Minime. 633



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 633 dell'8 novembre 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Un appello per la pace nel Kivu
2. La guerra afgana, un orrore che ci coinvolge
3. "Peacereporter": Da agosto gia' oltre tremila le persone uccise anche in
Pakistan dalla guerra afgana
4. Floriana Lipparini: Basterebbe dire "si', noi possiamo"?
5. Ad Agliana il 13 novembre
6. A Brescia il 29 novembre
7. Luciana Castellina ricorda Carla Casalini
8. Tommaso di Francesco ricorda Carla Casalini
9. Rossana Rossanda ricorda Carla Casalini
10. Arianna Di Genova ricorda Robert Rauschenberg
11. Adelino Zanini presenta "L'America in pugno" di Susan George
12. La "Carta" del Movimento Nonviolento
13. Per saperne di piu'

1. APPELLI. UN APPELLO PER LA PACE NEL KIVU
[Da "Chiama l'Africa" (per contatti: info at chiamafrica.it) riceviamo e
diffondiamo il seguente appello]

Per la pace nel Kivu. Interventi politici urgenti oltre l'emergenza
umanitaria
L'offensiva lanciata nel Nord Kivu dal Cndp (Congresso Nazionale per la
Difesa del Popolo), un esercito irregolare sotto il comando del generale
Laurent Nkunda, attestatosi alle porte della citta' di Goma, costringe
ancora una volta la popolazione inerme a prendere la strada della fuga. Non
si sa con certezza quanti siano questa volta i profughi che hanno dovuto
abbandonare le loro case. Certamente si tratta di centinaia di migliaia che
vanno ad aggiungersi al milione di persone gia' censite come sfollati dalle
agenzie umanitarie. La comunita' internazionale sta riconoscendo che si
tratta di una nuova catastrofe umanitaria e si sta mettendo in moto per
l'invio di aiuti di emergenza.
Resta tuttavia il problema politico delle cause di questa nuova guerra e dei
problemi lasciati irrisolti, nonostante le elezioni nella Repubblica
Democratica del Congo e i tanti accordi non rispettati firmati dalle parti
in causa.
Sono tanti gli attori di questa nuova crisi. Da una parte il Governo
congolese, che nel Kivu ha ottenuto con le elezioni del 2006 un grandissimo
consenso, perche' la popolazione sperava che sarebbe stato capace di portare
la pace e il diritto dopo tanti anni di guerra.
Dall'altra il generale Nkunda, che ha rifiutato di integrarsi con il suo
gruppo armato nell'esercito regolare congolese, come prevedevano gli accordi
firmati. Di piu', durante questi anni, l'armata di Nkunda e' andata sempre
piu' rafforzandosi, anche con l'aiuto di forze esterne al paese, primo fra
tutti il governo rwandese. Nkunda in questo momento ha anche il controllo
amministrativo delle zone conquistate.
E' in campo anche l'Onu, con una presenza massiccia di militari (17.000, di
cui 8.000 nel Kivu) che avrebbero il compito di assicurare il rispetto degli
accordi presi, ma che sempre piu', nonostante il mandato ricevuto in base al
capitolo VII dello Statuto delle Nazioni Unite, non riesce a garantire
l'osservanza di questi accordi, suscitando cosi' la reazione della stessa
popolazione, che si sente non protetta e abbandonata.
Sullo sfondo di tutto la ricchezza di questo territorio, definito "scandalo
geologico", che ha fatto dire ai vescovi congolesi che questa guerra e' un
"paravento" che nasconde lo sfruttamento indiscriminato delle risorse.
A subire questa tragedia resta la popolazione inerme, stremata da una
lunghissima guerra che ha fatto oltre quattro milioni di vittime e delusa
nelle proprie speranze piu' profonde dopo aver partecipato in massa e con
entusiasmo al processo elettorale.
I problemi e le sfide sul campo sono tanti: la costruzione di uno stato di
diritto nella Repubblica Democratica del Congo, dopo una lunghissima guerra
e la dittatura di trent'anni circa di Mobutu; la qualificazione
dell'esercito della Repubblica Democratica del Congo, impreparato e
corrotto, con i militari malpagati o non pagati, i quali trovano il loro
