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Minime. 559
- Subject: Minime. 559
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 26 Aug 2008 00:47:25 +0200
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 559 del 26 agosto 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Peppe Sini. Cessi la partecipazione italiana alla guerra afgana 2. Enrico Piovesana: Novanta civili massacrati ad Azizabad 3. Paolo Pegoraro intervista Giovanna Marini 4. Alcuni estratti da "Oltre la cittadinanza" di Partha Chatterjee (parte prima) 5. La "Carta" del Movimento Nonviolento 6. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. PEPPE SINI: CESSI LA PARTECIPAZIONE ITALIANA ALLA GUERRA AFGANA La partecipazione italiana alla guerra afgana e' un crimine. Un crimine per ogni morale coscienza. Un crimine secondo ogni codice giuridico. Quella guerra terrorista e stragista, imperialista e razzista, mafiosa e totalitaria, e' un crimine contro l'umanita' intera. Dopo Auschwitz ed Hirosahima ogni guerra e' un crimine contro l'umanita' intera, che l'umanita' intera colpisce, e che l'intera civilta' umana mette in pericolo. * L'Italia sta partecipando a quell'immenso crimine. Sta partecipando in flagrante violazione del diritto internazionale. Sta partecipando in flagrante violazione della propria legalita' costituzionale. Cessi la partecipazione italiana alla guerra terrorista e stragista in Afghanistan. Torni l'Italia nell'alveo della legalita'. Si adoperi l'Italia contro la guerra, per il disarmo e la smilitarizzazione del conflitto, si adoperi per la pace con mezzi di pace, si adoperi per salvare le vite, invece di sopprimerle. * Cessi la partecipazione italiana alla guerra: e' la richiesta che ogni cittadina e cittadino italiano ragionevole deve fare. 2. AFGHANISTAN. ENRICO PIOVESANA: NOVANTA CIVILI MASSACRATI AD AZIZABAD [Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente articolo del 25 agosto 2008 col titolo "La rabbia degli afgani, la mossa di Kabul" e il sommario "Salgono a novanta i civili massacrati. Karzai: rinegoziare la presenza militare straniera". Enrico Piovesana, giornalista, lavora a "Peacereporter", per cui segue la zona dell'Asia centrale e del Caucaso; e' stato piu' volte in Afghanistan in qualita' di inviato] Azizabad e' un piccolo villaggio, sorto una ventina di chilometri a ovest di Shindand, non lontano dalla locale base aerea. Quasi tutti gli abitanti di Azizabad lavoravano proprio li', in quel vecchio aeroporto militare sovietico, oggi usato dalla Nato. Siamo nel sud della provincia di Herat, sotto comando militare italiano. * Quella notte d'inferno Giovedi' notte, mentre mezzo villaggio era riunito per un funerale, in una casa poco distante il comandante talebano Mullah Siddiq stava tenendo una riunione con i suoi luogotenenti per pianificare un attacco contro la base Usa di Ghorian, nei pressi di Herat. Questo era l'obiettivo di un commando di forze speciali Usa e afgane che, nel buio, si stavano avvicinando al centro abitato. I talebani di guardia, pero', se ne sono accorti, ed e' scoppiata una sparatoria. Gli incursori statunitensi hanno chiesto supporto aereo, arrivato in pochi minuti sotto forma di una cannoniera volante C-130 che ha riversato sul villaggio una pioggia di fuoco. Una quindicina di case attorno a quella dove si trovava il capo talebano sono state rase al suolo, compresa quella dov'era in corso il funerale. Settantasei persone, di cui una cinquantina di bambini e una ventina di donne, sono morte sul colpo. I feriti piu' gravi sono morti nelle ore successive. Il bilancio finale ufficiale e' di novanta morti. * Rinegoziare i termini della presenza straniera "Abbiamo estratto corpi dalle macerie fino alla tarda mattinata del giorno dopo", ha dichiarato all'Ap Ghulam Azrat, preside della scuola del villaggio. "Abbiamo portato tutti i cadaveri nella moschea: erano in maggior parte bambini. Nel pomeriggio sono arrivati dei soldati afgani a portare cibo e acqua ai sopravvissuti: la gente li ha aggrediti a colpi di pietra. I militari allora hanno sparato contro la folla disperata e inferocita, ferendo altre otto persone. Tra loro pure un bambino che adesso e' in fin di vita". "Noi musulmani, questa volta, non accetteremo le loro scuse", ha dichiarato in una nota il Consiglio degli ulema dell'Afghanistan occidentale, commentando la strage. Karzai ha rimosso due generali afgani coinvolti nella disastrosa operazione, e il suo governo ha approvato una dura risoluzione che chiede di rinegoziare i termini della presenza militare straniera in Afghanistan, di stabilire limiti operativi e responsabilita' delle forze occidentali e di porre fine alle incursioni aeree contro obbiettivi civili e agli abusi nei confronti della popolazione. * Silenzio da Herat I comandi Usa, che fino a ieri hanno negato la strage, hanno aperto la solita inutile inchiesta. Silenzio assoluto dal comando italiano di Herat, che ha la responsabilita' della regione teatro del massacro. 