La nonviolenza e' in cammino. 1472



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1472 del 7 novembre 2006

Sommario di questo numero:
1. Lo stato fuorilegge
2. Cindy Sheehan: Assassini piu' competenti?
3. Duccio Zola intervista Alain Touraine
4. Pietro Citati: Hannah Arendt (parte seconda e conclusiva)
5. L'agenda "Giorni nonviolenti" 2007
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. LO STATO FUORILEGGE

Come si puo' pretendere di fare qualcosa per la pace e i diritti umani se
non ci si oppone neppure alla guerra e alle stragi, ed anzi alla guerra e
alle stragi si prende parte?
Come si puo' pretendere di salvare vite umane mentre vite umane si
sopprimono?
Quale politica internazionale di pace puo' fare un paese che e' impegnato in
una guerra terrorista e stragista, in una coalizione terrorista e stragista,
terrorismo e stragismo realizzando ed alimentando, massacri e devastazioni
eseguendo e suscitando?
Quale legalita' puo' rivendicare uno stato il cui governo ed il cui
parlamento violano la sua stessa Costituzione?
Quale diritto puo' inverare un ordinamento giuridico che consente ai vertici
istituzionali, al presidente della Repubblica, al governo, al parlamento, di
violare selvaggiamente, barbaramente, l'art. 10 e l'art. 11 della
Costituzione?
*
L'Italia cessi di partecipare alla guerra afgana.
L'Italia cessi di perseguitare i migranti.
Solo a queste condizioni e' possibile che lo stato italiano recuperi una
dignita', rientri nella legalita', possa realizzare una politica di pace e
di giustizia, di solidarieta' e di democrazia, quella politica scritta nella
Costituzione della Repubblica Italiana, incisa nel cuore di ogni essere
umano.
*
Occorre una politica della nonviolenza.
Occorre che la scelta della nonviolenza diventi il cuore dell'agire politico
delle persone come delle istituzioni.
Nonviolenza giuriscostituente. Nonviolenza in cammino.

2. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: ASSASSINI PIU' COMPETENTI?
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di
Cindy Sheehan.
Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il
successivo mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in
cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli
per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e
alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio
movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro
Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel
sito www.koabooks.com; sta per uscire il suo secondo libro: Peace Mom: One
Mom's Journey from Heartache to Activism, per Atria Books.
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di
Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne
nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005]

Ultimamente sembra che chiunque, da senatori di ambo i partiti a generali
(in pensione, naturalmente) di tutte le armi dell'esercito, chieda a Donald
"Rambo" Rumsfeld di dimettersi, a causa della sua incompetenza. Io credo che
dovrebbe certamente farlo, visto che l'incompetenza e' il suo forte e
l'insensibilita' il suo marchio di fabbrica. Ma queste richieste di
dimissioni mancano di menzionare un paio di punti importanti.
La pubblica richiesta a "Rambo" di dimettersi per la propria incompetenza e'
infatti insufficiente. Credo rientri nei tentativi pusillanimi di continuare
ad evitare di interrogarsi su cio' che e' realmente importante nell'errore
dell'Iraq. Chiedere a Rumsfeld di dimettersi, o a George Bush di
licenziarlo, rischia di essere in effetti una cortina fumogena per non
parlare di chi altri dovrebbe andarsene: Bush, Cheney, la Rice, eccetera.
Rumsfeld non e' l'unico membro rozzo e incapace di quest'amministrazione
deviata, che ha mentito sino a portare il nostro paese in guerra, ed ha
fatto autorizzare crimini contro l'umanita' dal piu' alto livello del nostro
governo, ovvero dall'amministrazione inc arica. Concentrarsi su "Rambo"
distoglie anche l'attenzione dall'illegale ed immorale occupazione militare
dell'Iraq. Invece di chiedere a lui di dimettersi, le stesse persone, le
quali dicono di sostenere le nostre truppe, dovrebbero chiedere ad alta voce
un immediato piano d'uscita dall'Iraq.
*
Non e' possibile alcuna vittoria in Iraq. Il massimo che possiamo sperare e'
andarcene subito, leccarci le ferite ed aiutare gli iracheni a riprendersi
dai crimini di Bush e compagnia nel miglior modo possibile, senza la nostra
presenza militare nella regione.
Quasi un milione di morti e tre milioni di dispersi sono dovuti alla
grossolana inettitudine di Bush e compari, ed e' ora di smettere di punire
un paese per la colpa di essere intrappolato nell'insaziabile ingordigia di
George Bush per il sangue, i macelli e la "gloria".
L'aumento nello spargimento di sangue e' dovuto all'enorme negligenza e
all'incompetenza criminale di costui, con le complicazioni aggiunte
dall'aver addestrato e rifornito milizie che si stanno prendendo vecchie
vendette le une sulle altre, mentre prendono a bersaglio i soldati
statunitensi nel tempo che gli resta.
Una recente e dettagliata inchiesta riporta che almeno 300.000 armi leggere
sono finite dall'esercito Usa nelle mani degli insorgenti, che stanno
uccidendo i nostri figli a ritmo crescente. Ribellioni di questo tipo non
possono essere sconfitte sul piano militare, e invece di "vincere" come
George ci ripete, siamo diventati la barzelletta del mondo intero che vede
il piu' potente apparato militare sulla terra tenuto in scacco da
un'insorgenza. L'unica cosa che l'illegale occupazione dell'Iraq ha provato
per certo e' che il nostro esercito e' debole, nelle mani di allarmisti
privi di coraggio che mandano i nostri figli a morire in una guerra che non
avrebbe mai dovuto essere intrapresa.
*
Rumsfeld ha ripetuto il vecchio detto "si va in guerra con l'esercito che
c'e'", e per noi famiglie che abbiamo avuto un figlio ucciso questo e'
tragicamente ed orrendamente vero, a causa della insipiente e stupidissima
leadership dell'esercito stesso.
Mio figlio Casey era in Iraq da cinque giorni quando ricevette l'ordine di
andare a soccorrere alcuni suoi compagni che erano caduti in un'imboscata.
La 182a divisione di artiglieria da campo mando' il suo personale in zona di
guerra prima di mandar loro l'equipaggiamento protettivo. Casey, un
meccanico motorista, e' stato spedito nell'infuriare di una battaglia
indossando una giacca da combattimento dei tempi del Vietnam.
I nostri figli sono preziosi ed insostituibili. Non sono pezzi in una
malvagia partita a scacchi, una partita che non ha fine per le famiglie come
le nostre, che grazie a quest'epoca inumana non saranno mai piu' le stesse.
*
Ma, ed e' un grosso "ma": se Rumsfeld da' le dimissioni, stiamo per caso
dicendo che vogliamo al suo posto un assassino piu' competente? Gli
assassini della Casa Bianca e la banda Bush saranno sempre la'. Cosa ci
guadagnano i nostri soldati o il popolo dell'Iraq, se un membro della
congrega neocon se ne va mentre tutti gli altri restano?
Invece di chiedere le dimissioni del solo "Rambo" Rumsfeld, la gente per
bene, di qualsiasi parte o partito, dovrebbe chiedere l'incriminazione, la
rimozione dalla carica e la condanna per tutti gli appartenenti al regime
Bush. Questo sarebbe un progresso reale, nella nostra ricerca di pace e
giustizia.
Votate per la pace il 7 novembre, e raggiungeteci al sit-in che circondera'
la Casa Bianca.

3. RIFLESSIONE. DUCCIO ZOLA INTERVISTA ALAIN TOURAINE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 2 novembre 2006.
Duccio Zola e' un ricercatore impegnato nel progetto Globi dell'associazione
Lunaria di Roma.
Alain Touraine (Hermanville-sur-Mer, 1925), illustre sociologo e
cattedratico francese, docente all'Ecole Pratique des Hautes Etudes (ora
Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales), e' uno degli intellettuali
piu' noti e prestigiosi a livello internazionale. Tra le numerose opere di
Alain Touraine segnaliamo particolarmente: La produzione della societa', Il
Mulino, Bologna 1975; Per la sociologia, Einaudi, Torino 1978; Il ritorno
dell'attore sociale, Editori Riuniti, Roma 1988; Critica della modernita',
Il Saggiatore, Milano 1993; Eguaglianza e diversita', Laterza, Roma-Bari
1997; Liberta', uguaglianza, diversita', Il Saggiatore, Milano 1998; Come
liberarsi del liberismo, Il Saggiatore, Milano 2000]

Nel 1955, esce in Francia un libro destinato a diventare una pietra miliare
della sociologia del lavoro, L'evoluzione del lavoro operaio alla Renault
(tr. it., Rosenberg & Sellier). Lo scrive un giovane ricercatore francese
destinato a diventare uno dei piu' importanti sociologi contemporanei. Oggi,
a ottantuno anni, Alain Touraine, direttore di studi dell'Ecole des Hautes
Etudes en Sciences Sociales, conserva intatta la profondita' di analisi e la
forza polemica che lo accompagnano da piu' di mezzo secolo. Le sue ricerche
coprono tutto l'arco del pensiero sociologico, dal lavoro alla conoscenza,
dal mutamento ai movimenti sociali. Nel mezzo, una riflessione trasversale
sul soggetto nella modernita', sull'azione collettiva come elemento
conflittuale di autotrasformazione della societa', sulla natura della
societa' postindustriale. Tra le sue innumerevoli opere ricordiamo La
coscienza operaia (Franco Angeli), La societa' postindustriale e La
produzione della societa' (Il Mulino), Per la sociologia (Einaudi), Il
ritorno dell'attore sociale (Editori Riuniti), Critica della modernita',
Liberta', uguaglianza, diversita', Come liberarsi del liberismo (tutti editi
dal Saggiatore). Il suo ultimo libro, Le Monde des Femmes, e' uscito in
Francia a marzo per Fayard. Lo abbiamo incontrato a Cortona, dove ha tenuto
la lezione inaugurale del recente convegno su "Cultural Conflicts, Social
Movements and New Rights: a European Challenge" organizzato dalla Fondazione
Feltrinelli.
*
- Duccio Zola: Da trent'anni lei studia come cambia l'azione collettiva
rispetto alle trasformazioni della societa' postindustriale. Quali sono le
caratteristiche che contraddistinguono i movimenti sociali contemporanei?
- Alain Touraine: Partiamo dalla mia definizione di movimento sociale, un
conflitto tra attori sociali organizzati sull'utilizzazione di risorse
simboliche o materiali - modi di produzione, categorie di analisi e di
rappresentazione, norme di comportamento - che entrambi gli attori
valorizzano. Questa definizione comprende il riferimento da parte dei due
avversari agli stessi valori culturali. L'esempio che porto piu' spesso e'
quello del conflitto tra datori di lavoro e salariati per l'utilizzo dei
beni prodotti in una societa' industriale, i cui grandi valori -
razionalizzazione, lavoro, progresso, differimento della gratificazione -
sono condivisi dalle due parti. Oggi pero' viene a mancare proprio questa
posta in gioco comune tra i contendenti, perche' il contesto culturale della
globalizzazione e' caratterizzato da una "caduta del sociale", cioe' da un
indebolimento, e talvolta da una scomparsa, delle mediazioni e delle
appartenenze sociali. Ecco da dove viene la crisi della famiglia, della
scuola o della religione. In questo quadro, si frantuma il modello della
societa' industriale in cui la conflittualita' tra classi socio-economiche
occupava il posto centrale, e per i movimenti collettivi di oggi si pone il
problema di trovare un terreno comune dove possa svilupparsi il conflitto.
Il rischio, altrimenti, e' lo scontro tra posizioni opposte, come quelle di
chi chiede una completa integrazione degli immigrati, e quelle di chi
difende l'affermazione di un'identita' comunitaria. E' chiaro che non c'e'
scelta possibile fra una disintegrazione carica di violenza e
un'integrazione che equivarrebbe a una totale assimilazione. Allo stesso
modo, non e' concepibile una societa' formata solo da una rete di attori
locali, ma neanche la creazione di una societa' mondiale. In entrambi i
casi, la contraddizione prende il posto del conflitto e le parti restano
rinchiuse in un "tutto o niente" che le condanna all'immobilita'.
*
- Duccio Zola: Quale deve essere allora il terreno di azione e di conflitto
dei movimenti se vogliono essere all'altezza dei problemi posti dalla
globalizzazione, e quali attori collettivi sono in grado di portarlo alla
luce?
- Alain Touraine: Oggi sono possibili diversi tipi di azione collettiva che
si sovrappongono o prendono il posto dei movimenti sociali classici, come
quello operaio. Da una parte ci sono quei movimenti che agiscono nel segno
dell'ambivalenza. Il concetto di ambivalenza e' centrale per definire il
modello dei rapporti e dei conflitti nella nostra societa', perche' implica
la ricerca di una combinazione di esigenze opposte. Questo porta a una
parziale frustrazione dovuta alla limitazione delle soddisfazioni che si
possono ottenere da entrambe le parti. Riprendendo l'esempio
dell'immigrazione, l'unica soluzione sta nel combinare il meglio possibile
autonomia e integrazione, cioe' il riconoscimento dell'altro, della sua
identita', e la ricerca degli elementi comuni a tutte le rivendicazioni.
Questa soluzione e' positiva solo se tiene in vita il conflitto, se la
tensione tra i due orientamenti resta forte ed entrambi gli avversari sono
in parte feriti. Non e' certo uno strumento di pace sociale, ma questa e'
oggi una maniera di contribuire alla formazione dei movimenti sociali, oltre
quelli classici. Poi c'e' il movimento che piu' mi interessa, quello delle
donne. Esso porta a una radicale trasformazione del campo culturale, una
vera e propria creazione del contesto conflittuale, che viene cosi'
sottratto ai gruppi dominanti: le donne, come attrici collettive, creano la
posta in gioco e il campo culturale del conflitto con altri attori sociali.
Di fronte alla globalizzazione, che per me e' capitalismo estremo,
separazione dell'economia da ogni forma di controllo sociale, le donne
affermano positivamente la propria identita' e le proprie rivendicazioni. In
altre parole, costruiscono se stesse, riparano cio' che e' stato smembrato
dalla globalizzazione, dall'esposizione alla deriva delle forze del mercato.
Ho lavorato con molte donne francesi e musulmane, tutte hanno una coscienza
positiva della loro identita', si definiscono donne e non vittime anche se
molte hanno subito violenze o ingiustizie.
*
- Duccio Zola: Se la globalizzazione ci priva delle appartenenze e delle
mediazioni sociali e ci lascia in balia di un mercato senza regole, come
possono prodursi e svilupparsi le lotte collettive?
- Alain Touraine: Prima di tutto occorre definire il campo in cui si
producono i piu' grandi cambiamenti e i conflitti piu' gravi. In una
societa' industriale questo campo era il lavoro. Oggi i problemi culturali
stanno diventando centrali. Il lavoro prende una forma negativa, segnala una
perdita di senso. In altre parole, il lavoro non e' piu' la categoria
principale, mentre e' il non lavoro ad acquistare un'importanza sociale e
politica considerevole. Questo si deve al fatto che la modernita' produce un
processo di individuazione sempre piu' marcato, cioe' la possibilita' di
ogni individuo di non lasciarsi piu' definire da categorie ascrittive, come
l'appartenenza di classe. L'individuazione si concretizza nella presa di
coscienza di un individuo che vuole essere tale e ne reclama il diritto. Il
concetto di individualismo, che storicamente appartiene al vocabolario della
destra, acquista nella mia concezione un significato e un valore di
sinistra. Il punto da sottolineare e' che questi diritti individuali, si
ottengono solo con le lotte collettive: diritti individuali e movimenti
sociali rappresentano due facce della stessa medaglia. Inoltre le lotte per
il riconoscimento dei diritti conferiscono una dimensione universalista,
estendibile a tutti, all'azione collettiva. Ogni movimento sociale appare
come rivendicazione di diritti politici, sociali o culturali che devono
essere conquistati da tutti. Questo richiamo sta al centro delle
dichiarazioni francese e americana della fine del XVIII secolo.

4. PROFILI. PIETRO CITATI: HANNAH ARENDT (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)
[Dal sito www.feltrinelli.it riprendiamo il seguente articolo di Pietro
Citati apparso sul quotidiano "La repubblica" del 15-16 luglio 2003 col
titolo "Hannah Arendt, la fanciulla con gli occhi brillanti che cercava la
verita' del mondo".
Mette conto avvertire che questo testo, prezioso e suggestivo come tutti i
testi di Citati, non e' un saggio di rigorosa documentazione, ma
un'interpretazione per cosi' dire empatica: la Arendt qui raccontata e' -
per cosi' dire - la Arendt di Citati, nella sua verita' poetica, nella sua
densita' ermeneutica, e nei vuoti, nelle lacune e nelle forzature che
l'approccio peculiare del saggista-narratore implica. Sia su singoli punti
della ricostruzione della personalita' e della vicenda arendtiana, sia su
alcune tesi interpretative del pensiero arendtiano e non solo qui sostenute
si potrebbe a lungo discutere; ma non e' questa la sede: bastera' averne
fatto parola, affinche' chi legge rammenti che per conoscere la vita e il
pensiero di Hannah Arendt altri testi da leggere sono (ed almeno i lavori di
Laura Boella e di Simona Forti, e la biografia di Elisabeth Young-Bruehl); e
detto questo non sara' neppure necessario aggiungere che alcune espressioni
ed alcune opinioni dell'illustre scrittore presenti in questo saggio ci
sembrano non condivisibili (e qualche dettaglio finanche travisante o
erroneo de facto, ma sono minuzie), chi legge lo avra' gia' intuito. Con
tutto cio', e' un testo che ci e' parso utile riproporre su questo foglio,
per la sua qualita' letteraria, per alcune forti sue verita' (le pagine sul
totalitarismo ci sembrano la cosa piu' viva del saggio, e vi vibra forte un
afflato ed acuto un ascolto della lezione arendtiana), ed anche come omaggio
a un saggista che, pur nel dissenso talora - come del resto ci accade
finanche con i maestri piu' grandi -, sempre ci appassiona, e che
costantemente invita al riconoscimento dell'umanita' di tutti e di ciascuno,
all'accostamento grato ad ogni monumento di cultura, alla comprensione
dell'umana polifonia, a quell'umanesimo che e' gia' costruzione di pace  (p.
s.).
Pietro Citati (Firenze, 1930), e' scrittore, saggista, critico letterario
tra i piu' noti e apprezzati; collaboratore di varie riviste ("Il punto",
"L'approdo", "Paragone") e quotidiani ("Il giorno", "Corriere della sera",
"La repubblica"), condirettore della Fondazione Lorenzo Valla. Tra le opere
di Pietro Citati: Goethe, 197O; Il te' del cappellaio matto, 1972; Manzoni,
1973, 1980; Alessandro Magno, 1974, 1985; La primavera di Cosroe, 1977; I
frantumi del mondo, 1978; Il velo nero, 1979; Vita breve di Katherine
Mansfield, 1980; I racconti dei gatti e delle scimmie, 1981; Il migliore dei
mondi impossibili, 1982; Tolstoj, 1983; Vita e morte degli Incas, 1984;
Cinque teste tagliate, 1984; Il sogno della camera rossa, 1986; Kafka, 1987;
Il viaggio degli uccelli, 1988; Storia prima felice, poi dolentissima e
funesta, 1989; Ritratti di donne, 1992; La caduta del Messico, 1992; La
colomba pugnalata, 1995; La luce della notte, 1996; La collina di Brusuglio,
1997; L'armonia del mondo, 1999; Il romanzo europeo dell'800, 1999; Il male
assoluto. Nel cuore del romanzo dell'Ottocento, 2000; La mente colorata.
Ulisse e l'Odissea, 2002; Israele e l'Islam. Le scintille di Dio, 2003; La
civilta' letteraria europea da Omero a Nabokov, 2005; La morte della
farfalla, 2006.
Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva
di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe
all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le
massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne
ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista
rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel
1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti
tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l
'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione
originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951),
Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen
(1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti,
Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli,
Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e'
apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di
brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano,
1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969.
Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra
amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975,
Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio
Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2.
1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita'
e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la
biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri,
Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt,
Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah
Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah
Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della
polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt,
Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su
Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah
Arendt, Giuntina, Firenze 2001; Julia Kristeva, Hannah Arendt, Donzelli,
Roma 2005. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie
divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang
Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg
Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000]

Fu un'altra volta cacciata. Nel maggio 1941, mentre le truppe naziste
occupavano la Francia, Hannah Arendt e Heinrich Bluecher arrivarono a New
York. La madre, Martha, giunse il 21 giugno. Avevano venticinque dollari e
una borsa annuale di settanta dollari, offerta dalla Zionist Organization of
America. Affittarono due stanzette ammobiliate al 317 di West 95 Street: una
delle quali occupata dalla madre. La cucina era in comune con gli altri
inquilini. Sopravvissuta al disastro, Hannah Arendt non aveva piu' niente:
ne' libri ne' mobili ne' soldi ne' amici. Heinrich Bluecher lavorava come
sterratore, spalando prodotti chimici in uno stabilimento del New Jersey;
diede lezioni sulla storia della Germania ai prigionieri di guerra tedeschi;
infine venne assunto come annunciatore alla radio. Hannah Arendt scriveva su
giornali ebraici in lingua tedesca, "con una foga e una durezza maschili":
partecipava a convegni politici; divento' direttrice di ricerche presso la
Conference on Jewish Relations, caporedattrice presso la casa editrice
Schocken, dove pubblico' i Diari di Kafka, e professoressa al Brooklyn
College. Il tempo del petit bonheur di Parigi era finito: quelli di New York
furono gli anni del lavoro intensissimo, della furia, delle amicizie
culturali e politiche, del grande Libro e della gloria.
Amava gli Stati Uniti, che trovava passionately interesting: le piacevano la
liberta' e la partecipazione alla vita pubblica degli americani: "Non
finisco di essere riconoscente per essere approdata qui". Era il regno del
molteplice e dei colori. Parlava col giornalaio ebreo, il padrone del
ristorante italiano, il panettiere tedesco, il portinaio francese, i quali
chiedevano sempre di lei quando era lontana: e se sulle rive dello Hudson
sentiva parlare tedesco, le si allargava il cuore, perche' la lingua tedesca
era innocente di cio' che accadeva in Europa. Conobbe molte persone: forse
troppe. Invitava gli amici e i conoscenti nella piccola stanza fumosa; e,
piu' tardi, nel primo vero appartamento, al 130 di Morningside Drive. Con
gli amici condivideva il calore, la vitalita', il fascino della
conversazione: talvolta era "un'orgia di chiacchiere": le lettere a Mary
McCarthy ci comunicano ancora il petillement e il pettegolezzo dell'amicizia
femminile; quelle a Karl Jaspers la venerazione dell'antica discepola.
Ascoltava e raccontava storie.
Quando giunsero a New York le prime notizie sui massacri nazisti, Hannah
Arendt e Heinrich Bluecher non vollero crederci. "E' successa una cosa per
la quale nessuno di noi era preparato... E' accaduto qualcosa con cui era
impossibile venire a patti... Ad Auschwitz e' accaduto qualcosa che nessuno
era preparato a comprendere", ripete' Hannah Arendt nei suoi libri, come se
malgrado gli anni l'evento non potesse venire ammesso dalla mente. Lo
stupore, l'orrore, la vergogna di essere uomini erano vivi come il primo
giorno. Poi Hannah Arendt comprese. L'uomo aveva rivelato di poter compiere
delitti che superavano le immaginazioni piu' tremende. Aveva realizzato
visioni infernali "senza che il cielo cadesse o la terra si aprisse". Nulla
di cosi' enorme o di cosi' sistematico era mai accaduto nella storia
universale. Auschwitz e la Kolyma non avevano precedenti. Nemmeno
l'invasione dei Mongoli nel tredicesimo secolo: i paesi devastati, le citta'
bruciate o sommerse dai fiumi, milioni di innocenti massacrati, piramidi di
teste umane, roghi di Corani, uccisioni di bambini nel ventre delle madri.
Nessun mito religioso o fantasia letteraria o teoria politica aveva previsto
i delitti del ventesimo secolo: ne' Caino, ne' Macbeth, ne' lady Macbeth,
ne' Riccardo III, ne' Stavrogin. Shakespeare, Hobbes, Sade e Dostoevskij
erano degli innocenti. Dopo Auschwitz e la Kolyma, tutto era possibile. Per
decine di secoli l'Occidente aveva conosciuto il decalogo: ma come si
potevano applicare a Hitler e Stalin dei blandi comandamenti quali "non
desiderare la donna d'altri", "non rubare", "non uccidere"? Non esistevano
categorie psicologiche per comprenderli; ne' principii morali per giudicarli
e punirli; ne' teorie politiche secondo le quali spiegare cio' che era
accaduto. Per quanto l'intelligenza si sforzasse, il totalitarismo nazista e
comunista sfuggiva a qualsiasi tentativo di indicarne le cause e le ragioni.
Era inspiegabile, incomprensibile. Questa sarebbe stata la prima e l'ultima
parola del grande libro che comincio' a nascere, a New York, sotto il segno
del dolore e del terrore.
Le origini del totalitarismo (titolo che la Arendt non amava) fu progettato
probabilmente nel 1943. Venne concluso alla fine del 1949, e pubblicato nel
1951. Furono quasi sette anni di lavoro durissimo. C'erano gli articoli, il
lavoro presso le organizzazioni ebraiche, la casa editrice, le conferenze
all'universita', e le letture nelle biblioteche, compiute con una specie di
bulimia - il desiderio di leggere tutto, divorare tutto, possedere tutti i
documenti, i libri e gli articoli, perche' niente doveva venire dimenticato.
La Arendt scrisse con ansia, come se non avesse tempo, o il nazismo potesse
rinascere dalle sue ceneri di lava. Scrisse nel suo mediocre inglese,
attraverso il quale affiora continuamente il tedesco: con ripetizioni e onde
successive, e improvvisi e stupendi aforismi. Il libro comincia a fatica:
poi si muove, si scioglie, si espande da tutte le parti, si divide in mille
torrenti e rivoli, come un fiume in piena, che non puo' arrestarsi. Mai, in
nessun rigo, c'e' una traccia di partito preso ideologico: perche' in
futuro - essa disse - conteranno soltanto "coloro che non si
identificheranno ne' con un'ideologia ne' con un potere". Purtroppo, il suo
vaticinio non si e' realizzato.
Oltre che un grandioso libro di storia politica, Le origini del
totalitarismo e' un'opera letteraria: ci da' un piacere estetico,
risvegliando in noi quello slancio di gioia vitale che suscitano le opere
d'arte. Non ha equivalenti nel ventesimo secolo: libro di storia della
cultura, dell'economia e della politica, racconto di fatti e di idee,
analisi del cuore, visione, protesta, romanzo, pochade, pamphlet, atto
d'accusa davanti al tribunale di Dio e, soprattutto, nascosto libro di
teologia. La parte sull'antisemitismo e' la piu' scandalosa. Hannah Arendt
provava un'angosciosa compassione verso le sofferenze del suo popolo: una
compassione che la feriva nella carne e la colpiva come un contagio. Ma la
temeva: addirittura la odiava; e, scrivendo il suo libro e, piu' tardi, La
banalita' del male, cerco' con tutti i mezzi di tenerla lontana. Come dice
Dostoevskij, sbaglio', perche' non dobbiamo mai avere paura della
compassione, in qualsiasi regno dello spirito ci conduca. Spesso fu ingiusta
verso i giudei parvenus o passivi, e manco', come le scrisse Scholem, di
"delicatezza del cuore". I capitoli sull'assimilazione ebraica nel
diciannovesimo secolo sono stati scritti con divertimento, sarcasmo,
talvolta euforia: le pagine sullo snobismo, la teatralita' degli ebrei, le
loro associazioni con gli antisemiti e il tentativo di entrare nell'esercito
francese sono degni non so se di Labiche o di Proust. Questa mancanza di
rispetto verso le vittime aggiunge, non toglie, alla crudele grandezza del
libro.
Verso le figure del Male, c'e' un'allegria e un disprezzo molto piu' feroci:
la Arendt non dimentica mai che Hitler, Goebbels, Stalin, Berija, Eichmann
erano in primo luogo degli imbianchini, dei mediocri seminaristi, degli
infimi giornalisti o impiegati postali, che, in altri tempi, sarebbero stati
cacciati da qualsiasi ufficio. Il Male moderno aveva una sinistra tenerezza
per gli imbecilli. Ma questa allegria e' solo un velo dietro il quale la
Arendt si nasconde. Come scrisse Karl Jaspers, lei era un medico, che
studiava per la prima volta una malattia sconosciuta: fino a quel momento se
ne conosceva soltanto qualche sintomo e indizio; e, all'improvviso, mentre
lavorava nel suo sgabuzzino, la malattia si rivelo' davanti ai suoi occhi,
come una struttura coerente e compatta, dotata di leggi e manifestazioni
precise, capace delle piu' mortali neoplasie. Lei era li', nelle biblioteche
americane, lontana dalla follia europea, e studiava la malattia. Se la
capiva cosi' bene, molto meglio di quanto la compresero mai gli storici di
professione, era appunto perche' lei non era una storica di professione.
Abitava tra le idee religiose e filosofiche: Platone, Aristotele, Paolo,
Agostino, san Tommaso, Hobbes, Kant; e con il soccorso delle loro luci
poteva raccontare, con una lucidita' che nessuno avrebbe piu' condiviso, i
sinistri eventi del ventesimo secolo.
Cosa era dunque accaduto? E perche' era accaduto? Quale era la malattia che
stava per uccidere l'Europa e il mondo? Quale era la sua origine e il suo
fondamento? E cosa aveva scoperto Hannah Arendt, nel suo appartamentino di
New York? La malattia era antichissima: il Male Assoluto, o il Male
Metafisico, o il Male Radicale, come aveva detto Kant; il Male come sostanza
terribilmente attiva, non come privazione o negazione del bene, o semplice
eccezione alla regola normale dell'universo. Ne aveva parlato san Paolo, che
scrisse: "Il volere e' in mio potere, ma compiere il bene no. Sicche' non
faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ma se faccio
quello che non voglio, non sono io a farlo, ma la forza del peccato che
abita in me": dunque il male non sta piu' fuori, nel mondo, ma dentro di
noi, sotto quelle pallide immagini che sono la nostra ragione, la nostra
volonta' e la nostra coscienza. Ne aveva trattato Agostino, nelle
Confessioni, quando il bambino appena nato, "pallido, con lo sguardo amaro",
invidia il fratello nato dalla stessa madre; e la Gnosi, immaginando il
cosmo come un meccanismo rigido e tirannico, privo di luce divina, una
fortezza ermeticamente chiusa, circondata da muri e fossati invalicabili,
dove siamo imprigionati dalla doppia catena del corpo e del tempo. Nei tempi
moderni ne aveva raccontato Dostoevskij, quando rappresento' la natura,
senza la resurrezione del Cristo, come una grande bestia: un enorme
scorpione, o un ragno, o una tarantola; o una macchina sorda e insensibile,
"che aveva afferrato, maciullato e inghiottito Cristo, una figura sublime e
inestimabile".
Nel ventesimo secolo il Male Assoluto, che prima di allora aveva dato
moltissimi cenni di se', si era incarnato per la prima volta nella sua forma
totale. Il nazismo e lo stalinismo erano Male Assoluto senza eccezione: non
c'era niente, in essi, che non fosse Peccato e Satana. L'irruzione nella
storia era stata abbacinante e senza rimedio, senza una minima traccia di
imprevedibilita' o un barlume di luce. Nazismo e stalinismo avevano storia e
precedenti completamente diversi, che la Arendt indago', almeno in parte,
nelle Origini del totalitarismo; e non esercitarono influenza l'uno
sull'altro ne' ebbero veri rapporti, sebbene Hitler e Stalin si ammirassero
a vicenda, come il grande criminale ama il grande criminale. Ma chi
indagava, nel laboratorio del medico, le istituzioni e le leggi profonde del
nazismo e dello stalinismo, si accorgeva che erano le stesse. La loro
struttura era identica: come se il Male Assoluto, nel ventesimo secolo,
potesse adottare una sola incarnazione, o avesse preparato da secoli, nei
segreti della storia, quest'apparizione atroce.
Hannah Arendt aveva raccontato come, nei primi anni del secolo, il potere
dell'imperialismo diventasse puro, separandosi dalla comunita' politica che
avrebbe dovuto servire. