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La domenica della nonviolenza. 110
- Subject: La domenica della nonviolenza. 110
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 6 May 2007 16:01:35 +0200
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 110 del 6 maggio 2007 In questo numero: 1. Rosangela Pesenti: Quale rapporto tra donne e nonviolenza? 2. Elena Pulcini: La violenza senza emozioni. Donne e nonviolenza 1. RIFLESSIONE. ROSANGELA PESENTI: QUALE RAPPORTO TRA DONNE E NONVIOLENZA? [Ringraziamo Rosangela Pesenti (per contatti: rosangela_pesenti at libero.it) per questo intervento. Rosangela Pesenti, laureata in filosofia, da molti anni insegna nella scuola media superiore e svolge attivita' di formazione e aggiornamento. Counsellor professionista e analista transazionale svolge attivita' di counselling psicosociale per gruppi e singoli (adulti e bambini). Entrata giovanissima nel movimento femminista, nell'Udi dal 1978 di cui e' stata in vari ruoli una dirigente nazionale fino al 2003, collabora con numerosi gruppi e associazioni di donne. Fa parte della Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre, della Convenzione delle donne di Bergamo, collabora con il Centro "La Porta", con la rivista "Marea" e la rivista del Movimento di cooperazione educativa. Tra le opere di Rosangela Pesenti: Trasloco, Supernova editrice, Venezia 1998; (con Velia Sacchi), E io crescevo..., Supernova editrice, Venezia 2001; saggi in volumi collettanei: "Antigone tra le guerre: appunti al femminile", in Alessandra Ghiglione, Pier Cesare Rivoltella (a cura di), Altrimenti il silenzio, Euresis Edizioni, Milano 1998; "Una bussola per il futuro", in AA. VV., L'economia mondiale con occhi e mani di donna, Quaderni della Fondazione Serughetti - La Porta, Bergamo 1998; AA. VV., Soggettivita' femminili in (un) movimento. Le donne dell'Udi: storie, memorie, sguardi, Centro di Documentazione Donna, Modena 1999; "I luoghi comuni delle donne", in Rosangela Pesenti, Carmen Plebani (a cura di), Donne migranti, Quaderni della Fondazione Serughetti - La Porta, Bergamo 2000; "Donne, guerra, Resistenza" e "Carte per la memoria", in AA. VV., Storia delle donne: la cittadinanza, Quaderni della Fondazione Serughetti - La Porta, Bergamo 2002; Caterina Liotti, Rosangela Pesenti, Angela Remaggi e Delfina Tromboni (a cura di), Volevamo cambiare il mondo. Memorie e storie dell'Udi in Emilia Romagna, Carocci, Firenze 2002; "Donne pace democrazia", "Bertha Von Suttner", "Lisistrata", in Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo (a cura di), Donne Disarmanti, Intra Moenia, Napoli 2003; "I Congressi dell'Udi", in Marisa Ombra (a cura di), Donne manifeste, Il Saggiatore, Milano 2005; "Tra il corpo e la parola", in Io tu noi. Identita' in cammino, a cura dell'Udi di Modena, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, 2006] Quale rapporto tra donne e nonviolenza? Alle storiche il compito di raccontare quando dove e come le donne, non astratti soggetti filosofici ma concrete viventi, hanno ricomposto lacerazioni, ricostruito condizioni di sopravvivenza, conservato sistemi, ambienti, persone, culture, utilizzando quei gesti di cura affinati nel corso di una lunga, varia, creativa e sofferta storia di divisione del lavoro tra produzione e riproduzione della vita della specie umana. La segregazione e la discriminazione sociale, a lungo motivate con il ruolo materno, in larga parte invenzione modellata intorno all'onnipotenza pubblica del ruolo paterno, hanno determinato insieme a fin troppo visibili danni sociali e sofferenze individuali, una minore dimestichezza delle donne con la violenza: armi, oggetti, gesti, relazioni, organizzazioni, costruite sull'idea di un nemico da sottomettere, umiliare ed eliminare fisicamente, insomma tutto cio' che nel senso comune riguarda l'organizzazione e la pratica della violenza, dalla guerra ai pestaggi. L'evidenza di questa minore dimestichezza va riconosciuta nel cosiddetto privato ma soprattutto nel cosiddetto pubblico (1), resa visibile e debitamente elaborata perche' rappresenta un patrimonio di conoscenze e pratiche che possono essere trasmesse con reciproca soddisfazione e utilita' a bambini e giovani di entrambi i sessi, altrimenti, continuamente rivendicata dalle donne puo' diventare astratta litania fino a sfociare nel fondamentalismo della innata positivita' del genere femminile. Non avendo carichi o incarichi pubblici, cioe' di