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Minime. 618
- Subject: Minime. 618
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 24 Oct 2008 01:16:00 +0200
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 618 del 24 ottobre 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. 4 novembre non festa ma lutto 2. "Peacereporter": Una strage di soldati 3. "Peacereporter": Una strage di studenti 4. Peppe Sini: Per Vittorio Foa 5. Teresa Blasi ricorda Vittorio Foa 6. Loris Campetti ricorda Vittorio Foa 7. Giovanni De Luna ricorda Vittorio Foa 8. Antonio Lettieri ricorda Vittorio Foa 9. Miriam Mafai ricorda Vittorio Foa 10. Guglielmo Ragozzino ricorda Vittorio Foa 11. La "Carta" del Movimento Nonviolento 12. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. 4 NOVEMBRE NON FESTA MA LUTTO Si avvicina il 4 novembre, un giorno non di festa ma di lutto. Lutto per tutte le vittime della guerra, di tutte le guerre. Giorno in cui facendo memoria degli assassinati dalla macchina bellica e dal militarismo e dalle armi un impegno va assunto, un impegno di pace e di civilta', di democrazia che tutte le persone raggiunga, di difesa dei diritti umani di tutti gli esseri umani. Opporsi a tutte le guerre. Opporsi a tutte le armi. Opporsi a tutti gli eserciti. Salvare tutte le vite. Scegliere la nonviolenza. 2. AFGHANISTAN. "PEACEREPORTER": UNA STRAGE DI SOLDATI [Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente articolo del 23 ottobre 2008 col titolo "Tre soldati di Enduring Freedom uccisi nell'ovest, dove operano italiani"] Tre soldati di Enduring Freedom, di nazionalita' per ora sconosciuta, sono morti ieri sera nell'ovest dell'Afghanistan, dove operano le truppe del contingente italiano. Lo ha reso noto il comando Usa a Kabul. Il loro veicolo e' saltato su un ordigno radiocomandato in una localita' non precisata dell'ovest afgano. La quasi totalita' delle truppe impegnate nella missione Usa Enduring Freedom - formalmente distinta dalla missione Nato isaf - sono statunitensi. Gli italiani partecipano con un contingente di forze speciali. 3. PAKISTAN. "PEACEREPORTER": UNA STRAGE DI STUDENTI [Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente articolo del 23 ottobre 2008 col titolo "Missili Usa colpiscono madrasa in Nord Waziristan: 10 morti"] Almeno dieci giovani studenti coranici, di eta' compresa tra i 13 e i 18 anni, sono morti questa mattina quando tre missili Hellfire lanciati da due aerei senza pilota statunitensi Predator hanno colpito una madrasa (scuola in cui si studia il Corano) vicino a Miram Shah, nell'area tribale del Nord Waziristan. La scuola, che si trova in localita' Danday Darpakhel, sarebbe legata al comandante talebano Sirajuddin Haqqani. 4. LUTTI. PEPPE SINI: PER VITTORIO FOA Di Vittorio Foa sono stato negli anni Settanta compagno di partito, e, ahime', sempre allora acerbamente ne discussi le posizioni. A me giovane - e come accade talvolta ai giovani rigido come uno stoccafisso e fin dottrinario per esigenza di coerenza intellettuale e morale - sembrava allora che il suo pragmatismo fosse troppo agile e troppo fragile teoria politica, e che se a Foa poteva bastare l'intransigenza azionista incarnata nella sua stessa persona, il partito avesse bisogno di piu' rigorosa teoria, quell'esigenza che anima uno dei grandi saggi lukacsiani in Storia e coscienza di classe: "Rosa Luxemburg marxista". Quando il partito si spacco' prendemmo strade diverse; ci furono in quei convulsi giorni ben tre contemporanee assemblee di scioglimento: io accorsi a quella "unitaria" di Firenze e qui ancora una volta sentii (ancora una volta dissentendo) il grande vecchio nel suo estremo e splendido e inane appello al partito, poi tornai a Roma all'assemblea dei "manifestini" da cui provenivo. Qualche anno o qualche mese dopo ci spaccammo di nuovo (era una sorta di sport nazionale nella nuova sinistra di allora), e pochi anni dopo mi ritrovai che il partito non c'era piu' (e con la scomparsa del partito finivano anche tante altre cose per chi come me ne era stato funzionario e dirigente). E' stato uno dei tanti lutti della mia fiera gioventu'. Nel corso del tempo sono poi venuto sempre leggendo tutto quello che Foa veniva pubblicando, ogni volta trovando di che questionare, ma sempre di piu' scoprendo che da Foa forse piu' ancora che da altri avevo appreso in quegli anni ormai remoti tutti i registri e saldo il gusto della concretezza dell'agire hic et nunc, e il sinolo di intransigenza e allegria ("ironia che resiste e contesa che dura" per dirla con Fortini), virtu' azioniste quanto altre mai. * Non mi piace parlarne e leggo malvolentieri le tante rievocazioni degli anni tra '68 e '77 scritte da molti di cui purtroppo conosco fin troppo bene le personali vicende, la malafede e l'esibizionismo, l'irresponsabilita' e talora i crimini su cui hanno costruito le loro carriere (forse un solo libro recente su quei tempi trovo davvero limpido e persuasivo, ed e' A colpi di