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Minime. 543
- Subject: Minime. 543
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 10 Aug 2008 01:12:07 +0200
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 543 del 10 agosto 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Fermare la guerra 2. Adriano Prosperi: Lo stato dei diritti in Italia 3. Raissa Maritain: Ma il progresso materiale 4. Enzo Bianchi presenta "La dodicesima notte" di Rowan Williams 5. Giancarlo Bosetti presenta "La forza dell'esempio" di Alessandro Ferrara 6. Luciano Canfora presenta "L'impero greco-romano" di Paul Veyne 7. Mario Andrea Rigoni presenta "Nietzsche e il cristianesimo" di Karl Jaspers 8. Benedetto Vecchi presenta "Il caos prossimo venturo" di Prem Shankar Jha e "La strana storia dell'assalto al parlamento indiano" di Arundhati Roy 9. La "Carta" del Movimento Nonviolento 10. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. FERMARE LA GUERRA Fermare la guerra, salvare le vite. E' la richiesta da fare subito dinanzi a quanto sta accadendo in Ossezia del Sud e in Georgia. Chiedere alle istituzioni internazionali, ed ai governi, un impegno per l'immediata interruzione delle ostilita', per l'immediato avvio di negoziati di pace, per l'immediato invio di aiuti umanitari alle popolazioni delle aree colpite dal conflitto. Fermare la guerra, salvare le vite. * E naturalmente questa richiesta vale non solo per quella guerra, ma per tutte le altre. Ed in primo luogo per la guerra terrorista e stragista in corso in Afghanistan, in cui il nostro paese e' direttamente coinvolto. Fermare la guerra, salvare le vite. * Solo la pace promuove i diritti umani. Nell'attuale distretta dell'umanita' deve cessare ogni conflitto armato, minaccia terribile all'umanita' intera. Nell'attuale distretta dell'umanita' e' necessaria una decisa smilitarizzazione, un deciso disarmo, una decisa gestione civile, nonarmata e nonviolenta delle controversie internazionali, una decisa gestione civile, nonarmata e nonviolenta di ogni conflitto. Nell'attuale distretta dell'umanita' e' necessario un deciso impegno di cooperazione e di solidarieta' internazionale che riconosca e affermi tutti i diritti umani per tutti gli esseri umani. Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'. 2. RIFLESSIONE. ADRIANO PROSPERI: LO STATO DEI DIRITTI IN ITALIA [Dal quotidiano "La Repubblica" del 9 agosto 2008 col titolo "Lo stato dei diritti in Italia". Adriano Prosperi, nato a Cerretto Guidi (Firenze) nel 1939, docente di storia moderna all'Universita' di Pisa, ha insegnato nelle Universita' di Bologna e della Calabria; collabora a riviste storiche tra le quali "Quaderni storici", "Critica storica", "Annali dell'Istituto italo-germanico in Trento" e "Studi storici"; si e' occupato nei suoi studi di Storia della Chiesa e della vita religiosa nell'eta' della Riforma e della Controriforma; negli ultimi anni ha rivolto un'attenzione particolare alle strategie di disciplinamento delle coscienze e di regolazione dei comportamenti collettivi, messe in atto dalle istituzioni ecclesiastiche nell'Italia post-tridentina. Tra le opere di Adriano Prosperi: Tra evangelismo e Controriforma: Gian Matteo Giberti (1495-1543), Roma 1969; (con Carlo Ginzburg), Giochi di pazienza, Torino 1975; Tribunali della coscienza: inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996; L'eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano 2000; Dalla Peste Nera alla guerra dei Trent'anni, Torino 2000; Il Concilio di Trento: una introduzione storica, Torino 2001; L'Inquisizione romana. Letture e ricerche, Roma 2003; Dare l'anima, Torino 2005] Qui si commenta una non notizia, un silenzio. Si dice: cane che morde uomo non fa notizia. E' la massima fondamentale del mondo dell'informazione: quel che e' abituale, ripetitivo, fissato nelle regole della natura e non vietato dalla legge non fa notizia. Applichiamo la regola a un fatto dei nostri giorni. Un fatto a tutti gli effetti grave - una tentata strage - che pero' non ha fatto notizia. Ecco il fatto: nella tarda serata di lunedi' 29 luglio anonimi attentatori a bordo di un "quad" hanno lanciato una bottiglia molotov contro roulottes in sosta nell'area industriale di un piccolo centro toscano. L'atto criminale e' rimasto solo potenzialmente assassino perche' la molotov non e' scoppiata. Un caso fortunato, che non riduce la responsabilita' di chi ha tentato di uccidere. Eppure la notizia, emersa per un attimo nella cronaca (ad esempio, su "Repubblica" del 30 luglio, cronaca di Firenze, p. 7), e' affondata immediatamente nel silenzio. Chi scrive queste righe ha tentato di capire meglio i fatti e soprattutto i silenzi attraverso un contatto diretto con gli abitanti di un luogo che gli e' per ragioni biografiche specialmente familiare. Ma si e' dovuto arrendere davanti a gente distratta, disinformata, simpatizzante piu' o meno apertamente per gli attentatori. Molti affettavano di non sapere, pochi ammettevano che si era trattato di cosa spiacevole, ma minimizzando: una ragazzata, un gesto