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La nonviolenza e' in cammino. 1472
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1472
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 7 Nov 2006 00:20:48 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1472 del 7 novembre 2006 Sommario di questo numero: 1. Lo stato fuorilegge 2. Cindy Sheehan: Assassini piu' competenti? 3. Duccio Zola intervista Alain Touraine 4. Pietro Citati: Hannah Arendt (parte seconda e conclusiva) 5. L'agenda "Giorni nonviolenti" 2007 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. LO STATO FUORILEGGE Come si puo' pretendere di fare qualcosa per la pace e i diritti umani se non ci si oppone neppure alla guerra e alle stragi, ed anzi alla guerra e alle stragi si prende parte? Come si puo' pretendere di salvare vite umane mentre vite umane si sopprimono? Quale politica internazionale di pace puo' fare un paese che e' impegnato in una guerra terrorista e stragista, in una coalizione terrorista e stragista, terrorismo e stragismo realizzando ed alimentando, massacri e devastazioni eseguendo e suscitando? Quale legalita' puo' rivendicare uno stato il cui governo ed il cui parlamento violano la sua stessa Costituzione? Quale diritto puo' inverare un ordinamento giuridico che consente ai vertici istituzionali, al presidente della Repubblica, al governo, al parlamento, di violare selvaggiamente, barbaramente, l'art. 10 e l'art. 11 della Costituzione? * L'Italia cessi di partecipare alla guerra afgana. L'Italia cessi di perseguitare i migranti. Solo a queste condizioni e' possibile che lo stato italiano recuperi una dignita', rientri nella legalita', possa realizzare una politica di pace e di giustizia, di solidarieta' e di democrazia, quella politica scritta nella Costituzione della Repubblica Italiana, incisa nel cuore di ogni essere umano. * Occorre una politica della nonviolenza. Occorre che la scelta della nonviolenza diventi il cuore dell'agire politico delle persone come delle istituzioni. Nonviolenza giuriscostituente. Nonviolenza in cammino. 2. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: ASSASSINI PIU' COMPETENTI? [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di Cindy Sheehan. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il successivo mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel sito www.koabooks.com; sta per uscire il suo secondo libro: Peace Mom: One Mom's Journey from Heartache to Activism, per Atria Books. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005] Ultimamente sembra che chiunque, da senatori di ambo i partiti a generali (in pensione, naturalmente) di tutte le armi dell'esercito, chieda a Donald "Rambo" Rumsfeld di dimettersi, a causa della sua incompetenza. Io credo che dovrebbe certamente farlo, visto che l'incompetenza e' il suo forte e l'insensibilita' il suo marchio di fabbrica. Ma queste richieste di dimissioni mancano di menzionare un paio di punti importanti. La pubblica richiesta a "Rambo" di dimettersi per la propria incompetenza e' infatti insufficiente. Credo rientri nei tentativi pusillanimi di continuare ad evitare di interrogarsi su cio' che e' realmente importante nell'errore dell'Iraq. Chiedere a Rumsfeld di dimettersi, o a George Bush di licenziarlo, rischia di essere in effetti una cortina fumogena per non parlare di chi altri dovrebbe andarsene: Bush, Cheney, la Rice, eccetera. Rumsfeld non e' l'unico membro rozzo e incapace di quest'amministrazione deviata, che ha mentito sino a portare il nostro paese in guerra, ed ha fatto autorizzare crimini contro l'umanita' dal piu' alto livello del nostro governo, ovvero dall'amministrazione inc arica. Concentrarsi su "Rambo" distoglie anche l'attenzione dall'illegale ed immorale occupazione militare dell'Iraq. Invece di chiedere a lui di dimettersi, le stesse persone, le quali dicono di sostenere le nostre truppe, dovrebbero chiedere ad alta voce un immediato piano d'uscita dall'Iraq. * Non e' possibile alcuna vittoria in Iraq. Il massimo che possiamo sperare e' andarcene subito, leccarci le ferite ed aiutare gli iracheni a riprendersi dai crimini di Bush e compagnia nel miglior modo possibile, senza la nostra presenza militare nella regione. Quasi un milione di morti e tre milioni di dispersi sono dovuti alla grossolana inettitudine di Bush e compari, ed e' ora di smettere di punire un paese per la colpa di essere intrappolato nell'insaziabile ingordigia di George Bush per il sangue, i macelli e la "gloria". L'aumento nello spargimento di sangue e' dovuto all'enorme negligenza e all'incompetenza criminale di costui, con le complicazioni aggiunte dall'aver addestrato e rifornito milizie che si stanno prendendo vecchie vendette le une sulle altre, mentre prendono a bersaglio i soldati statunitensi nel tempo che gli resta. Una recente e dettagliata inchiesta riporta che almeno 300.000 armi leggere sono finite dall'esercito Usa nelle mani degli insorgenti, che stanno uccidendo i nostri figli a ritmo crescente. Ribellioni di questo tipo non possono essere sconfitte sul piano militare, e invece di "vincere" come George ci ripete, siamo diventati la barzelletta del mondo intero che vede il piu' potente apparato militare sulla terra tenuto in scacco da un'insorgenza. L'unica cosa che l'illegale occupazione dell'Iraq ha provato per certo e' che il nostro esercito e' debole, nelle mani di allarmisti privi di coraggio che mandano i nostri figli a morire in una guerra che non avrebbe mai dovuto essere intrapresa. * Rumsfeld ha ripetuto il vecchio detto "si va in guerra con l'esercito che c'e'", e per noi famiglie che abbiamo avuto un figlio