Voci e volti della nonviolenza. 88



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 88 del 28 luglio 2007

In questo numero:
1. Guenther Anders: Tesi sull'eta' atomica
2. Guenther Anders: Comandamenti dell'era atomica
3. Et coetera

1. GUENTHER ANDERS: TESI SULL'ETA' ATOMICA
[Ancora una volta ripubblichiamo questo breve ma capitale testo di Guenther
Anders. Riprendiamo il testo dall'appendice all'edizione italiana del libro
di Guenther Anders, Der Mann auf der Brueke. Tagebuch aus Hiroshima und
Nagasaki, apparso col titolo Essere o non essere, presso Einaudi, Torino
1961, nella traduzione di Renato Solmi (questo maestro grande e generoso che
cogliamo l'occasione per salutare e ringraziare ancora una volta). Come li'
si specifica, queste Tesi sull’eta' atomica sono "un testo improvvisato
dall'autore dopo un dibattito sui problemi morali dell'eta' atomica
organizzato da un gruppo di studenti dell'Universita' di Berlino-Ovest, e
uscito nell’ottobre 1960 nella rivista 'Das Argument - Berliner Hefte fuer
Politik und Kultur' - nota del traduttore"]

Hiroshima come stato del mondo. Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, e'
cominciata un nuova era: l'era in cui possiamo trasformare in qualunque
momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un'altra Hiroshima. Da quel
giorno siamo onnipotenti modo negativo; ma potendo essere distrutti ad ogni
momento, cio' significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti.
Indipendentemente dalla sua lunghezza e dalla sua durata, quest'epoca e'
l'ultima: poiche' la sua differenza specifica, la possibilita'
dell'autodistruzione del genere umano, non puo' aver fine - che con la fine
stessa.
 *
Eta' finale e fine dei tempi. La nostra vita si definisce quindi come
"dilazione"; siamo quelli-che-esistono-ancora. Questo fatto ha trasformato
il problema morale fondamentale: alla domanda "Come dobbiamo vivere?" si e'
sostituita quella: "Vivremo ancora?". Alla domanda del "come" c'e' - per noi
che viviamo in questa proroga - una sola risposta: "Dobbiamo fare in modo
che l'eta' finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine dei
tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo".
Poiche' crediamo alla possibilita' di una "fine dei tempi", possiamo dirci
apocalittici; ma poiche' lottiamo contro l"apocalissi da noi stessi creata,
siamo (e' un tipo che non c'e' mai stato finora) "nemici dell'apocalissi".
*
Non armi atomiche nella situazione politica, ma azioni politiche nella
situazione atomica. La tesi apparentemente plausibile che nell'attuale
situazione politica ci sarebbero (fra l'altro) anche "armi atomiche", e' un
inganno. Poiche' la situazione attuale e' determinata esclusivamente
dall'esistenza di "armi atomiche", e' vero il contrario: che le cosiddette
azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica.
*
Non arma ma nemico. Cio' contro cui lottiamo, non e' questo o
quell'avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi
atomici, ma la situazione atomica in se'. Poiche' questo nemico e' nemico di
tutti gli uomini, quelli che si sono considerati finora come nemici
dovrebbero allearsi contro la minaccia comune. Organizzazioni e
manifestazioni pacifiche da cui sono esclusi proprio quelli con cui si
tratta di creare la pace, si risolvono in ipocrisia, presunzione compiaciuta
e spreco di tempo.
*
Carattere totalitario della minaccia atomica. La tesi prediletta da Jaspers
fino a Strauss suona: "La minaccia totalitaria puo' essere neutralizzata
solo con la minaccia della distruzione totale". E' un argomento che non
regge. 1) La bomba atomica e' stata impiegata, e in una situazione in cui
non c'era affatto il pericolo, per chi la impiego', di soccombere a un
potere totalitario. 2) L'argomento e' un relitto dell'epoca del monopolio
atomico; oggi e' un argomento suicida. 3) Lo slogan "totalitario" e' desunto
da una situazione politica, che non solo e' gia' essenzialmente mutata, ma
continuera' a cambiare; mentre la guerra atomica esclude ogni possibilita'
di trasformazione. 4) La minaccia della guerra atomica, della distruzione
totale, e' totalitaria per sua natura: poiche' vive del ricatto e trasforma
la terra in un solo Lager senza uscita. Adoperare, nel preteso interesse
della liberta', l’assoluta privazione della stessa, e' il non plus ultra
dell'ipocrisia.
*
Cio' che puo' colpire chiunque riguarda chiunque. Le nubi radioattive non
badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle "cortine". Cosi',
nell'eta' finale, non ci sono piu' distanze. Ognuno puo' colpire chiunque ed
essere colpito da chiunque. Se non vogliamo restare moralmente indietro agli
effetti dei nostri prodotti (che non ci procurerebbe solo ignominia mortale,
ma morte ignominiosa), dobbiamo fare in modo che l'orizzonte di cio' che ci
riguarda, e cioe' l'orizzonte della nostra responsabilita', coincida con
l'orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioe' che
diventi anch'esso globale. Non ci sono piu' che "vicini".
*
Internazionale delle generazioni. Cio' che si tratta di ampliare, non e'
solo l'orizzonte spaziale della responsabilita' per i nostri vicini, ma
anche quello temporale. Poiche' le nostre azioni odierne, per esempio le
esplosioni sperimentali, toccano le generazioni venture, anch'esse rientrano
nell'ambito del nostro presente. Tutto cio' che e' "venturo" e' gia' qui,
presso di noi, poiche' dipende da noi. C'e', oggi, un'"internazionale delle
generazioni", a cui appartengono gia' anche i nostri nipoti. Sono i nostri
vicini nel tempo. Se diamo fuoco alla nostra casa odierna, il fuoco si
appicca anche al futuro, e con la nostra cadono anche le case non ancora
costruite di quelli che non sono ancora nati. E anche i nostri antenati
appartengono a questa "internazionale": poiche' con la nostra fine
perirebbero anch'essi,  per la seconda volta (se cosi' si puo' dire) e
definitivamente. Anche adesso sono "solo stati"; ma con questa seconda morte
sarebbero stati solo come se non fossero mai stati.
*
Il nulla non concepito. Cio' che conferisce il massimo di pericolosita' al
pericolo apocalittico in cui viviamo, e' il fatto che non siamo attrezzati
alla sua stregua, che siamo incapaci di rappresentarci la catastrofe.
Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una persona cara) e'
gia' di per se' abbastanza difficile; ma e' un gioco da bambini rispetto al
compito che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli. Poiche' questo
nostro compito non consiste solo nel rappresentarci l'inesistenza di
qualcosa di particolare, in un contesto universale supposto stabile e
permanente, ma nel supporre inesistente questo contesto, e cioe' il mondo
stesso, o almeno il nostro mondo umano. Questa "astrazione totale" (che
corrisponderebbe, sul piano del pensiero e dell'immaginazione, alla nostra
capacita' di distruzione totale) trascende le forze della nostra
immaginazione naturale. "Trascendenza del negativo". Ma poiche', come
homines fabri, siamo capaci di tanto (siamo in grado di produrre il nulla
totale), la capacita' limitata della nostra immaginazione (la nostra
"ottusita'") non deve imbarazzarci. Dobbiamo (almeno) tentare di
rappresentarci anche il nulla.
*
Utopisti a rovescio. Ecco quindi il dilemma fondamentale della nostra epoca:
"Noi siamo inferiori a noi stessi", siamo incapaci di farci un'immagine di
cio' che noi stessi abbiamo fatto. In questo senso siamo "utopisti a
rovescio": mentre gli utopisti non sanno produrre cio' che concepiscono, noi
non sappiamo immaginare cio' che abbiamo prodotto.
*
Lo "scarto prometeico". Non e' questo un fatto fra gli altri; esso
definisce, invece, la situazione morale dell'uomo odierno: la frattura che
divide l'uomo (o l'umanita') non passa, oggi, fra lo spirito e la carne, fra
il dovere e l'inclinazione, ma fra la nostra capacita' produttiva e la
nostra capacita' immaginativa. Lo "scarto prometeico".
*
Il "sopraliminare". Questo "scarto" non divide solo immaginazione e
produzione, ma anche sentimento e produzione, responsabilita' e produzione.
Si puo' forse immaginare, sentire, o ci si puo' assumere la responsabilita',
dell'uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila. Quanto
piu' grande e' l'effetto possibile dell'agire, e tanto piu' e' difficile
concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto piu' grande lo "scarto",
tanto piu' debole il meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone
premendo un tasto, e' infinitamente piu' facile che ammazzare una sola
persona. Al "subliminare", noto dalla psicologia (lo stimolo troppo piccolo
per provocare gia' una reazione), corrisponde il "sopraliminare": cio' che
e' troppo grande per provocare ancora una reazione (per esempio un
meccanismo inibitorio).
 *
La sensibilita' deforma, la fantasia e' realistica. Poiche' il nostro
orizzonte vitale (l'orizzonte entro cui possiamo colpire ed essere colpiti)
e l'orizzonte dei nostri effetti e' ormai illimitato, siamo tenuti, anche se
questo tentativo contraddice alla "naturale ottusita'" della nostra
immaginazione, a immaginare questo orizzonte illimitato. Nonostante la sua
naturale insufficienza, e' solo l'immaginazione che puo' fungere da organo
della verita'. In ogni caso, non e' certo la percezione. Che e' una "falsa
testimone": molto, ma molto piu' falsa di quanto avesse inteso ammonire la
filosofia greca. Poiche' la sensibilita' e' - per principio - miope e
limitata e il suo orizzonte assurdamente ristretto. La terra promessa degli
"escapisti" di oggi non e' la fantasia, ma la percezione.
Di qui il nostro (legittimo) disagio e la nostra diffidenza verso i quadri
normali (dipinti, cioe', secondo la prospettiva normale): benche' realistici
in senso tradizionale, sono (proprio loro) irrealistici, perche' sono in
contrasto con la realta' del nostro mondo dagli orizzonti infinitamente
dilatati.
*
Il coraggio di aver paura. La viva "rappresentazione del nulla" non si
identifica con cio' che si intende in psicologia per "rappresentazione"; ma
si realizza in concreto come angoscia. Ad essere troppo piccolo, e a non
corrispondere alla realta' e al grado della minaccia, e' quindi il grado
della nostra angoscia. - Nulla di piu' falso  della frase cara alle persone
di mezza cultura, per cui vivremmo gia' nell'"epoca dell'angoscia". Questa
tesi ci e' inculcata dagli agenti ideologici di coloro che temono solo che
noi si possa realizzare sul serio la vera paura, adeguata al pericolo. Noi
viviamo piuttosto nell'epoca della minimizzazione e dell'inettitudine
all'angoscia. L'imperativo di allargare la nostra immaginazione significa
quindi in concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura.
Postulato: "Non aver paura della paura, abbi coraggio di aver paura. E anche
quello di far paura. Fa' paura al tuo vicino come a te stesso". Va da se'
che questa nostra angoscia deve essere di un tipo affatto speciale: 1)
Un'angoscia senza timore, poiche' esclude la paura di quelli che potrebbero
schernirci come paurosi. 2) Un'angoscia vivificante, poiche' invece di
rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze. 3) Un'angoscia
amante, che ha paura per il mondo, e non solo di cio' che potrebbe
capitarci.
*
Fallimento produttivo. L'imperativo di allargare la portata della nostra
immaginazione e della nostra angoscia finche' corrispondano a quella di cio'
che possiamo produrre e provocare, si rivelera' continuamente
irrealizzabile. Non e' nemmeno detto che questi tentativi ci consentano di
fare qualche passo in avanti. Ma anche in questo caso non dobbiamo lasciarci
spaventare; il fallimento ripetuto non depone contro la ripetizione del
tentativo. Anzi, ogni nuovo insuccesso e' salutare, poiche' ci mette in
guardia contro il pericolo di continuare a produrre cio' che non possiamo
immaginare.
*
Trasferimento della distanza. Riassumendo cio' che si e' detto sulla "fine
delle distanze" e sullo "scarto" tra le varie facolta' (e solo cosi' ci si
puo' fare un'idea completa della situazione), risulta che le distanze
spaziali e temporali sono state bensi' "soppresse"; ma questa soppressione
e' stata pagata a caro prezzo con una nuova specie di "distanza": quella,
che diventa ogni giorno piu' grande, fra la produzione e la capacita' di
immaginare cio' che si produce.
*
Fine del comparativo. I nostri prodotti e i loro effetti non sono solo
diventati maggiori di cio' che possiamo concepire (sentire, o di cui
possiamo assumerci la responsabilita'), ma anche maggiori di cio' che
possiamo utilizzare sensatamente. E' noto che la nostra produzione e la
nostra offerta superano spesso la nostra domanda (e ci costringono a
produrre appositamente nuovi bisogni e richieste); ma la nostra offerta
trascende addirittura il nostro bisogno, consiste di cose di cui non
possiamo avere bisogno: cose troppo grandi in senso assoluto. Cosi' ci siamo
messi nella situazione paradossale di dover addomesticare i nostri stessi
prodotti; di doverli addomesticare come abbiamo addomesticato finora le
forze della natura. I nostri tentativi di produrre armi cosiddette "pulite",
sono senza precedenti nel loro genere: poiche' con essi cerchiamo di
migliorare certi prodotti peggiorandoli, e cioe' diminuendo i loro effetti.