innocuo, che aveva fatto pochi danni (appena una carrozzeria ammaccata). Il resto, il pericolo corso da una famiglia, lo spavento di bambini e adulti, la loro rapida decisione di fuggire dal luogo dell'aggressione, non sembrava suscitare nessuna partecipazione. Bilancio: solidarieta' evidente con gli autori dell'attentato, ostilita' verso chi ne era stato minacciato. Quasi un clima mafioso. Ma a differenza dei casi di mafia, in questo caso omerta' e silenzio locali hanno avuto un riscontro nazionale. Il silenzio e' rapidamente calato sul caso. E le indagini ufficiali, che di norma qualcuno deve pur svolgere, non avranno vita facile. L'enigma ha una soluzione facilissima. Nel luogo dell'attentato era in sosta per la notte una carovana di automobili e roulottes di nomadi sinti. Solo per caso non ci sono stati dei morti: nelle roulottes c'erano dei bambini. E ancora una volta, come accadde anni fa al criminale che, non lontano da quel piccolo centro toscano, pose in mano a una piccola mendicante zingara una bambola carica di esplosivo, i potenziali assassini sono stati coperti dalla solidarieta' collettiva. Chi conosce la banalita' del male, la quotidiana serpeggiante avanzata della barbarie che precede e sostiene le modificazioni profonde dei rapporti sociali, tenga d'occhio l'episodio. O meglio: annoti il silenzio che ha inghiottito quella che solo per caso e' stata una mancata tragedia. Ne e' stata teatro una regione - la Toscana - che e' d'obbligo definire "civile". Non si sa bene perche'. "Civile" appartiene all'esercizio dei diritti e dei doveri di cittadinanza. Da quando la specie umana ha riconosciuto in documenti solenni che non deve esistere nessuna differenza di dignita' e di diritti tra i suoi membri, la civilta' si definisce dall'assenza di razzismi e dalla lotta contro le discriminazioni di ogni genere. E la cultura che si studia e si insegna ha la sua misura fondamentale nell'educare ai valori della cittadinanza attiva. Certo, la Toscana ha un patrimonio grande di cultura. La sua economia ne vive: cultura di terre incise dal lavoro come da un sapiente bulino, disegnate nelle opere di una grandissima tradizione pittorica. Bellezze naturali e bellezze d'arte vi sono inestricabilmente legate. Anche patiscono insieme le minacce del mercato. Per esporre meglio la merce si affaccia periodicamente nelle opinioni locali la proposta di eliminare dalla vista dei clienti le presenze sgradevoli: i "vu cumpra'", i mendicanti, gli storpi e naturalmente gli zingari. "Corruptio optimi pessima", diceva la massima antica: la caduta e' tanto piu' pericolosa quanto piu' dall'alto si precipita. Gli abitanti della regione che vanta tra i suoi titoli di nobilta' la prima abolizione legale della pena di morte oggi ospitano e nascondono un virus antico e pericoloso. Non sono i soli. E non bastera' il voto di condotta restaurato nelle scuole a educare i futuri cittadini se chi getta una bottiglia molotov contro gli zingari viene impunemente vissuto dalla collettivita' come "uno di noi": noi in lotta contro loro - i diversi, i senza diritti. Un'ultima osservazione: l'ostilita' nei confronti dei nomadi, degli zingari, e' antica e diffusa, in Toscana come in tutta Italia. Ma nessuno aveva mai pensato di ricorrere alle molotov contro di loro. E' un salto di qualita' senza precedenti, il gradino piu' alto toccato da aggressioni e tentativi di linciaggio che non fanno nemmeno piu' notizia. E una cosa e' evidente: non ci saremmo mai arrivati senza la campagna di diffamazione e di criminalizzazione condotta da partiti politici di governo e senza la recente legittimazione giuridica della discriminazione nei confronti delle presenze "aliene" - zingari, immigrati clandestini, esclusi dalla comunita' ("extracomunitari"). Il cattivo esempio viene da chi ha la responsabilita' di governare gli umori collettivi e non sa rinunziare a eccitarli. Se quella molotov fosse esplosa, oggi saremmo qui a contare le prime vittime di una campagna irresponsabile alimentata dall'alto. Chi favoleggia di proteste in difesa dei diritti di liberta' in Cina cominci a prendere sul serio quel che si dice nel mondo sulla situazione dei diritti umani in Italia. 3. MAESTRE. RAISSA MARITAIN: MA IL PROGRESSO MATERIALE [Da Raissa Maritain, Diario di Raissa (a cura di Jacques Maritain), Morcelliana, Brescia 1966, 2000, p. 96. Raissa Maritain, nata Raissa Oumancoff a Rostov sul Don, il 31 agosto 1883; nel 1893 la famiglia si trasferisce a Parigi per sfuggire alle persecuzioni antiebraiche; pensatrice, poetessa, mistica, e' stata la compagna e collaboratrice di Jacques Maritain; e' deceduta a Parigi il 4 novembre 1960. Opere di Raissa Maritain: tutti gli scritti di Raissa Maritain nella edizione definitiva in lingua originale si trovano nei volumi XIV e XV di Jacques e Raissa Maritain, Oeuvres Completes, Editions Universitaires, Fribourg - Editions Saint Paul, Paris, 1993-1995. Opere su Raissa Maritain: E. Bortone, Raissa Maritain, Libreria editrice salesiana, Roma 1972; M. A. La Barbera, Silenzio e parola in Raissa