mantenimento vessando la popolazione; la difficolta' di mettere insieme in
un unico esercito gruppi armati che per anni si sono combattuti tra loro; la
presenza nel territorio congolese di profughi hutu rwandesi e dei loro figli
che si sono rifugiati in questo territorio dopo il 1994 e che non possono
essere semplicemente definiti tutti come Interahamwe e responsabili del
genocidio rwandese; l'entrata in campo di nuovi soggetti che vogliono
partecipare allo sfruttamento delle ricchezze del territorio, primo fra
tutti la Cina, con la quale il Governo congolese ha stipulato un accordo; la
probabile ingerenza di paesi confinanti, primo fra tutto il Rwanda, che
alcuni affermano aspiri ad impadronirsi di questo territorio anche tenendo
conto della sovrappopolazione che l'affligge.
Noi sappiamo che, nonostante questi problemi irrisolti e la grande delusione
dopo le elezioni, la gran parte della popolazione ha ancora la volonta' di
costruire una convivenza pacifica, uscendo definitivamente dalla guerra.
Donne e uomini che si organizzano per resistere, per tentare di trovare non
solo i mezzi per la sopravvivenza, ma anche e soprattutto strade di
riconciliazione e di pace. E' su queste persone, crediamo, che si deve
contare per iniziare un'inversione di marcia che ponga le basi di una pace
stabile.
Nel frattempo occorre dare voce alla politica, cominciando da alcuni punti
fermi:
- Organizzare con urgenza l'azione umanitaria per rispondere all'emergenza;
- Partire dagli accordi firmati tra le parti. Occorre che la comunita'
internazionale si mobiliti perche' siano attuati. Ci riferiamo in
particolare agli accordi di Nairobi del novembre 2007 (disarmo dei gruppi
armati dei profughi hutu rwandesi) e l'accordo firmato a Goma nello scorso
mese di gennaio che dava vita al "Progetto Amani" per il disarmo di tutti i
gruppi armati;
- Ribadire il mandato, unificando le regole di ingaggio dei contingenti
delle Nazioni Unite presenti nel Kivu, perche' possano svolgere il compito
che e' loro assegnato, cioe' quello di far rispettare gli accordi e
proteggere la popolazione. Anche fermando le truppe irregolari di Nkunda che
stanno occupando il territorio;
- Creare un osservatorio internazionale sulle concessioni minerarie e di
legname affinche' si arrivi ad accordi legali e trasparenti e anche la
popolazione possa godere del frutto di queste immense ricchezze;
- Arrivare ad accordi stabili per evitare sconfinamenti da parte dei paesi
confinanti;
- Risolvere definitivamente il problema della presenza nel Kivu dei profughi
hutu rwandesi, distinguendo le responsabilita' e non colpevolizzando
l'intera comunita'. Uno degli elementi dello stato di diritto e' il
riconoscimento della soggettivita' della colpa e della pena;
- Partendo dalla sofferenza delle persone colpite, instaurare un dialogo ad
oltranza che ridoni fiato alla politica e blocchi ogni scorciatoia di
violenza armata;
- Proprio per questo, ripristinare l'embargo delle armi per i paesi della
Regione, primi fra tutti la Repubblica Democratica del Congo, il Rwanda e
l'Uganda;
- Sostenere gli sforzi della societa' civile organizzata affinche' possa
svilupparsi sempre piu' il processo di riconciliazione e di perdono
reciproco.
Facciamo appello all'Italia, che e' membro del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite, perche' svolga un ruolo attivo in quella sede e in Europa
affinche' vengano rispettati i diritti delle persone, sviluppata la
democrazia, fermata ogni aggressione armata e finalmente perseguita la pace.
*
Beati i costruttori di pace
Chiama l'Africa
Rete Pace per il Congo
Cipsi
Tavola per la pace
Commissione Justitia et Pax degli istituti missionari italiani
Unimondo
Botteghe del mondo
Pangea
Circolo culturale "Primo Maggio"
5 novembre 2008
*
Le adesione a questo appello vanno inviate a: info at chiamafrica.it