ucciso questo e' tragicamente ed orrendamente vero, a causa della insipiente e stupidissima leadership dell'esercito stesso. Mio figlio Casey era in Iraq da cinque giorni quando ricevette l'ordine di andare a soccorrere alcuni suoi compagni che erano caduti in un'imboscata. La 182a divisione di artiglieria da campo mando' il suo personale in zona di guerra prima di mandar loro l'equipaggiamento protettivo. Casey, un meccanico motorista, e' stato spedito nell'infuriare di una battaglia indossando una giacca da combattimento dei tempi del Vietnam. I nostri figli sono preziosi ed insostituibili. Non sono pezzi in una malvagia partita a scacchi, una partita che non ha fine per le famiglie come le nostre, che grazie a quest'epoca inumana non saranno mai piu' le stesse. * Ma, ed e' un grosso "ma": se Rumsfeld da' le dimissioni, stiamo per caso dicendo che vogliamo al suo posto un assassino piu' competente? Gli assassini della Casa Bianca e la banda Bush saranno sempre la'. Cosa ci guadagnano i nostri soldati o il popolo dell'Iraq, se un membro della congrega neocon se ne va mentre tutti gli altri restano? Invece di chiedere le dimissioni del solo "Rambo" Rumsfeld, la gente per bene, di qualsiasi parte o partito, dovrebbe chiedere l'incriminazione, la rimozione dalla carica e la condanna per tutti gli appartenenti al regime Bush. Questo sarebbe un progresso reale, nella nostra ricerca di pace e giustizia. Votate per la pace il 7 novembre, e raggiungeteci al sit-in che circondera' la Casa Bianca. 3. RIFLESSIONE. DUCCIO ZOLA INTERVISTA ALAIN TOURAINE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 2 novembre 2006. Duccio Zola e' un ricercatore impegnato nel progetto Globi dell'associazione Lunaria di Roma. Alain Touraine (Hermanville-sur-Mer, 1925), illustre sociologo e cattedratico francese, docente all'Ecole Pratique des Hautes Etudes (ora Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales), e' uno degli intellettuali piu' noti e prestigiosi a livello internazionale. Tra le numerose opere di Alain Touraine segnaliamo particolarmente: La produzione della societa', Il Mulino, Bologna 1975; Per la sociologia, Einaudi, Torino 1978; Il ritorno dell'attore sociale, Editori Riuniti, Roma 1988; Critica della modernita', Il Saggiatore, Milano 1993; Eguaglianza e diversita', Laterza, Roma-Bari 1997; Liberta', uguaglianza, diversita', Il Saggiatore, Milano 1998; Come liberarsi del liberismo, Il Saggiatore, Milano 2000] Nel 1955, esce in Francia un libro destinato a diventare una pietra miliare della sociologia del lavoro, L'evoluzione del lavoro operaio alla Renault (tr. it., Rosenberg & Sellier). Lo scrive un giovane ricercatore francese destinato a diventare uno dei piu' importanti sociologi contemporanei. Oggi, a ottantuno anni, Alain Touraine, direttore di studi dell'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, conserva intatta la profondita' di analisi e la forza polemica che lo accompagnano da piu' di mezzo secolo. Le sue ricerche coprono tutto l'arco del pensiero sociologico, dal lavoro alla conoscenza, dal mutamento ai movimenti sociali. Nel mezzo, una riflessione trasversale sul soggetto nella modernita', sull'azione collettiva come elemento conflittuale di autotrasformazione della societa', sulla natura della societa' postindustriale. Tra le sue innumerevoli opere ricordiamo La coscienza operaia (Franco Angeli), La societa' postindustriale e La produzione della societa' (Il Mulino), Per la sociologia (Einaudi), Il ritorno dell'attore sociale (Editori Riuniti), Critica della modernita', Liberta', uguaglianza, diversita', Come liberarsi del liberismo (tutti editi dal Saggiatore). Il suo ultimo libro, Le Monde des Femmes, e' uscito in Francia a marzo per Fayard. Lo abbiamo incontrato a Cortona, dove ha tenuto la lezione inaugurale del recente convegno su "Cultural Conflicts, Social Movements and New Rights: a European Challenge" organizzato dalla Fondazione Feltrinelli. * - Duccio Zola: Da trent'anni lei studia come cambia l'azione collettiva rispetto alle trasformazioni della societa' postindustriale. Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono i movimenti sociali contemporanei? - Alain Touraine: Partiamo dalla mia definizione di movimento sociale, un conflitto tra attori sociali organizzati sull'utilizzazione di risorse simboliche o materiali - modi di produzione, categorie di analisi e di rappresentazione, norme di comportamento - che entrambi gli attori valorizzano. Questa definizione comprende il riferimento da parte dei due avversari agli stessi valori culturali. L'esempio che porto piu' spesso e' quello del conflitto tra datori di lavoro e salariati per l'utilizzo dei beni prodotti in una societa' industriale, i cui grandi valori - razionalizzazione, lavoro, progresso, differimento della gratificazione - sono condivisi dalle due parti. Oggi pero' viene a mancare proprio questa posta in gioco comune tra i contendenti, perche' il contesto culturale della globalizzazione e' caratterizzato da una "caduta del sociale", cioe' da un indebolimento, e talvolta da una scomparsa, delle mediazioni e delle appartenenze sociali. Ecco da dove viene la crisi della famiglia, della scuola o della religione. In questo quadro, si frantuma il modello della societa' industriale in cui la conflittualita' tra classi socio-economiche occupava il posto centrale, e per i movimenti collettivi di oggi si pone il problema di trovare un terreno comune dove possa svilupparsi il conflitto. Il rischio, altrimenti, e' lo scontro tra posizioni opposte, come quelle di chi chiede una completa integrazione degli immigrati, e quelle di chi difende l'affermazione