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Minime. 535
- Subject: Minime. 535
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 2 Aug 2008 00:52:37 +0200
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 535 del 2 agosto 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Terrorista e stragista la guerra 2. Angelo Miotto: Uccidere o no 3. Edoardo Crainz: La guerra sporca, la guerra segreta, la guerra che non si puo' vincere. In Afghanistan 4. Tommaso Di Francesco: La sindrome afghana 5. Osvaldo Caffianchi: Eis eauton 6. Oggi 7. Emily Dickinson: Che noi siamo immortali 8. Nelly Sachs: Vecchi 9. Edizioni Qualevita: Disponibile il diario scolastico 2008-2009 "A scuola di pace" 10. La "Carta" del Movimento Nonviolento 11. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. TERRORISTA E STRAGISTA LA GUERRA Enuncio tre semplici verita'. In Afghanistan e' in corso una guerra terrorista e stragista, imperialista e razzista, a vantaggio di poteri mafiosi e totalitari. E la partecipazione militare italiana alla guerra terrorista e stragista viola la legalita' costituzionale, viola il diritto internazionale, viola i fondamenti stessi dello stato di diritto e della civile convivenza in un mondo ormai pienamente interdipendente. Solo con la pace si difendono e si promuovono i diritti umani di tutti gli esseri umani: e la pace si costruisce solo con mezzi di pace, salvando le vite e non sopprimendole, con il disarmo e l'aiuto umanitario, affrontando i conflitti con metodi civili, nonarmati, nonviolenti. Solo la scelta della nonviolenza come criterio ispiratore della politica puo' salvare l'umanita' dalla terribile distretta in cui si trova. * Se non ci opponiamo alla guerra, di cosa andiamo cianciando? 2. AFGHANISTAN. ANGELO MIOTTO: UCCIDERE O NO [Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente articolo del primo agosto 2008 col titolo "La verita' su Shiwashan" e il sommario "I due elicotteristi rimpatriati dall'Afghanistan raccontano la loro versione". Angelo Miotto (1969), giornalista, vive e lavora a Milano; redattore e inviato di Radio popolare, Popolare Network, collabora con la testata web "PeaceReporter". Autore e conduttore di nuovi format radiofonici, fra cui Pop-line, e della trasmissione di audiodocumentari Radiocronache; Con Giovanni Giacopuzzi ha scritto Storie basche, per Nda editore; autore di installazioni audio e audio video (Irakifridom, con Elio De Capitani, e Stabat Mater, con Ida Marinelli e la regia di Francesco Frongia); nel 1997 ha fondato con Filippo Del Corno e Carlo Boccadoro l'ensemble musicale Sentieri selvaggi; collaboratore della rivista "Galatea", e' anche autore teatrale; nel 2007 ha ricevuto il Premio giornalistico "Enzo Baldoni" per la sezione radio e televisione insieme a Matteo Scanni per il documentario "Cronache basche"] Cosa sia accaduto il 9 luglio nei cieli afgani di Shiwashan, sette chilometri da Herat, da oggi non sara' piu' un mistero. Perche' attraverso una fonte militare arrivano i dettagli di quella sera, i fatti come sono descritti da chi era li' e decise di non sparare, nonostante fosse aggredito da "fuoco ostile", per la presenza di civili nelle case da dove partivano colpi di armi leggere. Domenico Leggiero, responsabile del comparto Difesa dell'Osservatorio militare, e' noto per le sue battaglie a favore dei militari affetti da patologie legate all'esposizione all'uranio impoverito in teatri di guerra. Leggiero e' in grado di riportare la versione dei due piloti di elicottero, protagonisti della notte del 9 luglio, che dopo aver passato alcuni giorni all'ospedale militare romano del Celio, sono stati rispediti nella base del VII Reggimento Aviazione "Vega" dell'Esercito, a Rimini. Erano due i Mangusta, in appoggio a un'operazione medevac (evacuazione medica), con un elicottero spagnolo che era intervenuto dopo un'imboscata in cui erano rimasti intrappolati due blindati italiani "Lince". Le uniche notizie diffuse riguardavano il rifiuto di uno dei due Mangusta di aprire il fuoco, con il conseguente ricovero dei piloti per sindrome da stress post-traumatico. * Una lucida decisione Secondo la versione dei protagonisti - riportata da Leggiero - quella sera l'intervento riguardo' la copertura dell'elicottero medico che evacuo' due soldati italiani. Ma dopo l'imboscata, avvenuta all'estrema periferia di Herat, e durante l'operazione di evacuazione