della Nato John Craddock protesta. Gli sforzi occidentali in Afghanistan gli
appaiono "disarticolati" e, seppure anche lui, come da sempre la Nato,
insista sull'aumento delle truppe, spiega che la "battaglia" con il solo
strumento militare non puo' essere vinta.
Se non ce ne fosse abbastanza, si possono aggiungere le dimissioni del capo
delle forze speciali britanniche in Afghanistan che ha lamentato l'abbandono
al proprio destino dei suoi ragazzi che continuano a morire:
sottoequipaggiati, tanto da obbligarlo moralmente a gettare il cappello. Il
maggiore Sebastian Morley non e' stata l'unica voce fuori dal coro tra i
militari di grado piu' basso, preceduto almeno da un altro ufficiale tedesco
che ha denunciato l'incoerenza dell'operazione afghana pensata a Berlino.
Sono uomini che sembrano usciti da Soldati (edizioni Einaudi), il bel libro
del generale italiano Fabio Mini che racconta, nell'intercalare "la
cosiddetta guerra umanitaria", un esercito reale, non quello fantasioso che
piace alla retorica. E dove Mini fa intendere che le uscite di questi
soldati colmano un vuoto. Perche' - mutuando Buzzati - sono coscienti di
essere le sentinelle del "Deserto dei tartari" occidentale. Cosi' i militari
piu' consapevoli, che rischiano la loro vita e quella dei loro uomini -
buoni "per essere vittime o eroi" - stanno sostituendo con le loro parole
l'assordante silenzio dei politici che hanno scelto la "guerra costituente".
Suggeriscono alla politica di dare un segnale e, alcuni fra loro,
addirittura che si tolga la supremazia all'opzione militare come "mezzo per
risolvere le crisi", per restituirla alla diplomazia e, dunque, alla
politica.

6. STRUMENTI. L'AGENDA "GIORNI NONVIOLENTI 2009"

E' disponibile l'agenda "Giorni nonviolenti 2009".
Richiedere a: Qualevita Edizioni, via Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi
(Aq), tel. e fax: 0864460006, cell.: 3495843946,  e-mail: info at qualevita.it,
sito: www.qualevita.it

7. STRUMENTI. L'AGENDA DELL'ANTIMAFIA 2009

E' in libreria l'Agenda dell'antimafia 2009, quest'anno dedicata alle donne
nella lotta contro le mafie e per la democrazia.
Per richieste:
- Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Via Villa
Sperlinga 15, 90144 Palermo, tel. 0916259789, fax: 0917301490, e-mail:
csdgi at tin.it, sito: www.centroimpastato.it
- Di Girolamo Editore, corso V. Emanuele 32/34, 91100 Trapani, tel. e fax:
923540339, e-mail: info at ilpozzodigiacobbe.com, sito:
www.digirolamoeditore.com e anche www.ilpozzodigiacobbe.com

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 647 del 22 novembre 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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