rappresentanza e rappresentazione del rapporto tra bisogni condizioni istanze leggi progetti e diritti in ordine a quel bene pubblico che costruisce e giustifica la politica, non posso spendere il mio tempo per stendere e presentare un concreto progetto che esemplifichi la praticabilita' sociale di quanto ho sinteticamente affermato. Continuo a considerare una conquista democratica l'indennita' di "servizio" riconosciuta a parlamentari e governanti perche' non abbiano quelle occupazioni e preoccupazioni economiche che impediscono spesso perfino di pensare, anche se oggi mi sembra che l'indennita' sia cosi' cospicua e articolata da assomigliare piu' al privilegio economico e sociale dell'antico regime che alla modernita' di un sogno democratico purtroppo ancora in fieri e questo certo riguarda direttamente anche i meccanismi di selezione del ceto politico. Comunque a loro spetta il compito di tradurre in concretezza cio' che oggi e' collettivamente indispensabile ed e' loro quindi la responsabilita' anche delle "non scelte" e non solo quando sono guidate da convinzioni profonde, ma soprattutto quando sono frutto di opportunismo, calcolo meschino, piccineria fino all'ignoranza e all'incompetenza difese con arroganza. Scrivo come privata cittadina, a nessun titolo quindi, ne' accademico ne' altro, solo perche' richiesta a ragione della mia storia, accetto la responsabilita' di espormi con qualche parola che mi auguro sia sufficientemente sobria da non occupare lo spazio delle mail quotidiane con inutili ridondanze. * Penso che la nonviolenza, per uscire dalle definizioni un po' manualistiche (2) di pratiche nobili ma generiche, andrebbe ripensata a partire dagli individui umani concreti e quindi donne e uomini, adulti e anziani, bambini e bambine, ragazzi e ragazze di varia eta' provenienza estrazione sociale e storia famigliare, per poter esprimere appieno quell'efficacia sociale che determina il circolo virtuoso dei comportamenti che legano le vite individuali al destino comune e possono consentire di cambiare il mondo in un habitat piu' favorevole a tutti e tutte. Le attuali articolazioni intorno alla nonviolenza hanno molto a che fare con la storia del genere maschile e come donna mi sento, giustamente, a posto con la coscienza perche' sono per lo piu' pratiche che mi sono totalmente estranee, delle quali non so nemmeno se saprei appropriarmene in momenti eccezionali, perche' anche i gesti hanno bisogno di qualche rodaggio e spesso si possono usare piu' utilmente quelli gia' appresi, come hanno ampiamente dimostrato molte donne durante le guerre (3). Non e' mio compito indicare agli uomini le strade da percorrere per confrontarsi con la propria storia, ma certo che lo facciano e' urgente per tutti e, come si dice ai bambini (non sempre correttamente) "e' per il vostro bene". Per aiutare tale scelta sarebbe certo utilissima una riequilibrata rappresentanza dei generi nelle istituzioni politiche e via via, per la regola civile di non sopraffazione tra i sessi, in tutte le istituzioni pubbliche e le professioni e i mestieri. Non e' utopia perche' se e' possibile immaginare oltre e' possibile anche realizzare e, tanto per stare in tema, con la violenza siamo gia' andati molto oltre l'immaginabile. Come donna mi interessa uscire da una definizione di genere che mi inchiodi ad una storia o ad una tipologia ma sento che per imparare/inventare pratiche nonviolente non posso sfuggire al confronto con la storia del genere in cui sono stata collocata alla nascita e in cui sono cresciuta. Devo misurarmi con omerta', omissione, sottomissione, ignavia, opportunismo, silenzio, dissimulazione, adattamento, manipolazione, insomma tutti i comportamenti che favoriscono la costruzione di una complicita' muta e radicata, in forme simili ma per ognuna diverse, in modo capillare, nella scansione delle ore quotidiane, nelle abitudini minute, nelle strutture relazionali delle famiglie e dintorni. La violenza, in qualunque forma, ha bisogno di un palcoscenico in cui manifestarsi, con comparse che si muovono in sintonia con le scenografie, lo sfondo, e spettatori seduti al proprio posto, persone con ruoli diversi che consentono e condividono il significato dell'azione principale, perfino nel rito dell'esecrazione. In questi ruoli di comparse e spettatori il confine tra donne e uomini conosce anche zone incerte e mescolanze, ma ad uno sguardo d'insieme e' certamente delle donne il compito di