medica dei nostri feriti - il tenente Gabriele Rame e l'aviere Francesco Manco - da un palazzo abitato della zona vennero esplosi numerosi colpi di armi leggere. Il timone di coda dell'eliambulanza venne "sviolinato", graffiato, senza far danni. E' proprio a quel punto che i due piloti italiani, ognuno alla cloche di un Mangusta, hanno valutato che rispondere al fuoco con i potenti cannoncini rotanti da 20 millimetri avrebbe significato distruggere l'edificio provocando sicuramente pesanti perdite tra i civili. Quindi hanno optato per una manovra di disimpegno e hanno fatto ritorno alla base. Il comando spagnolo non gradi'. Di li' la lamentela con il comandante italiano ad Herat per la mancata copertura di fuoco da parte dei Mangusta. I due piloti, convocati dal comandante per chiarimenti, hanno spiegato di aver lucidamente preso la decisione di non rispondere al fuoco in accordo con le regole d'ingaggio di una missione ufficialmente di pace, non di guerra, che consentono di sparare se attaccati, ma solo se c'e' la ragionevole certezza di non provocare vittime civili. Contro i due piloti non e' stata avviata alcuna procedura disciplinare: i comandi hanno preferito rimpatriarli e ricoverarli per alcuni giorni all'ospedale militare del Celio, dando in pasto alla stampa la storia dello stress. * Nessuno stress La questione, come si evince dalle differenze con le versioni ufficiali diffuse fino a oggi, e' quanto mai delicata. I due Mangusta, e non solo uno, optarono per la manovra di disimpegno senza aprire il fuoco. E non lo fecero degli equipaggi "stressati", ma consapevoli di fare una precisa scelta, nonostante le raffiche dirette verso di loro. "La loro decisione - afferma Leggiero - e' stata un atto di alto profilo etico e morale, che come pilota mi sento di condividere al cento per cento". Il secondo punto delicato riguarda direttamente la politica e la propaganda dello Stato Maggiore italiano. L'immagine dei due piloti circolata sui mezzi di informazione e' quella di due traumatizzati, quindi colpiti da una sindrome che viene affiancata al fatto stesso di non aver voluto aprire il fuoco. Sono piu' o meno sottili accostamenti che sortiscono un effetto immediato nella ricezione di una notizia. Dai resoconti diretti, invece, la situazione appare ben diversa, con una scelta che poco ha a che spartire con il logoramento psico-fisico. Ma che risponde, invece, a una presa di coscienza nella difficile decisione di aprire o meno il fuoco su un palazzo abitato. Per di piu' il nostro ordinamento militare, aggiungono le nostre fonti in ambito militare e giudiziario, non ha previsto figure di aiuto psicologico direttamente sul teatro di guerra. Cosa succedera' adesso ai due piloti, ormai rientrati alla base in Italia, passando per il Celio? L'unica certezza delle nostre fonti e' che non li attende un roseo avvenire: in campo militare - ci dicono - queste scelte si pagano. E la vendetta e' un piatto che, in quel mondo, viene servito freddo. 3. AFGHANISTAN. EDOARDO CRAINZ: LA GUERRA SPORCA, LA GUERRA SEGRETA, LA GUERRA CHE NON SI PUO' VINCERE. IN AFGHANISTAN [Dal sito del settimanale "L'Espresso" (http://espresso.repubblica.it/) riprendiamo il seguente articolo del 29 luglio 2008 col titolo "Noi in prima linea" e il sommario "Altro che missione di pace. Qui si combatte dal 2003. Ed e' sempre peggio. Il racconto, in esclusiva per 'L'Espresso', di un tenente della Folgore". Edoardo Crainz e' chirurgo ortopedico e tenente della riserva della Folgore, con cui e' stato in missione in Afghanistan e in Iraq] Se gli chiedi come si chiama, risponde cosi': "Qui non abbiamo nome. E nemmeno uniformi. Quando comincia la missione smettiamo di avere un'identita'. Non siamo piu' Mario o Francesco, non siamo piu' para', ranger o incursori di marina. C'e' solo la tua arma e i tuoi compagni. E l'Afghanistan". Non dice il suo nome, ma sono quelli come lui a fare la differenza. E lui e' uno dei pochi che hanno fatto tanto. E' un operatore delle forze speciali, definizione burocratica che nasconde i protagonisti piu' silenziosi delle missioni di pace. Non cercateli nei comunicati ufficiali dello Stato maggiore. Quando un nostro reggimento parte per l'estero, quando intere brigate si schierano in citta' crivellate di proiettili, loro sono gia' li'. Arrivano per primi, partono per ultimi. Cosi' deve essere. Preparano il terreno, alla