Maritain, Omnia editrice, Palermo 1980; J. Suther, Raissa Maritain, pilgrim, poet, exile, Fordham University Press, New York 1990; M. Zito, Gli anni di Meudon, Istituto Orientale di Napoli, Napoli 1990; AA. VV., Simone Weil e Raissa Maritain, L'Antologia, Napoli 1993; L. Grosso Garcia, El amor mas aca' del alma, Ediciones Ensayo, Caracas 1997] Incivilire e' spiritualizzare. Il progresso puramente materiale puo' contribuirvi, se i promotori di questo progresso si propongono di alleggerire l'umanita' del pesante fardello delle necessita' materiali, e di procurarle il tempo necessario alla vita spirituale. Ma il progresso materiale che serve solo a soddisfare la crescente cupidigia, tutte le concupiscenze della carne, e la volonta' di potenza, e' un ritorno alla barbarie, cioe' all'animalita', alla materia, al caos. 4. LIBRI. ENZO BIANCHI PRESENTA "LA DODICESIMA NOTTE" DI ROWAN WILLIAMS [Dal supplemento "Tuttolibri" del quotidiano "La stampa" del 19 luglio 2008 con il titolo "Quando le pietre sono cibo"] Vi e' chi pensa che pubblicare testi di poesia sia opera magari meritoria ma destinata a infrangersi contro la spietata legge del mercato; se poi si tratta di poesia religiosa, il coraggioso editore viene guardato con commiserazione piu' ancora che con stupore. Eppure c'e' ancora chi tenta questi meritevoli azzardi e osa perfino avviare una collana di poesia religiosa. E' quanto ha fatto l'editrice Ancora con "L'oblo'", collana di testi poetici che spaziano da Federico Borromeo a Emily Dickinson a Rilke e propongono il testo originale a fronte di una pregevole traduzione italiana. Uno degli ultimi titoli apparsi sfata anche un altro pregiudizio che affligge la poesia: non pochi pensano che i poeti siano sognatori staccati dalla realta' che parlano a lettori che dalla realta' vogliono evadere. Ebbene, basta leggere la raccolta La dodicesima notte (Ancora, pp. 160, 13 euro) efficacemente tradotta da Andrew Rutt ed Elena Ruia Rutt per rendersi conto dell'esatto contrario: la poesia puo' essere cosi' impregnata della realta' da riuscire a sondare le profondita' che la animano, da posare uno sguardo altro e penetrante sul quotidiano fino a riconsegnargli il senso smarrito. L'autore e' Rowan Williams, l'arcivescovo di Canterbury che in queste settimane si trova a fronteggiare rischi di scismi all'interno sia della Comunione anglicana che della Chiesa di Inghilterra di cui e' primate: un uomo da anni in mezzo alla lacerante tensione tra settori contrapposti della sua chiesa, capace anche di assumere posizioni scomode e controcorrente nel tratteggiare scenari futuri di convivenza civile e religiosa in una societa' multietnica, eppure uno scrittore che nei suoi versi non solo lascia trasparire la profondita' della sua spiritualita', ma offre anche cibo sostanzioso per chi desidera alimentare la propria interiorita'. Sono versi non facili, "parole come sassi" secondo la pertinente definizione offerta da Antonio Spadaro nella premessa al volume di Williams, eppure li sentiamo come pietre vive e preziose rese tali dalla vita che pulsa in esse e che in esse trova eco e ispirazione. "Dove sono mai i bei tempi nei quali i grandi teologi erano anche poeti e componevano inni?" si chiedeva Karl Rahner, citato da Spadaro. Se siamo attenti, qualche squarcio di quei "bei tempi" ci e' dato di coglierlo anche nella nostra stagione ecclesiale e civile: anche oggi c'e' chi sa usare le parole come pietre, non per colpire pero', ma per edificare e abbellire l'esistenza di molti. 5. LIBRI. GIANCARLO BOSETTI PRESENTA "LA FORZA DELL'ESEMPIO" DI ALESSANDRO FERRARA [Dal quotidiano "La Repubblica" del 2 agosto 2008 col titolo "Immanuel Kant. La terza via. E' nell'arte" e il sommario "Un libro di Alessandro Ferrara rilegge la Critica del giudizio. Proponendo una soluzione fra fondamentalismo e relativismo. In mancanza di un fondamento, chi ci impedisce di diventare una societa' di pazzi? Sviluppare quella sapienza che consiste nel venire a patti con la pratica"] Ritorna il Kant della terza critica, quella del giudizio. Un libro di Alessandro Ferrara, che appare in questi giorni in italiano a poche settimane dalla pubblicazione in versione inglese, presso la Columbia University Press - La forza dell'esempio, Feltrinelli (pp. 262, euro 22) - tenta una via di uscita originale dall'impasse filosofica del nostro tempo, quella che blocca un po' tutte le scuole al bivio tra fondazionismo e relativismo, tra metafisica e nichilismo, tra universalismo e pluralismo. E come si immagina dal sottotitolo, Il paradigma del giudizio, questa via di uscita si ispira a una ardita lettura della terza delle tre celebri critiche, quella che segue alla Critica della ragione pura (che contiene la dottrina trascendentale della conoscenza) e alla Critica della ragione pratica (che contiene la dottrina morale). La Critica del Giudizio si presenta come un trattato di estetica, nel senso tradizionale di teoria dell'arte, anche se gia' nel suo autore essa aveva l'ambizione di riconciliare l'ambito della natura e della fisica con quello