ripulire, riassettare, preparare pranzo e cena agli astanti, soffiare il naso ai bambini, inamidare le camicie, riassettare e ripulire la scena per restituirla ogni giorno e ovunque pronta all'uso. Non a caso i sistemi politici oppressivi o le associazioni delinquenziali non stanno in piedi se le donne escono dalla complicita' e assumono la responsabilita' della parola e dell'agire. Non e' facile cambiare perche' sono comportamenti impastati con le mille strategie di sopravvivenza fisica e psichica a cui siamo costrette a ricorrere proprio per l'impossibilita' di accedere alla gestione diretta dei beni e delle risorse, ma non per questo oggi, nella condizione di cittadine, siamo meno responsabili. * Occorre pensare la nonviolenza in analogia con quella manualita' fine che occorreva un tempo per mondare il riso, togliere il filo ai fagiolini, insomma pratiche che richiedono di aguzzare la vista, affinare le parole, misurare i passi, verificare ogni sera e non allo scadere della finanziaria, impegnarsi nella solitudine della quotidianita' perche' la rappresentazione collettiva diventi piu' condivisione di una festa che rito di protesta, celebrazione della conquista di cio' che siamo come piattaforma che sostiene cio' che vogliamo, cosi' come abbiamo felicemente intuito e appena sperimentato in molte manifestazioni femministe degli anni '70. Sono passata consapevolmente dal singolare al plurale e non solo per la felice abitudine linguistica appresa nel movimento delle donne che e' stato la culla della mia vita, dopo quella preparata da mia madre, ma perche' so che c'e' per tutte se non l'esperienza, almeno la memoria di molti aspetti di una condizione comune e perche' mi piacerebbe che questo "noi" si traducesse in una rivolta consapevole, pacifica, ironica e determinante come quella di Lisistrata. Non quell'autointerdizione, singolarmente un po' triste, al fare bambini, che e' oggi una responsabilita' individuale interamente sulle spalle e sulla pelle delle giovani donne, del cosiddetto mondo sviluppato, che si misurano con la riduzione delle opportunita' e la mortificazione della propria soggettivita' (per dirla in modo elusivo), ma una solidale consapevolezza che impegnando ognuna nel protagonismo della propria vita non intacca le basi della sopravvivenza, ma riesce a destrutturare i pilastri del potere che sono solidi solo finche' noi continuiamo a pensarli tali. * Non mi appassiona il moderatismo delle idee che non ha niente da spartire con la cautela del fare, l'attenzione alle diversita', l'ascolto e il dialogo, il rispetto di storie, condizioni, sensibilita'; non amo il linguaggio opaco di molta parte del ceto politico, e purtroppo soprattutto di quello che ha maggior spazio e potere nei media, che confonde scenari e mete con i passi concreti in cui si misura la fatica di camminare come se fossimo regrediti a un tempo che ignora l'invenzione delle mappe, spiegandoci che il massimo raggiungibile e' il cammino che si misura, senza l'aiuto di una bussola, tra il sorgere e il calare del sole. In questo moderatismo un po' astratto un po' "buonista" (e scusate il pessimo neologismo) cadiamo talvolta, con le migliori intenzioni, anche noi donne, o almeno questo sembra a me, conficcata nei miei giorni piccini in una periferia ammutolita nell'incantesimo di un'arcaica modernita' (4). L'urgenza dell'introduzione di una clausola di non sopraffazione tra i sessi, che non e' traducibile nemmeno lontanamente con le quote, ed e' efficacemente sintetizzata nello slogan del 50&50 in parlamento e nelle assemblee elettive, si motiva e si sostiene proprio con la scelta nonviolenta. Aver parlato di quote in un tempo in cui eravamo ancora visibili come innovativo soggetto politico che avviava importanti riflessioni sul senso della politica, dalla revisione dei suoi fondamenti discriminatori nei confronti delle donne, alle questioni della rappresentanza e della cittadinanza, e' stato un errore politico proprio perche' ha posto come obiettivo moderato cio' che poteva essere frutto di contrattazione, confondendo l'orizzonte con i passi per arrivarci. Non ce ne siamo rese conto allora? Solo alcune, con scarsa o nessuna possibilita' di essere ascoltate. Ero allora, secondo la definizione che altre hanno dato di me, una giovane promettente dirigente dell'Udi, ma non avevo "la storia giusta" per dare visibilita' e contrattualita' sociale ad un'intuizione che i fatti hanno poi realizzato. E