lettera: si caricano sulle spalle la parte piu' rischiosa della spedizione, sapendo che quel brivido potra' durare anni. Senza medaglie, senza avventure da raccontare: solo silenzio. Ed e' per questo che il mio interlocutore fatica nel tirare fuori quello che si porta dentro. Lui che ha quarant'anni fa l'incursore gia' da venti. Lui che ha visto Somalia, Balcani e soprattutto Afghanistan ha una certezza: "Hanno cercato in tutti i modi di farci dimenticare". Poi scuote la testa e guarda lontano, come se temesse di vedere il profilo dei palazzi romani trasformarsi d'incanto nella sagoma di quelle montagne assolate. Lo sguardo e' quello di un felino. E non c'e' paura di cadere nel luogo comune: no, sono occhi abituati a squarciare il buio. Nel caldo di una citta' narcotizzata dall'afa, non tradisce nessuna emozione. Tra poche ore ripartira': di nuovo Kabul e poi piu' a sud. In Afghanistan ha gia' concluso dieci missioni in cinque anni. Non ha dubbi: dal 2003 le cose vanno sempre peggiorando. Il governo Karzai e' stabile solo perche' ci sono loro: fuori dalla capitale non conta nulla. Il consenso popolare non e' un concetto reale laggiu'. Le province occidentali, dove negli ultimi anni sono stati impiegati i nostri soldati, rimangono le piu' difficili da gestire: "E' un territorio inaccessibile dove la cultura tribale e conservatrice dei talebani e' ancora la legge: i talebani non sono mai stati sconfitti, perche' non sono un esercito, un'entita' definita: hai presente la nostra mafia? Qualcosa di molto simile, non si vede ma ha un potere enorme". Cercare di scardinare questo potere, senza venirne schiacciati, e' da sette anni l'impegno degli uomini mandati in quelle terre. Non e' guerra, non e' pace. Gli equilibri sono nuvole di polvere. Il lavoro dell'incursore diventa un'alchimia di dialogo e scontro diretto, tra politica e integralismo, tra mine e pacifiche chiacchierate davanti a un te' verde, una sottile linea tracciata dall'Intelligence tra due avversari che si studiano, si combattono, si temono. Dimenticate Rambo, dimenticate i ranger di "Black Hawk Down". Qui non ci sono guerrieri moderni, che con armi tecnologiche danno la caccia ai talebani con turbante e barba lunga. "Passi giorni e giorni fermo in un punto, semplicemente aspettando, razionando i viveri, l'acqua, il carburante. Puo' far caldo o nevicare, ma tu aspetti, con l'unico scopo di non dare nell'occhio. Nel frattempo non accendi luci, non fai rumore, non ti lavi. Puo' durare settimane". Quando hai visto tutto, quando hai capito, allora puoi muoverti. Contatti i capi locali, tratti, costruisci la sicurezza che servira' a quelli che seguono per andare avanti. Ma per farlo "devi passare tempo con loro. Dopo aver diviso il pasto con te ti trattano come un fratello. Il problema e' mandar giu' carne di montone dura come un sasso, o bere da otri ricavati dalle mammelle delle pecore, in cui spesso nuotano ancora frammenti dell'originario proprietario, se non insetti o vermi". Spesso e' questo il lato oscuro dell'Intelligence, il sottile lavoro compiuto per conquistare la fiducia, l'amicizia, magari in vista di un'operazione alleata, o del transito di un nostro convoglio. "Sono forse un po' arretrati, ma non sono tutti cattivi come sembrano", e mostra immagini senza tempo di volti barbuti che calzano pakol e imbracciano micidiali razzi Rpg: "Sono uomini fieri, ancora genuini. Se uno di loro ti giura vendetta, puoi scommettere che ti uccidera'. E' gente che non dimentica. Se accettano di parlare e trattare con noi, e' solo perche' ci guadagnano". Guadagnano? Da cosa si puo' trarre vantaggio? Dalla vita degl altri. E quella piu' preziosa laggiu' e' la vita degli occidentali. "Sequestrano di continuo soldati della coalizione. Ma non li uccidono, non ha senso uccidere una mucca che puo' continuare a darti il latte. Cosi' se li passano, da un capo talebano all'altro. In modo che possano guadagnarci in tanti. E noi, noi tanto continuiamo a pagare". Esiste un vero e proprio fondo stanziato dal ministero, per evenienze simili. Ma non basta. Spesso si finisce in trappola, si cade in un fuoco incrociato, in una rete di accordi da cui e' impossibile uscire senza offendere o ferire uno degli interlocutori. E' accaduto anche alla coppia di operatori del Sismi, catturati un anno fa: uno non e' tornato a casa. "Ne ho avuti tanti nel mirino, gente che ci aveva