della liberta' umana, introducendo nell'indagine sul bello e il sublime, il paradigma dell'"esempio" e il principio di finalita'; ma qui Ferrara ne propone una lettura e uso assai piu' estesi. Non e' una novita' che il grande filosofo tedesco sia accreditato di una sorta di "terza via", la novita' e' che Ferrara ne cerchi la chiave piu' preziosa non nella epistemologia e non nell'etica, ma nelle pagine sul "giudizio riflettente", il giudizio estetico. Il confronto filosofico internazionale e interculturale e' esposto nei nostri tempi in misura crescente alla frantumazione "provinciale": ogni contesto la sua teoria, ogni contrada le sue categorie e i suoi principi. Le sirene postmoderniste alzano il loro canto: decostruzionismo, ermeneutica, culturalismo, trionfo della differenza e con essa - ammoniscono, e non per caso, i due ultimi pontefici romani - del relativismo. Si capisce che il mercato delle idee sia favorevole per l'offerta di chi presume di disporre ancora - in regime di quasi monopolio - di una Verita' di fede e di un Logos accreditato di portata generale. Tra i filosofi, che non hanno in dote simili certezze, la svolta antimetafisica - detta anche "linguistica" -- che ha sepolto, ad opera di Wittgenstein e seguaci, i fondamenti di ogni possibile "pensiero forte" - crea condizioni di gioco molto piu' difficili. Se non si puo' disporre di alcun fondamento su cui appoggiare le nostre idee al di fuori degli scambi di discorsi che possiamo farci l'un l'altro, se tutto quello che possiamo fare e' dire frasi dentro contesti determinati, locali e datati, se non abbiamo chiodi cui appendere qualche dover essere, che cosa ci puo' garantire che non finiremo per arrenderci alle piu' stravaganti e arbitrarie abitudini di una qualsiasi comunita' di pazzi, come nei film di Night Shyamalan (The village o Sesto senso) dove non si capisce piu' chi e' il fantasma e chi e' "reale"? Quale pensiero ci garantisce che i decantati - e a tutti gli effetti meritevoli di esserlo! - principi generali dei diritti umani, della liberta', della democrazia, delle garanzie costituzionali siano qualcosa di piu' che discutibili usanze locali? Che risposta filosofica e' in grado di dare la filosofia politica alla osservazione di chi li descrive come un "pacchetto illuministico" di origine locale, inventato tra Parigi e Londra e perfezionato a Philadelphia, ma non utilizzabile a Pechino, a Mosca, nel Darfur o a Ryad? Chi lo stabilisce che in assoluto e' sbagliato costringere una donna a portare il burqa? O infliggere a un ladro la condanna del taglio della mano? Quale genere di suprema Ragione puo' decretare in questi casi? La risposta di Ferrara consiste nella "forza dell'esempio", che funziona come il "giudizio riflettente" della terza critica: a differenza del "giudizio determinante" esso si aggira tra particolare e particolare, passa da caso a caso, perche' il bello non si impone con la forza di una legge della fisica o di un imperativo morale, ma non e' neppure inafferrabile. La critica d'arte non consiste in una serie di teoremi, ma nella capacita' di discorrere di tante singole situazioni, e sa individuare qualche spiegazione di quel che e' "piacevole" o non lo e'. Essa esige la maturazione di quel genere di sapienza che Aristotele chiamava phronesis e che consiste nella capacita' di venire a patti con la pratica. Il giudizio - avvertiva Hannah Arendt, un'altra fonte che ha guidato Ferrara nell'aprirsi la strada verso la sua filosofia del giudizio e dell¥esempio - non si basa soltanto sulla coerenza rispetto a un principio, ma richiede anche capacita' di distinguere, immaginazione, distacco, simpatia, imparzialita' e integrita' ed e' la "piu' politica" delle attitudini umane. Se sosteniamo, "per esempio", la causa della parita' di genere, della uguale dignita' e degli uguali diritti tra uomini e donne, non sara' la forza geometrica del principio a trionfare in forza di una sua superiorita' logica o morale. Se mai questo principio si affermera' tra i clan somali o nei villaggi indiani e pakistani, imponendo la fine dei matrimoni imposti, o se mai scomparira' la potesta' del marito sulla moglie nei paesi arabi dove sopravvive, questo avverra' grazie alla affermazione, nei conflitti politici e nelle infinite battaglie che saranno necessarie, degli esempi piu' convincenti. E' piu' verosimile, oltre che auspicabile, che la potesta' del marito sulla moglie scompaia nei paesi del Magreb piuttosto che non ritorni nelle costituzioni europee. Il che non dipende da un principio celeste, provvidenziale, essenziale o basato su categorie innate dell'intelletto. Sembra basarsi su un sensus communis che attraversa culture, epoche e linguaggi diversi, proprio come il giudizio estetico secondo Kant. In verita' gli allievi della scuola filosofica italiana che hanno faticato sulle pagine di Luigi Scaravelli e Emilio Garroni (anche se Ferrara non li menziona) avevano gia' imparato qualche decennio fa che la Critica del giudizio si muove verso una idea assai attuale della conoscenza, verso leggi empiriche, secondo