L'aumento dei prodotti non ha quindi piu' senso. Se il numero e gli effetti
delle armi gia' oggi esistenti bastano a raggiungere il fine assurdo della
distruzione del genere umano, l'aumento e miglioramento della produzione,
che continuano ancora su larghissima scala, sono ancora piu' assurdi; e
dimostrano che i produttori non si rendono conto, in definitiva, di che cosa
hanno prodotto. Il comparativo - principio del progresso e della
concorrenza - ha perduto ogni senso. Piu' morto che morto non e' possibile
diventare. Distruggere meglio di quanto gia' si possa, non sara' possibile
neppure in seguito.
*
Richiamarsi alla competenza e' prova d'incompetenza morale. Sarebbe una
leggerezza pensare (come fa, per esempio, Jaspers) che i "signori
dell'apocalissi", quelli che sono responsabili delle decisioni, grazie a
posizioni di potere politico o militare comunque acquisite, siano piu' di
noi all'altezza di queste esigenze schiaccianti, o che sappiano immaginare
l'inaudito meglio di noi, semplici "morituri"; o anche solo che siano
consapevoli di doverlo fare. Assai piu' legittimo e' il sospetto: che ne
siano affatto inconsapevoli. Ed essi lo provano dicendo che noi siamo
incompetenti nel "campo dei problemi atomici e del riarmo", e invitandoci a
non "immischiarci". L'uso di questi termini e' addirittura la prova della
loro incompetenza morale: poiche' in tal modo essi mostrano di credere che
la loro posizione dia loro il monopolio e la competenza per decidere del "to
be or not to be" dell'umanita'; e di considerare l’apocalissi come un "ramo
specifico". E' vero che molti di loro si appellano alla "competenza" solo
per mascherare il carattere antidemocratico del loro monopolio. Se la parola
"democrazia" ha un senso, e' proprio quello che abbiamo il diritto e il
dovere di partecipare alle decisioni che concernono la "res publica", che
vanno, cioe', al di la' della nostra competenza professionale e non ci
riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini. E non si
puo' dire che cosi' facendo ci "immischiamo" di nulla, poiche' come
cittadini e come uomini siamo "immischiati" da sempre, perche' anche noi
siamo la "res publica". E un problema piu' "pubblico" dell'attuale decisione
sulla nostra sopravvivenza non c'e' mai stato e non ci sara' mai.
Rinunciando a "immischiarci", mancheremmo anche al nostro dovere
democratico.
*
Liquidazione dell'"agire". La distruzione possibile dell'umanita' appare
come un'"azione"; e chi collabora ad essa come un individuo che agisce. E'
giusto? Si' e no. Perche' no?
Perche' l'"agire"" in senso behavioristico non esiste pressoche' piu'. E
cioe': poiche' cio' che un tempo accadeva come agire, ed era inteso come
tale dall'agente, e' stato sostituito da processi di altro tipo: 1) dal
lavorare; 2) dall'azionare.
1) Lavoro come surrogato dell'azione. Gia' quelli che erano impiegati negli
impianti di liquidazione hitleriani non avevano "fatto nulla", credevano di
non aver fatto nulla perche' si erano limitati a "lavorare". Per questo
"lavorare" intendo quel tipo di prestazione (naturale e dominante, nella
fase attuale della rivoluzione industriale) in cui l'eidos del lavoro rimane
invisibile per chi lo esegue, anzi, non lo riguarda piu', e non puo' ne'
deve piu' riguardarlo. Caratteristica del lavoro odierno e' che esso resta
moralmente neutrale: "non olet", nessuno scopo (per quanto cattivo) del suo
lavoro puo' macchiare chi lo esegue. A questo tipo dominante di prestazione
sono oggi assimilate quasi tutte le azioni affidate agli uomini. Lavoro come
mimetizzamento. Questo mimetizzamento evita all'autore di un eccidio di
sentirsi colpevole, poiche' non solo non occorre rispondere del lavoro che
si fa, ma esso - in teoria - non puo' rendere colpevoli. Stando cosi' le
cose, dobbiamo rovesciare l'equazione attuale ("ogni agire e' lavorare")
nell'altra: "ogni lavorare e' un agire".
2) Azionare come surrogato del lavoro. Cio' che vale per il lavoro, vale a
maggior ragione per l'azionare, poiche' l'azionare e' il lavoro in cui e'
abolito anche il carattere specifico del lavoro: lo sforzo e il senso dello
sforzo. Azionare come mimetizzamento. Oggi, in realta', si puo' fare in tal
modo pressoche' tutto, si puo' avviare una serie di azionamenti successivi
schiacciando un solo bottone; compreso, quindi, il massacro di milioni. In
questo caso (dal punto di vista behavioristico) questo intervento non e'
piu' un lavoro (per non parlare di un'azione). Propriamente parlando non si
fa nulla (anche se l'effetto di questo non-far-nulla e' il nulla e
l'annientamento). L'uomo che schiaccia il tasto (ammesso che sia ancora
necessario) non si accorge piu' nemmeno di fare qualcosa; e poiche' il luogo
dell'azione e quello che la subisce non coincidono piu', poiche' la causa e
l'effetto sono dissociati, non puo' vedere che cosa fa. "Schizotopia", in
analogia a "schizofrenia". E' chiaro che solo chi arriva a immaginare
l'effetto ha la possibilita' della verita'; la percezione non serve a nulla.
Questo genere di mimetizzamento e' senza precedenti: mentre prima i
mimetizzamenti miravano a impedire alla vittima designata dell'azione, e
cioe' al nemico, di scorgere il pericolo imminente (o a proteggere gli
autori dal nemico), oggi il mimetizzamento mira solo a impedire all'autore
di sapere quello che fa. In questo senso anche l'autore e' una vittima; in
questo senso Eatherly e' una delle vittime della sua azione.
*
Le forme menzognere della menzogna attuale. Gli esempi di mascheramento ci
istruiscono sul carattere della menzogna attuale. Poiche' oggi le menzogne
non hanno piu' bisogno di figurare come asserzioni ("fine delle ideologie").
La loro astuzia consiste proprio nello scegliere forme di travestimento
davanti a cui non puo' piu' sorgere il sospetto che possa trattarsi di
menzogne; e cio' perche' questi travestimenti non sono piu' asserzioni.
Mentre le menzogne, finora, si erano camuffate ingenuamente da verita', ora
si camuffano in altre guise:
1) Al posto di false asserzioni subentrano parole singole, che danno
l'impressione di non affermare ancora nulla, anche se, in realta', hanno
gia' in se' il loro (bugiardo) predicato. Cosi', per esempio, l’espressione
"armi atomiche" e' gia' un'asserzione menzognera, poiche' sottintende,
poiche' da' per scontato, che si tratta di armi.
2) Al posto di false asserzioni sulla realta' subentrano (e siamo  al punto
che abbiamo appena trattato) realta' falsificate. Cosi' determinate azioni,
presentandosi come "lavori", sono rese diverse e irriconoscibili; cose'
irriconoscibili, e diverse da un'azione, che non rivelano piu' (neppure
all'agente) quello che sono (e cioe' azioni); e gli permettono, purche'
lavori "coscienziosamente', di essere un criminale con la miglior coscienza
del mondo.
3) Al posto di false asserzioni subentrano cose. Finche' l'agire si traveste
ancora da "lavorare", e' pur sempre l'uomo ad essere attivo; anche se non sa
che cosa fa lavorando, e cioe' che agisce. La menzogna celebra il suo
trionfo solo quando liquida anche quest'ultimo residuo: il che e' gia'
accaduto. Poiche' l'agire si e' trasferito (naturalmente in seguito
all'agire degli uomini) dalle mani dell'uomo in tutt'altra sfera: in quella
dei prodotti. Essi sono, per cosi' dire, "azioni incarnate". La bomba
atomica (per il semplice fatto di esistere) e' un ricatto costante: e
nessuno potra' negare che il ricatto e' un'azione. Qui la menzogna ha
trovato la sua forma piu' menzognera: non ne sappiamo nulla, abbiamo le mani
pulite, non c'entriamo. Assurdita' della situazione: nell'atto stesso in cui
siamo capaci dell'azione piu' enorme - la distruzione del mondo - l'"agire",
in apparenza, e' completamente scomparso. Poiche' la semplice esistenza dei
nostri prodotti e' gia' un "agire", la domanda consueta: che cosa dobbiamo
"fare" dei nostri prodotti (se, ad esempio, dobbiamo usarli solo come
"deterrent"), e' una questione secondaria, anzi fallace, in quanto omette
che le cose, per il fatto stesso di esistere, hanno sempre agito.
*
Non reificazione, ma pseudopersonalizzazione. Con l'espressione
"reificazione" non si coglie il fatto che i prodotti sono, per cosi' dire,
"agire incarnato", poiche' essa indica esclusivamente il fatto che l'uomo e'
ridotto qui alla funzione di cosa; ma si tratta invece dell'altro lato
(trascurato, finora, dalla filosofia) dello stesso processo: e cioe' del
fatto che cio' che e' sottratto all'uomo dalla reificazione, si aggiunge ai
prodotti: i quali, facendo qualcosa gia' per il semplice fatto di esistere,
diventano pseudopersone.
*
Le massime delle pseudopersone. Queste pseudopersone hanno i loro rigidi
principii. Cosi', per esempio, il principio delle "armi atomiche" e' affatto
nichilistico, poiche' per esse "tutto e' uguale". In esse il nichilismo ha
toccato il suo culmine, dando luogo all'"annichilismo" piu' totale.
Poiche' il nostro agire si e' trasferito nel lavoro e nei prodotti, un esame
di coscienza non puo' consistere oggi soltanto nell'ascoltare la voce nel
nostro petto, ma anche nel captare i principii e le massime mute dei nostri
lavori e dei nostri prodotti; e nel revocare e rendere inoperante quel
trasferimento: e cioe' nel compiere solo quei lavori dei cui effetti
potremmo rispondere anche se fossero effetti del nostro agire diretto; e
nell'avere solo quei prodotti la cui presenza "incarna" un agire che
potremmo assumerci come agire personale.
*
Macabra liquidazione dell'ostilita'. Se il luogo dell'azione e quello che la
subisce sono, come si e' detto, dissociati, e non si soffre piu' nel luogo
dell'azione, l'agire diventa agire senza effetto visibile, e il subire
subire senza causa riconoscibile. Si determina cosi' un'assenza d'ostilita',
peraltro affatto fallace.
La guerra atomica possibile sara' la piu' priva d'odio che si sia mai vista.
Chi colpisce non odiera' il nemico, poiche' non potra' vederlo; e la vittima
non odiera' chi lo colpisce, poiche' questi non sara' reperibile. Nulla di
piu' macabro di questa mitezza (che non ha nulla a che fare con l'amore
positivo). Cio' che piu' sorprende nei racconti delle vittime di Hiroshima,
e' quanto poco (e con che poco odio) vi siano ricordati gli autori del
colpo.
Certo l'odio sara' ritenuto indispensabile anche in questa guerra, e sara'
quindi prodotto come articolo a se'. Per alimentarlo, si indicheranno (e, al
caso, s'inventeranno) oggetti d'odio ben visibili e identificabili, "ebrei"
di ogni tipo; in ogni caso nemici interni: poiche' per poter odiare
veramente occorre qualcosa che possa cadere in mano. Ma quest'odio non
potra' entrare minimamente in rapporto con le azioni di guerra vere e
proprie: e la schizofrenia della situazione si rivelera' anche in cio', che
odiare e colpire saranno rivolti a oggetti completamente diversi.
*
Non solo per quest'ultima tesi, ma per tutte quelle qui formulate, bisogna
aggiungere che sono state scritte perche' non risultino vere. Poiche' esse
potranno non avverarsi solo se terremo continuamente presente la loro alta
probabilita', e se agiremo in conseguenza. Nulla di piu' terribile che aver
ragione. Ma a quelli che, paralizzati dalla fosca probabilita' della
catastrofe, si perdono di coraggio, non resta altro che seguire, per amore
degli uomini, la massima cinica: "Se siamo disperati, che ce ne importa?
Continuiamo come se non lo fossimo!".

2. GUENTHER ANDERS: COMANDAMENTI DELL'ERA ATOMICA
[Nuovamente riproponiamo il seguente testo allegato alla lettera 4 (di
Anders a Eatherly, del 2 luglio 1959), precedentemente apparso nella
"Frankfurter Allgemeine Zeitung" del 13 luglio 1957, che estraiamo dalla
corrispondenza tra Guenther Anders e Claude Eatherly, Il pilota di
Hiroshima. Ovvero: la coscienza al bando, Einaudi, Torino 1962, poi Linea
d'ombra, Milano 1992, ivi alle pp. 38-50, nella traduzione di Renato Solmi]

Il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: "Atomo". Poiche' non devi
cominciare un solo giorno nell'illusione che quello che ti circonda sia un
mondo stabile. Quello che ti circonda e' qualcosa che domani potrebbe essere
gia' semplicemente "stato"; e noi, tu e io e tutti i nostri contemporanei,
siamo piu' "caduchi" di tutti quelli che finora sono stati considerati tali.