certo non e' stata d'aiuto alla riflessione politica l'esaltazione di un'astratta liberta' femminile, data in natura anche alle donne secondo la lezione del cogito di cartesiana memoria, proclamata da tutta quella parte di movimento che esprimeva anche un'intellighenzia femminile accademica e quindi presa in considerazione, e ammirazione, da parte del risicato ceto politico femminile selezionato prevalentemente al ribasso ormai anche dai partiti della sinistra storica. Da liberazione a liberta', dalla concretezza delle vite all'astrattezza delle filosofie, abbiamo dovuto misurare ben presto la nostra arroganza bianca e occidentale non solo con le dure istanze delle donne di altri colori e altri continenti, ma anche con le precarieta' di varia natura, quella del lavoro e' solo la piu' eclatante, di figlie e figli di cui abbiamo la responsabilita' anche se non li abbiamo direttamente partoriti. * Mi espongo parlando di errore perche' ritengo che l'importanza di questo dibattito richieda uno sforzo di autenticita' e il giudizio politico e' quella parte di me che si confronta con l'altra proprio perche' non ne vuole la cancellazione e nemmeno la sconfitta, ma intende definire un terreno d'incontro in cui sia possibile se non camminare almeno sostare in un bivacco insieme. La clausola di non sopraffazione tra i sessi e' resa necessaria proprio dalla rinuncia alla violenza, sia quella tradizionalmente definita e praticata, in maggioranza dall'universo maschile, sia nell'accezione piu' sottile e ancora sommersa che esprime la complicita' di molta parte dell'universo femminile, e rappresenta il primo passaggio per cominciare a misurarsi con le pratiche nonviolente e costruire le condizioni perche' possano liberamente espandersi e arricchirsi quelle che ognuno inventa e sceglie per la propria vita. La cancellazione delle donne, anche attraverso la selezione e la distorsione della visibilita', seguita alla sconfitta politica del quel soggetto che dalle ragazze della Resistenza e le madri della Costituzione arriva fino al il femminismo degli anni '70, segnando alcune delle piu' importanti tappe di realizzazione della Costituzione stessa, e' stato certamente uno dei fattori determinanti per l'imbarbarimento della politica e l'arretramento della societa'. * L'urgenza del riequilibrio della rappresentanza non puo' pero' fermarsi ad una regola o uno slogan. Sappiamo che non basta essere donne e la scuola ce lo dimostra con la persistenza di modelli e saperi trasmessi con una fedelta' che anni fa, non a torto, ha motivato l'accusa alle insegnanti di essere le vestali della classe media. Ho scelto di fare l'insegnante perche' pensavo che la scuola poteva essere un luogo di esercizio della cittadinanza nella feconda relazione con giovani generazioni. La scuola non ha cambiato me (e nel tempo ho escogitato e praticato tutte le forme di resistenza nonviolenta all'ottusita', alla prevaricazione, alla mortificazione di allieve e allievi) ma io non ho cambiato la scuola che e' rapidamente peggiorata con l'introduzione di logiche aziendali obsolete ormai perfino nei luoghi della produzione dove sono nate. La scuola e' il luogo che piu' di ogni altro ci cattura nella complicita', spesso involontaria, richiamandoci alla tutela della sopravvivenza quotidiana che disperde in mille gesti e parole e fatiche di cura la possibilita' di fermarsi e scegliere consapevolmente. Se da un lato la scuola sta in piedi grazie alle donne non e' detto che abbia davvero un senso l'azione di babysitteraggio sociale, misconosciuto sul piano economico come su quello dell'immagine sociale, ed e' davvero miserabile l'immagine collettiva della mia generazione, oggi la piu' vecchia presente nella scuola per il silenzio complice sulla trafila di pratiche umilianti alle quali vengono costretti giovani colleghi e colleghe che per necessita', avventura o passione vogliono ancora cimentarsi con questa nobile professione. Per questo so che e' indispensabile ma non basta il riequilibrio della rappresentanza se non cominciamo a discutere dei meccanismi di formazione della rappresentanza stessa. La rappresentazione pubblica della differenza di genere puo' aprire alla rappresentazione di tutte le differenze, di generazione come di salute fisica e perche' no, in attesa di piu' complesse e sofisticate definizioni sociali e visto che siamo comunque ai primordi, non mi dispiacerebbe ricominciare a pensare anche in termini di classe. Ma questo apre altri capitoli e ho gia' abusato della pazienza di chi vuole leggere fino alla fine. * Note 1. Cosiddetto perche' spesso i gesti del "privato" consentono e promuovono cittadinanza, mentre sono vigenti e tollerate nel "pubblico" logiche di trasmissione famigliare di opportunita', patrimoni e altro che sono in contraddizione con l'universalismo dello Stato liberale prima che contrarie alla democrazia. 