un principio dell'unita' del molteplice. Il Kant della terza critica, tra contraddizioni e ripensamenti (e propenso a fertili divagazioni) cercava un tertium che gli consentisse di trovare le basi per una composizione mite e accorta di quel problema che oggi noi chiamiamo "della differenza" di tempo e cultura. E lo trovava nella "forza dell'esempio". Che Ferrara isola molto bene e cerca di coniugare aderendo ai problemi posti dalle tensioni del mondo di oggi e dalle relazioni tra le culture. Lo fa in sintonia con uno spostamento generale della filosofia contemporanea: dalle ambizioni di una validita' generale extrastorica verso un mondo che e' sempre storico, condizionato, datato, attraversato da diversita'. Se Gadamer ha insegnato a tutti che la nostra comprensione e valutazione degli eventi si costruisce a partire dai pregiudizi, Rawls ha corretto la dimensione astratta della sua iniziale teoria della giustizia per avvicinarla al vissuto delle tradizioni culturali, Bernard Williams ha posto la filosofia morale, inevitabilmente incompleta, a contatto con le concrete vicende della politica, Davidson e Hilary Putnam hanno formulato una dottrina del realismo "dal volto umano", capace di resistere alle obiezioni antimetafisiche, piu' mite, parziale e condizionata. Tutto inutile? Sembra di sentire sullo sfondo la risata di Richard Rorty, il grande neopragmatista americano scomparso due anni fa: tempo perso cercare ragioni per i problemi del mondo con la filosofia, c'e' una unica indiscutibile priorita', quella della democrazia sulla filosofia. Prendiamone atto, punto e basta. Alla filosofia dobbiamo rinunciare e chiudere bottega. Cosa che Rorty fece. Ma possiamo noi seguirlo in questa fine di esercizio? Il tentativo di Ferrara parla per coloro che vogliono continuare onestamente a provarci. 6. LIBRI. LUCIANO CANFORA PRESENTA "L'IMPERO GRECO-ROMANO" DI PAUL VEYNE [Dal "Corriere della sera" del 5 novembre 2007 col titolo "L'Impero bilingue" e il sommario "Un saggio di Paul Veyne sull'influenza fra i due mondi. Il ruolo dei filosofi e quello dei politici. Cosi' Roma eredito' la cultura politica della Grecia e diede vita all'originale 'assolutismo repubblicano'"] Uno straordinario frammento di papiro trovato oltre dieci anni fa a Tebtunis da uno studioso della Statale di Milano, Aristide Malnati, ma incredibilmente tuttora inedito, contiene un brano trattatistico di filosofia stoica corredato di note a margine. E' con molta probabilita' un esercizio scolastico, o comunque un testo destinato alla scuola. Non a caso fu trovato nell'area dell'antico ginnasio. Il testo principale parla degli elementi indifferenti (termine tipico del lessico stoico) che non hanno rilievo morale ma rilevanza pratica (ad esempio la ricchezza). Una nota marginale porta l'esempio di Socrate, il quale non avrebbe patito neanche della estrema poverta' appunto perche' insensibile all'alterno andamento degli "indifferenti". Documenti del genere testimoniano in modo diretto la realta' cui appartennero. In particolare questo spezzone di papiro, per quel che dice e per il luogo dove fu rinvenuto, testimonia un fatto notevole: la penetrazione addirittura nella realta' e quotidianita' scolastica, dell'insegnamento degli stoici e dei loro "paradossi". Ma era cosi' paradossale il loro pensiero? Paul Veyne, in un libro importante, diffuso in Francia (editore Seuil) al principio dell'anno passato e ora tradotto per Rizzoli (L'impero greco-romano) non solo mette al centro della forma mentis dei ceti colti del mondo greco- romano, tra Augusto e Marco Aurelio, l'insegnamento stoico, ma soprattutto restituisce allo stoicismo la sua grande forza di attrazione: in quanto pensiero rivolto anch'esso (lo si dimentica spesso) alla ricerca della felicita'. La grande promessa della dottrina stoica, infatti, e' che l'uomo sottraendosi al predominio dei fattori "indifferenti" raggiungera' la felicita' e sara' ormai inattingibile dai dolori, e dunque sara' "un dio mortale". Non sfuggira' quanto, con buona pace di Plutarco e di altri polemisti, questa impostazione sia vicina a quella epicurea, che ugualmente spingendo a non desiderare il superfluo e vagheggiando una forma di piacere che in realta' e' assenza di dolore ugualmente approda a una felicita' fondata sulla rinuncia al superfluo nonche' alla promessa "sarai simile a un dio". Veyne osserva - e questo potrebbe essere quasi un bilancio del suo grande affresco - che solo con la scoperta agostiniana della volonta' in parte almeno impotente e della interiorita' lacerata che e' in ciascun soggetto, comincio' a declinare l'intellettualismo etico. Esso era stato caratteristico di tutte le scuole di pensiero postaristoteliche, cosi' diffuse nel ceto dirigente dell'"impero bilingue", ma era gia' del socratismo che in effetti fu la remota matrice di quelle scuole. "Impero bilingue" e' definizione appropriata di quella straordinaria fusione tra culture che e' stato il segno dominante dell'impero romano. Un unico strato dirigente capace di padroneggiare perfettamente le due