di un'identita' comunitaria. E' chiaro che non c'e' scelta possibile fra una disintegrazione carica di violenza e un'integrazione che equivarrebbe a una totale assimilazione. Allo stesso modo, non e' concepibile una societa' formata solo da una rete di attori locali, ma neanche la creazione di una societa' mondiale. In entrambi i casi, la contraddizione prende il posto del conflitto e le parti restano rinchiuse in un "tutto o niente" che le condanna all'immobilita'. * - Duccio Zola: Quale deve essere allora il terreno di azione e di conflitto dei movimenti se vogliono essere all'altezza dei problemi posti dalla globalizzazione, e quali attori collettivi sono in grado di portarlo alla luce? - Alain Touraine: Oggi sono possibili diversi tipi di azione collettiva che si sovrappongono o prendono il posto dei movimenti sociali classici, come quello operaio. Da una parte ci sono quei movimenti che agiscono nel segno dell'ambivalenza. Il concetto di ambivalenza e' centrale per definire il modello dei rapporti e dei conflitti nella nostra societa', perche' implica la ricerca di una combinazione di esigenze opposte. Questo porta a una parziale frustrazione dovuta alla limitazione delle soddisfazioni che si possono ottenere da entrambe le parti. Riprendendo l'esempio dell'immigrazione, l'unica soluzione sta nel combinare il meglio possibile autonomia e integrazione, cioe' il riconoscimento dell'altro, della sua identita', e la ricerca degli elementi comuni a tutte le rivendicazioni. Questa soluzione e' positiva solo se tiene in vita il conflitto, se la tensione tra i due orientamenti resta forte ed entrambi gli avversari sono in parte feriti. Non e' certo uno strumento di pace sociale, ma questa e' oggi una maniera di contribuire alla formazione dei movimenti sociali, oltre quelli classici. Poi c'e' il movimento che piu' mi interessa, quello delle donne. Esso porta a una radicale trasformazione del campo culturale, una vera e propria creazione del contesto conflittuale, che viene cosi' sottratto ai gruppi dominanti: le donne, come attrici collettive, creano la posta in gioco e il campo culturale del conflitto con altri attori sociali. Di fronte alla globalizzazione, che per me e' capitalismo estremo, separazione dell'economia da ogni forma di controllo sociale, le donne affermano positivamente la propria identita' e le proprie rivendicazioni. In altre parole, costruiscono se stesse, riparano cio' che e' stato smembrato dalla globalizzazione, dall'esposizione alla deriva delle forze del mercato. Ho lavorato con molte donne francesi e musulmane, tutte hanno una coscienza positiva della loro identita', si definiscono donne e non vittime anche se molte hanno subito violenze o ingiustizie. * - Duccio Zola: Se la globalizzazione ci priva delle appartenenze e delle mediazioni sociali e ci lascia in balia di un mercato senza regole, come possono prodursi e svilupparsi le lotte collettive? - Alain Touraine: Prima di tutto occorre definire il campo in cui si producono i piu' grandi cambiamenti e i conflitti piu' gravi. In una societa' industriale questo campo era il lavoro. Oggi i problemi culturali stanno diventando centrali. Il lavoro prende una forma negativa, segnala una perdita di senso. In altre parole, il lavoro non e' piu' la categoria principale, mentre e' il non lavoro ad acquistare un'importanza sociale e politica considerevole. Questo si deve al fatto che la modernita' produce un processo di individuazione sempre piu' marcato, cioe' la possibilita' di ogni individuo di non lasciarsi piu' definire da categorie ascrittive, come l'appartenenza di classe. L'individuazione si concretizza nella presa di coscienza di un individuo che vuole essere tale e ne reclama il diritto. Il concetto di individualismo, che storicamente appartiene al vocabolario della destra, acquista nella mia concezione un significato e un valore di sinistra. Il punto da sottolineare e' che questi diritti individuali, si ottengono solo con le lotte collettive: diritti individuali e movimenti sociali rappresentano due facce della stessa medaglia. Inoltre le lotte per il riconoscimento dei diritti conferiscono una dimensione universalista, estendibile a tutti, all'azione collettiva. Ogni movimento sociale appare come rivendicazione di diritti politici, sociali o culturali che devono essere conquistati da tutti. Questo richiamo sta al centro delle dichiarazioni francese e americana della fine del XVIII secolo. 4. PROFILI. PIETRO CITATI: HANNAH ARENDT (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA) [Dal sito www.feltrinelli.it riprendiamo il seguente articolo di Pietro Citati apparso sul quotidiano "La repubblica" del 15-16 luglio 2003 col titolo "Hannah Arendt, la fanciulla con gli occhi brillanti che cercava la verita' del mondo". Mette conto avvertire che questo testo, prezioso e suggestivo come tutti i testi di Citati, non e' un saggio di rigorosa documentazione, ma un'interpretazione per cosi' dire empatica: la Arendt qui raccontata e' - per cosi' dire - la Arendt di Citati, nella sua verita' poetica, nella sua densita' ermeneutica, e nei vuoti, nelle lacune e nelle forzature che l'approccio peculiare del saggista-narratore implica. Sia su singoli punti della ricostruzione della personalita' e della vicenda arendtiana, sia su alcune tesi interpretative del pensiero arendtiano e non solo qui sostenute si potrebbe a lungo discutere; ma non e' questa la sede: bastera' averne fatto parola, affinche' chi legge rammenti che per conoscere la vita e il pensiero di Hannah Arendt altri testi da leggere sono (ed almeno i lavori di Laura Boella e di Simona Forti, e la biografia di Elisabeth