2. Non ho niente contro i manuali purche' si affianchino e non sostituiscano opere, esperienze, persone come spesso accade nella scuola. 3. In Italia abbiamo testimonianza di questo nella Resistenza al nazifascismo, cfr. lo straordinario lavoro di ricerca di Anna Bravo e, purtroppo, poche altre, spesso piu' sconosciute di quanto meritino. 4. Sinteticamente: grande benessere e dissipazione, crescenti ricchezze, ignoranza e alienazione di senso. Insomma il "profondo nord", la malattia di una "questione settentrionale" ostinatamente e ottusamente ignorata. 2. RIFLESSIONE. ELENA PULCINI: LA VIOLENZA SENZA EMOZIONI. DONNE E NONVIOLENZA [Ringraziamo Elena Pulcini (per contatti: e_pulcini at philos.unifi.it) per questo intervento. Elena Pulcini e' professore ordinario di Filosofia sociale presso il Dipartimento di filosofia dell'Universita' di Firenze; al centro dei suoi interessi e' il tema delle passioni nell'ambito di una teoria della modernita' e dell'individualismo moderno, con un'attenzione anche al problema della soggettivita' femminile; acuta saggista, da anni riflette su decisivi temi morali e politici in dialogo con le esperienze piu' vive del pensiero delle donne, dei movimenti solleciti del bene comune per l'umanita' e la biosfera, e della ricerca filosofica, e specificamente assiologica, epistemologica e politica contemporanea; fa parte della redazione della rivista "Iride" (Il Mulino) e del Comitato scientifico della rivista "La societa' degli individui" (Angeli); fa parte, per l'Universita' di Firenze, del progetto europeo "Athena" (European Thematic Network Project for Women's Studies Athena) diretto da Rosi Braidotti (Universita' di Utrecht); fa parte della Giunta direttiva della Societa' Italiana di Filosofia Politica (Sifp). Fa parte del gruppo fondatore del "Collegio Italiano di Filosofia Sociale Alfredo Salsano" diretto da Giacomo Marramao; ha curato opere di Rousseau e Bataille. Tra le opere di Elena Pulcini: La famiglia al crepuscolo, Editori Riuniti, Roma 1987; (a cura di), Teorie delle passioni, Kluwer, Dordrecht, Bologna 1989; Amour-passion e amore coniugale. Rousseau e l'origine di un conflitto moderno, Marsilio, Venezia 1990 (trad. francese c/o Champion-Slatkine, Parigi 1998); (a cura di, con P. Messeri), Immagini dell'impensabile. Ricerche interdisciplinari sulla guerra nucleare, Marietti, Genova 1991; L'individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001 (traduzione tedesca presso l'editore Diaphanes, Berlino 2004; ristampa 2005); (a cura di, con Dimitri D'Andrea), Filosofie della globalizzazione, Ets, Pisa 2001, 2003; Il potere di unire, Bollati Boringhieri, Torino 2003; con Mariapaola Fimiani, Vanna Gessa Kurotschka (a cura di), Umano, post-umano, Editori Riuniti, Roma 2004] Devo subito premettere che il tema su cui mi si chiede di proporre qualche riflessione - donne e nonviolenza - mi coinvolge "visceralmente", per usare un termine caro a Maria Zambrano. La violenza infatti prolifera a livello planetario assumendo infinite forme, essa e' forse l'evento piu' sconcertante del nostro tempo recente che non ci consente di affidarci ad una illuministica e compiaciuta fiducia negli effetti pacifici della modernita' e del progresso. Riemergono passioni arcaiche, quale faccia oscura e inquietante di una crescente a-patia. L'eta' globale sembra caratterizzata da questa forbice tra, da un lato, un'assenza di pathos alimentata dal consumismo e dall'omologazione, dalla disaffezione alla sfera pubblica e dall'individualismo senza limiti; e dall'altro un eccesso di pathos, che spesso assume le forme assolutistiche della pretesa identitaria e di comunita' chiuse e regressive. Conflitti identitari e guerre senza fine, scontri etnico-religiosi e atrocita' di ogni genere, riemergere della paura come cio' che piu' o meno sotterraneamente corrode la vita quotidiana, nuove forme di de-umanizzazione dell'altro e "invenzione" del nemico, sono fenomeni che ci pongono di fronte a sfide inedite cogliendoci di sorpresa, e che affrontiamo malamente