culture: "da Augusto in poi - scrisse efficacemente Wilamowitz (1921) - la letteratura mondiale e' bilingue". Si esprime cioe' indifferentemente nelle due lingue divenute dominanti, il greco e il latino. Ma, nel quadro di tale condominio la posizione dei Greci, i quali con Alessandro avevano imposto il greco in un'area vastissima, era ormai, al tempo stesso, politicamente subalterna e culturalmente egemone. I Greci - scrisse Simone Weil nel 1940 - erano "costretti, nella sventura, ad adulare i padroni". E Plutarco prudenzialmente suggeriva ai Greci di non dimenticare mai "gli stivali dei Romani" incombenti sulle loro spalle. Ai Romani, i Greci fornivano anche i modelli politico-costituzionali e la relativa riflessione teorica. Era un terreno ricco di contraddizioni, se solo si pensa alla compresenza - nella realta' del mondo greco ed ellenistico - del modello "repubblicano" della polis, retta da organismi di carattere collettivo anche se non necessariamente democratici, e del modello monarchico diffuso dalla Macedonia nel vasto mondo grecizzato da Alessandro. I teorici si incaricavano di distinguere tra monarca e tiranno, mentre per definire il potere di Pericle un grande storico ateniese aveva coniato la nozione di princeps. Anche negli esordi di Roma, regnum era diventato, e tale resto' stabilmente, un disvalore, anzi il disvalore assoluto. Per questo e' grossolano errore, ma pervicace, considerare monarchico il tipo di potere che si affermo' al vertice dell'impero a partire da Augusto. Da questo punto di vista, che e' decisivo per capire la storia romana, il libro di Paul Veyne ha un effetto riparatore di tanti fraintendimenti storiografici a base emotiva. Il fulcro e' nel capitolo iniziale "Che cos'era un imperatore romano?". "L'imperatore romano - scrive Veyne giusto in apertura - esercitava una professione ad alto rischio: il trono non gli apparteneva di diritto, ma ne era mandatario per conto della collettivita', che lo aveva incaricato di guidare la repubblica (...). Tale delega da parte della comunita' non era che una fictio, una ideologia, ma proprio l'esistenza di tale fictio era sufficiente ad impedire al mandatario di avere la legittimita' di un re". E cita il gran libro di Beranger sull'aspetto ideologico del principato (1953), secondo cui l'impero si autorappresentava come "una successione di grandi patrioti che si fanno carico degli affari pubblici", personalita' che hanno ereditato o anche conquistato a viva forza "il diritto di proteggere i loro concittadini e l'impero". Percio' - osserva Veyne - "durante l'impero non si smettera' mai di pronunciare la parola repubblica e non in nome di una finzione ipocrita (...). Il regime imperiale manteneva la sua facciata repubblicana in nome di un compromesso". Un compromesso che ha in Augusto il suo geniale creatore. Certo, commenta Veyne, "un compromesso zoppo, che sarebbe stato motivo di conflitto perpetuo, perche' era una contraddizione che il principe fosse, al tempo stesso, onnipotente e investito da altri del proprio potere". Simbolo di questa straordinaria capacita' romana di intrecciare sistemi e modelli ereditati dalla cultura politica greca, sono per l'appunto le Res Gestae di Augusto, il piu' celebre testo greco-latino (bilingue!) di tutta l'antichita', di cui John Scheid ha appena pubblicato nella Collection Bude' una splendida edizione commentata. Un testo che Augusto fa leggere, post mortem, davanti al Senato, dal suo figlio adottivo ed erede designato, nel quale - al tempo stesso - minacciosamente rivendica la propria carriera eversiva e tuttavia orgogliosamente si ascrive il merito, riconosciutogli anche dagli avversari, di avere "restaurato la repubblica". 7. LIBRI. MARIO ANDREA RIGONI PRESENTA "NIETZSCHE E IL CRISTIANESIMO" DI KARL JASPERS [Dal "Corriere della sera" del 25 giugno 2008 col titolo "Karl Jaspers in viaggio fino al termine della notte di Nietzsche" e il sommario "Profili. Non solo nichilista e anticristiano: un'analisi del pensatore tedesco oltre i luoghi comuni"] In termini superficiali e generici l'anticristianesimo e' uno degli aspetti piu' ovvi e piu' noti del pensiero di Nietzsche; non lo sono affatto, in compenso, la ricchezza profonda e la contraddittorieta' enigmatica che caratterizzano questa posizione, indagata da Karl Jaspers in un saggio di grande e saggia misura, che fu pubblicato nel 1947 ma risale ad una conferenza tenuta ad Hannover nel 1938 (Nietzsche e il Cristianesimo, ed. Marinotti, traduzione e prefazione a cura di Giuseppe Dolei). Innanzitutto Nietzsche distingue e stacca nettamente la figura di Gesu' non solo dall'organizzazione della Chiesa ma anche dal fenomeno del cristianesimo quale si e' sviluppato nei secoli e persino dalla predicazione degli apostoli e dalla prima comunita' cristiana: il cristianesimo e' travisamento e corruzione fin dall'origine. Mentre Cristo rappresento' e visse un inerme ideale di beatitudine, non molto diverso da quello del Buddha, il cristianesimo, animato da uno spirito di risentimento e di rivalsa per la perdita del