Young-Bruehl); e detto questo non sara' neppure necessario aggiungere che alcune espressioni ed alcune opinioni dell'illustre scrittore presenti in questo saggio ci sembrano non condivisibili (e qualche dettaglio finanche travisante o erroneo de facto, ma sono minuzie), chi legge lo avra' gia' intuito. Con tutto cio', e' un testo che ci e' parso utile riproporre su questo foglio, per la sua qualita' letteraria, per alcune forti sue verita' (le pagine sul totalitarismo ci sembrano la cosa piu' viva del saggio, e vi vibra forte un afflato ed acuto un ascolto della lezione arendtiana), ed anche come omaggio a un saggista che, pur nel dissenso talora - come del resto ci accade finanche con i maestri piu' grandi -, sempre ci appassiona, e che costantemente invita al riconoscimento dell'umanita' di tutti e di ciascuno, all'accostamento grato ad ogni monumento di cultura, alla comprensione dell'umana polifonia, a quell'umanesimo che e' gia' costruzione di pace (p. s.). Pietro Citati (Firenze, 1930), e' scrittore, saggista, critico letterario tra i piu' noti e apprezzati; collaboratore di varie riviste ("Il punto", "L'approdo", "Paragone") e quotidiani ("Il giorno", "Corriere della sera", "La repubblica"), condirettore della Fondazione Lorenzo Valla. Tra le opere di Pietro Citati: Goethe, 197O; Il te' del cappellaio matto, 1972; Manzoni, 1973, 1980; Alessandro Magno, 1974, 1985; La primavera di Cosroe, 1977; I frantumi del mondo, 1978; Il velo nero, 1979; Vita breve di Katherine Mansfield, 1980; I racconti dei gatti e delle scimmie, 1981; Il migliore dei mondi impossibili, 1982; Tolstoj, 1983; Vita e morte degli Incas, 1984; Cinque teste tagliate, 1984; Il sogno della camera rossa, 1986; Kafka, 1987; Il viaggio degli uccelli, 1988; Storia prima felice, poi dolentissima e funesta, 1989; Ritratti di donne, 1992; La caduta del Messico, 1992; La colomba pugnalata, 1995; La luce della notte, 1996; La collina di Brusuglio, 1997; L'armonia del mondo, 1999; Il romanzo europeo dell'800, 1999; Il male assoluto. Nel cuore del romanzo dell'Ottocento, 2000; La mente colorata. Ulisse e l'Odissea, 2002; Israele e l'Islam. Le scintille di Dio, 2003; La civilta' letteraria europea da Omero a Nabokov, 2005; La morte della farfalla, 2006. Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel 1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l 'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951), Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen (1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti, Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e' apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano, 1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975, Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2. 1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita' e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt, Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah Arendt, Giuntina, Firenze 2001; Julia Kristeva, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 2005. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000] Fu un'altra volta cacciata. Nel maggio 1941, mentre le truppe naziste occupavano la Francia, Hannah Arendt e Heinrich Bluecher arrivarono a New York. La madre, Martha, giunse il 21 giugno. Avevano venticinque dollari e una borsa annuale di settanta dollari, offerta dalla Zionist Organization of America. Affittarono due stanzette ammobiliate al 317 di West 95 Street: una delle quali occupata dalla madre. La cucina era in comune con gli altri inquilini. Sopravvissuta al disastro, Hannah Arendt non aveva piu' niente: ne' libri ne' mobili ne' soldi ne' amici. Heinrich Bluecher lavorava come sterratore, spalando prodotti chimici in uno stabilimento del New Jersey; diede lezioni sulla storia della Germania ai prigionieri di guerra tedeschi; infine venne assunto come annunciatore alla radio. Hannah Arendt scriveva su giornali ebraici in lingua tedesca, "con una foga e una durezza maschili": partecipava a convegni politici; divento' direttrice di ricerche presso la Conference on Jewish Relations, caporedattrice presso la casa editrice Schocken, dove pubblico' i Diari di Kafka, e professoressa al Brooklyn College. Il tempo del petit bonheur di Parigi era finito: quelli di New York furono gli anni del lavoro intensissimo, della furia, delle amicizie culturali e politiche, del grande Libro e della gloria. Amava gli Stati Uniti, che trovava passionately interesting: le piacevano la liberta' e la partecipazione alla vita pubblica degli americani: "Non finisco di essere riconoscente per essere approdata qui". Era il regno del molteplice e dei colori. Parlava col giornalaio ebreo, il padrone del ristorante italiano, il panettiere tedesco, il portinaio francese, i quali chiedevano sempre di lei quando era lontana: e se sulle rive dello Hudson sentiva parlare tedesco, le si allargava il cuore, perche' la lingua tedesca era innocente di cio' che accadeva in Europa. Conobbe molte persone: forse troppe. Invitava gli amici e i conoscenti nella piccola stanza fumosa; e, piu' tardi, nel primo vero appartamento, al 130 di Morningside Drive. Con gli amici condivideva il calore, la vitalita', il fascino della conversazione: talvolta era "un'orgia di chiacchiere": le lettere a Mary McCarthy ci comunicano ancora il petillement e il pettegolezzo dell'amicizia femminile; quelle a Karl Jaspers la venerazione dell'antica discepola. Ascoltava e raccontava storie. Quando giunsero a New York le prime notizie sui massacri nazisti, Hannah Arendt e Heinrich Bluecher non vollero crederci. "E' successa una cosa per la quale nessuno di noi