3. RIFLESSIONE. PAOLO PEGORARO INTERVISTA GIOVANNA MARINI [Dal mensile "Letture", n. 634, febbraio 2007, col titolo "Giovanna Marini tra Monteverdi e classe operaia" e il sommario "Settant'anni appena compiuti e premiata con il Nonino nel 2006, la Marini ha aiutato a riscoprire la bellezza dei canti popolari e degli inni sociali. Una vita ricca di svolte e di incontri: da Segovia a Pasolini, da Dario Fo a De Gregori". Paolo Pegoraro e' critico letterario, giornalista e saggista, collabora stabilmente alle riviste "Letture" e "Vita pastorale". Giovanna Marini e' musicista, ricercatrice, intellettuale di forte impegno civile. Dal sito www.giovannamarini.it riprendiamo la seguente scheda: "Nata a Roma in una famiglia di musicisti, Giovanna Marini si diploma in chitarra classica al Conservatorio di Santa Cecilia nel 1959 e si perfeziona con Andres Segovia. Di seguito suona per qualche anno il liuto con il 'Concentus Antiqui' del Maestro Quaranta. All'inizio degli anni Sessanta incontra un gruppo di intellettuali fra cui Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Roberto Leydi, Gianni Bosio e Diego Carpitella e scopre il canto sociale e la storia orale cantata. Nel 1964 il 'Bella Ciao', spettacolo di canto politico e sociale, dato a Spoleto con grande scandalo per un pubblico molto chic e poco abituato, le da' la possibilita' di cantare e raccogliere canti popolari in giro per l'Italia, nelle situazioni sempre incandescenti degli anni Sessanta. Partecipa allora alla storia del 'Nuovo Canzoniere Italiano' cantando con i gruppi formati per l'occasione da cantautori politici come Ivan Della Mea, Gualtiero Bertelli, Paolo Pietrangeli, ma anche cantanti contadini come Giovanna Daffini (ne impara l'emissione vocale e il repertorio), il Gruppo di Piadena, i Pastori di Orgosolo con il poeta Peppino Marotto (da cui impara l'arte del racconto, dell'improvvisazione) e da tanti altri cantori e cantastorie a cui deve sempre molto. Con l'Istituto Ernesto De Martino, Giovanna Marini porta avanti la raccolta di canti di tradizione orale e il loro studio e trascrizione, inventando a questo scopo un sistema di notazione musicale. Questo suo lavoro di trascrizione e poi d'arrangiamento le permettera' in seguito di trasportare la memoria cantata sul palcoscenico. Continuando la ricerca musicale e il suo impegno negli spettacoli e iniziative del 'Nuovo Canzoniere' come per il 'Ci ragiono e canto' di cui Dario Fo cura la regia, cresce il suo gusto del teatro, dell'affabulazione teatrale, dello stare in scena. E nel 1965 incomincia a comporre lunghe ballate che raccontano la sua esperienza e che interpreta sola in scena accompagnandosi con la chitarra non avendo la possibilita' di usare altre voci ed altri strumenti: da 'Vi parlo dell'America' nel 1965 all''Eroe' nel 1974. Nel 1974, con un gruppo di musicisti anch'essi provenienti da percorsi non tradizionali, fonda la Scuola Popolare di Testaccio a Roma. Trova finalmente musicisti con cui suonare: Giancarlo Schiaffini, Michele Iannaccone ed Eugenio Colombo, per i quali scrive - oltre che per cinque voci - 'La grande madre impazzita' nel 1979. Da quel momento affronta la scrittura per strumenti e voci: 'Il regalo dell'imperatore' nel 1983, opera per banda, coro, solisti e percussioni; il 'Requiem' nel 1985 per due cori, contrabbassi, ottoni, fagotto, due archi solisti e voci liriche e l'oratorio 'La declaration des Droits de l'Homme' per il bicentenario della rivoluzione francese nel 1989. Parallelamente al suo sviluppo di compositrice, Giovanna Marini ha sempre continuato l'insegnamento dell'etnomusicologia applicata al canto di tradizione orale italiano presso la Spmt e dal 1991 al 2000 anche presso l'Universita' di Paris VIII - Saint Denis, oltre che in numerosi seminari in Italia e all'estero. Con i suoi allievi di Roma e Parigi ha fatto fino ad oggi una decina di viaggi di studio per ascoltare e registrare i canti di tradizione orale ancora presenti in Italia nelle feste religiose o profane. E' nel 1976 che crea il Quartetto Vocale per il quale compone da allora le 'Cantate' e con il quale si esibisce in concerti e tournees in Italia e all'estero: dalla Cantata 'Correvano coi carri' alle recenti 'Sibemolle' o 'La Cantata del secolo breve' presentata al Theatre de Vidy nel 2001. I concerti del Quartetto Vocale sono il compimento di tutte le esperienze musicali di Giovanna Marini: ricerca sui canti di tradizione orale, insegnamento, composizione strumentale e vocale, scrittura individuale e collettiva. La sua intensa attivita' musicale l'ha portata d'altro canto a comporre anche per il cinema: per registi come Loy, Maselli, Pietrangeli o Gianikian; per il teatro fra cui numerose tragedie greche: dalle 'Troiane' di Thierry Salmon nel 1988, musiche premiate dall'Ubu, alle 'Coefore' di Elio De Capitani o alle 'Antigone': la prima per il regista tedesco Hans-Guenter Heyme nel 1995 e la seconda per il francese Patrice Kerbrat nel 2000; e ugualmente per la danza contemporanea, come 'Animarrovescio' della coreografa Adriana Borriello. Inoltre compone numerosi oratori, poemi sinfonici e opere fra cui: 'Pour Pier Paolo' dodici liriche dalla Meglio Gioventu' di Pasolini musicate per cinque strumenti e cinque voci (Festival d'Automne di Parigi nel 1985), 'Concerto per Leopardi' per il bicentenario della nascita