sparato addosso e poi aveva accettato il dialogo, naturalmente per interesse o per soldi. Soggetti che minano strade, rapiscono, terroristi stranoti alla coalizione. Gente che non meriterebbe di vivere, ma che assume un ruolo nella scacchiera dell'Intelligence, e deve continuare a giocare. Quando ti hanno sparato addosso, o hai estratto un compagno massacrato da un veicolo saltato su una mina anticarro, la tentazione di tirare il grilletto e' davvero forte". E' il conflitto che gli italiani conducono dal 2003. Non se ne parla mai. Per non urtare sensibilita' interne, per non esporre attivita' sul campo. Tanto nessuno ha la divisa: i guai si scoprono solo quando va veramente male. C'e' voluto l'entusiasmo improvvido del neoministro Ignazio La Russa per rompere il tabu' durato cinque anni e rivelare quello che tutti sanno: e' una guerra e gli italiani la combattono da oltre un anno. "Io in Afghanistan non ho mai sparato un colpo. In Somalia, ho ucciso e sono stato colpito, ma tra i monti dell'Afghanistan mai. Il lavoro sporco lo fanno gli americani, che infatti attirano la maggior parte del fuoco. Di noi non si parla mai". Eppure si combatte. Molti dei nostri fanno fuoco. Il pericolo sono le mine, contro le quali pero' i nuovi fuoristrada blindati Lince si stanno rivelando una manna. E le bombe improvvisate, che a dispetto del nome vengono costruite con cura formando piramidi di ordigni: un telefonino come innesco e salta tutto per aria. I proiettili sono quasi un male minore. "Se ti colpiscono, e non prendono l'osso, e' come nei film: senti caldo e vedi il sangue solo molto dopo. Quando scende l'adrenalina, arriva il peggio, perche' arriva anche il dolore. Il brutto, quando ti sparano addosso, e' proprio che puoi non accorgertene: il rumore del colpo non lo senti, perche' arriva prima il colpo. Allora devi convivere con la paura di perdere un pezzo di te, da un momento all'altro, o di vedere calare un velo nero sugli occhi e svegliarti in uno di quei pulciosi posti di medicazione, dai quali non si esce quasi mai. La realta' e' che non bisognerebbe pensarci, a essere colpiti: e' questo che insegnano. Ma ti insegnano anche ad avere davanti infiniti bersagli, mentre si dimenticano sempre di spiegarti come si vince la paura di essere tu stesso, un bersaglio". In Afghanistan si spara tanto. In una terra senza frontiere, sono le pallottole a indicare i confini ai nostri soldati che finiscono in territorio iraniano o pachistano. "Te ne accorgi subito, quando entri in Iran: un metro dopo il confine ti stanno gia' sparando addosso, anche se non sanno chi sei. Idem in Pakistan". Le montagne non hanno bandiere, difficile capire se la caccia ti porta in uno Stato straniero. Ma tanto quello che accade resta segreto. "In Italia non si viene mai a sapere nulla. Pensa all'interprete colpito durante il sequestro dei nostri: nove fucilate addosso, un braccio perso e il volto sfigurato. Lo abbiamo operato in Italia, e abbandonato. Con moglie e figli. E laggiu' non puo' mica tornare: l'interprete e' sempre il primo a cui tagliano la testa". Nei due anni del governo Prodi il silenzio sulle azioni e' diventato opprimente per le forze speciali, che si sono ritrovate in una frontiera infuocata. Sempre piu' rischi, sempre piu' successi, mai un encomio. Per la sinistra di governo i raid dei commandos erano indispensabili ma imbarazzanti. "Sono sempre stati puntuali nel rinfacciare ai paracadutisti quel che avevano fatto in Somalia, ma mai che abbiano accennato al nostro lavoro in Afghanistan. Che, ti assicuro, e' stato tutt'altro che trascurabile". Quei territori rimangono un crocevia di traffici, armi e soprattutto droga perche' "l'oppio e' tutto, laggiu'". Mi parla dei nostri tentativi di combattere i narcotrafficanti, "hanno provato persino con colture alternative, di recente con i cetrioli. Ti rendi conto? Cetrioli". Dallo schermo del suo computer portatile occhieggiano campi verdissimi, con lavoratori curvi sui loro attrezzi: "Si rompono la schiena per coltivare un ortaggio che non sa di niente e che non mangia nessuno perche' non lo puoi trasportare da nessuna parte. E nel campo di fianco al tuo coltivano oppio e guadagnano cento volte te: secondo te che fine hanno fatto i cetrioli?". L'immagine verde si perde in un sorriso amaro: "Ma dimmi, tu che sei un dottore, a noi non serve, come medicina, la morfina? Potremmo comprarglielo