cuore della sempre luminosa Anna Bravo). Quando persone piu' giovani mi dicono quale immagine abbiano ricevuto di allora sempre ne resto doppiamente ferito: per come cio' che fu vien sfigurato e trivializzato, e soprattutto per quanto vilmente ingannati siano i giovani oggi. Ma quegli anni furono non solo tragici per la scellerata violenza che vi si dispiego' e che la nostra volonta' buona non riusci' a contrastare adeguatamente, ma anche una meravigliosa esperienza di liberazione, di cui il femminismo fu il cuore pulsante, da cui venne il frutto della nuova consapevolezza ecologica, in cui si ottennero esiti fin legislativi straordinari in termini di riconoscimento di diritti, di inveramento dei principi di eguaglianza e di solidarieta', di giustizia e liberta'. Foa fu di quelli che recarono a noi giovani di allora la lezione e il legato dell'antifascismo e della Resistenza: gliene sono ancora infinitamente grato. * Come gli sono grato della pazienza infinita con cui un eroe dell'antifascismo, un padre della Costituzione e un illustre dirigente del movimento operaio come lui ascoltava lungamente concionare contro le sue stesse tesi un giovinotto insopportabile bastian contrario com'ero io allora, e interloquendo poi nessun nodo eludendo e dalle obiezioni e dalle domande altre domande ed altre obiezioni facendo scaturire - laica, e diremmo oggi: fallibilista, avendo visione e comprensione delle cose del mondo, e delle azioni da condurre, senza dogmi, senza pregiudizi, senza presunzioni, ad ogni tracotanza avverso sempre. Quella capacita' sua di ascolto e di interrogazione, e quella sua capacita' di pensare concretamente al quid agendum hic et nunc, ho a lungo ruminato e poi sempre cercato di serbare e di mettere a frutto - massime ora che anch'io sono un povero vecchierello. E non e' stato l'ultimo dei suoi doni. 5. MEMORIA. TERESA BLASI RICORDA VITTORIO FOA [Dal sito di informazione viterbese "Tusciaweb" col titolo "Un Socrate moderno con bretelle e cravatta rossa"] Una presenza da intellettuale raffinato, malgrado le vistose bretelle e i vestiti stazzonati. Un perpetuo sorriso e quell'intercalare piemontese "nevvero", che suonava come punto di domanda a conclusione di ogni affermazione. Una apertura al dubbio, rivolta piu' a se stesso che agli interlocutori. Lo conoscemmo personalmente - al di la' della sua fama di grande dell'antifascismo e del sindacalismo italiani - solo nei giorni della scissione del 1964 dal Psi e la costituzione del Psiup. Anzi, sono certa che tra i socialisti viterbesi (tra i quali Achille Poleggi, Carlo Pesciotti, la sottoscritta) non furono pochi coloro per i quali le motivazioni politiche della scelta dolorosa della scissione furono sostenute dal prestigio e la credibilita' di personalita' come Vittorio Foa, nonche' Lelio Basso, Emilio Lussu e altri. * Nagli anni che seguirono venne piu' volte a Viterbo. Ricordo la prima, quando con Carlo Pesciotti fummo incaricati di andare a prenderlo, con una scassata "cinquecento", alla stazione di Orte. Viaggiava sempre, molto democraticamente, in treno. Ci venne incontro sorridente sulla banchina della stazione come fossimo vecchie conoscenze: aveva subito intuito quali, tra la folla, potevano essere i compagni che lo stavano aspettando. Quando ci riunivamo nella sala dei locali (ben noti negli anni Settanta) di piazza Fontana Grande, ai giovani, che affascinati aspettavano parole "illuminanti", non forniva discorsi o "relazioni", ma rivolgeva soprattutto domande. Solo i dati che la curiosita' e l'interesse per gli altri e per le diverse situazioni che via via si presentavano erano la base imprescindibile per analisi e valutazioni, mai asseverative e sempre aperte al dubbio dall'immancabile "nevvero?". E tutti con spontaneita' e naturalezza lo chiamavamo Vittorio. * Un politico diverso da tutti gli altri, anche da quelli dei suoi tempi. Diversissimo, lontano anni-luce da quelli di oggi. Il politico-sindacalista da lui piu' ammirato era stato il grande Giuseppe Di Vittorio. Spesso e' stato rimproverato a Foa di essere passato da un partito all'altro della sinistra, con una certa dose di incoerenza. A questa ultima accusa ha risposto che vi e' incoerenza solo nel caso in cui i fini che si sono perseguiti e per i quali si e' lottato diventano altri. I partiti sono essenzialmente strumenti (cosi' scrisse in una lettera a Achille Poleggi) che possono cambiare, anche snaturarsi, e possono percio' essere non solo criticati, ma anche abbandonati. Visione profondamente laica del partito, propria di una mente e di un animo liberi. Cio' non gli impediva di riconoscere il valore e di apprezzare lo spirito di sacrificio e i costi altissimi con cui tanti compagni, in special modo comunisti, avevano affermato in tempi difficili la loro fedelta' al partito, con piena fiducia e disciplina. Commosse testimonianze al riguardo si trovano in molte pagine dei suoi scritti, specie quelli dal carcere. Del resto Foa, a proposito della