maestro, sostituisce all'eternita' la storia, trasformando cio' che era una condotta di vita fondata sulla negazione della realta' terrena in fede, dottrina, dogma, rito, militanza. "In fondo c'e' stato un solo cristiano ed e' morto sulla croce", scrive Nietzsche nell'Anticristo. Il cristianesimo, che ha distrutto la grande civilta' greca e, in particolare, la tragica verita' della vita dell'epoca presocratica, introduce un sistema di finzioni (il Dio personale, la Trinita', l'immortalita', il peccato, la grazia, il giudizio universale, la redenzione) che, una volta smascherate, come non poteva non accadere, conducono al vuoto, al caos, al nulla. Nietzsche vede proprio nel cristianesimo la causa della morte di Dio e la sorgente del nichilismo moderno, laddove il mondo pagano poteva contare su una natura conclusa, autonoma e immutabile. Non credo sia mai stato notato che un'osservazione analoga era gia' stata fatta da Leopardi quando nello Zibaldone di pensieri illustrava il paradosso che la religione giudaica e la religione cristiana, in quanto propagatrici della riflessione e della metafisica, sono la fonte principale dell'ateismo e dell'incredulita' religiosa. In secondo luogo la virulenta polemica anticristiana di Nietzsche si nutre, secondo Jaspers, di concetti e di impulsi che sono cristiani, come la visione totale della storia universale, l'idea della radicale imperfezione umana, la volonta' di verita' e di autenticita', l'assolutezza morale: solo che essi vengono per l'appunto svuotati del loro contenuto cristiano. Infine la lotta di Nietzsche non implicherebbe tanto l'abbandono quanto il superamento del cristianesimo, cosi' come del nichilismo, attraverso una nuova filosofia, "e precisamente con le forze che il cristianesimo, e solo esso, ha sviluppato nel mondo". E' chiaro che la speculazione di Nietzsche si muove su un terreno vertiginosamente problematico e ambiguo. Il culmine e' raggiunto in alcune sconvolgenti affermazioni, giustamente messe in evidenza da Jaspers, nelle quali Dio viene definito come "l'al di la' del bene e del male" e Gesu' viene addirittura chiamato in soccorso dell'amoralismo ("Disse Gesu': che cosa importa della morale a noi figli di Dio?"). Certamente la morte in croce di Cristo e' per Nietzsche un insulto alla vita, che egli respinge con orrore, contrapponendole la morte rigeneratrice e tripudiante di Dioniso, simbolo della paganit". Tuttavia, non e' forse senza significato che nei "biglietti della follia" Nietzsche si firmi non solo come Dioniso, ma anche come il Crocifisso. Il merito del saggio di Jaspers, esente da ogni pregiudizio polemico, consiste in una comprensione del pensiero di Nietzsche che nasce dalla consapevolezza della sua inclassificabilita': "Questo pensatore abbandona qualsiasi dimora, ha il coraggio di sfidare un deserto sconfinato, si espone a qualsiasi solitudine indifesa. (...) Egli non arriva alla pace di una verita', ne' alla distensione conseguente al raggiungimento di una meta. In giovinezza e' stato un wagneriano, poi diventa un nichilista disgregatore, e quindi un solenne profeta. E tuttavia anche questo egli ripudia e vuole andare oltre. Ma dove? Cio' e' destinato a restare per sempre un mistero". Si tratti di cristianesimo o di altro, l'opera di Nietzsche pullula incessantemente di contraddizioni e ambivalenze: ma nessuna e' gratuita, insignificante, indifferente ai nostri dilemmi e alle nostre piaghe. Poiche' Nietzsche ha anche deriso in anticipo i suoi importuni ammiratori, appare quanto mai saggia la riflessione con cui Jaspers conclude il suo scritto, che e' anche una sorta di nobile metodologia o pedagogia della lettura: "Vero e' soltanto cio' che per mezzo di Nietzsche nasce da noi stessi". 8. LIBRI. BENEDETTO VECCHI PRESENTA "IL CAOS PROSSIMO VENTURO" DI PREM SHANKAR JHA E "LA STRANA STORIA DELL'ASSALTO AL PARLAMENTO INDIANO" DI ARUNDHATI ROY [Dal quotidiano "Il manifesto" del 2 dicembre 2007, col titolo "Il presente senza storia di un mondo in movimento"] Un paese, l'India, avvolto tuttora nel velo posticcio dell'esotismo. Anche quando ne vengono esaltati i risultati economici, conseguenza, viene detto, di una mistica tensione spirituale, di una genetica etica del sacrificio e del lavoro e di una irrefrenabile desiderio di riscatto sociale. Luoghi comuni che si accumulano come macigni e che non aiutano certo a comprendere cio' che accade in quel paese. Due recenti libri presentano invece un'immagine dell'India dominata da forti contrasti sociali e conflitti durissimi. Il primo e' dell'economista e giornalista Prem Shankar Jha (Il caos prossimo venturo, Neri Pozza), l'altro della scrittrice Arundhati Roy (La strana storia dell'assalto al parlamento indiano, Guanda, pp. 172, euro 11). E se per l'economista l'India e' un enorme laboratorio dove le multinazionali stanno imprimendo un significativo cambio di direzione al neoliberismo, per salvarlo dopo la sua debacle, come testimonia l'invasione dell'Iraq, per Arundhati Roy l'India e' il paese dove la posta in gioco su quale modello di globalizzazione