Poiche' la nostra caducita' non significa solo il nostro essere "mortali"; e
neppure che ciascuno di noi puo' essere ucciso. Questo era vero anche in
passato. Ma significa che possiamo essere uccisi in blocco, che possiamo
essere uccisi come "umanita'". Dove "umanita'" non e' solo l'umanita'
attuale, quella che si estende e si distribuisce attraverso le regioni
terrestri; ma e' anche quella che si estende attraverso le regioni del
tempo: poiche', se l'umanita' attuale sara' uccisa, si estinguera' con lei
anche l'umanita' passata, e anche quella futura. La porta davanti alla quale
ci troviamo reca quindi la scritta: "Nulla sara' stato", e sull'altro verso
le parole: "Il tempo e' stato solo un interludio". Ma, in questo caso, il
tempo non sara' stato un interludio fra due eternita' (come speravano i
nostri antenati), ma un interludio fra due nulla: fra il nulla di cio' che,
nessuno potendolo ricordare, "sara' stato" come se non fosse mai stato, e il
nulla di cio' che non potra' mai essere. E poiche' non ci sara' nessuno per
distinguere i due nulla, essi si confonderanno in un nulla unico. Ecco
quindi la nuova, apocalittica forma di caducita' che e' la nostra, e accanto
alla quale tutto cio' che ha avuto finora questo nome e' diventato
un'inezia. - E perche' questo non ti sfugga, il tuo primo pensiero dopo il
risveglio sia: "Atomo".
*
La possibilita' dell'apocalisse
E questo sia il tuo secondo pensiero dopo il risveglio: "La possibilita'
dell'apocalisse e' opera nostra. Ma noi non sappiamo quello che facciamo".
No, non lo sappiamo; e non lo sanno nemmeno quelli che dispongono e decidono
di essa; poiche' anch'essi sono come noi; anch'essi sono noi; anch'essi sono
radicalmente incompetenti. E' vero che questa incompetenza non e' colpa
loro, ma e' piuttosto l'effetto di una circostanza che non si puo'
attribuire a nessuno di loro ne' di noi: la sproporzione continuamente
crescente fra la nostra facolta' produttiva e la nostra facolta'
immaginativa, fra cio' che possiamo produrre e cio' che possiamo immaginare.
Poiche', nel corso dell'epoca tecnica, il rapporto tradizionale tra fantasia
e azione si e' rovesciato. Se era naturale, per i nostri antenati,
considerare la fantasia "esorbitante", esuberante, eccessiva, e cioe' tale
che superava e trascendeva l'ambito del reale, oggi i poteri della nostra
fantasia (e i limiti della nostra sensibilita' e della nostra
responsabilita') sono inferiori a quelli della nostra prassi; per cui si
puo' dire che oggi la nostra fantasia non e' all'altezza degli effetti che
possiamo produrre. Non e' solo la nostra ragione a essere kantianamente
limitata e finita, ma anche la nostra immaginazione e - a maggior ragione -
la nostra sensibilita'. Possiamo pentirci, tutt'al piu', dell'uccisione di
un uomo: e' tutto cio' che si puo' chiedere alla nostra sensibilita';
possiamo rappresentarci, tutt'al piu', l'uccisione di dieci uomini: e' tutto
cio' che si puo' chiedere alla nostra immaginazione; ma ammazzare centomila
persone non presenta piu' alcuna difficolta'. E cio' non solo per ragioni
tecniche; e non solo perche' l'azione si e' ridotta a semplice
collaborazione e partecipazione, a un "azionare" che rende invisibile
l'effetto, ma anche e proprio per una ragione di ordine morale: e cioe'
perche' la strage in massa trascende di gran lunga la sfera di quelle azioni
che siamo in grado di rappresentarci concretamente e a cui possiamo reagire
sentimentalmente; e la cui esecuzione potrebbe essere inibita
dall'immaginazione o dai sentimenti. - Le tue verita' successive dovrebbero
quindi essere queste: "L'inibizione diminuisce progressivamente con
l'ingrandirsi oltre misura dell'azione"; e "L'uomo e' minore (piu' piccolo)
di se stesso". Questa e' la formula della nostra attuale schizofrenia, e
cioe' del fatto che le nostre varie facolta' operano separatamente, come
entita' isolate e prive di coordinazione che hanno perso il contatto fra
loro.
Ma non e' per formulare nozioni definitive e fatalmente disfattistiche su
noi stessi che devi formulare queste verita': ma, al contrario, per
inorridire della finitezza e per vedere in essa uno scandalo; per sciogliere
e allentare quei limiti irrigiditi e trasformarli in barriere da superare;
per revocare e abolire la schizofrenia. Naturalmente, finche' ti e' concesso
di sopravvivere, puoi anche metterti a sedere, rinunciare ad ogni speranza e
rassegnarti alla tua schizofrenia. Ma se non sei disposto a questo, devi
cercare di raggiungere te stesso, di portarti alla tua propria altezza. E
cio' significa (questo e' il tuo compito) che devi cercare di colmare
l'abisso fra le due facolta': la facolta' produttiva e la facolta'
riproduttiva; che devi livellare la differenza di altezza che le separa; o,
in altri termini, che devi sforzarti di allargare l'ambito limitato della
tua immaginazione (e quello ancora piu' ristretto del tuo sentimento),
finche' sentimento ed immaginazione arrivino ad apprendere e a concepire
l'enormita' che sei stato in grado di produrre; finche' tu possa accettare o
respingere cio' che hai inteso. Insomma, il tuo compito consiste
nell'allargare la tua fantasia morale.
*
Non aver paura di aver paura
Il tuo compito successivo e' quello di allargare il tuo senso del tempo.
Poiche' decisivo per la nostra situazione attuale non e' solo (cio' che
ormai sanno tutti) che lo spazio terrestre si e' contratto, e che tutti i
luoghi che si potevano considerare lontani fino a ieri sono ormai localita'
viciniori; ma che anche lo spazio temporale si e' contratto, e che tutti i
punti del nostro sistema temporale si sono avvicinati; che i futuri che
potevano sembrare fino a ieri a distanza irraggiungibile, confinano ormai
direttamente col nostro presente; che li abbiamo trasformati in comunita'
attigue. Cio' vale sia per il mondo orientale che per quello occidentale.
Per il mondo orientale, poiche' il futuro vi e' pianificato in una misura
senza precedenti; e il futuro pianificato non e' piu' un futuro "in grembo
agli dei", ma un prodotto in fabbricazione: che, per il fatto di essere
previsto, e' gia' visto come parte integrante dello spazio in cui ci si
trova. In altri termini: poiche' tutto cio' che si fa, lo si fa per quel
prodotto futuro, esso getta gia' la sua ombra sul presente, appartiene gia',
in un senso pragmatico, al presente stesso. E cio' vale, in secondo luogo
(ed e' il caso che ci riguarda), per gli uomini del mondo occidentale
attuale; poiche' questo, anche senza proporselo direttamente, opera gia' sui
futuri piu' remoti: decidendo, ad esempio, della salute o della
degenerazione, e forse dell'esistenza o dell'inesistenza dei suoi nipoti. E
non importa che esso, o, piuttosto, che noi, si miri consapevolmente a
questo risultato: poiche' cio' che conta, da un punto di vista morale, e'
soltanto il fatto. E dal momento che il fatto - l'"azione a distanza" non
pianificata - ci e' noto, continuando ad agire come se non sapessimo quello
che facciamo commettiamo un delitto colposo.