noi, tutto quell'oppio, e farne medicine, non ti sembra?". Sullo schermo scorrono scatti su scatti. E noto l'immagine di un ragazzo che osserva uno sterminato campo di papaveri multicolori. "Quello e' uno di noi", mi dice, "anche se ha barba e capelli lunghi. Noi non operiamo quasi mai in uniforme, tranne in pochi e selezionati casi. Anche veicoli ed armi sono modificati per non essere riconoscibili". Avevo scambiato l'uomo in mezzo ai papaveri per un contractor, una di quelle figure a meta' tra il soldato ed il mercenario che spesso si incontrano in Afghanistan "Ma sono pochi. Sono operatori di molte agenzie, soprattutto americane. A lavorarci sono per la maggior parte ex carabinieri, ex poliziotti, personaggi cosi'. Ci sono anche generali, che offrono una sorta di consulenza tattica, strategica, ma la loro fonte e' Internet, non il territorio. I contractor offrono sicurezza e vendono informazioni. Il problema dell'Afghanistan e' che non c'e' niente da vendere! In Russia o in Africa ci sono petrolio, diamanti, malavita, e in quei posti ci sono aziende europee che hanno interessi forti e sono disposte a pagare informazioni che valgono. Nelle province afgane nessuno ha interessi, ragion per cui contractor non ce ne sono". Senza divisa, i commandos sono tutti uguali. Barba lunga, capelli lunghi, scarpe da trekking: se non fosse per il mitra, assomiglierebbero a Jovanotti. Un talebano non puo' sapere se ha davanti un italiano, un americano o un britannico. "Gli americani ci rispettano: riconoscono il valore e la professionalita'. Non li capiro' mai: alternano situazioni in cui sono di un'efficienza impeccabile, ad altre in cui commettono leggerezze imbarazzanti. Impostano tutto il loro operato su algoritmi e procedure scritte, che vengono seguite dall'ultimo soldato fino al generale a tre stelle, salvo poi saltare tutto davanti a un funzionario della Cia". La guerra della Cia, un altro capitolo di cui nessuno parla: "Hanno bracci armati non convenzionali che fanno il lavoro cosi' sporco da risultare troppo sporco persino per le forze speciali. Loro non dialogano praticamente mai, minacciano e basta. Spesso ci siamo trovati in forte imbarazzo perche' per arrivare a certi personaggi pericolosi bisognava in qualche modo premiare o ingraziarsi altri personaggi discutibili. Beh, bastava un nostro contatto per far saltare i nervi agli americani, che non hanno mai una gran diplomazia con quella gente. Inseguono, catturano, interrogano, e a volte distruggono, nulla di piu'. Non e' facile andarci d'accordo". Ancora peggio va con i britannici, che non celano il disprezzo verso gli italiani. L'incursore pensa all'ex collega passato al Sismi, catturato e ucciso dal fuoco amico durante un raid inglese per liberarlo. Altra vicenda chiusa nel silenzio, quella di Lorenzo D'Auria, morto nello scorso ottobre senza che nessuno cercasse di fare luce sul comportamento degli alleati nel blitz: "Se nella macchina degli ostaggi ci fosse stato il principe Carlo e non due italiani e un afgano, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente". Noi italiani siamo diversi, non c'e' dubbio. Abbiamo anche provato a costruire scuole e ospedali, in Afghanistan: li mandano avanti numerose organizzazioni non governative, "ma poi i talebani impediscono ai maestri e ai dottori di lavorarci. Lo vedi questo?". Sullo schermo del laptop appare una testa tagliata, gli occhi socchiusi su una pozza di sangue scuro: "Questo non era mica un criminale, era uno che secondo i talebani collaborava con noi. Gli hanno staccato la testa in un minuto con un semplice coltello svizzero pieghevole. Non e' gente che va per il sottile". E chi gestisce ospedali a disposizione di tutti, come Emergency? "Emergency sta li' perche' paga, come fanno tutti. Non in dollari, ma paga. Curando tutti, in primis quelli che hanno il potere di concederle di restare laggiu' a lavorare. Il potere r' in mano ai talebani". Altre foto. Si vede un veicolo italiano distrutto in un'imboscata. L'equipaggio se l'e' cavata. E in Italia di quell'attacco non si e' saputo nulla: "Chi ci gestisce non si rende nemmeno conto. Eppure i nostri politici sono a poche ore di jet da noi, potrebbero aiutarci in tempo reale. Invece vorrebbero che fosse fatto tutto e subito. Ma come si fa ad averla vinta con gente che non ha mai visto se non la guerra? Sai che cosa hanno loro che noi non abbiamo? Hanno