2. GUERRE. LA GUERRA AFGANA, UN ORRORE CHE CI COINVOLGE

L'Italia sta partecipando alla guerra terrorista e stragista in Afghanistan.
Sta partecipando in violazione del diritto internazionale e della legalita'
costituzionale.
Se il popolo italiano non si batte per il rspetto del diritto, per il
rispetto della stessa legge fondamentale del nostro ordinamento giuridico,
chi lo fara'?
Se il popolo italiano non si batte per la cessazione della guerra, a
cominciare dalla cessazione della partecipazione italiana ad essa, come
possiamo dire ad altri, ovunque nel mondo, di deporre le armi?
A tutte le guerre opporsi occorre.
Occorre il disarmo e la smilitarizzazione dei conflitti.
Occorre una cooperazione internazionale volta a salvare le vite, a
promuovere i diritti umani di tutti gli esseri umani.
Occorre la politica della nonviolenza.

3. GUERRE. "PEACEREPORTER": DA AGOSTO GIA' OLTRE TREMILA LE PERSONE UCCISE
ANCHE IN PAKISTAN DALLA GUERRA AFGANA
[Dal sito di "Peacereporter" (http://it.peacereporter.net/) riprendiamo la
seguente notizia del 7 novembre 2008 col titolo "Pakistan, raid Usa in
Waziristan e nuovi bombardamenti in Bajaur. Missili lanciati da un drone Usa
uccidono almeno 13 persone"]

Nuovo bombardamento missilistico Usa questa mattina sulle aree tribali
pachistane. Diversi missili lanciati da un drone volante hanno colpito
un'abitazione in Nord Waziristan, presunto covo di Al Qaeda, uccidendo
almeno 13 persone.
Intanto prosegue senza sosta la guerra nella vicina area tribale di Bajaur,
dove la notte scorsa almeno altri 4 talebani sono stati uccisi nei
bombardamenti dell'artiglieria governativa. Ieri sera altri 19 guerriglieri
erano morti sotto i bombardamenti - sempre piu' frequenti - dei jet militari
di Islamabad, lanciati in risposta al lancio di razzi contro l'aeroporto di
Peshawar e all'attentato suicida contro un consiglio tribale che ha ucciso
22 persone.
Solo nell'ultima settimana, la guerra tra governo e talebani in Bajaur e
nelle altre aree tribali ha provocato quasi 200 morti, oltre tremila dal suo
inizio il 7 agosto scorso.