E il tuo pensiero successivo dopo il risveglio sia: "Non esser vile, abbi il
coraggio di aver paura! Astringiti a fornire quel tanto di paura che
corrisponde alla grandezza del pericolo apocalittico!" Anche e proprio la
paura fa parte dei sentimenti che siamo incapaci o riluttanti a fornire; e
dire che abbiamo gia' paura, che ne abbiamo anche troppa, e che viviamo,
anzi, nell'"epoca della paura", e' una frase priva di senso, che, se non e'
diffusa ad arte col preciso intento di ingannare, e' pur sempre uno
strumento ideale per impedire l'avvento di una paura veramente adeguata
all'enormita' del pericolo, e per renderci indolenti e passivi. - E' vero
piuttosto il contrario: che viviamo in un'epoca refrattaria all'angoscia e
assistiamo quindi passivamente all'evoluzione in corso. Percio' vi e' tutta
una serie di ragioni (a prescindere dai limiti della nostra capacita' di
sentire), che non e' possibile enumerare qui (1). Ma non possiamo fare a
meno di menzionarne una, a cui gli eventi del recente passato conferiscono
un'attualita' e un'importanza particolare. Si tratta della mania delle
competenze, e cioe' della persuasione, inculcata in noi dalla divisione del
lavoro, che ogni problema rientri in un determinato ambito giuridico in cui
non abbiamo il diritto di interferire e di dire la nostra. Cosi', per
esempio, il problema atomico rientra nella competenza dei politici e dei
militari. E questo "non aver diritto" si trasforma subito e automaticamente
in "non aver bisogno". In altri termini: non c'e' bisogno che mi occupi dei
problemi di cui non sono tenuto e autorizzato ad occuparmi. E posso fare a
meno di aver paura, poiche' la paura stessa viene "sbrigata" in un altro
ressort. Percio' ripeti dopo il tuo risveglio: "Res nostra agitur". Il che
significa due cose: 1) che la cosa ci riguarda perche' ci puo' colpire; e 2)
che la pretesa di alcuni a una competenza di carattere esclusivo e'
infondata, perche' siamo tutti, in quanto uomini, ugualmente incompetenti.
Credere che in puncto "fine del mondo" possa aver luogo una competenza
maggiore o minore, e che quelli che (in seguito a una divisione casuale del
lavoro, delle responsabilita' e dei compiti) sono diventati politici o
militari, e che si occupano della fabbricazione e dell'"impiego" della bomba
piu' attivamente o piu' direttamente di noi, siano percio' piu' "competenti"
di noi, e' una follia pura e semplice. Chi cerca di farcelo credere (che si
tratti di questi pretesi competenti o di altri) dimostra solo la sua
incompetenza morale. Ma la nostra situazione morale finisce per diventare
intollerabile quando quei pretesi competenti (che sono incapaci di vedere i
problemi se non in termini tattici) pretendono di insegnarci che non abbiamo
nemmeno il diritto di aver paura, e tanto meno di porci problemi morali: dal
momento che la coscienza morale implica una responsabilita', e la
responsabilita' e' affar loro, affare dei competenti; con la nostra paura,
con la nostra angoscia morale, invaderemmo - secondo loro - un campo di loro
competenza. In conclusione: devi rifiutarti di riconoscere un ceto
privilegiato, un "clero dell'apocalisse": un gruppo che si arroghi una
competenza esclusiva per la catastrofe che sarebbe la catastrofe di tutti.
Se ci e' lecito variare il detto rankiano ("ugualmente vicini a Dio"),
potremmo dire che "ognuno di noi e' ugualmente vicino alla fine possibile".
E percio' ognuno di noi ha lo stesso diritto, e lo stesso dovere, di elevare
ad alta voce il suo monito. A cominciare da te.
*
Contro la discussione di carattere tattico
Non solo la nostra immaginazione, la nostra sensibilita' e la nostra
responsabilita' vengono meno di fronte alla "cosa": ma non siamo neppure in
grado di pensarla. Poiche' sotto qualunque categoria cercassimo di
sussumerla, la penseremmo in modo sbagliato: per il semplice fatto di
ridurla sotto una determinata categoria o classe di concetti, ne faremmo un
oggetto fra gli altri e la minimizzeremmo. Anche se puo' esistere in molti
esemplari, e' unica nel suo genere, non appartiene a nessuna specie: e',
quindi, un monstrum. Disgraziatamente e' proprio questa ("mostruosa")
inclassificabilita' a portarci a trascurare la cosa, o a dimenticarla
addirittura. Tendiamo a considerare come inesistente tutto cio' che non
siamo in grado di classificare. Ma nella misura in cui si parla della cosa
(cio' che peraltro non avviene ancora nella conversazione quotidiana fra gli
uomini), tendiamo a classificarla (poiche' e' la soluzione piu' comoda e
meno inquietante) come un'arma, o piu' in generale come un mezzo. Ma essa
non e' un mezzo, poiche' e' essenziale alla natura del mezzo risolversi
nello scopo raggiunto e scomparire, come la via nella meta. Il che non
accade in questo caso. Poiche' anzi l'effetto inevitabile (e perfino
l'effetto consapevolmente ricercato) della cosa e' maggiore di ogni scopo
pensabile; poiche' questo, per forza di cose, scompare e si annulla
nell'effetto. Scompare e si annulla insieme al mondo in cui c'erano ancora
"fini e mezzi". Ed e' chiaro che una cosa che distrugge, con la sua sola
esistenza, lo schema "fini e mezzi", non puo' essere un mezzo. Percio' la
tua massima successiva sia: "Nessuno mi fara' credere che la bomba sia un
mezzo". E dal momento che non e' un mezzo come i milioni di mezzi che
compongono il nostro mondo, non puoi tollerare che sia prodotta come se si
trattasse di un frigorifero, di un dentifricio e nemmeno di una pistola, per
costruire la quale nessuno ci interpella. - E come non devi credere a quelli
che la chiamano un "mezzo", non devi credere nemmeno ai persuasori piu'
sottili che sostengono che la cosa serve esclusivamente alla "dissuasione",
ed e' prodotta, cioe', solo allo scopo di non essere usata. Poiche' non si
sono mai visti oggetti il cui impiego si esaurisse nel loro non essere
usati; o, tutt'al piu', vi sono stati oggetti che, in determinati casi, non
furono usati (e cioe' quando la minaccia del loro uso, spesso gia' avvenuto,
si era gia' rivelata sufficiente). Del resto, non dobbiamo mai dimenticare
che la cosa e' gia' stata "usata" realmente (e senza giustificazione
adeguata) a Hiroshima e Nagasaki. Infine, non dovresti permettere che
l'oggetto il cui effetto supera ogni immaginazione sia classificato in modo
falso con un'etichetta sciocca e minimizzante. Quando l'esplosione di una
bomba H e' definita ufficialmente "azione Opa" o "azione nonnino", non e'
solo una manifestazione di cattivo gusto, ma anche un inganno consapevole.