tempo. Piazzare una mina in mezzo ad una strada ed aspettare costa poco, ma richiede tempo. Loro ne hanno in abbondanza. Basta che solo un colpo vada a segno e hanno il massimo della resa con il minimo della spesa". L'incursore ce l'ha con chi lo manda a combattere senza metterlo in condizioni di vincere. E senza dargli nemmeno l'arma piu' preziosa: il tempo. "E' sempre stato cosi': vogliono tutto e subito, come in una eterna campagna elettorale. Invece per formare gente come noi serve tempo, e' un mestiere dove nessuno ti insegna nulla, se non fai esperienza. E fare esperienza e' rischioso". Essere abbandonati a se stessi, in certi posti, puo' fare la differenza tra la morte e la vita: "Il nostro sistema di Intelligence, e anche le nostre forze speciali, operano secondo uno schema puramente difensivo. Noi non siamo in guerra con l'Afghanistan e la nostra Costituzione ci impedisce qualunque azione offensiva". Lui obbedisce e combatte, anche se crede sempre di meno. Sa che difendersi e' ancora piu' rischioso: richiede gente che sappia controllare e controllarsi. In situazioni veramente estreme "siamo rimasti in pochi operativi: per ogni uomo in teatro ce ne sono mille che ingrassano in Patria. E tutti vogliono comandare: lo sai che io parto tra poco per l'ennesima missione e non ho un obiettivo da raggiungere? Parto in missione, e non ho una missione". E allora, perche' non si toglie quell'uniforme? A uno come lui le opportunita' di trovare un posto in un'azienda non mancano, e' un professionista della sicurezza. "No, anche se sembra che mi lamenti, mi piace il mio lavoro. Sono vent'anni che sono in giro, ne ho viste di tutti i colori, e posso dire con certezza che sono molte piu' quelle che abbiamo preso di quelle che abbiamo dato. Ma nessun politico potra' mai venire a dirmi che non ho lavorato". 4. AFGHANISTAN. TOMMASO DI FRANCESCO: LA SINDROME AFGHANA [Dal quotidiano "Il manifesto" de 31 luglio 2008 col titolo "La sindrome afghana". Tommaso Di Francesco, giornalista del "Manifesto", esperto di politica internazionale, e' curatore e autore di acuti saggi di analisi e di intervento politico, ma anche di pregevoli testi letterari in versi e in prosa; tra i suoi volumi segnaliamo particolarmente: in ambito saggistico-politico: (a cura di), Jugoslavia perche', Gamberetti, Roma 1995; (a cura di), La Nato nei Balcani, Editori Riuniti, Roma 1999; in ambito letterario: (a cura di), Veleno, Savelli, Milano 1980; Quintopiano, Edizioni Manuzio, Roma 1981; (a cura di, con Antonio Ricci), Elenca, Valore d'Uso, Roma 1982; Doppio deserto, PellicanoLibri, Roma 1985; Cliniche, Crocetti, 1987; (a cura di, con Pino Blasone), La terra piu' amata. Voci della letteratura palestinese, Il manifesto, Roma 1988 (seconda edizione accresciuta e aggiornata: Wasim Dahmash, Tommaso Di Francesco, Pino Blasone (a cura di), La terra piu' amata. Voci della letteratura palestinese, Manifestolibri, Roma 2002); Il giovane Mitchum, Il lavoro editoriale, Ancona-Bologna 1988; Tuffatori, Crocetti, 1992; Incorpora testo, Piero Manni, Lecce, 1994; Hotel Abisso, Mancosu, Roma, 1994] Piu' passa il tempo piu' la notizia trova conferme. Due elicotteristi italiani sono stati rimpatriati nei giorni scorsi da Herat, in Afghanistan. Secondo fonti militari, la misura e' stata disposta "per motivi sanitari", dopo stress psicofisico, "forte disagio" e' la frase della diagnosi. "Nei loro confronti - spiegano - non e' stato adottato alcun provvedimento". Per alcune fonti, finora non smentite, la decisione sarebbe stata invece adottata perche' i due elicotteristi si sarebbero rifiutati di sparare in uno scontro a fuoco che coinvolgeva anche militari italiani "perche' sulla linea di tiro c'erano anche civili". Subito dopo i due piloti di elicotteri da combattimento Mangusta sono stati "rimpatriati" ed e' stata aperta un'inchiesta. Ci pare quasi di conoscerli questi due elicotteristi "disagiati". Abbiamo incontrato molti di loro nei Balcani, tanti che venivano dalla caserma di Viterbo. Eleganti nella divisa crema di volo con lo stemma della libellula e veri lavoratori dei trasporti con l'elica. Non proprio assetati di gloria e sangue come la mitica e criminale cavalleria dell'aria di "Apocalypse Now", anzi sempre in discussione fra loro sulla legittimita' della presenza militare in quella crisi scellerata dove la Nato aggiunse guerra su guerra. Viene voglia