scissione socialista e della nascita del Psiup, ha riconosciuto l'errore compiuto "nell'indebolire il partito socialista all'inizio del centro-sinistra" e a un certo punto aggiunge: "In me c'era anche l'illusione di fare il socialismo nuovo e non mi accorgevo che per fare una cosa nuova bisogna sapere con chi la fai" (parole sacrosante); "Pensandoci tanti anni dopo sospetto che in me vi sia stato un difetto di sincerita' per non aver portato nel Psiup il mio antistalinismo vissuto nel Psi". * Il massimo di passione e direi di fedelta' Foa lo ha riservato al mondo del lavoro e al sindacato. "E' ancora possibile fondare sul lavoro un disegno di cambiamento sociale? Io credo di si'... Dobbiamo ripensare il lavoro: certo e' costrizione di tempo e di energie, ma e' anche conquista di autogoverno, controllo da parte del lavoratore sul mondo circostante... Come ottenere che lo sviluppo civile, economico, sociale non sia misurato solo sulla tecnica e sul fatturato, ma anche sull'apporto umano? Il lavoro deve essere protetto, e anche promosso, ma prima di tutto riconosciuto". Su etica e politica Foa cosi' si esprime: "Insistiamo sui controlli normativi ma lavoriamo anche sulle coscienze, diamo alla politica una dimensione morale contro l'egoismo, al 'pensa solo per te' che e' diventato in Italia programma di governo. Laicamente non accetto il moralismo politico, cioe' fare dipendere i comportamenti da prescrizioni esterne al soggetto, da maestri, da testi, da bibbie. Credo pero' che la politica debba pensare moralmente a se stessa...". Un ultimo ricordo di Foa ormai novantenne: il suo appassionato discorso a piazza S. Giovanni stracolma di donne e uomini manifestanti (i girotondini), contro il berlusconismo nel nome di una rigenerazione della sinistra, dei suoi principi e ideali. Lo slancio generoso e la fede nel futuro di un grande padre non potevano mancare. 6. MEMORIA. LORIS CAMPETTI RICORDA VITTORIO FOA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 21 ottobre 2008 col titolo "In via Tomacelli. Un filo rosso mai spezzato"] "Le lotte contrattuali del prossimo autunno possono strappare notevoli miglioramenti, aprendo forse una crisi politica ed economica. Come si prepara una soluzione di questa crisi nel corso stesso delle lotte?". In queste poche righe c'e' la lucida previsione di quel che sarebbe accaduto qualche mese piu' tardi, ma anche l'inquieto interrogarsi su quel che la piu' grande stagione di lotte operaie in Italia avrebbe messo in moto. L'articolo, intitolato "Strategia per i contratti", e' di Vittorio Foa e appare nel primo numero della rivista mensile "Il manifesto", primo giugno 1969. Un intervento che segna l'inizio di una lunga collaborazione tra due storie differenti, di Vittorio e del nostro collettivo, che per una stagione importante, non esente da conflitti, si sono incrociate riuscendo a contaminarsi. Persino dentro un partito - il Pdup per il comunismo - nato dall'unificazione, nel '74, dei comunisti del "manifesto" con i socialisti del Pdup, di quella componente del Psiup che dopo la sconfitta elettorale del '72 che aveva riguardato anche le liste del nostro movimento politico ("Libera Valpreda vota manifesto"), non era confluita nel Pci. Nel '76, dopo un congresso tumultuoso a Bologna e la rottura con Luigi Pintor, Vittorio ha condiretto per un periodo breve il quotidiano con Pino Ferraris, Luciana Castellina, Valentino Parlato e Rossana Rossanda. Poi le nostre strade si sono separate, pur restando un legame importante con Foa che, anche negli ultimi anni della sua vita, non ci ha lesinato suggerimenti e interviste, riuscendo sempre a stupirci con la sua capacita' di guardare oltre, attraverso i piccoli spiragli che si riescono a vedere solo inforcando gli occhiali della curiosita', dell'ottimismo e della volonta'. Insieme al collettivo del "manifesto", l'intera sinistra e il sindacato in tutte le loro forme hanno pianto ieri la scomparsa dell'uomo che per la Cgil resta "un riferimento prezioso". 7. MEMORIA. GIOVANNI DE LUNA RICORDA VITTORIO FOA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 21 ottobre 2008 col titolo "Un azionista giacobino e graduale"] Se ne va un pezzo della storia italiana, ma anche un pezzo importante della storia di molti di noi. Ci sara' il tempo per elaborare il lutto affettivo ed emotivo di questa perdita, di fare i conti con quello che la sua biografia ci ha lasciato personalmente. Ora e' il momento di ricordarne l'eredita' politica e culturale facendoci aiutare da lui stesso. Negli ultimi due decenni, almeno a partire dalla meta' degli anni '80, Vittorio Foa ha cominciato infatti a tessere e ritessere i suoi ricordi, trasformandoli in un racconto avvincente, sfociato prima in quel piccolo capolavoro che fu Il cavallo e la torre, poi in altri libri come quelli con Federica Montevecchi (La memoria lunga) e, da ultimo, con Carlo Ginzburg. Era gia' vecchio. La vecchiaia e' anche uno spaesamento rispetto al proprio tempo: tutto intorno