era preparato... E' accaduto qualcosa con cui era impossibile venire a patti... Ad Auschwitz e' accaduto qualcosa che nessuno era preparato a comprendere", ripete' Hannah Arendt nei suoi libri, come se malgrado gli anni l'evento non potesse venire ammesso dalla mente. Lo stupore, l'orrore, la vergogna di essere uomini erano vivi come il primo giorno. Poi Hannah Arendt comprese. L'uomo aveva rivelato di poter compiere delitti che superavano le immaginazioni piu' tremende. Aveva realizzato visioni infernali "senza che il cielo cadesse o la terra si aprisse". Nulla di cosi' enorme o di cosi' sistematico era mai accaduto nella storia universale. Auschwitz e la Kolyma non avevano precedenti. Nemmeno l'invasione dei Mongoli nel tredicesimo secolo: i paesi devastati, le citta' bruciate o sommerse dai fiumi, milioni di innocenti massacrati, piramidi di teste umane, roghi di Corani, uccisioni di bambini nel ventre delle madri. Nessun mito religioso o fantasia letteraria o teoria politica aveva previsto i delitti del ventesimo secolo: ne' Caino, ne' Macbeth, ne' lady Macbeth, ne' Riccardo III, ne' Stavrogin. Shakespeare, Hobbes, Sade e Dostoevskij erano degli innocenti. Dopo Auschwitz e la Kolyma, tutto era possibile. Per decine di secoli l'Occidente aveva conosciuto il decalogo: ma come si potevano applicare a Hitler e Stalin dei blandi comandamenti quali "non desiderare la donna d'altri", "non rubare", "non uccidere"? Non esistevano categorie psicologiche per comprenderli; ne' principii morali per giudicarli e punirli; ne' teorie politiche secondo le quali spiegare cio' che era accaduto. Per quanto l'intelligenza si sforzasse, il totalitarismo nazista e comunista sfuggiva a qualsiasi tentativo di indicarne le cause e le ragioni. Era inspiegabile, incomprensibile. Questa sarebbe stata la prima e l'ultima parola del grande libro che comincio' a nascere, a New York, sotto il segno del dolore e del terrore. Le origini del totalitarismo (titolo che la Arendt non amava) fu progettato probabilmente nel 1943. Venne concluso alla fine del 1949, e pubblicato nel 1951. Furono quasi sette anni di lavoro durissimo. C'erano gli articoli, il lavoro presso le organizzazioni ebraiche, la casa editrice, le conferenze all'universita', e le letture nelle biblioteche, compiute con una specie di bulimia - il desiderio di leggere tutto, divorare tutto, possedere tutti i documenti, i libri e gli articoli, perche' niente doveva venire dimenticato. La Arendt scrisse con ansia, come se non avesse tempo, o il nazismo potesse rinascere dalle sue ceneri di lava. Scrisse nel suo mediocre inglese, attraverso il quale affiora continuamente il tedesco: con ripetizioni e onde successive, e improvvisi e stupendi aforismi. Il libro comincia a fatica: poi si muove, si scioglie, si espande da tutte le parti, si divide in mille torrenti e rivoli, come un fiume in piena, che non puo' arrestarsi. Mai, in nessun rigo, c'e' una traccia di partito preso ideologico: perche' in futuro - essa disse - conteranno soltanto "coloro che non si identificheranno ne' con un'ideologia ne' con un potere". Purtroppo, il suo vaticinio non si e' realizzato. Oltre che un grandioso libro di storia politica, Le origini del totalitarismo e' un'opera letteraria: ci da' un piacere estetico, risvegliando in noi quello slancio di gioia vitale che suscitano le opere d'arte. Non ha equivalenti nel ventesimo secolo: libro di storia della cultura, dell'economia e della politica, racconto di fatti e di idee, analisi del cuore, visione, protesta, romanzo, pochade, pamphlet, atto d'accusa davanti al tribunale di Dio e, soprattutto, nascosto libro di teologia. La parte sull'antisemitismo e' la piu' scandalosa. Hannah Arendt provava un'angosciosa compassione verso le sofferenze del suo popolo: una compassione che la feriva nella carne e la colpiva come un contagio. Ma la temeva: addirittura la odiava; e, scrivendo il suo libro e, piu' tardi, La banalita' del male, cerco' con tutti i mezzi di tenerla lontana. Come dice Dostoevskij, sbaglio', perche' non dobbiamo mai avere paura della compassione, in qualsiasi regno dello spirito ci conduca. Spesso fu ingiusta verso i giudei parvenus o passivi, e manco', come le scrisse Scholem, di "delicatezza del cuore". I capitoli sull'assimilazione ebraica nel diciannovesimo secolo sono stati scritti con divertimento, sarcasmo, talvolta euforia: le pagine sullo snobismo, la teatralita' degli ebrei, le loro associazioni con gli antisemiti e il tentativo di entrare nell'esercito francese sono degni non so se di Labiche o di Proust. Questa mancanza di rispetto verso le vittime aggiunge, non toglie, alla crudele grandezza del libro. Verso le figure del Male, c'e' un'allegria e un disprezzo molto piu' feroci: la Arendt non dimentica mai che Hitler, Goebbels, Stalin, Berija, Eichmann erano in primo luogo degli imbianchini, dei mediocri seminaristi, degli infimi giornalisti o impiegati postali, che, in altri tempi, sarebbero stati cacciati da qualsiasi ufficio. Il Male moderno aveva una sinistra tenerezza per gli imbecilli. Ma questa allegria e' solo un velo dietro il quale la Arendt si nasconde. Come scrisse Karl Jaspers, lei era un medico, che studiava per la prima volta una malattia sconosciuta: fino a quel momento se ne conosceva soltanto qualche sintomo e indizio; e, all'improvviso, mentre lavorava nel suo sgabuzzino, la malattia si rivelo' davanti ai suoi occhi, come una struttura coerente e compatta, dotata di leggi e manifestazioni precise, capace delle piu' mortali neoplasie. Lei era li', nelle biblioteche americane, lontana dalla follia europea, e studiava la malattia. Se la capiva cosi' bene, molto