di Leopardi nel 1996 e 'La Bague Magique' per la regia di Jean-Claude Berutti (all'Opera di Nancy e al Theatre du Peuple di Bussang nel 1999). Nel 2000 scrive la Cantata del Secolo Breve, per Quartetto Vocale, produzione del Teatro di Vidy di Losanna. Musica il film di Giannikian Lucchi-Ricci 'L'India'. Nel 2002 con Francesco De Gregori incidono il disco Il Fischio del Vapore che si distingue per un numero di vendite eccezionale. Compone le musiche per Villarosa, dramma di Enzo Alaimo, che viene rappresentato al Festival di Gibellina. Nel 2003 compone le musiche per il film di Giannikian Lucchi-Ricci Oh Uomo! Sempre nel 2003 compone le musiche per l'opera di Buchner Woyzeck con la regÏa di Gian Carlo Cobelli. Nel 2004 per il festival di Angelica di Bologna di Musica Contemporanea vengono eseguiti molti brani delle due Orestiadi, quella in fiammingo con cori in greco antico, del Theatre Royal Flamand di Bruxelles con la regia di Franz Mareijnen e quella con la traduzione di Pasolini e la regia di De' Capitani (manca il capitolo dell'Agamennone). A questi pezzi si aggiungono brani dai Turcs tal Friul e dalle Troiane di Euripide in greco antico, il tutto sotto la direzione del maestro Giovanna Giovannini. Nel 2004 mette in musica La ballata del carcere di Reading e De Profundis di Oscar Wilde. Dopo il disco Il Fischio del Vapore incide un disco con il suo Quartetto Vocale, Passioni, con 16 canti di cui nove devozionali trascritti e arrangiati per quartetto e cinque di propria invenzione. Continua l'insegnamento alla Scuola Popolare di Musica di Testaccio, i viaggi collettivi di testimonianza nei luoghi in cui ha fatto ricerca, i concerti in Italia e all'estero. Nel 2004 il Circolo Gianni Bosio insieme al Comune di Sternatia e il gruppo Aramire' del Salento usano i brani di ricerca della Marini per stampare un disco doppio in cui il primo disco riporta i brani cosi' come sono stati cantati e registrati duranti la ricerca del 1970 e il secondo disco riporta l'uso che la Marini ha fatto di questi brani, ricantati da lei e gruppi da lei organizzati. Nel 2004 partecipa allo spettacolo teatrale Urlo di Pippo Delbono, e porta al festival d'Avignone la cantata La torre di Babele. Nel 2004 esce edito da Rizzoli un libro scritto durante l'estate che racconta da un lato i viaggi collettivi fatti con allievi di nazionalita' diverse, dall'altra i propri ricordi e pensieri sul lavoro svolto attraverso gli anni con il gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano. Per il Festival Angelica di Musica Contemporanea scrive la partitura per Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini per coro e voci, esegue il coro Arcanto di Bologna diretto da Giovanna Giovannini. Eseguito a Bologna, Udine e San Vito del Friuli. Nel 2006 porta in scena con l'attore Umberto Orsini La ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde, chitarra e voce su musiche da lei scritte sul testo inglese"] Non chiamatela etnomusicologa, Giovanna Marini e' una musicista che si e' appassionata al suono popolare, alle sue pratiche, alle sue varieta' irriducibili e sfuggenti all'omologazione del temperato classico. Ed elencare le sue opere sarebbe troppo lungo: meglio fare un giro su www.giovannamarini.it e www.scuolamusicatestaccio.it, o leggersi il suo Una mattina mi son svegliata (Rizzoli 2005). Cominciamo dalla sua ultima fatica: musicare Le ceneri di Gramsci lasciando il testo inalterato. * - Paolo Pegoraro: Pasolini e' una presenza costante nella sua produzione, quasi un nume tutelare: come mai questo ritorno dopo parecchi anni? - Giovanna Marini: Perche' Pasolini e' una garanzia di qualita', anche se poi ci sono difficolta' notevoli per musicare la lingua che lui usa. Mi sono salvata alternando cinque Passioni popolari ai sei poemetti delle Ceneri. Gli improvvisatori di canti sardi sostengono che per ogni strofa di apertura ci vuole una strofa di copertura che deve parlare d'altro, e cosi' ho fatto: ho preso Le ceneri di Gramsci ma ho sentito il bisogno di affiancargli un altro testo che facesse scaturire una sovralettura. Le Passioni, che dicono solo "Oh, Gesu' mio!", si appoggiano alla densita' del ragionato di Pasolini in un modo molto veritiero, perche' per fare della musica bisogna prima essere sazi sul piano del testo. * - Paolo Pegoraro: Lei ha frequentato Pasolini, che ha rilanciato l'importanza culturale del dialetto. In quegli anni si stava gia' orientando verso i modi del canto popolare? - Giovanna Marini: No, anzi, avevo una sottile irrisione per le forme popolari perche' venivo da una famiglia di musicisti e dal conservatorio, e quelle canzonette di tre note non le stavo nemmeno a sentire, cosi' come non ascoltavo la radio. Solo dopo ho scoperto che il mondo ascoltava il Trio Lescano o il Quartetto Cetra, e mi e' dispiaciuto aver perso tutto questo. * - Paolo Pegoraro: Dunque non ha nessun parente contadino... - Giovanna Marini: No, e' stato un amore cosi'. Durante la guerra siamo stati brutalmente messi a contatto con la campagna per trovare da mangiare - andavamo in mezzo ai pastori a cercare le ricotte - e li' sono venuti meno alcuni antichi principi delle famiglie