progressivamente spariscono i volti, i linguaggi, i comportamenti in cui erano conficcate le proprie abitudini; si puo' reagire cercando di fermare il tempo nei propri ricordi, in una sorta di esilio volontario in una cronologia impazzita, oppure si tenta di afferrare il tempo, di inseguirlo anche nelle sue mode e nei suoi tic, di confrontarsi con le sue immediatezze. Vittorio scelse questa seconda via. Utilizzo' i suoi ricordi per tracciare la rotta per orientarsi prima nel delirio degli anni '80, poi nel marasma degli anni '90, incrociando lungo quella rotta lo smarrimento della sinistra, il crollo della sua configurazione novecentesca, la devastante realta' delle abiure e delle sconfitte. Da questo incrocio emerse un Foa inedito, chiamato da una sinistra orfana di certezze e in crisi di identita' al ruolo per lui del tutto inconsueto di "padre nobile". Non lo era mai stato. I suoi esordi erano stati caratterizzati da Giustizia e Liberta', dalla cospirazione antifascista, dal carcere, dalla Resistenza, dalla militanza nel Partito d'Azione. Visse il periodo dal 1932 al 1946 nel segno dell'intransigenza, di un attivismo volontaristico che si nutriva di una insofferenza che investiva non solo il determinismo di Marx, ma anche il catastrofismo della sinistra democratica, che faceva discendere come una fatalita' la fine della liberta' dalla massificazione delle societa' europee e dalla vittoria di idee irrazionalistiche. Con i giovani giellisti torinesi Foa condivideva anche una tendenziale ostilita' nei confronti del versante filosofico del liberalsocialismo. A Torino itinerari del tipo "lungo viaggio attraverso il fascismo" erano poco frequenti. L'antifascismo si era definito come altro dal regime, in un'opposizione irriducibile e senza compromessi. Il riferimento privilegiato restava sempre quello di Gobetti, la sua idea di liberta' come soggetto liberante, come processo di liberazione: il liberalismo gobettiano andava ben oltre il garantismo dei diritti individuali e collettivi di liberta'. "La liberta' - scrivera' in seguito lo stesso Foa - e' liberazione, espansione dei soggetti collettivi e nella sofferenza dei soggetti collettivi sta la molla dei processi di liberazione". Si pensava alla democrazia e al socialismo non solo in termini di garanzie istituzionali, quindi, ma come processo, con attori in movimento. "Non riuscivo", aggiungeva Foa, "ad appassionarmi ai grandi confronti ideologici fra liberalismo e socialismo e quindi al socialismo liberale o al liberalsocialismo mentre ero profondamente interessato agli eventi concreti e alla loro direzione". L'utopia - collocandosi in un futuro indeterminato - consente il compromesso e l'accettazione passiva dello stato di cose presenti; completamente diversi sono gli ideali, che Foa intendeva come "valori da realizzare ogni giorno nella pratica di obbiettivi concreti". Nella Resistenza, il progetto azionista, "la linea di un controgoverno dal basso e dalla periferia come struttura istituzionale, come elemento di democrazia diretta che non doveva sostituire ma integrare quella rappresentativa", fu cosi' l'unico serio tentativo di costruzione di un riformismo "militante", alternativo all'egemonia comunista. Il suo bersaglio era la miseria del riformismo italiano, il suo economicismo, l'assenza di un "mito politico" in grado di soffiarvi dentro l'alito della passione. Di qui la sua coinvolgente professione di giacobinismo: "non si doveva separare l'impegno progettuale dal movimento che aveva determinato la rottura con il passato. La dimensione temporale diventava determinante: le riforme (o almeno un loro decisivo inizio) non potevano essere rinviate a momenti successivi. Il movimento non doveva solo creare le condizioni per le riforme, doveva anche avviarle a realizzazione, impedire che un evitabile riflusso del movimento le rendesse irrealizzabili... Il giacobinismo mi si presentava, quindi, come accelerazione e come anticipazione". La configurazione politica dei suoi esordi passo' sostanzialmente intatta anche attraverso le sue esperienze successive al PdA, quella nella Cgil (dal 1949 al 1970) e quelle nel Psi, nel Psiup, nel Pdup, fino alla fallimentare esperienza delle liste della Nuova sinistra unita nel 1979. Fu animato da una inesausta febbre di ricerca, curioso, instancabile, diffidente verso ogni equilibrio consolidato, verso ogni forma di staticita' che puzzasse di apparato. Visse in prima persona scissioni drammatiche come quella azionista del 1946 o quella socialista del 1964. Visse con altrettanta partecipazione il turbinio di sigle organizzative della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta. Niente, niente lo caratterizzava comunque come un padre nobile da invocare come garante delle pulsioni governative che agitavano la sinistra negli anni Novanta, quando si tento' di arginare le tentazioni autodistruttive dei suoi partiti ancorandole all'occupazione delle istituzioni e dei palazzi governativi. Apparentemente Vittorio partecipo' con entusiasmo a questo gioco, interpretando quel ruolo con qualche compiaciuta civetteria. Eppure, se ne rileggiamo gli scritti, anche quelli della vecchiaia piu' tarda, vediamo continuamente riaffiorare i tratti impertinenti e irriverenti del suo antico giacobinismo, anche quando elogia la gradualita': "mi domando adesso - scriveva ne Il cavallo e la torre - se e' possibile conciliare il giacobinismo che mi sembra tuttora assolutamente legittimo col gradualismo inteso come coinvolgimento del prossimo nella realizzazione di un progetto". La domanda era retorica. Tutta la sua biografia puo' essere letta come rifiuto del gradualismo e della mediazione, come adesione convinta ad una visione conflittualistica della politica; l'intransigenza e' (sono sue parole) anzitutto "una condizione esistenziale". "La radicalita'", diceva ancora nel suo colloquio con Ginzburg, "guarda a tutto il modo di vivere, non solo a qualche pezzetto delle nostre idee". E piu' avanti: "parto dall'idea di poter cambiare le cose, anziche' aspettarsi che le cose cambino per qualche fatto esterno a me o a noi. E' un'idea cui sono stato lungamente attaccato, che si puo' chiamare anche autonomia: l'idea che il futuro appartiene agli uomini e non a qualcosa che sia esterno a essi". 8. MEMORIA. ANTONIO LETTIERI RICORDA VITTORIO FOA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 ottobre 2008 col titolo "Il viaggio umano e politico di Vittorio Foa"] Chiunque voglia raccontare la storia del nostro paese non potra' non incontrare per una buona parte del secolo scorso la personalita' di Vittorio Foa. E' stato un protagonista insieme singolare e partecipe di tutti gli eventi collettivi piu' importanti della storia nazionale. Un maestro riconosciuto come tale da molte generazioni di giovani che trovarono in lui un ineguagliabile punto di riferimento culturale, morale e politico. La sua formazione sfuggiva ai canoni della cultura politica tradizionale. Il suo pensiero liberale faceva da sottofondo al pensiero politico socialista, ispirato a una lettura di Marx lontana dall'ortodossia leninista. In questo senso, non appartenne mai a una corrente politica senza rimanere contemporaneamente se stesso, spesso solitariamente e suggestivamente diverso. Nella sinistra italiana e' sembrato spesso che lo spirito liberale, la radicalita' democratica, e una concezione socialista profondamente egualitaria dovessero confliggere. In Vittorio la loro mediazione aveva qualcosa di naturale. Facevano tutt'uno nel suo pensiero, e la proposta di lavoro politico o sindacale ne scaturiva in modo armonioso. Chi lo ha conosciuto sa che Vittorio aveva un suo modo di analizzare e giudicare le vicende politiche. Al di sotto delle forme piu' o meno statiche degli eventi, si sforzava di individuare cio' che si muoveva nel modo di essere, di pensare, di agire delle donne, degli uomini, dei giovani, sui quali l'uomo politico o il sindacalista era chiamato a riflettere e a operare. Era a suo modo un uomo delle istituzioni. Aveva contribuito a stendere la Costituzione e appartenne sempre ai vertici dei partiti in cui milito' o che contribui' a costruire: dal Partito d'azione, al Partito socialista, al Psiup e ad altri minori quanto effimeri. Ma se da un lato riconosceva il ruolo importante delle istituzioni, il suo principale punto di riferimento era il "movimento", le correnti profonde che si muovevano nella societa'. Da questo punto di vista, se l'espressione potesse non apparire banale e abusata, era un "movimentista". In questo senso, la sua lezione, al di la' dei passaggi che l'evoluzione degli scenari politici imponevano, fu sempre uguale a se stessa, fondata su un pensiero autonomamente critico e sul ripudio di ogni forma di burocratizzazione dell'organizzazione. Questo stile intellettuale e politico, che intrecciava convinzioni forti, una grande passione civile e insieme disincanto, faceva di Foa una personalita' singolare. L'incontro con Vittorio serviva a allargare la prospettiva dell'analisi e del discorso. Era un incontro umano impegnativo e ricco di attese: lasciandolo non si poteva non avvertire una compiaciuta sensazione di arricchimento. Detto in questo modo puo' sembrare che si stia parlando della funzione di un intellettuale piu' o meno distaccato dall'intrico delle vicende sociali e politiche contingenti. Ma sarebbe un'impressione falsa. Non a caso Foa, dopo l'esperienza di costituente e mentre era un leader e un parlamentare socialista, scelse il mestiere di sindacalista. Dirigente sindacale della Cgil insieme con Di Vittorio e Santi che non smise mai di ammirare e, a suo modo, amare. Dirigente dei metalmeccanici, e nella confederazione ispiratore del prestigioso Ufficio studi, nella cui direzione si distinse il piu' giovane Trentin. Fu alla direzione del sindacato per oltre venti anni - che erano anche gli anni della sua piena maturita' - fin quando non lascio' nel 1970. In quest'esperienza Vittorio contribui' a fare della Cgil un sindacato diverso rispetto al tradizionale sindacalismo europeo. L'autonomia del sindacato dai partiti si radicava per Foa nell'analisi della condizione operaia. Ma questo non doveva significare una divisione di ruoli che, nella tradizione socialdemocratica europea, attribuiva la dimensione rivendicativa contingente al sindacato e le prospettive di cambiamento sociale al partito. L'analisi della condizione dei lavoratori e' l'imprescindibile punto di partenza della strategia sindacale. Nell'inaugurare la famosa serie dei "Quaderni Rossi" nel 1961, Foa scriveva che la strategia del sindacato non puo' esaurirsi nel processo rivendicativo, dovendo misurarsi con un "discorso piu' vasto" che "l'analisi della condizione operaia" non puo' esaurire, ma dalla quale, tuttavia, non si puo' prescindere. L'intreccio fra autonomia della strategia sindacale e una piu' vasta prospettiva culturale e politica contribui' alla tenuta dell'autonomia e dell'unita' della Cgil rispetto alle divisioni interne alla sinistra italiana. Su queste basi sembro' a un certo punto possibile costruire l'unita' del sindacalismo italiano sull'onda dei grandi movimenti di lotta della fine degli anni Sessanta. Poi le cose andarono diversamente. I vecchi partiti della classe operaia iniziarono un periodo di lungo declino fino alla loro scomparsa, mentre il sindacato rimaneva irrimediabilmente diviso. Quando Foa lascio' nel 1970 la Cgil - ma forse avrebbe potuto rimanervi con il ruolo che, in altre circostanze e in tempi politici diversi, non poteva che essergli riconosciuto - la sua funzione di intellettuale e di punto di riferimento politico non solo non venne meno ma, per molti versi, acquisto' una risonanza ancora piu' larga. Formia, la sua ultima casa, divenne un luogo di incontro di amici e compagni giovani, o che giovani non erano piu', ma che da lui avevano imparato stili di pensiero e modelli di comportamento morale e politico. Da qualsiasi punto si voglia osservare il viaggio umano di Vittorio attraverso buona parte del secolo nel quale siamo vissuti, la sua lezione di politico, di sindacalista, di intellettuale merita oggi, e meritera' ancora in futuro, una rinnovata e profonda riflessione. Essa puo' illuminare alcuni aspetti di un passato in parte confuso, o che in parte si tende a cancellare, e insieme un presente culturalmente e politicamente cosi' profondamente incerto. 9. MEMORIA. MIRIAM MAFAI RICORDA VITTORIO FOA [Dal quotidiano "La Repubblica" del 21 ottobre 2008 col titolo "Addio Vittorio, un compagno che odiava il settarismo" e il sommario "Il suo passaggio da un partito all'altro, da cui non ha mai tratto un vantaggio personale testimoniava per lo meno una singolare irrequietezza intellettuale"] Da qualche anno Vittorio Foa si era rifugiato, con Sesa, a Formia dove lo raggiungevano spesso i suoi amici. Ricordo, qualche anno fa, un suo compleanno celebrato insieme. Occasione anche per discutere dell'ultimo libro, Il silenzio dei comunisti, che portava la sua firma, assieme a quella di Alfredo Reichlin e della sottoscritta. In quella occasione gli avevamo portato dei regali ed egli sembro' apprezzare in modo particolare la lunga sciarpa, di un rosso che volgeva all'albicocca, che gli aveva offerto Roberta. La serata era tiepida, ma Vittorio, prima di uscire se ne avvolse le spalle. Per discutere del suo libro, la sezione dei Ds di Formia aveva convocato un'assemblea. La sala, quando arrivammo, era gia' piena. E noi rimanemmo stupiti, felicemente stupiti, del fatto che la maggioranza del pubblico fosse composta da giovani, ansiosi di prendere la parola e discutere con que l vecchio dirigente che avrebbe potuto essere il loro nonno o bisnonno. "Ma succede dovunque cosi', quando c'e' Foa" mi spiegarono altri amici. "Ci sono sempre molti giovani, si tratti di una sezione di partito o di un liceo". Me ne sono chiesta la ragione. E ho pensato che forse la simpatia che lo circonda (o, piu' correttamente lo circondava) nascesse dal fatto che l'uomo era difficilmente classificabile. Uomo di sinistra, senz'altro. Ma di quale sinistra? Nel secolo tormentato che ci sta alle spalle, egli ha appartenuto a tutti i partiti che alla sinistra si sono richiamati, dal Partito d'Azione, di cui e' stato dirigente nella Resistenza e nei primi anni della Repubblica, al Psi che per tre legislature ha rappresentato in Parlamento, al Psiup nato anche per sua volonta' da una scissione dei socialisti, fino al Pdup e ad altre formazioni della estrema sinistra nei tumultuosi anni '70. Questi partiti egli li ha amati, li ha criticati, li ha abbandonati. In tempi di disciplina e conformismo, il suo passaggio da un partito all'altro - un passaggio dal quale Foa non ha mai tratto un vantaggio personale - testimoniava per lo meno una singolare irrequietezza intellettuale. Una volta, in polemica con le critiche di alcuni dirigenti comunisti, mi spiego' cosa dovesse intendersi per coerenza. "Vedi" mi disse "la coerenza dei comunisti e' in primo luogo la fedelta' a un'organizzazione, una sorta di feticismo di partito. Il mio tipo di coerenza, o se vogliamo di fedelta', e' quello della ricerca di un obiettivo, sempre lo stesso ma attraverso diversi percorsi. Io ho sempre cercato la verita' in modo trasversale, al di la' degli steccati". Cosi' all'amico Carlo Ginzburg che una volta gli faceva notare come avesse cambiato idee importanti nel corso di pochi anni, rispondeva: "Le mie non sono contraddizioni ma compresenze di posizioni diverse". Aveva ragione. In un'epoca nella quale la fedelta' a un partito poteva tradursi in autosufficienza e chiusura alle ragioni degli altri, in un'epoca nella quale la militanza politica poteva spegnere ogni spirito critico ed umiliare le coscienze dei singoli, Vittorio Foa ha sempre coltivato le proprie contraddizioni o "compresenze di posizioni" come un antidoto al settarismo, quasi un gusto e sapore di liberta'. Fu certamente uno degli uomini piu' liberi che io abbia conosciuto, disinteressato nei comportamenti e sempre appassionato e curioso delle ragioni degli altri. Dentro di lui convivevano spinte diverse: la tensione etica tipica degli azionisti, la passione del sindacalista (per piu' di venti anni era stato un dirigente di primo piano della Cgil), la capacita' dello studioso di indagare la storia e le trasformazioni della societa', e infine la fiducia nella possibilita' degli uomini di battersi con successo contro l'ingiustizia, le disuguaglianze, l'esclusione. I vecchi, sia nella vita privata che nella vita politica, di solito si rivolgono al passato con nostalgia, sono scettici o pessimisti sul presente. Vittorio Foa faceva eccezione a questa regola. Era un ottimista. Una volta venne accusato, da sinistra, di guardare con troppa ingenuita' e fiducia alla proclamata trasformazione di An. "Ma lei si fida delle parole di Fini?" gli venne chiesto. "L'appartenenza politica" rispose Foa "e' un dato culturale, non genetico. Se uno dichiara di volersi liberare dal mito fascista, io sono contento. Se mi fido? Nella storia della sinistra italiana l'espressione 'non mi fido' e' stata una delle regole piu' perverse". Pensava che la sinistra, liberatasi dagli ideologismi del passato, avesse non solo il diritto ma il dovere di governare il nostro paese. A condizione di superare i suoi tradizionali feticci, a condizione di far leva sui nuovi ceti sociali emersi dalle trasformazioni economiche, a condizione di darsi nuove strutture unitarie. L'Ulivo, secondo lui, avrebbe dovuto essere non solo una somma di partiti, ma una forza nuova che andasse oltre i singoli alleati. Lo ha sperato, anche di fronte a sconfitte e delusioni. E ha continuato fino alla fine a invitare gli uomini e le donne di sinistra a non rinchiudersi in se stessi, a "parlare agli altri, a quelli che hanno sbagliato scegliendo la destra di Berlusconi... Ma aprire gli occhi agli altri" ci ripeteva "vuol dire anche in qualche modo rispettarli, avere con loro un rapporto umano, cercare di capirli". E a chi gli chiedeva cosa dovesse fare la sinistra, quale dovesse essere il suo programma, rispondeva "E' una perdita di tempo e di senso cercare di definire una identita' della sinistra. Bisogna fare quello che e' giusto e necessario per il Paese, i posteri diranno se era di destra o di sinistra". 10. MEMORIA. GUGLIELMO RAGOZZINO RICORDA VITTORIO FOA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 21 ottobre 2008 col titolo "Molte grazie, compagno Foa" e il sommario "Sinistra. Nel corso di moltissimi anni non ha mai smesso di cercare soluzioni, tentare nuove vie possibili per rendere piu' equa e libera la vita dei lavoratori"] Quando il mese scorso Vittorio ha compiuto 98 anni, "Il manifesto" ha ripubblicato la frase finale della sua intervista a Loris Campetti del primo maggio del 2007: "Ai giovani direi: pensate alla politica che e' un pezzo decisivo nella vita delle persone, ma non e' tutto. Allora pensate anche ad altro, e soprattutto pensate agli altri. Pensare agli altri e' gia' una prospettiva di vita". L'intervista toccava il punto del concerto del sindacato in piazza S. Giovanni a Roma. Non era forse un cedimento ai suoi occhi di vecchio organizzatore sindacale? Ma no diceva Vittorio, la musica dei giovani e' molto importante; e' felicita' e vita. Vittorio che era quasi del tutto sordo e vedeva solo ombre, capiva e apprezzava un concerto rock meglio di tanti altri. Per lui del resto era facile: era giovane, anzi i giovani, generazione dopo generazione, erano sempre suoi coetanei. Da giovane, a 25 anni, era finito in carcere per due articoli pubblicati sui "Quaderni di Giustizia e liberta'" sull'Iri, la Stet e i poteri economici privati. Ogni 15 giorni, dal carcere, si poteva scrivere una lettera che passava per la censura prima di arrivare ai destinatari: le "Lettere dalla giovinezza" di Vittorio, raccolte e ordinate da Federica Montevecchi, sono una straordinaria narrazione della vita del carcere, le letture, le speranze, la grande politica. Dal carcere, stretto nelle maglie della censura, questo ragazzo capiva gli avvenimenti e li riusciva a spiegare, con una punta di ironia, anche. Il fascismo, la guerra di conquista contro l'Etiopia, le leggi razziali, la guerra europea: tutto passa sotto la lente delle lettere dal carcere. Quando anni dopo - racconta Foa - qualcuno gli chiedera' di aderire a un'associazione di perseguitati, egli si rifiutera' e alla sorpresa dell'interlocutore spieghera' che in realta' era lui ad avere perseguitato il fascismo, tanto che per difendersi lo avevano dovuto scaraventare in carcere. Difficile ricordarlo oggi, ma Vittorio era davvero capace di capovolgere, con allegria, sempre, i punti di vista e cosi' liberava molte verita', quelle che nessuno osava dire. Intellettuale, cospiratore, prigioniero politico, capo della Resistenza, costituente, deputato, senatore, uomo di partito, saggista, condirettore del "Manifesto", professore universitario, storico; tutto fatto con il massimo impegno, ogni volta. Vittorio pero' parlava di se' come organizzatore sindacale. Il sindacato era la sua vera missione: ufficio studi della Cgil, poi la Fiom - e a Torino dopo la sconfitta alla Fiat - e di nuovo al centro, con Giuseppe Di Vittorio e poi Agostino Novella nella segreteria della Cgil. Sono in molti a ricordare ancora quando Vittorio decise nel 1968 di non ripresentarsi in parlamento. I maggiori sindacalisti allora erano anche parlamentari, perche' il mandato parlamentare li difendeva meglio. Il ricordo della dittatura era ancora recente. Inoltre i sindacalisti erano allora molto popolari e i partiti chiedevano con forza la loro presenza. In brevi anni, anche gli altri sindacalisti che pure l'avevano criticato, decisero che era giusto fare cosi' e l'incompatibilita' divenne regola generale. Ma l'unita' sindacale che allora fu realizzata dai metalmeccanici, rimase per sempre un'aspirazione, sempre una meta lontana da raggiungere. Anno forte, il sessantotto. Su imitazione di quello che avveniva a Parigi, a Milano si occupo' la Triennale, nella sera in cui arrivava per un discorso Serge Mallet, celebrato autore della Nuova classe operaia. Fu li' che vidi la prima volta Vittorio in azione. L'avevo conosciuto la mattina di quel giorno nell'ufficio di Gastone Sclavi alla Cgil di Corso di Porta Vittoria. Mi era difficile accettare che una persona tanto importante facesse una cosa tanto irregolare, una tipica attivita' da lasciare ai giovani. Appunto. Vittorio, anche allora, ma lo ho capito dopo, era molto piu' giovane di me. Un'altra innovazione di Vittorio fu quella di andarsene dal sindacato una volta compiuti i sessanta anni. Questo accadde nel 1970. Non era piu' parlamentare, non era neppure sindacalista; il suo partito, il Psiup, soprattutto dopo i carri sovietici a Praga che Vittorio aveva avversato - tanto nella Cgil che nel partito - non era piu' un luogo per un lavoro politico; tanto piu' che il mondo, dopo il biennio '68-'69 era cambiato parecchio. I giovani pretendevano altro. E come rinuncio' per primo alla medaglietta parlamentare, cosi' a sessant'anni, per primo, si cerco' un lavoro. Cominciavano gli anni dell'Universita', a Modena. Improvvisamente la facolta' di Economia e commercio di Modena divenne un punto di riferimento di tutto il pensiero non neoclassico. Tutto il nuovo passava di li'. Per una volta un'universita' italiana non si sentiva marginale e tutto sommato inutile. Vittorio era probabilmente il punto di riferimento, certo al di la' della sua volonta'. Molti studiavano e scrivevano in funzione di quello che egli avrebbe detto o replicato. Era il maestro, se mai ce ne fu uno. Via da Modena, finita la stagione della politica, Vittorio che si candida e diventa deputato a Torino e Napoli per Democrazia proletaria, allora cartello disagiato delle nuove sinistre, ma con l'impegno a dimettersi subito, a favore di due subentranti. Poi gli anni della "Gerusalemme", forse il principale libro di storia di Vittorio, dedicata al movimento operaio inglese. Poi gli anni del silenzio, un biennio a cavallo del 1980 in cui si e' imposto di tacere; e naturalmente e' un tempo adatto ad ascoltare gli altri. Poi gli anni recenti, tanti libri, Formia come porto tranquillo, ancora la Cgil all'ufficio studi, per cercare di capire l'involuzione del capitale, ancora il Parlamento. E un po' di pace, rotta da un turbinio di amici, conoscenti, parole, letture, discussioni. Un tempo sereno. Un tempo sereno di cui noi tutti che ne abbiamo approfittato dobbiamo ringraziare Sesa, la moglie di Vittorio; e Anna, Renzo, Bettina i figli di Vittorio e Lisa che hanno generosamente diviso con noi il prezioso tempo di Vittorio Foa. 11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 12. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 618 del 24 ottobre 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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