4. RIFLESSIONE. FLORIANA LIPPARINI: BASTEREBBE DIRE "SI', NOI POSSIAMO"?
[Ringraziamo Floriana Lipparini (per contatti: effe.elle at tin.it) per averci
messo a disposizione questa sua riflessione apparsa nel sito della Libera
universita' delle donne]

Basterebbe dire "si', noi possiamo" - come ha fatto Obama, il primo
presidente nero degli Stati Uniti - per cancellare la violenza sessista, una
sfida ancora piu' antica di quella contro il razzismo?
Basterebbe una formula giusta, basterebbe saper parlare efficacemente alla
mente e al cuore di uomini e donne per coinvolgerli in questa causa che
riguarda non una presidenza, per quanto "imperiale", ma la vita e i diritti
della maggioranza degli esseri umani?
Alla radio si parlava della vittoria di Obama - un presidente "buono", un
presidente meticcio, un presidente che "fa sognare" - e hanno chiamato
moltissime ascoltatrici piangendo, ridendo, commosse, emozionate, felici...
Sarebbe bello poter contare su una partecipazione come questa quando
scendiamo in piazza, quando accusiamo la violenza sessista, quando chiediamo
il rispetto dei diritti e della vita per le donne di tutto il mondo.
Purtroppo, pero', di solito le cose non vanno esattamente cosi'.
Eppure sappiamo che il femminicidio e' una realta' universale, una
"tradizione" che si tramanda in ogni paese. Le cronache - nella brutale e
nuda concretezza che registra i fatti - lo gridano sempre piu' spesso. Solo
un unico, continuo ed eterno grido puo' esprimere l'orrore di una
"tradizione" come questa.
Sappiamo che in guerra e in pace, nelle societa' "evolute" e in quelle
"primitive", sotto ogni tipo di fede, di culto e di credo, insomma ovunque,
ancora oggi le donne rischiano di continuo di subire un destino deciso da
tradizioni diverse eppure eguali nel demonizzarle, inferiorizzarle,
reificarle. Corpi che si possono consumare prima e cancellare poi. I modi di
farlo cambiano, rispecchiando i diversi gradi di misoginia, i diversi
livelli di crudelta' ammessi dalla cultura locale, ma identico e' il nucleo
denso di violenza patriarcale contenuto in questo dispositivo di morte.
Un assurdo grumo di barbarie ancestrale che continua a resistere e a non
farsi scalfire. Perche' questo cruciale cambiamento, nonostante rappresenti
un elemento primario di qualsivoglia pretesa civilta', non viene rivendicato
da ogni politica, da ogni cultura? Dire no alla violenza contro le donne
significa dire no a ogni violenza, a ogni guerra, a ogni razzismo. Il vero
cambiamento dovrebbe iniziare proprio da questo no.
Adesso tutto il mondo (non tutto, a dir la verita'...) sembra entusiasta del
"cambiamento" incarnato dalla figura altamente simbolica di Obama, che lui
ha saputo comunicare attraverso discorsi d'impianto quasi messianico.
Possibile che vi sia sempre bisogno della figura carismatica di un leader -
per quanto "simpatico", per quanto "progressista" - per smuovere le acque
stagnanti? Il sogno di un mondo piu' giusto che Obama trasmette ha
coinvolto, ha emozionato, ma dobbiamo chiederci se mettera' davvero in
discussione i principi sui cui si basa l'ideologia wasp, e il ruolo di
padroni del mondo che gli Usa si autoassegnano da sempre.
Certo, questa promessa di cambiamento non ci puo' lasciare indifferenti,
questa presidenza almeno simbolicamente rivoluzionaria ci da' speranza di
maggiore giustizia su numerosi terreni - dalla discriminazione razziale
all'economia, dal diritto alla salute all'istruzione - ma non muta l'essenza
verticale e maschile del potere.
Questo e' il punto su cui si e' finora infranto il sogno di trasformazione
del mondo che hanno le donne dotate di coscienza femminista e di sapere
critico, e continua a infrangersi perche' tocca i punti nevralgici, le
fondamenta che ovunque reggono l'architettura familiare e sociale. Vogliamo
ne' piu' ne' meno la costruzione di una realta' sovversiva rispetto a un
modello di dominio patriarcale - sordamente, ostinatamente teso ad
autoriprodursi all'infinito -  che ha generato mortifero sviluppo, guerra,
sfruttamento, disparita'.
Un modello che ogni donna puo' leggere in tutte le tradizioni religiose e
culturali che negano liberta', soggettivita' e diritti al genere femminile
ma imprigionano anche i maschi in ruoli falsi e preordinati. Come possiamo
tentare di decostruire questo modello integralista? Criticando e rifiutando
la legittimita' delle tradizioni, parlando con le donne di altre culture,
rispecchiandoci nella reciprocita' che in questo senso ci lega, pur nelle
grandi differenze. Facciamo crescere il nostro sogno di cambiamento non dai
vertici, ma dalla base, dalla condivisione, dalla relazione paritaria, dai
luoghi della vita di tutti i giorni e dai luoghi d'incontro dove si studia,
si lavora, ci si scambia saperi. Forse ci possiamo ispirare allo spazio
pubblico cui pensava Hannah Arendt, per farne un'incubatrice di
trasformazione e di nuovi linguaggi, piu' capaci di parlare all'insieme
dell'universo femminile, e non solo fra di noi.

5. INCONTRI. AD AGLIANA IL 13 NOVEMBRE
[Da Antonio Vermigli (per contatti: a.vermigli at rrrquarrata.it) riceviamo e
diffondiamo]

Giovedi 13 novembre alle ore 21 ad Agliana (Pt) presso la Chiesa di San
Piero, in piazza Gramsci (dove parte la marcia per la giustizia) si terra'
una riflessione-dibattito con Antonietta Potente, suora domenicana, teologa,
da dieci anni in Bolivia, sul tema: Il volto di Dio oggi.

6. INCONTRI. A BRESCIA IL 29 NOVEMBRE
[Da Brunetto Salvarani (per contatti: brunetto at carpinet.biz) riceviamo e
diffondiamo]

Si terra' a Brescia, presso lo Csam, sabato 29 novembre, il seminario del
Cem-Mondialita' dedicato ad una riflessione sullo stato attuale
dell'educazione e della scuola nel nostro Paese.
Per informazioni: www.cem.coop

7. MEMORIA. LUCIANA CASTELLINA RICORDA CARLA CASALINI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 novembre 2008 col titolo "L'officina di
Via San Gottardo"]

Il luogo era una vecchia officina dismessa che oggi verrebbe chiamata
"loft": un immenso stanzone per le assemblee dei militanti, un bugigattolo
con due tavoli per chi doveva mandare le corrispondenze a "Il manifesto", il
solo spazio che potevamo in qualche modo riscaldare con una stufetta che ci
affumicava.
Via San Gottardo, porta Ticinese, a fianco del Naviglio: prima redazione
esterna del giornale, che fui incaricata di aprire e gestire nella primavera
del 1972. E' qui che un giorno arrivo' Carla, "un bel pezzo di ragazza"
dissero subito i compagni maschi. Veniva da Bologna e a mandarla era stato
Massimo Serafini che si era appena spostato nel capoluogo lombardo per
ricoprire l'ardua carica di responsabile dell'organizzazione politica
regionale, alloggiato nel retrobottega di un compagno orafo, Valtolina. E' a
Bologna, sua citta' natale, infatti, che - nello storico collettivo
operai-studenti - Carla aveva fatto il suo primo tirocinio.
Via San Gottardo l'adotto' subito e lei stabili' immediatamente un contatto
umano stretto con tutti noi: Sandro Bianchi, che invece veniva da Rimini e
addirittura dal movimento studentesco cattolico; Maya Bigatti e Tiziana
Maiolo, studentesse milanesi, tutti apprendisti giornalisti. Salvo
quest'ultima, politicamente finita piuttosto male, gli altri divennero in
seguito tutti metalmeccanici. In senso stretto Sandro e Maya, perche' poi
per tutta la vita lavorarono alla Fiom, Carla in senso strettissimo anche se
non legata da rapporti di funzionariato con il sindacato. Resto'
giornalista, ma degli operai continuo' ad occuparsi sempre: e per "Il
manifesto" la distinzione fra militante e professionista della penna fu del
resto sempre labile. Da questo punto di vista Carla e' stata - e resta - un
modello.
A Milano in quei primi anni '70 la nostra redazione milanese era del resto
tutt'uno con i metalmeccanici. Quello fu il nostro universo quasi esclusivo,
l'orizzonte i cancelli dell'Alfa di Arese e quelli dell'Italtel. Erano gli
anni eroici della categoria, la Fiom di Brescia, diretta da Claudio
Sabbatini, una bandiera.
Carla abbraccio' il suo nuovo impegno come sapeva fare lei: con passione
gioiosa, perche' Carla e' stata una creatura solare, le piaceva la vita ed
era capace di affrontare con il sorriso anche le corve' piu' dure.
Ho voluto ricordare quei giorni milanesi oggi che Carla ci viene a mancare
perche' credo siano stati, per lei come per noi che li abbiamo direttamente
vissuti, fra i piu' bei giorni della nostra vita. E' li' a via San Gottardo,
fra l'altro, che Carla ha conosciuto Billi e assieme hanno dato vita a Gaia.
Che, piccolissima, ha frequentato, anche lei, il nostro bugigattolo. E,
sulle spalle della mamma, tutte le manifestazioni di metalmeccanici
possibili.

8. MEMORIA. TOMMASO DI FRANCESCO RICORDA CARLA CASALINI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 novembre 2008 col titolo "Ragazza
Carla"]

Ragazza Carla nella sede di Porta Ticinese
accesa e gaia alla Commissione operaia
dove perdevo orologi e il tempo ci smarriva.
T'hanno sedato soltanto l'ultima rivolta
quella del tuo corpo estremo e consapevole
che ricongiunge a ragione l'ultimo fiato.
Un telefonino accanto si dispera e spera
come la profondita' che osavi da penombre.
Scendevi allora l'urlo e la bufera, scavo
in miniera, contraddetto tesoro, per tutti
annuncio d'una luce e ricchezza misurabile.
Hai dato consolazione e compimento, radici
all'origine per te, per noi, sempre davanti
perche' non solo assalti, ma aprirsi al cielo.
Scoprivi il mosaico su cui camminiamo, caldo
e comune, l'aquilone che ciascuno in mano tiene
saperi, le passioni, le opere e i giorni.
Ragazza Carla con me dalla parte del clown
in sorriso fino all'ultimo respiro nel circo
del ritmo necessario al movimento irreale
che cambia lo stato delle cose esistenti.
Senza la tua tempesta la nave affonderebbe.
Senza la tua tempesta la nave affondera'...?

9. MEMORIA. ROSSANA ROSSANDA RICORDA CARLA CASALINI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 novembre 2008 col titolo "Inafferrabile
sessantottina"]

E' stata, e', la piu' sessantottina di noi. Dico "e'" perche' fin che questo
giornale vive Carla resta un suo innesto particolare e decisivo. Non tutti
quelli del '68 lo sono stati, portati a volte lontano dall'inquietudine e
dall'incertezza. Carla no, doveva aver riflettuto prima la sua scelta di
intransigenza verso l'ingiustizia; lei che non veniva dal Pci e dintorni,
non ha mai dismesso quel suo stare "dalla parte dei lavoratori" che e' stata
la sua stella polare. Intransigente ma non triste, come accade ai piu'
anziani di noi. Lei era una vera figlia dei fiori, aperta a tutto quel che
era vitale, indifferente a ogni legge, curiosa degli altri e pietosa dei
giovani, che considerava sempre dalla parte degli umiliati e offesi. Aveva
una bellissima risata, anche se rara, soltanto per quando ci voleva.
Disordinatissima nelle forme e coerentissima sulle sue scelte, non le
importava nulla di quel che di solito importa, ne' la priorita' della
famiglia, ne' quella d'una casa, ne' quella del suo corpo, il quale si e'
crudelmente vendicato della sua ostinazione a non curarsi e a resistere alle
sue esigenze: c'era sempre qualcosa d'altro che veniva prima dell'andar dal
medico, o dalla fisioterapista, o a fare un'analisi in tempo giusto - un
incontro sindacale, un'idea, un dover essere al giornale, seduta al desk a
discutere titoli e messa in pagina. Lei, pensava, con il male ce l'avrebbe
fatta, o se non lo pensava era certo piu' convinta da Ivan Illich che dalla
scienza, e in ogni modo non era disposta a cambiare per alcuna ragione uno
stile di vita, come farsi aiutare mentre era a letto, chiamare
un'infermiera, farsi assistere da qualcuno che non fosse un desiderato
ospite.
Non era scritto che morisse cosi' presto Carla, ci lascia tutti a
rimproverarci che avremmo dovuto tirarla per i capelli, accompagnarla di
forza, buttar per aria le sue abitudini. Ma chi ce l'avrebbe fatta? O siamo
stati pigri, imbranati, ognuno con i guai suoi. Quel che aveva deciso aveva
deciso, e chi provava a mettersi di traverso ne ha sperimentato
l'irriducibilita'. Tanto piu' che fra le cose che non le importavano affatto
era l'apparire, l'avere o non avere. E' vissuta sempre come se non avesse e
non le occorresse nulla. Quando la figlia adolescente ebbe bisogno di lei,
pianto' tutto, al "Manifesto", finche' Gaia non si rimise in sella. Ho
conosciuto poche persone altrettanto libere dal senso della proprieta',
anche di se', o dal consumo, anche del tempo. Le premeva soltanto
l'essenziale, che per lei era la liberta' negata alla maggioranza della
gente, e percio' l'autonomia del lavoro e delle sue organizzazioni. E che
questo da anni ci sfuggisse - quelli della sua gente non hanno conosciuto le
vittorie dei lavoratori, soltanto il venir eroso dei loro diritti e l'essere
asfissiato nei bisogni - non la scoraggiava. Pareva una stravagante ed era
una saggia. Scettica verso le istituzioni e sempre indulgente con le
persone. Che venivano prima di tutto. Abbiamo avuto zuffe epiche su quel che
veniva prima, per me e' il "che cosa", per lei il "come", io da impenitente
bolscevica lei da vera creatura del '68, e in questo femminista. E' questa
sua priorita' che mi rimproverava di non capire; anche se era ormai
rassegnata alla mia impermeabilita', come io ero alla sua. Due volte seguii
con lei e un paio di compagni del giornale i congressi della Cgil, e tutti
ci davamo da fare per mandare presto al giornale il nostro pezzo sapendo che
verso sera saremmo stati costretti a cercare Carla nei meandri dei delegati,
intenta a battersi appassionatamente con questo o con quello invece di
stendere il suo pezzo in tempo per la chiusura, mentre la redazione a Roma
tempestava.
E' sempre stata convinta che fosse per la sua intransigenza politica che non
le veniva proposto di dirigere "Il manifesto", e che per pura ipocrisia le
dicessimo: "Ma Carla, con te direttore il giornale uscirebbe tre giorni alla
settimana".
L'ho vista l'ultima volta un mese fa, su un letto del Fatebenefratelli, un
po' a pezzi, sbarazzino il cranio senza capelli, il portatile che squillava
e non disposta a farsi compiangere. Non ignorava niente del suo stato ma le
interessava di piu' discutere del giornale e mostrarmi la prime immagini
della nipotina: sarebbe certo stata la piu' bizzarra e amata delle nonne.
Non e' andata cosi', inafferrabile, fedele Carla. Una che non s'e' mai fatta
fermare da niente, tanto meno da una semplice, ancorche' mortale, malattia.