borghesi. Mi sono appassionata alla musica popolare per stanchezza perche' - anche se i romantici, Bach e Monteverdi restano imprescindibili - cominciavo a capire che c'era dell'altro. E poi il mondo dei musicisti era noioso, molto chiuso, soprattutto allora, e non ne potevo piu': a casa noi vedevamo e parlavamo solo con musicisti, pure le barzellette erano solo musicali. Attraverso Roberto Leydi conobbi il mondo dei politici, e li' trovai persone vivissime come Diego Carpitella ed Ernesto De Martino, che a loro volta mi fecero conoscere i cantori: Giovanna Daffini, il gruppo di Piadena, e via via tutte queste mondine, i pastori sardi, le forme paraliturgiche, i cantastorie, i discanti... era musica viva, non c'era confronto! * - Paolo Pegoraro: Ma ci sono ancora i canti popolari? - Giovanna Marini: Ce ne sono moltissimi. Ci sono delle mutazioni dovute ai tempi o al fatto che in una confraternita dove prima erano tutti pastori ora c'e' un ginecologo o due ragionieri e quattro studenti di conservatorio. E' un mondo delicato, sono confraternite secolari con le proprie tradizioni... per esempio, le donne possono cantare la monodia ma non la polifonia. Curiosamente e' rimasto il rito anche se e' finita la funzione: non c'e' piu' il seminare o la raccolta, ma il canto della semina o della trebbiatura viene fatto ancora rigorosamente. * - Paolo Pegoraro: Nell'album Si bemolle lei domanda agli altri membri del Quartetto se, terminata l'esecuzione di un brano, ne hanno "goduto intensamente". Ho notato che lo chiede anche a lezione. - Giovanna Marini: La dimensione del godimento e' fondamentale. In Si bemolle il Quartetto si sbizzarriva in mille suoni extrapartitura, cioe' quei suoni che non puoi nemmeno scrivere perche' indicano il colore e non esiste il segno grafico. Sono quelli che fanno godere intensamente, soprattutto i battimenti: quando due voci sono molto vicine - ad esempio una canta un mi e l'altra un re - battono, cioe' le onde sonore da rotonde, sinusoidali, diventano quadre, sono quasi onde d'urto. * - Paolo Pegoraro: Dunque il godimento e' anche quadro... - Giovanna Marini: E' godimento al quadrato (ride). * - Paolo Pegoraro: Veniamo alla Scuola popolare di musica di Testaccio: com'e' nata e in cosa consiste? - Giovanna Marini: L'occupazione delle case comincio' nell'ottobre del 1974. Si tapparono i buchi, si mise la plastica alle finestre, si porto' qualche sedia e nel '75 cominciarono le prime lezioni. Era nata come scuola di jazz per riempire un vuoto nella musica italiana, visto che i conservatori non lo insegnavano, ed e' diventata una vera scuola di musica dove si studiano gli strumenti e parallelamente materie che permettono, a chi lo vuole, di arrivare al diploma. Ci sono discipline che non si studiano al conservatorio come organologia o arrangiamento, e abbiamo tre corsi di canto: classico, popolare e microfonico. * - Paolo Pegoraro: C'e' una didattica particolare? - Giovanna Marini: Si', noi poniamo l'accento sul concreto piuttosto che sul teorico: sono due insegnamenti, che vanno bilanciati, come al solito, pero' trovo piu' educativo aiutare la persona a essere musicalmente autonoma e completa. I compositori che escono dal conservatorio, per esempio, sanno benissimo come si fa una fuga o un contrappunto fiorito, ma non come s'inventa della musica. E non studiano piu' orchestrazione, mentre bisogna conoscere i limiti di uno strumento, sapere che le arpe cigolano, che dare i si a una tromba non e' una buona cosa... Inoltre abbiamo i laboratori: se hai cento studenti di chitarra - folk, elettrica, acustica, classica - e una volta la settimana fai loro leggere le corali di Bach tutti assieme, una linea per uno, li abitui a fare musica in qualsiasi modo e circostanza. La Scuola popolare e' un corpo che offre molte opportunita': oggi gli iscritti sono mille. * - Paolo Pegoraro: Oltre a recuperare i cori delle mondine e degli operai, lei ha musicato anche Wilde, Leopardi, Montale... Questa convivenza tra cultura popolare e cultura accademica l'ha portata a leggere i classici con occhi diversi? - Giovanna Marini: Se ho messo alla pari queste due culture e' perche' ho avuto la fortuna di studiare dalle monache, che non mi hanno insegnato nulla, per cui sono rimasta praticamente ignorante. Pero' c'era una monaca bravissima che cantava il gregoriano talmente bene che mi ci sono appassionata e condividevamo questa passione, lavoravamo insieme, lei diceva: "Guarda che bello quest'inno" e lo copiavamo dai codici. Dall'altra parte, la mia famiglia era cosi' colta che mi lasciavano in pace, perche' io ero considerata quella che viaggiava di fantasia. Cosi', in questa mia non-formazione, leggere Montale o l'Inno dei lavoratori era la stessa cosa, non avvertivo una differenza culturale tra l'uno e l'altro. Se fossi stata acculturata mai avrei musicato intoccabili come Leopardi, cosi' invece l'ho fatto senza troppi traumi. Con assoluta incoscienza. 4. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "OLTRE LA CITTADINANZA" DI PARTHA CHATTERJEE (PARTE PRIMA) [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Partha Chatterjee, Oltre la cittadinanza, Meltemi, Roma 2006 (ed. orig. The Politics of the Governed, Columbia University Press, New York 2004). Partha Chatterjee, membro fondatore del Subaltern Studies Editorial Collective, e' direttore del Centre for Studies in Social Sciences di Calcutta e Visiting Professor di Antropologia alla Columbia University. Tra i suoi libri: Nationalist Thought and the Colonial World (1986); The Nation and Its Fragments (1993); Oltre la cittadinanza. La politica dei governati, Meltemi, 2006] Indice del volume Prefazione all'edizione italiana; Prefazione; Parte prima. Leonard Hastings Schoff Memorial Lectures, 2001. Capitolo primo: La nazione nel tempo eterogeneo; Capitolo secondo: Popolazioni e societa' politica; Capitolo terzo: Le politiche dei governati; Parte seconda. Globale/locale. Prima e dopo l'l1 settembre. Capitolo quarto: Il mondo dopo la Grande Pace; Capitolo quinto: Canto di battaglia; Capitolo sesto: Le contraddizioni del secolarismo; Capitolo settimo: Le citta' indiane stanno finalmente diventando borghesi?; Epilogo: Le Idi di marzo; Postfazione di Sandro Mezzadra; Bibliografia. * Da pagina 9 e seguenti Prefazione all'edizione italiana Quando circa dieci anni fa cominciai a riflettere sull'insieme di pratiche che ho definito "societa' politica", i miei interessi erano assai limitati. Avevo alle spalle le ricerche del progetto dei Subaltern Studies sulla resistenza dei contadini nell'India coloniale e la critica dello Stato postcoloniale nata dalla nostra interpretazione della partecipazione dei contadini al movimento nazionalista indiano. La storia di come le opere del marxista italiano Antonio Gramsci, arrivate in India negli anni Settanta, abbiano costituito un nuovo punto di partenza della storiografia indiana e' ormai nota. Eravamo convinti che nella coscienza dei contadini lo Stato fosse un'entita' estrinseca e distante. Le istituzioni dello Stato coloniale penetravano spesso nella vita dei contadini, e tuttavia questi ultimi consideravano tali intrusioni come l'intervento - a volte benefico, spesso irritante e molesto, altre volte seriamente dannoso e pericoloso - di una forza esterna. Pensavamo inoltre che le forme della coscienza contadina andassero al di la' dei confini delle popolazioni rurali: al contrario, esse caratterizzavano anche le pratiche politiche degli operai industriali e dei poveri delle citta', persone che si erano urbanizzate di recente e che mantenevano forti legami con le campagne. Dopo l'indipendenza e la fondazione della repubblica postcoloniale, e dunque dopo l'attribuzione formale della cittadinanza a tutti gli indiani, la relazione tra lo Stato e i contadini non era fondamentalmente cambiata. Le masse contadine erano state incluse nel concetto formale di "popolo", ma una reale partecipazione alla vita quotidiana dello Stato era loro preclusa. Durante gli anni Ottanta, cominciai pero' a rendermi conto dell'emergere di fenomeni nuovi. L'idea che le istituzioni dello Stato fossero esterne e lontane dalla coscienza dei contadini non mi convinceva piu'. Le politiche di sviluppo dello Stato postcoloniale erano penetrate profondamente nella vita quotidiana dei contadini, ma non solo: le stesse popolazioni rurali avevano cominciato a rivolgersi allo Stato sia come fonte di opportunita' per migliorare le proprie condizioni di vita sia come recettore di lamentele e proteste. Forse che la promessa della modernita' postcoloniale era stata mantenuta? Il contadino indiano stava forse diventando un moderno cittadino della nazione? Nient'affatto. Le pratiche emergenti della democrazia postcoloniale indiana erano assai piu' complicate di quanto una candida narrazione della modernizzazione potesse immaginare. I contadini e gli altri gruppi marginali erano si' stati introdotti nelle politiche governamentali moderne, ma solo come gruppi di popolazione, non come cittadini. Venivano curati, sostenuti e incoraggiati a vivere in maniera piu' sana e produttiva. E tuttavia, cio' li rendeva oggetti della politica, elementi differenti della popolazione che avanzavano esigenze particolari e rispondevano a ricompense e sanzioni diverse. Compresi che il campo delle politiche governamentali apriva una nuova area politica le cui pratiche non erano per nulla assimilabili a quelle della societa' civile dei cittadini propriamente detti. Decisi di definire tale campo (non senza una certa vanita', vista la storia dell'uso del termine nella teoria politica liberale) "societa' politica". Ricavai un grande aiuto concettuale dalla lettura delle ultime opere di Michel Foucault, anche se devo dire che la mia interpretazione e' assai obliqua, in quanto utilizza le analisi foucaultiane delle pratiche del potere tipiche delle democrazie industriali di massa dell'Europa e del Nord America per spiegare le forme emergenti del governo e della politica nell'India contemporanea. Con cio' ho trasferito, e qualche volta rovesciato, le relazioni tra sovranita', disciplina e governamentalita' che secondo Foucault costituivano la modalita' storica dell'esercizio del potere nell'Occidente moderno. La mia distinzione tra societa' civile e societa' politica non e' cio' che ci si attende da una normale lettura di Foucault. Cio' di cui sto parlando, tuttavia, non riguarda soltanto la storia postcoloniale. Se guardiamo alle questioni di governo che oggi vengono sollevate dai nuovi flussi migratori verso l'Europa occidentale e il Nord America, non possiamo che concludere che la distinzione tra cittadini e popolazione - la distinzione tra societa' civile e societa' politica - non e' affatto irrilevante per comprendere l'Occidente contemporaneo. Che cosa possiamo dire delle centinaia di migliaia di lavoratori turchi che pur avendo passato tutta la loro vita in Germania sono ancora categorizzati come "ospiti", e non cittadini? E cosa dire dei milioni di persone che pur lavorando negli Stati Uniti, detenendo proprieta' e pagando le tasse vengono ancora definiti "illegali"? Sono tutte persone che fanno parte della "popolazione", non della cittadinanza. La loro sopravvivenza non e' garantita dall'appartenenza alla societa' civile, quanto piuttosto dal disperato tentativo di usare gli strumenti della societa' politica. Puo' darsi allora che oggi i temi trattati in questo piccolo libro possano interessare l'Europa. Benche' in Italia Antonio Gramsci non sia piu' di moda, la storia di come le sue idee abbiano avuto una nuova vita in un continente lontano e abbiano prodotto opere e dibattiti su questioni politiche molto diverse potrebbe interessare qualcuno. Michel Foucault e' naturalmente una figura molto piu' familiare, ma qui e' stato utilizzato in maniera un po' particolare. Infine, forse, i lettori italiani troveranno sorprendente che le teorie nate dai problemi del mondo postcoloniale possano illuminare i problemi dell'Europa attuale. Ma dopotutto per due secoli il resto del mondo si e' sentito dire che le teorie emerse dalle esperienze storiche dell'Europa andavano bene per tutti. Calcutta, 20 giugno 2006 * Da pagina 43 e seguenti Popolazioni e societa' politica Il momento classico in cui le promesse della modernita' illuminata parvero fondersi con le aspirazioni politiche universali della cittadinanza nazionale fu, naturalmente, la Rivoluzione francese. Negli ultimi due secoli, tale momento e' stato celebrato e canonizzato in vari modi, e forse la sintesi piu' convincente e universalmente riconosciuta e' quella che indica l'identita' del popolo con la nazione e della nazione con lo Stato. Non vi e' dubbio alcuno che oggi la legittimita' dello Stato moderno si fondi chiaramente e saldamente su una qualche concezione della sovranita' popolare. E' questo il fondamento della politica democratica moderna, ma non solo. L'influenza esercitata dall'idea di sovranita' popolare oltrepassa i confini della democrazia: anche il piu' antidemocratico dei regimi politici moderni e' obbligato a fondare la propria legittimita' sul volere del popolo, comunque esso venga espresso, e non sul diritto divino della successione dinastica o sulla conquista territoriale. Le autocrazie, le dittature militari, i regimi monopartitici - tutti comandano (rule) in nome del popolo, o almeno cosi' dicono. La potenza dell'idea della sovranita' popolare e la sua influenza sui movimenti nazionali e democratici ottocenteschi in Europa e in America sono ben note. La sua influenza, tuttavia, si estendeva ben al di la' di quello che chiamiamo Occidente moderno. Le conseguenze della spedizione napoleonica in Egitto del 1798 sono state ampiamente discusse (Abu-Lughod 1963; Mitchell 1988). Piu' a oriente, il principe Tipu Sultan, sovrano di Mysore, che stava combattendo una feroce battaglia contro gli inglesi nell'India meridionale, apri' nel 1797 un negoziato con il governo rivoluzionario francese, offrendo un trattato di alleanza e amicizia "fondato sui principi repubblicani della sincerita' e della buona fede, cosicche' voi e la vostra nazione e io e il mio popolo possiamo divenire una sola famiglia". Si dice che il principe sia rimasto sorpreso di ricevere una risposta indirizzata al "cittadino Sultan Tipu" (Kausar 1980, pp. 165, 219). Puo' darsi, naturalmente, che le simpatie repubblicane di Tipu non andassero al di la' del richiamo, espresso nella lettera ai "signori del Direttorio", al principio tattico per cui "i vostri nemici possono essere i nemici miei e del mio popolo; e i miei nemici possono essere considerati come vostri nemici". Lo stesso non si puo' dire dei sentimenti della nuova generazione di riformatori modernisti dell'India dell'Ottocento. A scuola, a Calcutta, si studia lo storico viaggio in Inghilterra compiuto da Rammohun Roy, il cosiddetto padre della modernita' indiana, nel 1830. Ci dicono che quando la nave attracco' a Marsiglia Rammohun fosse a tal punto smanioso di salutare il tricolore, rimesso al suo posto dalla monarchia di luglio, che affrettandosi sulla passerella cadde e si ruppe una gamba. Con l'aiuto di una biografia piu' affidabile ho poi scoperto che in realta' l'infortunio aveva colpito Roy a Citta' del Capo, ma non ne aveva ridotto l'entusiasmo per liberta', uguaglianza e fratellanza. Un altro passeggero scrisse che "due fregate francesi, battenti la bandiera rivoluzionaria, il glorioso tricolore, erano attraccate nella Table Bay; nonostante fosse zoppo, egli insistette