meglio di quanto la compresero mai gli storici di professione, era appunto perche' lei non era una storica di professione. Abitava tra le idee religiose e filosofiche: Platone, Aristotele, Paolo, Agostino, san Tommaso, Hobbes, Kant; e con il soccorso delle loro luci poteva raccontare, con una lucidita' che nessuno avrebbe piu' condiviso, i sinistri eventi del ventesimo secolo. Cosa era dunque accaduto? E perche' era accaduto? Quale era la malattia che stava per uccidere l'Europa e il mondo? Quale era la sua origine e il suo fondamento? E cosa aveva scoperto Hannah Arendt, nel suo appartamentino di New York? La malattia era antichissima: il Male Assoluto, o il Male Metafisico, o il Male Radicale, come aveva detto Kant; il Male come sostanza terribilmente attiva, non come privazione o negazione del bene, o semplice eccezione alla regola normale dell'universo. Ne aveva parlato san Paolo, che scrisse: "Il volere e' in mio potere, ma compiere il bene no. Sicche' non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ma se faccio quello che non voglio, non sono io a farlo, ma la forza del peccato che abita in me": dunque il male non sta piu' fuori, nel mondo, ma dentro di noi, sotto quelle pallide immagini che sono la nostra ragione, la nostra volonta' e la nostra coscienza. Ne aveva trattato Agostino, nelle Confessioni, quando il bambino appena nato, "pallido, con lo sguardo amaro", invidia il fratello nato dalla stessa madre; e la Gnosi, immaginando il cosmo come un meccanismo rigido e tirannico, privo di luce divina, una fortezza ermeticamente chiusa, circondata da muri e fossati invalicabili, dove siamo imprigionati dalla doppia catena del corpo e del tempo. Nei tempi moderni ne aveva raccontato Dostoevskij, quando rappresento' la natura, senza la resurrezione del Cristo, come una grande bestia: un enorme scorpione, o un ragno, o una tarantola; o una macchina sorda e insensibile, "che aveva afferrato, maciullato e inghiottito Cristo, una figura sublime e inestimabile". Nel ventesimo secolo il Male Assoluto, che prima di allora aveva dato moltissimi cenni di se', si era incarnato per la prima volta nella sua forma totale. Il nazismo e lo stalinismo erano Male Assoluto senza eccezione: non c'era niente, in essi, che non fosse Peccato e Satana. L'irruzione nella storia era stata abbacinante e senza rimedio, senza una minima traccia di imprevedibilita' o un barlume di luce. Nazismo e stalinismo avevano storia e precedenti completamente diversi, che la Arendt indago', almeno in parte, nelle Origini del totalitarismo; e non esercitarono influenza l'uno sull'altro ne' ebbero veri rapporti, sebbene Hitler e Stalin si ammirassero a vicenda, come il grande criminale ama il grande criminale. Ma chi indagava, nel laboratorio del medico, le istituzioni e le leggi profonde del nazismo e dello stalinismo, si accorgeva che erano le stesse. La loro struttura era identica: come se il Male Assoluto, nel ventesimo secolo, potesse adottare una sola incarnazione, o avesse preparato da secoli, nei segreti della storia, quest'apparizione atroce. Hannah Arendt aveva raccontato come, nei primi anni del secolo, il potere dell'imperialismo diventasse puro, separandosi dalla comunita' politica che avrebbe dovuto servire. Il potere era ormai l'unico contenuto della politica. Non si arrestava mai: obbediva a una espansione illimitata di se stesso, come se fossero ritornati i tempi di Alessandro Magno. Ma con Hitler e Stalin, quel progetto si capovolse: non mirava piu' all'aumento delle ricchezze, e non obbediva a nessuna considerazione di carattere economico o militare. Per Stalin, lo sviluppo ininterrotto della polizia era molto piu' decisivo del petrolio di Baku, del carbone degli Urali, dei cereali dell'Ucraina, dei tesori della Siberia. Distrusse l'agricoltura sovietica: fucilo' i generali alla vigilia dell'invasione tedesca. Nel 1944, amministrare le fabbriche della morte era, per Hitler, piu' importante che vincere la guerra. Sebbene gli stati totalitari costruissero un rigido sistema di leggi e di gerarchie, cio' che appassionava Hitler e Stalin era distruggere le leggi che avevano imposto. Le gerarchie formavano dei poteri paralleli, che si occupavano della stessa materia: ognuno piu' potente dell'altro, ognuno piu' misterioso e invisibile dell'altro - polizie sempre piu' segrete, istituti sempre piu' oscuri. La gerarchia piu' potente era quella di cui, alla superficie, non giungeva nemmeno una traccia. Con disperazione dei politologi, non si erano mai visti stati piu' complessi, confusi e intricati degli onnipotenti stati nazista e comunista. Erano molto piu' prossimi alle invenzioni della Cabbala, che ai moderni ordinamenti politici. Nebel und Nacht, "nebbia e notte", come diceva il titolo che raccoglieva i documenti sui campi di sterminio. In questa "nebbia e notte", i fedelissimi adoratori di Stalin e di Hitler erano rotelle di una macchina: come disse Himmler, in "nessun caso avrebbero fatto una cosa per se stessa". Il vero antenato dei nazisti e dei comunisti era Necaev, il terrorista russo allievo di Bakunin: "Il rivoluzionario non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprieta'. Non ha neppure un nome. Un unico interesse lo assorbe ed esclude ogni altro, un unico pensiero, un'unica passione... Conosce un'unica scienza: la scienza della distruzione". Quanto ai sudditi, dovevano rinunciare ad ogni ricordo della vita privata, dimenticando il gioco degli scacchi o lo scopone scientifico o la pittura. Sopra ogni cosa, cancellare tutto cio' che era spontaneo, casuale, imprevedibile nell'esistenza: cioe' la vita stessa. La voce dell'esperienza doveva