con gli strumenti tradizionali della ragionevolezza. C'e' inoltre il diffondersi e l'amplificarsi della micro-violenza quotidiana: aggressioni e stupri, molestie sessuali su donne e bambini, mobbing e ricatti in ambito lavorativo, bullismo adolescenziale e delitti perpetrati "per futili motivi"... Sembra di assistere a quello che freudianamente possiamo definire il "ritorno del rimosso", che del rimosso appunto possiede la potenza e l'incontrollabilita'. Qual e' allora il ruolo delle donne in questo scenario? * Le donne, lo sappiamo, sono sempre state associate alla pace, alle passioni empatiche e relazionali, alla solidarieta' e alla cura. Le diverse tradizioni del femminismo hanno per lo piu' confermato questa identificazione. Sia che ci si appelli al materno e all'ontologia della dualita', sia che si proponga l'idea di un soggetto in relazione, alternativo al soggetto monologico occidentale e moderno, sia che si assumano come portatrici di un'etica della cura che le vede attente all'altro e al contesto, le donne sono sempre state rappresentate come estranee alla violenza, che sembra caratterizzarsi come essenzialmente maschile. Valorizzare l'eredita' simbolica della relazione significa poter pensare un'idea di soggettivita' diversa da quella, egemone, del soggetto occidentale moderno, responsabile delle derive individualistiche e delle patologie che affliggono le nostre societa' democratiche, segnate dall'atomismo e dall'indifferenza, dal conflitto e da un preoccupante deficit di solidarieta'. La violenza in altri termini si connota come l'effetto inevitabile del soggetto acquisitivo e predatorio, strumentale e conflittuale, animato dalla passione del potere e dalla brama di dominio che, soprattutto a partire dalla modernita', ha coinciso con il soggetto maschile e patriarcale. Le donne sono sempre state semmai quelle che subiscono la violenza: sia essa aggressiva o silenziosa, palese o sotterranea. Oggetti di esclusione o di aggressione, di svalutazione o di dominio, le donne, dagli spazi segreti e nascosti della sfera intima fino a quelli piu' visibili della sfera pubblica, sono vittime di una duplice forma di violenza: quella che si esercita sui corpi (maltrattamenti, molestie, stupri) e quella che si esercita sulle emozioni (sempre per lo piu' controllate e guidate da un potere maschile geloso della propria egemonia). Le conquiste innegabili ottenute negli ultimi decenni non bastano a smentire questa realta', la quale si ripresenta invece ciclicamente a testimonianza di una sua permanente latenza, pronta a manifestarsi di nuovo, e paradossalmente, nei momenti in cui le donne sembrano aver raggiunto traguardi di liberta' e di dignita'. * Come ho gia' avuto modo di sottolineare altrove, le conquiste femminili sembrano possedere la desolante caratteristica di non poter mai essere, neppure nel nostro Occidente compiaciuto dei propri fondamenti progressisti e delle proprie premesse libertarie, considerate definitive, ne' di poter riposare su traguardi acquisiti. Non solo perche' si profilano sempre, sul piano politico e legislativo, minacciose inversioni di rotta e sconcertanti ritorni indietro, ma anche perche' lo stesso tessuto culturale ci pone quotidianamente di fronte a piccole e grandi violenze, soprusi o semplici indifferenze che testimoniano del permanere, piu' o meno sotterraneo, di pratiche di aggressione e di misconoscimento. Basti pensare, solo per restare all'Italia, al moltiplicarsi di episodi di violenza (gli stupri a Milano l'estate scorsa, la violenza sessuale a Roma e Napoli, delitti d'amore e di gelosia, molestie e violenza in ambito domestico) che, a dispetto delle conquiste giuridiche, riesplodono per ogni dove, spesso nell'indifferenza generale. Si tratta inoltre di episodi che non e' certo possibile scaricare sulla presenza "contaminante" di soggetti e culture altre, ancora dichiaratamente fondate su un atavico potere patriarcale. Nonostante il rumore fatto l'estate scorsa dai mass media sul caso di Hina (uccisa da padre e fratelli in quanto trasgressiva della legge islamica), quale evento simbolico di una "arretratezza" e di una ferocia arcaica da cui l'occidente illuminato sarebbe immune; e malgrado il dilagare del dibattito sulla questione del "velo", dibattito spesso subdolamente connivente con il pericoloso mito dello "scontro di civilta'", non e' possibile ignorare i tanti episodi di violenza autenticamente nostrana che infestano le