per visitarle. La vista di quei colori parve ravvivare la fiamma del suo entusiasmo e renderlo insensibile al dolore". Rammohun venne portato in visita ai vascelli e comunico' ai suoi ospiti "quanto era felice di stare sotto la bandiera che sventolava sui loro ponti - un'evidenza del glorioso trionfo del diritto sulla forza; e lasciando le navi ripete' con foga: 'Gloria, gloria, gloria alla Francia!'" (James Sutherland, cit. in Dobson Collet 1900, p. 308). Dall'altra parte del mondo, nei Caraibi, altre popolazioni coloniali scoprirono che esistevano dei limiti alla promessa di una cittadinanza universale, e le loro sofferenze andarono ben al di la' di una gamba rotta. I capi della rivoluzione di Haiti presero molto sul serio il messaggio di liberta' e uguaglianza che veniva da Parigi e si sollevarono dichiarando la fine della schiavitu'. Con grande sgomento, si sentirono dire dal governo rivoluzionario francese che i diritti dell'uomo e del cittadino non valevano per i negri, anche se si erano dichiarati liberi, perche' non erano, o non erano ancora, cittadini (James 1963). Il grande Mirabeau chiese all'Assemblea nazionale di ricordare ai coloni che "nel fare la proporzione tra il numero dei deputati e la popolazione della Francia non abbiamo computato ne' i cavalli ne' i muli" (cit. in Trouillot 1995, p. 79). Fini' che nel 1802, dopo la dichiarazione di indipendenza dal governo coloniale da parte dei rivoluzionari haitiani, i francesi mandarono a Santo Domingo una spedizione militare per ristabilire il governo coloniale e la schiavitu'. Secondo lo storico Michel-Rolph Trouillot la rivoluzione di Haiti era troppo in anticipo. Nell'intero spettro del discorso occidentale dell'epoca dell'Illuminismo non vi era spazio per degli schiavi neri che si rivoltavano per conquistare l'autogoverno: l'idea era semplicemente impensabile (pp. 70-107). E dunque, mentre i nazionalismi creoli potevano proclamare le repubbliche indipendenti nell'America spagnola all'inizio del XIX secolo, i giacobini neri di Santo Domingo si vedevano negare il medesimo diritto. Il mondo avrebbe dovuto aspettare un altro secolo e mezzo prima che i diritti dell'uomo e del cittadino potessero raggiungere luoghi tanto remoti. A quel punto, pero', con il successo mondiale delle lotte democratiche e nazionali, i limiti posti da classe, rango, genere, razza, casta e tutto il resto si sarebbero gradualmente allontanati dall'idea di sovranita' popolare e la cittadinanza universale sarebbe stata riconosciuta, come avviene oggi, nell'ambito del diritto generale di autodeterminazione delle nazioni. Insieme allo Stato moderno, il concetto di popolo e il discorso dei diritti si sono ormai generalizzati nell'ambito dell'idea di nazione. Ma si e' anche creata una forte spaccatura tra le avanzate nazioni democratiche dell'Occidente e il resto del mondo. La forma moderna della nazione e' al tempo stesso universale e particolare. La dimensione universale e' rappresentata innanzitutto dall'idea del popolo come fonte originaria della sovranita' dello Stato moderno e, in secondo luogo, dall'idea che tutti gli esseri umani siano portatori di diritti. Come e' realizzabile tutto cio', se vale davvero in senso universale? Mettendo in pratica gli specifici diritti dei cittadini nell'ambito di uno Stato costituito da un popolo particolare, costituito cioe' da una nazione. Lo Stato-nazione divenne cosi' la forma specifica, e normale, dello Stato moderno. La cornice fondamentale dei diritti venne definita dalle idee gemelle di liberta' e uguaglianza. Ma liberta' e uguaglianza spesso procedevano in direzioni opposte. Come ha utilmente sottolineato Etienne Balibar (1993), le due idee necessitavano della mediazione di altri due concetti: proprieta' e comunita'. La proprieta' cercava di risolvere le contraddizioni tra liberta' e uguaglianza al livello dell'individuo e delle relazioni che intratteneva con altri individui. La comunita' era invece il luogo in cui le contraddizioni andavano risolte al livello dell'intera fratellanza. Lungo le dimensioni della proprieta', la soluzione poteva essere piu' o meno liberale; lungo le dimensioni della comunita' essa poteva essere piu' o meno comunitarista. Ci si attendeva comunque che gli ideali universali della cittadinanza moderna si realizzassero nel contesto della forma specifica dello Stato-nazione sovrano e omogeneo. Utilizzando una scorciatoia teorica, si puo' dire che proprieta' e comunita' definissero i parametri concettuali all'interno dei quali il discorso politico del capitale, che proclamava liberta' e uguaglianza, poteva svilupparsi. Le idee di liberta' e uguaglianza da cui nascevano i diritti universali del cittadino erano fondamentali non solo nella lotta ai regimi assolutistici ma anche per insidiare le pratiche precapitalistiche che limitavano la mobilita' e le scelte dell'individuo entro i tradizionali confini definiti dalla nascita e dallo status. Ma erano anche fondamentali, come nota il giovane Karl Marx (1844), per separare la sfera astratta del Diritto dal concreto contesto di vita della societa' civile. Nella teoria politico-giuridica i diritti del cittadino non