10. MEMORIA. ARIANNA DI GENOVA RICORDA ROBERT RAUSCHENBERG
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 maggio 2008 col titolo "La materia del
presente piange la scomparsa di Robert Rauschenberg" e il sommario "Il
grande artista americano e' morto ieri, all'eta' di ottantadue anni,
nell'isola di Captiva. Lungo tutta la sua parabola si applico' in maniera
scientifica a detronizzare l'ordine cronologico e a archiviare gli oggetti,
per poi esporli nei suoi combine paintings"]

Se n'e' andato nella sua casa, nell'isola di Captiva, in Florida, che fin
dagli anni Settanta aveva preferito alla convulsa citta' di New York. Robert
Rauschenberg, uno dei grandi dell'arte del Novecento, ha chiesto di essere
dimesso dall'ospedale dove era stato ricoverato a causa di una polmonite e,
a ottantadue anni, ha salutato il mondo per sempre. Dipingeva ancora, con
l'aiuto di assistenti e del computer, nonostante un ictus l'avesse colpito
nel 2002. Labirinti, paradisi artificiali, scenari di pianeti sconosciuti
erano le ultime produzioni. Diceva che le sue opere celebravano il presente,
negava l'esistenza del passato e considerava l'avvenire "mera supposizione".
L'urgenza per lui era dettata dall'attualita', dal flusso ininterrotto di
immagini che poi riversava sulla tela, senza filtri, in un caos compositivo,
utilizzando qualsiasi materiale a disposizione, comprese le fotografie della
Nasa che immortalavano le prime passeggiate dell'uomo della luna (come in
Moon Stones Series).
*
Nel panorama degli oggetti
Per ironia della sorte, poteva capitare che quegli avventurosi astronauti
finissero accanto al presidente Kennedy, protagonisti di una cronaca narrata
sempre per frammenti, incapace ormai, in quel secondo dopoguerra denso di
eventi mediatici, di sfoderare le sue doti affabulatrici. L'utopia delle
prime avanguardie storiche e dell'Informale era caduta. Il nuovo panorama
non era altro che una selva di oggetti, reperti, rifiuti industriali. Scorie
tautologiche. La ridondanza semantica fu, infatti, l'unica direzione
perseguita per decenni da Rauschenberg.
"La pittura stessa e' un oggetto. Il vuoto da riempire non esiste", asseriva
convinto. Rapito da quello stesso horror vacui che caratterizzo' molti
esponenti della pop art, si applico' in maniera scientifica a detronizzare
l'ordine cronologico e ad archiviare gli oggetti: ogni cosa, purche'
fabbricata, ha diritto a "esporsi", ad intercalare con la sua presenza la
realta'.
Nato nel 1925 a Port Arthur, in Texas, abbandonati ben presto gli studi di
farmacia, Robert Rauschenberg, dopo un viaggio europeo, torno' negli States
per seguire i corsi al Black Mountain College tenuti da Josef Albers,
docente del Bauhaus rifugiatosi in America. La relazione fra i due non fu
semplice. "Albers mi offri' un'ancora - confesso' in un'intervista - che mi
affrettai a gettare alle mie spalle. Per me era impossibile adeguarmi alle
sue teorie sui colori. Diceva che nessun colore rimaneva mai uguale a se
stesso e che la percezione era sempre incerta. Per me, invece, un verde era
solo verde... All'inizio, quasi per reazione mi sono ritrovato a dipingere
solo tele monocromatiche". Nacquero in quegli anni i White e i Black, in
sintonia con John Cage e le sue musiche del silenzio. Rauschenberg si
avvicino' alla danza, al teatro, alla musica, e l'happening fu per lui una
fonte inesauribile di immediatezza. Il sodalizio artistico piu' lungo, dieci
anni (dal 1954 al 1964), fu quello con Merce Cunningham. Divenne coreografo,
costumista e anche ballerino, mentre il primo frutto di quella affinita'
elettiva prendeva la forma di uno spettacolo titolato Minutiae in cui i
danzatori interagivano con una tela tridimensionale. Poi arrivo'
Summerspace, con fondale astratto che relativizzava e rendeva pura forma
geometrica il corpo degli attori in scena. Nelle arti visive, Rauschenberg
fu un bricoleur insaziabile, nonche' un "junk artist" che incorporava
relitti urbani in una perenne commedia dell'immanenza. Tutto cio' che
divenne in seguito luccicante nella Pop era in lui groviglio, oggetto
sporco, paesaggio-rebus.
Fu l'incontro con Jasper Johns a incoraggiare la definitiva sterzata della
sua estetica. In due loft nello stesso edificio di Pearl Street si giocarono
le sorti dell'arte del dopoguerra americano, in compagnia di due titani che
ogni sera discutevano e si scambiavano idee. Obiettivo, il depotenziamento
del soggetto, l'oggettivazione del mondo, lo spodestamento dell'individuo,
prelevando, ripetendo e riproducendo oggetti banali, senza aura.
Nel 1957 arrivo' la consacrazione: Rauschenberg e Johns esposero insieme da
Leo Castelli e la mostra ebbe un successo immediato, tanto da indurre il
Moma a comprare diverse opere.
Era ormai il tempo dei Combine paintings. "Li chiamo combine paintings,
combinazioni, perche' desidero evitare ogni categoria. Se avessi chiamato
pittura cio' che faccio, mi si sarebbe detto che era scultura e se l'avessi
chiamata scultura, mi si sarebbe obiettato che si trattava di bassorilievi o
pitture...". In Coca-cola Plan (1958) tre bottigliette della celebre bevanda
vennero incastonate in un totem, simulando un monumento arcaico. Se il
ready-made dadaista alienava un oggetto assemblandolo in virtu' di una
antifunzionalita', Rauschenberg lo rappresentava ed esponeva come
feticcio-merce, svuotato dal mito, lontano dal gesto autoriale. L'oggetto e'
esso stesso la sua vetrina.
Un montone impagliato (Monogram, 1955), inserito in un copertone di
macchina, era il segno di un mutato panorama urbano, pronto a porre in
scacco l'urgenza emozionale e l'antropocentrismo dell'Action painting.
Rauschenberg rimase pittore (le sue colate di colore), ma chiamo' in campo,
senza esitazioni, la tecnologia: con le fotografie rubate ai rotocalchi e
poi emulsionate su tela, scelse un'iconografia di seconda mano per
raccontare l'identita' contemporanea. La "pelle" della superficie accolse
dettagli del quotidiano, offrendoli nella loro freddezza ed enigmatica
potenza. E la realta' fece cortocircuito, affollandosi di reperti
inorganici, specchio dei tempi piu' accelerati e piu' nervosi.
*
La sua strada verso l'ignoto
Nel 1964 la Biennale di Venezia lo giudico' il migliore fra tutti e gli
assegno' il Leone d'oro, un premio che inchiodo' l'artista alla etichetta
della Pop art. Le leggende narrano che dopo la notizia della vittoria,
Rauschenberg chiamo' lo studio newyorkese per ordinare di distruggere tutto,
cosi' da non ripetersi.
Nell'ultimo ventennio della sua vita, l'artista americano aveva fatto
riemergere il suo dna cherokee (era nipote di una indiana) proponendo nuovi
metissage, viaggi in oriente, scambi, progetti: dal 1984 aveva lanciato il
programma "Overseas Cultural Interchange" per favorire la collaborazione fra
artisti di differenti paesi. Poi, con Trisha Brown era tornato al suo
vecchio amore per la danza e nel 1986 aveva realizzato le scenografie per la
prima di Lateral Pass, al teatro San Carlo di Napoli. Nel 1997 il Guggenheim
Museum di New York lo consacro' nell'olimpo degli dei dell'arte. Ma lui,
come ebbe a dire, preferi' "andare verso l'ignoto".