perseguire e' stata piu' alta. * L'altro mondo possibile Il libro e' una cronaca appassionata e appassionante del loro sviluppo tumultuoso, delle loro vittorie e delle loro sconfitte. Una cronaca che ha il pregio di presentare le contraddizioni, i nodi irrisolti, le difficolta' dei movimenti sociali indiani come le contraddizioni, difficolta' e poste in gioco di tutti i movimenti di questo inizio di millennio. Il volume prende le mosse dal 2001. L'autrice e' consapevole che quell'anno e' stato uno spartiacque nella storia mondiale. Non solo per l'attacco alle Torri Gemelle, ma per il cambiamento di strategie dei governi nazionali nei confronti dei movimenti sociali. Arundhati Roy riprende temi gia' precedentemente analizzati nei volumi che seguono quel Dio delle piccole cose (Guanda) che l'ha resa famosa nel mondo. In primo luogo, la possibilita' di qualificare l'ordine mondiale come un impero. Poi, le difficolta' dei movimenti sociali di "vincere", nonostante la crescita di consenso si sia tradotta in capacita' politica di modificare i rapporti di forza nelle singole societa'. Infine, la guerra sporca condotta dai governi nazionali contro i movimenti di protesta in nome della battaglia contro il terrorismo. Dunque scrivere dell'India per parlare a quella moltitudine di uomini e donne che ha avuto nei Forum sociali di Porto Alegre, Mumbai e Nairobi il suo punto di incontro. E se in India il fondamentalismo politico indu' e' xenofobo e neoliberista, il populismo italiano non e' certo da meno. Arundhati Roy saluta con gioia la sconfitta elettorale dei fondamentalisti, ma non risparmia critiche feroci al Partito del Congresso e passato un anno dal cambio del governo scrive che le cose sono rimaste le stesse, eccetto per il ridimensionamento del programma di armamento nucleare. Meglio di niente, annota, ma subito dopo afferma a ragione che esistono due varianti del neoliberismo: quella che indulge al fascismo e quella compassionevole che propone politiche sociali per mitigare i suoi eccessi. Entrambe, pero', vedono nei movimenti sociali un nemico contro il quale usare tutti i mezzi. Il libro e' aperto da un saggio in cui la scrittrice indiana descrive il rapporto tra i media mainstream e la formazione dell'opinione pubblica. Per Arundhati Roy, la carta stampata, i network televisivi e radiofonici sono una delle tante armi puntate contro i movimenti. Non tanto perche' "manipolano le menti", quanto per la loro tendenza a trattare i movimenti sociali come uno spettacolo da metter in scena per conquistare auditel e inserzionisti pubblicitari. Da qui l'invito ai movimenti sociali non solo a costruirsi i propri media, ma a "inventare" un altro modo di fare informazione che sfugga alle leggi dell'infotainment. Temi che ricorrono con forza anche nei movimenti sociali di tutto il mondo. Cresciuti dopo la rivolta di Seattle hanno raggiunto il massimo di consenso con la manifestazione contro i piani di guerra dell'amministrazione statunitense per deporre l'ex-alleato Saddam Hussein. Il "New York Times" scrisse di seconda superpotenza. Eppure la guerra e' iniziata e non ci sono segnali della sua fine. Il movimento non e' riuscito a fermarla, annota Arundhati Roy, perche' non e' riuscito a inceppare quel circolo vizioso tra guerra e neoliberismo. Accettando, si potrebbe aggiungere, di essere relegato al ruolo innocuo di un'opinione pubblica che critica l'operato del sovrano, abdicando cosi' alla natura politica dei movimenti sociali. Lo stesso e' accaduto per quanto riguardo le politiche interne dei singoli paesi. Certo, l'obiezione e' che non sempre e' andata cosi', citando il caso dell'America Latina. Eppure l'elezione di presidenti e governi amici non ha certo coinciso con quel progetto di cambiamento radicale che ha consentito la loro vittoria elettorale. * Una diaspora senza esodo Arundhati Roy non ha paura di parlare di sconfitta, ma neppure di denunciare le scorciatoie, anzi i vicoli ciechi di chi ha confidato in qualche partito o governo amico. Rispetto al neoliberismo ogni politica di riduzione del danno considera i movimenti sociali una presenza incomoda. Rilanciare quindi le strategie di disobbedienza, scrive Arundhati Roy. Per riaffermare la propria autonomia dal sistema politico, si potrebbe aggiungere. In questo volume fa infine capolino nelle pagine un aspetto poco indagato degli attuali movimenti sociali. Non la loro natura carsica, quanto il fatto che la sconfitta che talvolta hanno conosciuto non si e' tradotta in una loro cancellazione, quanto in una diaspora che ha tuttavia alimentato conflitti locali che, di volta in volta, hanno assunto significati simbolici globali. Dunque sconfitte senza disfatte. Il problema e' trasformare la diaspora in esodo, che come suggeriva il filosofo tedesco Ernst Bloch e' anche sinonimo di rivoluzione. 9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 10. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 543 del 10 agosto 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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