di chiedersi: che rapporto c'e', o meglio che distanza c'e' tra il loro rifiuto e la nostra inadeguatezza a rispondere non solo alla guerra costituente che sempre piu' si fa strada, ma anche alla guerra come materialita' quotidiana, con protagonisti in carne e ossa. E disagio. Ora il ministro della difesa La Russa, nero afghano, prepara la metamorfosi. Dopo avere annunciato, bonta' sua, che i militari italiani in Afghanistan "sono in guerra da un anno", anche se "i giornali e Prodi" l'hanno nascosto. Lui manda i soldati in guerra con la faccia tosta che si ritrova. Con la tracotanza di un ministro della repubblica che rivendica il buon diritto di fare a pezzi la Costituzione di questo paese che nell'articolo 11 recita che l'Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali. E intanto china il capo davanti alla richiesta del generale statunitense che guida le forze Nato in Afghanistan d'inviare piu' soldati e mezzi (anche, naturalmente, elicotteri Mangusta) in zona di combattimento, si dice "pronto a cancellare ogni restrizione" - i timidi caveat di velluto su cui la guerra ogni giorno scivolava lo stesso - e impegna subito in battaglia nella pericolosa area a sud di Herat, piu' soldati italiani e piu' mezzi che puo'. Senza che il presidente della repubblica senta il dovere di dire alcunche'. E senza la retorica della missione umanitaria. L'attacco Usa all'Afghanistan fu guerra di vendetta per l'11 settembre, l'Italia aderi' con un voto bipartisan. Subito furono "effetti collaterali" sui civili. A leggerlo il bolletino quotidiano afghano, racconta proprio della guerra contro i civili, dall'inizio dell'anno ne sono stati uccisi quasi 800. Ma basta chiamare talebani le vittime - ci dice il generale Fabio Mini. A quasi sette anni da quei raid e dall'occupazione del paese, la missione e' tutt'altro che compiuta. I talebani, anche grazie alla terra bruciata dei bombardieri Nato, recuperano popolarita', controllano piu' della meta' del territorio aumentando la capacita' d'attacco. Come se non bastasse, arriva il candidato democratico alla Casa bianca Barack Obama a chiedere impegno nella guerra ai soldati dell'Alleanza atlantica. Dunque piu' truppe tedesche, francesi e britanniche, e ora si riposizionano anche quelle italiane. Non si vuole la pacificazione del paese, non la soluzione politica ma la vittoria della Nato che nell'agosto 2003 - e' questa la data a partire dalla quale siamo in guerra con la nostra missione - annuncio' con un colpo di mano di "avere assunto il ruolo di leadership della missione Isaf, forza con mandato Onu". Nella convinzione che si possa militarmente vincere la lotta al terrorismo aumentando soldati, mezzi e raid aerei, con ufficiali italiani impegnati da anni nei comandi operativi ad indicare i bersagli da colpire con i raid Nato. In quella strategia di guerra aerea che per colpire il "talebano" non si cura di uccidere civili. E' la strategia nella quale non riescono ad entrare i due elicotteristi con il coraggio del "disagio". Meglio sostituirli con qualcuno piu' "sano di mente", meglio ritirarli, meglio curarli al Celio per la loro "sindrome". La sindrome che si chiama guerra. 5. CARTEGGI. OSVALDO CAFFIANCHI: EIS EAUTON La guerra e chi la guerra ha consentito la guerra e chi la guerra ha sostenuto la guerra e chi la vita altrui ha venduto la guerra e chi la vita altrui ha rapito. La guerra in cui si uccide con un dito la guerra in cui si uccide stando muto la guerra e come disfa ogni tessuto la guerra ed il deserto suo infinito. E cosa hai fatto tu per contrastarla? E cosa hai fatto tu per salvar vite? Eri distratto dalla vacua ciarla? Eri sedotto dal vile sorite? Eri ingannato da chi sempre parla? Degli assassini ormai complice mite. 6. LE ULTIME COSE. OGGI Opporsi alla guerra. Salvare le vite. Difendere la Costituzione. Se non si fa questo, cosa siamo gia' diventati? 7. POESIA E VERITA'. EMILY DICKINSON: CHE NOI SIAMO IMMORTALI [Da Emily Dickinson, Poesie, Guanda, Parma 1975, Bompiani, Milano 1978, vol. II, p. 293. La traduzione e' di Guido Errante, il capoverso originale e' "It is an honorable Thought". Emily Dickinson visse ad Amherst, Massachusetts, tra il 1830 e il 1886; molte le edizioni delle sue poesie disponibili in italiano con testo originale a fronte (tra cui quella integrale, a cura di Marisa Bulgheroni: Emily Dickinson, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, 2005; ma vorremmo segnalare anche almeno la fondamentale antologia curata da Guido Errante: Emily Dickinson, Poesie, Mondadori, Milano 1956, poi Guanda, Parma 1975, e Bompiani, Milano 1978; e la vasta silloge dei versi e dell'epistolario curata da Margherita Guidacci: Emily Dickinson, Poesie e lettere, Sansoni, Firenze 1961, Bompiani, Milano 1993, 2000); per un accostamento alla sua figura e alla sua opera: Barbara Lanati, Vita di Emily Dickinson. L'alfabeto dell'estasi, Feltrinelli, Milano 1998, 2000; Marisa Bulgheroni, Nei sobborghi di un segreto. Vita di Emily Dickinson, Mondadori, Milano 2002] Che noi siamo immortali Sebbene le Piramidi rovinino E dileguino i regni, Cosi' come il frutteto scolorisce - E' assai nobile pensiero - Ci vien fatto Di levarci il cappello, Come quando incontriamo per la via Gente per bene - 8. POESIA E VERITA'. NELLY SACHS: VECCHI [Da Nelly Sachs, Poesie, Einaudi, Torino 1971, 2006, p. 33 (traduzione di Ida Porena). Nelly Sachs, nata a Berlino nel 1891, scampata alla Shoah rifugiandosi a Stoccolma nel 1940 con l'aiuto di Selma Lagerloef, a Stoccolma deceduta nel 1970, e' stata una delle piu' alte voci poetiche del Novecento, e profonda una voce del nostro paesaggio interiore; ricevette il premio Nobel per la letteratura nel 1966. Opere di Nelly Sachs: Al di la' della polvere, Einaudi, Torino 1966; Poesie, Einaudi, Torino 1971, 2006; Paul Celan - Nelly Sachs, Corrispondenza, Il melangolo, Genova 1993] Stanno li', nelle pieghe di questa stella, coperti da un brandello di notte, e attendono Dio. Una spina gli ha serrato la bocca, la parola gli si e' persa negli occhi che parlano come fontane in cui e' affondato un cadavere. Oh, i vecchi, che portano negli occhi, unico avere, la loro bruciata discendenza. 9. STRUMENTI. EDIZIONI QUALEVITA: DISPONIBILE IL DIARIO SCOLASTICO 2008-2009 "A SCUOLA DI PACE" [Dalle Edizioni Qualevita (per contatti: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), tel. 0864460006 oppure 3495843946, e-mail: info at qualevita.it oppure qualevita3 at tele2.it, sito: www.qualevita.it) riceviamo e diffondiamo] E' pronto il diario scolastico 2008-2009 "A scuola di pace". Se ogni mattina, quando i nostri ragazzi entrano in classe con i loro insegnanti e compagni, potessero avere la percezione che, oltre che andare a scuola di matematica, di italiano, di musica, di lingua straniera, vanno "a scuola di pace", certamente la loro giornata diventerebbe piu' colorata, piu' ricca, piu' appassionante, piu' felice. Queste pagine di diario sono state pensate per fornire una pista leggera ma precisa sulle vie della pace. Abbiamo sparso dei semi. Spetta a chi usa queste pagine curarli, annaffiarli, aiutarli a nascere, crescere e poi fruttificare. Tutti i giorni. Non bisogna stancarsi ne' spaventarsi di fronte all'impegno di costruire una societa' piu' umana, in cui anche noi vivremo sicuramente meglio. Lo impariamo - giorno dopo giorno - a scuola di pace. Preghiamo chi fosse intenzionato a mettere nelle mani dei propri figli, nipoti, amici, questo strumento di pace che li accompagnera' lungo tutto l'anno scolastico, di farne richiesta al piu' presto. Provvederemo entro brevissimo tempo a spedire al vostro indirizzo le copie del diario. Grazie. I prezzi sono uguali a quelli dell'agenda "Giorni nonviolenti" perche', a fronte di un numero inferiore di pagine, trattandosi di ragazzi, la stampa dovra' essere piu' rispondente alla loro sensibilita' (verranno usati i colori) e pertanto piu' costosa. Per ordini del diario scolastico 2008-2009: - 1 copia: euro 10 (comprese spese di spedizione) - 3 copie: euro 9,30 cad. (comprese spese di spedizione) - 5 copie: euro 8,60 cad. (comprese spese di spedizione) - 10 copie: euro 8,10 cad. (comprese spese di spedizione) - Per ordini oltre le 10 copie il prezzo e' di euro 8: costo dovuto al fatto che quest'anno ci limitiamo ad effettuarne una tiratura limitata. Per informazioni e ordinazioni: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), tel. 0864460006 oppure 3495843946, e-mail: info at qualevita.it, sito: www.qualevita.it 10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 11. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 535 del 2 agosto 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/ L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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