venivano compromessi da razza, religione, etnia o classe (e all'inizio del XX secolo i medesimi diritti vennero estesi anche alle donne), ma cio' non comportava l'abolizione delle differenze reali tra gli uomini (e le donne) nella societa' civile. Al contrario, nella societa' l'universalismo della teoria dei diritti presupponeva, e al tempo stesso rendeva possibile, una nuova configurazione delle relazioni di potere basata appunto sulle distinzioni di classe, razza, religione, genere e cosi' via. Allo stesso tempo la promessa di emancipazione sostenuta dall'idea di uguali diritti universali funzionava anche come una fonte sempre nuova di critica teorica alla societa' civile esistente. Negli ultimi due secoli tale promessa ha ispirato in tutto il mondo lotte finalizzate a cambiare le ingiuste differenze sociali basate su razza, religione, casta, classe o genere. In generale, i marxisti hanno considerato l'affermazione del capitale sulla comunita' tradizionale come un segno inevitabile del progresso storico. Invero il ragionamento presenta una profonda ambiguita'. Se la comunita' era la forma sociale dell'unita' tra il lavoro e i mezzi di produzione, allora la distruzione di tale unita' da parte della cosiddetta accumulazione originaria del capitale produsse un nuovo lavoratore che era non solo libero di vendere il proprio lavoro come una merce ma anche sciolto dagli intralci della proprieta' di tutto, esclusa la propria capacita' di lavorare. Marx ha scritto passi amaramente ironici sulla "doppia liberta'" del salariato affrancato dai legami della comunita' precapitalistica. Nel 1853, tuttavia, egli scrisse che in India il governo britannico stava realizzando una rivoluzione sociale necessaria: "Quali possano essere stati i crimini dell'Inghilterra", scrive, "essa e' stata inconsciamente lo strumento con cui la storia porta la rivoluzione in India". Piu' avanti, come sappiamo, Marx divenne piu' scettico circa gli effetti rivoluzionari del governo coloniale nelle societa' agrarie come l'India e arrivo' a ipotizzare che in Russia la comunita' contadina potesse raggiungere direttamente una forma socialista di vita collettiva senza attraversare la fase distruttiva della transizione capitalistica. Nonostante lo scetticismo e l'ironia, tuttavia, i marxisti del Novecento hanno solitamente salutato favorevolmente il declino delle forme di proprieta' precapitalistiche e la creazione di unita' politiche ampie e omogenee sul modello degli Stati-nazione. Laddove pareva realizzare il compito storico della transizione verso forme di produzione piu' moderne e sviluppate, il capitale riceveva l'attenta, benche' risentita e ambivalente, approvazione della teoria storica marxista. Quando si parla di uguaglianza, liberta', proprieta' e comunita' in relazione allo Stato moderno, si parla in realta' della storia politica del capitale. Dal mio punto di vista, il dibattito tra liberali e comunitari che ha dominato recentemente la filosofia politica anglo-americana ha confermato il ruolo cruciale che in questa storia politica i due concetti intermediari della proprieta' e della comunita' giocano nella determinazione dello spettro delle possibilita' istituzionali nell'ambito del contesto strutturato su liberta' e uguaglianza. I comunitari non potevano negare il valore della liberta' individuale, poiche' se avessero enfatizzato oltremisura le pretese dell'identita' comunitaria si sarebbero esposti all'accusa di negare il diritto fondamentale dell'individuo a scegliere, possedere, utilizzare e scambiare liberamente i beni. Dall'altra parte, nemmeno i liberali negavano che identificarsi con la comunita' potesse essere un'importante fonte di significato morale per le vite individuali. Per loro il punto era che mettendo in discussione il sistema liberale dei diritti e la politica liberale della neutralita' circa le questioni del bene comune, i comunitari aprivano le porte all'intolleranza delle maggioranze, alla riproduzione di pratiche conservatrici e a una pressione conformistica potenzialmente tirannica. Pochi di essi negavano il fatto empirico per cui la maggior parte degli individui, anche nelle democrazie liberali industriali avanzate, conduce la propria vita nell'ambito di una rete di legami sociali ereditata che puo' essere descritta come una comunita'. Era pero' presente la sensazione piuttosto netta che non tutte le comunita' avessero il medesimo valore nel quadro della vita politica moderna. In particolare, le forme di attaccamento che parevano enfatizzare cio' che era tramandato, particolare, primordiale o tradizionale venivano considerate dalla maggior parte dei teorici come portatrici di pratiche conservatrici e intolleranti, e quindi contrarie ai valori della cittadinanza moderna. La comunita' politica che sembrava raggiungere il massimo dell'approvazione era la nazione moderna, capace di garantire uguaglianza e liberta' al di la' di qualsivoglia differenza culturale o biologica. (Parte prima - segue) 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 559 del 26 agosto 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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