nostre citta' consegnandole, soprattutto per quanto riguarda la popolazione femminile, alla paura e all'insicurezza che spesso pervadono le stesse mura domestiche. Sappiamo infatti che la prima causa di morte e di invalidita' permanente per le donne europee tra i 16 e i 44 anni e' la violenza dei mariti, dei compagni, dei padri; che il 90% di stupri, maltrattamenti, violenze fisiche e psicologiche degli uomini sulle donne avviene in casa; che ogni 4 minuti in Italia, e ogni 90 secondi negli Stati Uniti una donna viene stuprata. Insomma violenze e delitti di ogni sorta, a cui va tristemente ad aggiungersi la lista recentissima e quantomai inquietante della violenza fra gli adolescenti, in cui quasi sempre la vittima e' una giovane teen-ager che diventa malauguratamente ostaggio di piccoli bulli in cerca di una distorta identita'. Si assiste inoltre al permanere di un altro tipo di violenza, meno eclatante e piu' indiretta, ma non per questo meno efficace, che e' quella della mercificazione e spettacolarizzazione dell'immagine e del corpo femminile che continua indisturbata ad imporsi, veicolata attraverso schermi di ogni tipo (la tv, il cinema, internet); violenza tutt'altro che nuova, bensi' coeva a quella "societa' dello spettacolo" che da tempo erode ogni contenuto e valore, ma che attinge oggi nuovo vigore dall'imperversare di una logica competitiva selvaggia, alimentata dal modello delle "sfide" televisive e del "saranno famosi", spingendo le donne, soprattutto le piu' giovani, ad inseguire il sogno postmoderno di almeno un frammento di visibilita'. Da sponde apparentemente opposte, queste due forme di violenza finiscono di fatto per convergere nel riconfermare, ancora una volta, quel pernicioso e secolare pregiudizio che consiste nella identificazione delle donne con il corpo, con il loro corpo; il quale, velato o scoperto, ammirato o violato, assoggettato o trasgressivo, continua ad essere, sempre e comunque, il fondamento granitico su cui, attraverso le culture, viene costruita l'identita' femminile. * Le donne dunque, da sempre oggetto di violenza, sono anche coloro che hanno imparato a costruire forme di resistenza e a proporre modelli, e soprattutto pratiche, alternativi: modelli e pratiche fondate su una diversa relazione con l'altro e sui valori dell'attenzione e della cura, a partire, prioritariamente, dal riconoscimento della ontologica dipendenza del soggetto e della figura dell'altro come cio' che intimamente ci costituisce. Eppure assistiamo oggi ad un evento nuovo che vede le donne stesse artefici di violenza: madri assassine e sfruttatrici dei propri figli, donne che immolandosi compiono stragi di innocenti ed inermi, donne aguzzine e torturatrici. La tentazione, di fronte a quest'orrore, e' quella di non vedere, di rimuovere, di ricondurre ogni caso al parametro dell'eccezionalita'. Ma la rimozione, lo dicevo sopra, non e' mai una buona scelta. Meglio, invece, cercare un senso a tutto questo. E cercare un senso significa, a mio avviso, in primo luogo distinguere tra le diverse epifanie della violenza al femminile. Se e' vero infatti che l'immagine della madre assassina e' uno dei piu' potenti tabu' che non riusciamo a metabolizzare nelle nostre coscienze, e' vero anche che spesso dietro quest'immagine si cela un vissuto di sofferenza, di umiliazione e di ferite che riesce ad assumere solo le forme distorte del sacrificio di cio' che e' (dovrebbe essere) quanto di piu' caro. Forse qui il ricorso al mito ci puo' aiutare: quando Medea compie il piu' atroce degli atti uccidendo i propri figli, lo fa perche' si ribella alla scelta di Giasone di sposare Creusa, figlia di Creonte: una scelta (quella di Giasone) che e' dettata non dall'amore ma dalla brama di potere, e che tradisce la sacralita' della relazione d'amore. Medea punisce Giasone non per l'abbandono, ma per il tradimento della relazione, che equivale a negare lei stessa come soggetto d'amore, come soggetto di passione. Si tratta allora di scoprire un senso anche laddove si viene piu' acutamente invasi dall'orrore, come tuttora accade, e sempre piu' frequentemente, di fronte alle cronache giornalistiche di madri assassine, che ci confermano la triste attualita' della figura di Medea. Piu' bisognosa di pietas che di condanna, Medea ci costringe a superare la ripulsa di fronte al piu' potente dei tabu', rivelando alla nostra coscienza contemporanea gli esiti fatalmente nefasti di quella che per le