Inoltre devi opporti e ribellarti tutte le volte che la cosa (la cui
semplice presenza e' gia' una forma di uso) e' discussa da un punto di vista
puramente "tattico". Questo tipo di discussione e' assolutamente inadeguato,
poiche' l'idea di potersi servire tatticamente delle armi atomiche
presuppone l'esistenza di una situazione politica indipendente dal fatto
stesso della loro esistenza. Ma questa e' una supposizione affatto irreale,
poiche' la situazione politica (l'espressione "era atomica" e' perfettamente
giustificata) e' definita dal fatto delle armi atomiche. Non sono le armi
atomiche a presentarsi, fra le altre cose, sulla scena politica, ma sono gli
avvenimenti politici a svolgersi all'interno della situazione atomica; e la
maggior parte delle azioni politiche sono passi intrapresi all'interno di
questa situazione. I tentativi di utilizzare la possibilita' della fine del
mondo come una pedina sullo scacchiere della politica internazionale,
indipendentemente o meno dalla loro astuzia, sono segni di accecamento.
L'epoca delle astuzie e' finita. Percio' devi farti un principio di sabotare
tutte le analisi in cui i tuoi contemporanei cercano di esaminare il fatto
del pericolo atomico da un punto di vista puramente tattico, e di portare la
discussione sul punto essenziale: sulla minaccia che pesa sull'umanita' di
un'apocalisse provocata da lei stessa; e fallo anche a costo di essere
deriso come persona priva di realismo politico. In realta', ad essere poco
realisti, sono proprio i puri tattici, che vedono le armi atomiche solo come
mezzi, e che non capiscono che i fini che cercano o pretendono di
raggiungere mediante la loro tattica, sono completamente svuotati di
significato dall'uso (anzi, dalla semplice possibilita' dell'uso) di questi
mezzi.
*
La decisione e' gia' stata presa
Non lasciarti ingannare da chi sostiene che ci troveremmo ancora (e ci
troveremo forse sempre) nello stadio sperimentale, nello stadio delle
esperienze di laboratorio. Poiche' questa e' solo una frase. E non solo
perche' abbiamo gia' gettato delle bombe (cio' che molti stranamente
dimenticano), e l'epoca "in cui si fa sul serio" e' quindi gia' cominciata
da un pezzo; ma anche perche' (ed e' la ragione piu' importante) non e'
possibile parlare, in questo caso, di esperimenti. La tua ultima massima
sara', quindi, questa: "Per quanto felice possa essere l'esito degli
esperimenti, e' lo sperimentare stesso che fallisce". E fallisce perche' si
puo' parlare di esperimenti solo dove l'evento sperimentale non esce e non
spezza l'ambito isolato e circoscritto del laboratorio; condizione che non
si ritrova in questo caso. Poiche' fa proprio parte dell'essenza della cosa,
e dell'effetto ricercato della maggior parte degli esperimenti attuali,
accrescere il piu' possibile la forza esplosiva e il fall-out radioattivo
dell'arma; e cioe', per quanto contraddittoria possa essere la formula,
provare fino a che punto si possa superare ogni limite sperimentale. Cio'
che e' prodotto dai cosiddetti "esperimenti" non rientra piu', quindi, nella
classe degli effetti sperimentali, ma nello spazio reale, nell'ambito della
storia (dove si trovano, ad esempio, i pescatori giapponesi contagiati dal
fall-out) e perfino della storia futura, poiche' e' il futuro stesso ad
essere investito (ad esempio la salute delle prossime generazioni), e si
puo' quindi dire che il futuro, secondo la formula filosofica del libro di
Jungk, "e' gia' cominciato". E'  quindi del tutto illusoria e ingannevole
l'affermazione a cui si ricorre cosi' volentieri, che l'impiego della cosa
non e' stato ancora deciso. - E' vero, invece, che la decisione e' gia'
avvenuta attraverso i cosiddetti esperimenti. Fa quindi parte dei tuoi
doveri denunciare e distruggere l'apparenza che noi si viva ancora nella
"preistoria" atomica: e chiamare per nome cio' che e'.
*
Siamo manipolati dai nostri apparecchi
Ma tutti questi postulati e questi divieti si possono condensare in un solo
comandamento: "Abbi solo quelle cose le cui massime potrebbero diventare le
tue massime e quindi le massime di una legislazione universale".
E' un postulato che puo' lasciare interdetti: l'espressione "massime delle
cose" puo' sembrare, a tutta prima, paradossale. Ma solo perche' strano e
paradossale e' il fatto stesso designato dall'espressione. Cio' che vogliamo
dire e' solo che, vivendo in un mondo di apparecchi, siamo soggetti al
trattamento dei nostri apparecchi (e sempre in un modo determinato dalla
natura degli apparecchi). Ma poiche', d'altra parte, siamo gli utenti di
questi apparecchi, e trattiamo il nostro prossimo per mezzo di essi, finiamo
per trattare il nostro prossimo, anziche' secondo i nostri principi, secondo
i modi di operare degli apparecchi, e cioe', in certo qual modo, secondo le
loro massime. Il postulato esige che ci rendiamo conto di queste massime
come se fossero le nostre (dal momento che lo sono effettivamente e di
fatto); che la nostra coscienza morale, anziche' dedicarsi all'esame di se
stessa (che e' ormai un lusso privo di conseguenze), si dedichi a quello
degli "impulsi nascosti" e dei "principi" dei nostri apparecchi. Esaminando
scrupolosamente la propria anima alla maniera tradizionale, un ministro
atomico non vi troverebbe, probabilmente, nulla di particolarmente
peccaminoso; ma esaminando la "vita intima" dei suoi aggeggi, vi troverebbe
niente meno che l'erostratismo, e un erostratismo su scala cosmica; poiche'
erostratico e' il modo in cui le armi atomiche trattano l'umanita'. Solo
quando ci saremo abituati a questa nuova forma di azione morale ("l'analisi
del cuore degli apparecchi"), avremo qualche motivo di sperare che, dovendo
decidere del nostro essere o non-essere, sapremo decidere per la
conservazione del nostro essere.