11. LIBRI. ADELINO ZANINI PRESENTA "L'AMERICA IN PUGNO" DI SUSAN GEORGE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 ottobre 2008 col titolo "Neoliberismo.
Un'egemonia a colpi di menzogne. L'irresistibile ascesa e crisi dei neocon"]

Susan George, L'America in pugno, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 220, euro
16.
*
Un capitalismo a pezzi e' pur sempre un capitalismo che funziona? Forse,
almeno sino a quando i suoi ingranaggi sono capaci di triturare quanto
costituisce le principali tra le sue materie prime: vite, conoscenze,
affetti. Insomma, soggetti capaci di valorizzare tutto il resto, materiale o
immateriale che sia. Tuttavia, la fatica con cui, oggi, tra spettacolari
fallimenti e salvataggi, si sta cercando di rendere disponibile un bene
davvero scarso - ossia quel "sentimento" senza di cui la fiducia nel sistema
di coperture finanziarie vien meno -, la dice davvero lunga. In effetti,
senza quella convinzione, il baratro della depressione rimane una
prospettiva non proprio remota e certamente inedita, perche' legata
soprattutto al fatto che nello scenario mondiale vi sono nuovi protagonisti,
da cui gli Stati Uniti, in particolare, si devono guardare, dovendo per di
piu' rassicurarli. Quanto alla consueta via d'uscita rappresentata dal
"keynesismo militare", al momento e' uno dei problemi, non certo la loro
possibile soluzione.
Molto facile e' l'ironia circa le virtu' autoregolatrici del mercato; molto
meno opportuno uno stupore qualsiasi a fronte degli ingenti salvataggi, non
solo perche' le istituzioni del capitalismo non hanno mai smesso un istante
di sorreggerne le sorti, ma anche perche' oggi lo possono fare come mai in
passato, tanto piu' libere di muoversi, quanto piu' sono delegittimate di
fatto. Qualche giorno fa Mario Tronti su queste pagine ha scritto di un
capitalismo i cui problemi "sono tutti relativi ai rapporti tra le sue parti
interne". Forse le cose non stanno proprio cosi' - o, almeno, sono molto
piu' mosse. Ma a prescindere dal contesto e forse anche dall'intenzione che
muoveva il discorso di Tronti, e' pero' indubbio che nell'alveo stagnante
perimetrato dal dominio violento della destra, la' dove rendita finanziaria
e profitto sono ormai un tutt'uno, qualunque crisi, per spettacolare che
sia, lascera' sul tappeto solo un ulteriore strato di macerie, difficili da
frantumare.
Utile, al riguardo, e' la ricognizione della societa' americana offerta da
Susan George in questo libro. Si tratta di una attenta trattazione di
questioni ampiamente analizzate, dalla quale emerge pero' con particolare
chiarezza cio' che il sottotitolo dell'edizione italiana efficacemente
sintetizza: ossia, il modo in cui la destra americana si e' impadronita di
istituzioni, cultura, economia. Come osserva la stessa autrice, dei problemi
quali il condizionamento esercitato dall'ideologia neoliberista e
neoconservatrice, del ricorso sistematico alla menzogna da parte della
classe dirigente dell'era Bush-Cheney, del progressivo asservimento dei
media, dell'impatto devastante dell'estrema destra cristiana e delle sue
dottrine religiose - per non dire del drastico peggioramento delle
condizioni di vita, in termini relativi e assoluti; in breve, di tutto cio'
che ha contribuito a intessere quella che si potrebbe ormai definire "eta'
neoliberista", molto si e' discusso. Ma in quale modo tutto questo e' potuto
accadere negli Usa?
La risposta presuppone una chiara assunzione - esplicitamente annunciata
nell'introduzione -, secondo cui, sebbene quanto precede non possa che
essere imputato alla destra, cio' non significa che sia ragionevole
attendersi dall'auspicata ascesa alla presidenza di un candidato democratico
un effettivo cambiamento di prospettiva. Non solo perche' la crisi mondiale
ha il suo centro proprio negli Stati Uniti, ma anche e soprattutto perche'
la strategia dell'estrema destra viene da lontano e ha operato in primo
luogo sul piano culturale, conquistando il controllo della mente degli
individui, dei loro sentimenti.
Questo e' il disegno a lungo termine architettato da elite spregiudicate,
ricchissime e influenti, il cui obiettivo e' la costituzione di uno stato
oligarchico e antidemocratico, al cui interno le stesse liberta'
fondamentali dei cittadini americani potranno essere - come gia' lo sono -
sistematicamente violate. In questo senso, il rifiuto della distinzione tra
liberta' economica e liberta' politica ha permesso di attribuire la stessa
sovranita' decisionale al mercato, in modo tale da anteporre la liberta'
d'impresa a qualsiasi altro diritto, erodendo cosi' ogni idea di coesione e
ogni gia' precario diritto sociale: salute, formazione, etc. Per non parlare
della perversa attenzione alla "politica del corpo" - sessuato - di cui sono
artefici in particolare i neocon.
Dunque, come e' potuto accadere tutto questo? Per Susan George, la risposta
va ricercata anzitutto nei modi in cui la destra ha conquistato, in termini
gramsciani, un'indiscussa egemonia culturale. Cio' si e' realizzato
sfruttando, sul piano esterno, l'interventismo in politica estera e il
disprezzo delle convenzioni e delle istituzioni internazionali, e, sul piano
interno, quella paradossale involuzione teocratica sostenuta dall'esercito
religioso e, soprattutto, dalla rete di associazioni, lobbies, potentati
economici che lo sorreggono. I quali si sono spinti, spesso ricorrendo alla
piu' crassa menzogna, sino a mettere in discussione alcune indiscusse
evidenze scientifiche, al fine di sgretolare cio' che rimane di una
istruzione pubblica gia' indecente: tipici l'antievoluzionismo e la teoria
del "Disegno intelligente". Quanto ai media, si sono industriati ad
abbassare un gia' infimo livello culturale e a supportare l'ideologia che ha
fatto degli Usa uno dei paesi in cui le disparita' economiche sono piu'
marcate.
Sovvertire quest'egemonia appare un compito arduo, a fronte del quale i
democratici e i progressisti non sembrano ne' preparati e nemmeno
sufficientemente consapevoli. Di qui un chiaro pessimismo. Ma una sola e' la
strada: individui e istituzioni che sono in grado di farlo devono finanziare
la produzione e la diffusione di nuove idee progressiste; gli intellettuali
e gli insegnanti devono contribuire ad esse; gli studenti appropriarsene, i
cittadini discuterne. Insomma, solo un nuovo illuminismo salvera' l'America.
Troppo semplice? Diciamo molto illuministico, ancorche', gramscianamente, di
pessimismo della ragione si tratti.

12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

13. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 633 dell'8 novembre 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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