donne e' la fonte piu' atroce della sofferenza: il tradimento della relazione. Si tratta dunque di una violenza che ha ancora una fonte emotiva, che trova origine in un, sia pur distorto e distruttivo, pathos. Potremmo dire lo stesso di quelle donne-bomba che, fuori dall'Occidente, si sacrificano immolandosi e trascinano con se' nel proprio destino vittime innocenti. Anche qui c'e' a monte una ferita, una condizione umiliante e intollerabile che trova un atroce sollievo in un atto disperato di condivisione del sangue e della morte. * Il problema si fa invece piu' grave laddove ci troviamo in presenza di una forma inedita di violenza: quella che vorrei definire la violenza senza emozioni, di cui un caso emblematico e' quello delle donne aguzzine e torturatrici. Pensiamo alle immagini di Abu Graib... La soldatessa americana che poggia il piede su un mucchio di corpi iracheni torturati e che si fa fotografare sorridendo, e' un'immagine ancora piu' inquietante del nazista che spinge grappoli di ebrei nella camera a gas. Perche' nel primo caso c'e' appunto, piu' che l'odio per il nemico ideologicamente legittimato, una sorta di autocompiacimento indifferente che consente di spettacolarizzare la sofferenza e la morte, svuotandole di ogni tipo di partecipazione emotiva. Il processo di de-umanizzazione in cui la riduzione dell'altro ad una non-persona si compie attraverso l'umiliazione e la mortificazione del corpo non e' qualcosa di nuovo. Si tratta di un fenomeno che gia' conosciamo, basti, appunto, pensare ad Auschwitz e alle immagini desolanti di corpi scheletrici ammucchiati in ammassi anonimi ed informi. Ma qui c'e' qualcosa di piu', qualcosa che ci impietrisce perche' non riusciamo a intravvederne il senso, neppure un senso distruttivo e terribile: qualcosa che vorrei chiamare una anestesia delle emozioni. Qui noi avvertiamo oscuramente il pericolo di essere inghiottiti dall'assenza di ragioni e di passioni, da un meccanismo anestetico che appiattisce ogni esperienza, anche la piu' estrema, in una indifferenziazione senza pathos e senza dramma, per la quale non disponiamo neppure di figure mitiche che in qualche modo ci aiutino a trovare un senso. E' questa la violenza - certo non solo femminile, ma che e' oggi arrivata a contaminare anche le donne - che piu' di ogni altra dobbiamo temere, perche' la perdita di contatto con le proprie emozioni e' il piu' orribile spettro da esorcizzare e da affrontare. * Quali risorse abbiamo, e in particolare, quali risorse hanno le donne per contrastare questa angosciante deriva? Forse e' proprio quella prossimita' alle emozioni che le donne hanno potuto e saputo conservare grazie, paradossalmente, alla loro marginalita' ed esclusione; ma che sembra oggi richiedere un impegno ulteriore, una rinnovata e tenace capacita' di custodire, contro la deriva dell'indifferenza, un bene prezioso, un dono da non sperperare. Bisogna preservare e alimentare l'Antigone che abita dentro ognuna di noi, rafforzarne la potenza per riattivare, sempre ed ovunque, la forza dirompente della sua pietas e la sua capacita' di commuoversi. La pietas di Antigone e' testimonianza simbolica della capacita' di identificarsi con l'altro a partire dalla condivisione della sofferenza, della debolezza e della fragilita' dell'altro che diventa specchio della nostra stessa sofferenza, debolezza, fragilita'. E' dunque attenzione alla singolarita' dell'altro, e proprio in questo senso essa puo' costituire un efficace antidoto alla violenza senza emozioni, la quale al contrario e' diniego della singolarita' dell'altro, aggressione dettata dall'indifferenziazione, oltraggio verso qualcuno che e' stato preventivamente spogliato del nome e del volto. Dobbiamo pero' fare un passo ulteriore: perche' non si deve dimenticare che Antigone si commuove per qualcuno che ama, che le e' familiare, a cui la lega addirittura un legame di sangue. Noi oggi non possiamo piu' limitarci ad una pietas verso l'oggetto d'amore, verso l'altro vicino ed amato, ma siamo chiamati(e) ad una commozione che investe anche l'altro remoto, l'altro sconosciuto che tuttavia, con la pura e scarna potenza del suo "volto", direbbe Levinas, ci chiama a rispondere della sua sofferenza e ci chiede di rompere la spirale della violenza. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 110 del 6 maggio 2007 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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