*
Impossibilita' di non-potere
Il tuo principio successivo sia: "Non credere che quando saremo riusciti a
compiere il primo passo, la cessazione dei cosiddetti esperimenti, il
pericolo si possa considerare passato, e che noi si possa dormire sugli
allori". Poiche' la fine degli esperimenti non significa ancora quella della
produzione di bombe e tanto meno la distruzione delle bombe e dei tipi che
sono gia' stati sperimentati e che sono pronti per l'uso. Vi possono essere
varie ragioni per una cessazione degli esperimenti: uno stato vi si puo'
risolvere, ad esempio, perche' ogni ulteriore esperimento sarebbe superfluo,
dal momento che la produzione dei tipi sperimentati o la riserva di bombe
esistenti bastano gia' per ogni eventualita'; insomma, perche' sarebbe
assurdo e antieconomico uccidere l'umanita' piu' di una volta.
Non credere nemmeno che avremmo diritto di stare tranquilli una volta che
fossimo riusciti ad eseguire il secondo passo (l'arresto della produzione di
bombe A e H), o che potremmo metterci a sedere dopo il terzo passo (la
distruzione di tutte le riserve). Anche in un mondo completamente "pulito"
(e cioe' in un mondo dove non ci fossero piu' bombe A o H, e dove quindi,
apparentemente, non "avremmo" bombe), continueremmo, tuttavia, ad averle,
poiche' sapremmo come fare per produrle. Nella nostra epoca contrassegnata
dalla riproduzione meccanica non si puo' dire che un oggetto possibile non
esista, poiche' cio' che conta non sono gli oggetti fisici reali, ma i loro
tipi, i loro "modelli". Anche dopo aver eliminato tutti gli oggetti fisici
che hanno a che fare con la produzione delle bombe A o H, l'umanita'
potrebbe cadere vittima dei loro disegni. Si potrebbe concludere, allora,
che bisogna distruggere questi ultimi. Ma anche questo e' impossibile,
poiche' i modelli sono indistruttibili come le idee di Platone; in un certo
senso sono addirittura la loro realizzazione diabolica. Insomma, anche se ci
riuscisse di distruggere fisicamente i fatali apparecchi e i loro "modelli",
e di salvare cosi' la nostra generazione: anche questa sarebbe solo una
pausa, sarebbe solo una dilazione. La produzione potrebbe essere ripresa
ogni giorno, il terrore rimane, e dovrebbe restare, quindi, anche la tua
paura. D'ora in poi l'umanita' dovra' vivere, per tutta l'eternita', sotto
l'ombra minacciosa del mostro. Il pericolo apocalittico non si lascia
eliminare una volta per tutte, con un atto solo, ma solo con una serie
indefinita di atti quotidiani. Dobbiamo comprendere, insomma (e questa
comprensione finisce di mostrarci il carattere fatale della nostra
situazione), che la nostra lotta contro la permanenza fisica degli ordigni e
la loro costruzione, sperimentazione ed accumulazione rimane, in definitiva,
insufficiente. Poiche' la meta che dobbiamo raggiungere non puo' consistere
nel non-avere la cosa, ma solo nel non adoperarla mai, anche se non possiamo
fare in modo di non averla; nel non adoperarla mai, anche se non ci sara'
mai un giorno in cui non potremmo adoperarla.
Ecco quindi il tuo compito: far capire all'umanita' che nessuna misura
fisica, nessuna distruzione di oggetti materiali potra' mai rappresentare
una garanzia assoluta e definitiva, e che dobbiamo, invece, essere
fermamente decisi a non compiere mai quel passo, anche se sara', in un certo
senso, sempre possibile. Se non riusciamo - si', tu, tu ed io - a infondere
questa coscienza e questa convinzione nell'umanita', siamo perduti.
*
Note
1. Cfr. Guenther Anders, Die Antiquierheit des Menschen, C. H. Beksche
Verlagsbuchhandlung, pp. 264 sgg.

3. ET COETERA

Guenther Anders (pseudonimo di Guenther Stern, "anders" significa "altro" e
fu lo pseudonimo assunto quando le riviste su cui scriveva gli chiesero di
non comparire col suo vero cognome) e' nato a Breslavia nel 1902, figlio
dell'illustre psicologo Wilhelm Stern, fu allievo di Husserl e si laureo' in
filosofia nel 1925. Costretto all'esilio dall'avvento del nazismo,
trasferitosi negli Stati Uniti d'America, visse di disparati mestieri.
Tornato in Europa nel 1950, si stabili' a Vienna. E' scomparso nel 1992.
Strenuamente impegnato contro la violenza del potere e particolarmente
contro il riarmo atomico, e' uno dei maggiori filosofi contemporanei; e'
stato il pensatore che con piu' rigore e concentrazione e tenacia ha pensato
la condizione dell'umanita' nell'epoca delle armi che mettono in pericolo la
sopravvivenza stessa della civilta' umana; insieme a Hannah Arendt (di cui
fu coniuge), ad Hans Jonas (e ad altre e altri, certo) e' tra gli
ineludibili punti di riferimento del nostro riflettere e del nostro agire.
Opere di Guenther Anders: Essere o non essere, Einaudi, Torino 1961; La
coscienza al bando. Il carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly e
di Guenther Anders, Einaudi, Torino 1962, poi Linea d'ombra, Milano 1992
(col titolo: Il pilota di Hiroshima ovvero: la coscienza al bando); L'uomo
e' antiquato, vol. I (sottotitolo: Considerazioni sull'anima nell'era della
seconda rivoluzione industriale), Il Saggiatore, Milano 1963, poi Bollati
Boringhieri, Torino 2003; L'uomo e' antiquato, vol. II (sottotitolo: Sulla
distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale),
Bollati Boringhieri, Torino 1992, 2003; Discorso sulle tre guerre mondiali,
Linea d'ombra, Milano 1990; Opinioni di un eretico, Theoria, Roma-Napoli
1991; Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1995; Stato di necessita' e
legittima difesa, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Fi)
1997. Si vedano inoltre: Kafka. Pro e contro, Corbo, Ferrara 1989; Uomo
senza mondo, Spazio Libri, Ferrara 1991; Patologia della liberta', Palomar,
Bari 1993; Amare, ieri, Bollati Boringhieri, Torino 2004; L'odio e'
antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2006. In rivista testi di Anders sono
stati pubblicati negli ultimi anni su "Comunita'", "Linea d'ombra",
"Micromega". Opere su Guenther Anders: cfr. ora la bella monografia di Pier
Paolo Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Guenther Anders,
Bollati Boringhieri, Torino 2003; singoli saggi su Anders hanno scritto, tra
altri, Norberto Bobbio, Goffredo Fofi, Umberto Galimberti; tra gli
intellettuali italiani che sono stati in corrispondenza con lui ricordiamo
Cesare Cases e Renato Solmi.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 88 del 28 luglio 2007

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