tacere. Non c'erano piu' fatti. Nell'opaco tramonto di tutto il visibile, trionfava soltanto l'ideologia: elementi fantastici, osservazioni immaginarie, trasformate in un sistema fitto, compatto, unitario, che in sogno rispondeva a tutte le domande. Sebbene non venisse mai pronunciato, il vero nome dei sudditi era peccatori, che nel gergo staliniano si traduceva con nemici oggettivi. Qualsiasi cosa facessero erano colpevoli: non importava che conducessero una vita esemplare, rispettando la legge, inneggiando a Hitler, a Stalin e ai loro servi, perche' le leggi cambiavano continuamente e la suprema virtu' di oggi diventava, domani, la suprema colpa. E poi la colpa stava scritta non nelle azioni ma nei cuori, che sono incomprensibili. Ne' i poliziotti ne' gli accusati potevano conoscerli a fondo. Il poliziotto sovietico aveva sviluppato il dono di scoprire e smascherare la colpa, come un teologo bizantino. Ma tutto questo non serviva a niente: ne' lo spionaggio, ne' l'analisi, ne' l'autoanalisi. La certezza rimaneva unica: i sudditi erano insieme colpevoli e superflui. Tutti meritavano di essere torturati, fucilati, gassati ad Auschwitz e negli altri campi, fatti a pezzi, uccisi dalla fame, mandati a morire di gelo nelle miniere della Kolyma. Nel momento della morte, diventavano finalmente eguali, come Dio li aveva creati. "Non morivano come individui, uomini e donne, bambini e adulti, buoni e cattivi, belli e brutti, ma venivano ridotti al minimo comun denominatore della vita organica, sprofondati nell'abisso piu' profondo e cupo dell'uguaglianza originaria. Morivano come bestie, come materia, come cose che non avevano piu' ne' corpo ne' anima, nemmeno un volto su cui la morte potesse imporre il suo sigillo". Il potere totalitario divorava i suoi figli: Stalin mando' nei gulag e fece uccidere i comunisti che lo avevano sostenuto contro Trockij e Bucharin; i servi di Hitler diventarono sempre piu' insicuri, sebbene mascherassero l'incertezza con la ferocia. Sia in Germania che in Russia, via via che l'opposizione politica perdeva ogni forza, il terrore crebbe, diventando infinito. In Unione Sovietica si proclamo' (sebbene venisse combattuta a parole) la "rivoluzione permanente": in Germania, la "costante marcia in avanti verso obiettivi continuamente nuovi". Ogni stabilita' era uccisa. Un movimento incessante, folle, spasmodico trascinava avanti i capi, i seguaci, le folle, cambiava programmi e nemici, liquidava lo stato e le gerarchie, cancellava l'amministrazione, annullava i miglioramenti economici. Nemmeno l'ideologia contava piu': nemmeno l'antisemitismo aveva piu' rilievo; lo sterminio non sarebbe cessato nemmeno quando tutti gli ebrei fossero morti. Sia Stalin sia Mao Tse-Tung miravano a un altro balzo in avanti, che sarebbe stato seguito da una serie inimmaginabile di balzi in avanti. Mai era accaduto che la storia venisse cosi' battuta, istigata e sferzata, costretta a un ritmo tanto vertiginoso. Alla fine, il potere totalitario confessava la sua anima nichilista: la sua natura consisteva in questo incessante processo di distruzione di se' e di ogni potere possibile. Non voleva il governo del mondo, ma la fine e l'esplosione definitiva del mondo. Nella Summa Theologica, san Tommaso scrisse una frase mirabile: "Se il male totale potesse essere, distruggerebbe se stesso". San Tommaso aveva torto: il ventesimo secolo ha dimostrato che il male totale esiste: eppure esso vuole, pretende la propria distruzione, come Hitler e Stalin hanno dimostrato. Hannah Arendt pensava che i governi democratici non comprendessero la natura profonda del loro avversario: Churchill, Roosevelt e De Gaulle erano dei nipioi avrebbero detto i greci. Ma il totalitarismo era uno sconosciuto: forse persino a se stesso; e ignota era la forza che lo portava alla propria cancellazione. Un teologo cattolico avrebbe aggiunto che il Male Assoluto non puo' durare nella storia, sebbene sembri, per qualche tempo, trionfare. Nessun altro segno ci rivela che la Provvidenza non abita soltanto nei dimenticati libri di teologia della tradizione cristiana. Hitler e Stalin possedevano un'immaginazione, dalla quale noi, mediocri inquilini del ventunesimo secolo, siamo ancora atterriti. Come il presidente Schreber, forse erano dei paranoici che hanno riempito alcuni decenni di delirii e spaventosi fantasmi, inscenando quel grandioso spettacolo teatrale che e' l'inferno. Ma forse Hitler e Stalin non erano affatto paranoici. Avevano capito che la paranoia ininterrotta e' l'unico sistema possibile di potere assoluto: qualche volta Stalin appariva dietro le quinte, guardava ironicamente, si prendeva gioco dello spettacolo che aveva inscenato, di se stesso burattinaio, di noi tutti, poveri burattini. Non siamo certi di nulla. Forse Hitler e Stalin furono capi politici, che cambiavano pareri e desideri con velocita' inimmaginabile. Forse furono degli spettri, i quali misero in moto una forza sconosciuta, che funziono' per molti anni da sola: lo scorpione, il grande ragno, la tarantola, la macchina sorda e insensibile di Dostoevskij, che maciullo' decine di milioni di uomini. Nel suo misero stanzino di New York, Hannah Arendt aveva studiato gli antecedenti del totalitarismo: l'antisemitismo ottocentesco, l'imperialismo dei primi anni del secolo, in parte il marxismo fino a Lenin e Stalin. Aveva scoperto i sintomi, le leggi, la struttura della malattia sconosciuta. Il suo lungo lavoro era compiuto, nel grande libro che ancora oggi vive davanti a noi, ci stimola e ci agita. Ma la sua conclusione era la stessa di quando le prime notizie sullo sterminio giunsero a New York. Per quanto se ne studi la storia, il totalitarismo e' incomprensibile. Non ha cause precise. Non si puo' capire perche' il livore antisemita e il fanatismo marxista abbiano condotto a Auschwitz e alla Kolyma. Il Male Assoluto resta inspiegabile: la profonda oscurita' del mondo. * Negli anni in cui Hannah Arendt scriveva, Auschwitz sconvolse le intelligenze dei teologi ebrei e cristiani. Dio, che era apparso nella Bibbia, non intervenne mai: non lascio' nemmeno un segno nei lager e dei gulag. Meglio di ogni altro, Hans Jonas spiego' la sua assenza. Quando creo' la terra e l'uomo, con un atto di sovranita' assoluta Dio consenti' a non essere piu' il Signore della Bibbia: si autolimito', rinuncio' alla propria onnipotenza, venne intaccato da cio' che, nel mondo, "accade e tramonta". Con questo gesto, rischio', affronto' una condizione di costante pericolo, si indeboli', divento' vulnerabile - come noi, sue creature, siamo feribili e vulnerabili. Cosi', ad Auschwitz e alla Kolyma, Dio non salvo' nemmeno una persona: i miracoli che accaddero durante la persecuzione furono opera di creature umane. Tacque. Rimase immerso nel piu' assoluto silenzio. Non intervenne nella storia degli uomini: non perche' non volle, ma perche' non era piu' in condizione di farlo. Hannah Arendt rifiuto' la spiegazione di Hans Jonas, che risaliva alle grandiose speculazioni della Gnosi ebraica. Proprio lei, che aveva compreso e rappresentato come nessun altro il Male metafisico del ventesimo secolo, rinuncio' a qualsiasi interpretazione gnostica e manichea del mondo moderno. Quando anni dopo vide Eichmann a Gerusalemme - questo pallido fantasma rinchiuso nella scatola di vetro, quest'uomo di mezza eta', magro, di statura media, con un'incipiente calvizie, dentatura irregolare, occhi miopi, un tic nervoso alle labbra, pieno di buoni sentimenti e ossequioso a tutte le leggi - si convinse che non era un mostro ne' una creatura demoniaca. Era soltanto un uomo normale: un impiegato qualsiasi, uno scrupoloso pater familias come Himmler. Il male possedeva "una spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalita'". La visione di Eichmann nella scatola di vetro sconvolse la Arendt. E, discutendo subito dopo con Gershom Scholem, giunse a sostenere che il Male "radicale" o "assoluto" o "metafisico" non esiste, perche' non ha profondita' ne' dimensione demoniaca. "Solo il bene - aggiunse - e' profondo", radicale e assoluto. La Arendt aveva torto. Il Male Assoluto puo' scegliere, e ha preferito scegliere nel secolo scorso, gli Himmler e gli Eichmann, gli uomini normali e banali, per realizzare le sue mete: ma anche in loro, nel loro mediocre buon senso, nel rispetto della legge, nei buoni sentimenti da scrupolosi padri di famiglia, si avverte l'orribile soffio della Tenebra. Sotto il nazismo e lo stalinismo, muovendo da quegli oscuri centri di irradiazione che furono Hitler e Stalin, il contagio aveva invaso tutti i servi del potere, cancellando i decaloghi e le regole della convivenza civile. Il mostruoso e il demoniaco erano presenti dappertutto, in qualsiasi veste e maschera. Quando la Arendt negava che il Male Assoluto esistesse, agiva su di lei la tradizione del pensiero cristiano, che ebbe sempre terrore di ogni concezione autonoma del Male, e rifuggi' da ogni sia pur vago ricordo gnostico e manicheo. Il Male, dicevano gli scrittori cristiani (ma non Paolo ne' sempre Agostino) era soltanto una privazione di bene, senza sostanza propria. Malgrado la sua lucida rappresentazione del totalitarismo, Hannah Arendt non credette piu', nell'ultima parte della sua vita, che la potenza oscura potesse invadere e soggiogare la terra. "Non si puo' andare, ella disse, contro la propria vitalita' naturale"; e lei era felice. Quando vedeva la creazione, contemplava gli spettacoli della luce, i paesaggi d'America e d'Europa, parlava con gli amici, passeggiava per le vie di Parigi, si appassionava e scriveva e rideva piena di gioia, il mondo le "sembrava buono". Malgrado le parole di Nietzsche, pensava che Dio non fosse morto. Aveva conservato una infantile fiducia nel mite Dio della Bibbia, che crea la luce, il firmamento, il sole, la luna, i volatili, i pesci, le erbe verdi, i passeri e le cicogne, e foggia l'uomo a sua immagine e somiglianza. Da lui ci viene la nostra parte e dignita' nella creazione. Egli ci da' il mondo. Ci da' la bonta', che e' piu' forte del male. Ci da' l'inizio, che, diceva Platone, salva ogni cosa; e il miracolo. Soprattutto ci da' la compassione: la virtu' suprema, piu' alta di qualsiasi sentimento umano, sebbene la Arendt avesse rifiutato di manifestarla verso gli Ebrei. La compassione abolisce ogni distanza tra gli uomini, e tra Dio e l'uomo. Gesu' la prova nel discorso del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij: la prova in silenzio, perche' la voce della compassione e' uno "strano silenzio" e uno strano imbarazzo verso le parole, che la contrappone alla eloquenza della virtu'. (Parte seconda - fine) 5. STRUMENTI. L'AGENDA "GIORNI NONVIOLENTI" 2007 Come ogni anno le Edizioni Qualevita mettono a disposizione l'agenda-diario "Giorni nonviolenti", un utilissimo strumento di lavoro per ogni giorno dell'anno. Vivamente la raccomandiamo. Il costo di una copia e' di 9,50 euro, con sconti progressivi con l'aumento del numero delle copie richieste. Per informazioni ed acquisti: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), tel. e fax: 0864460006, cell. 3495843946, e-mail: qualevita3 at tele2.it 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1472 del 7 novembre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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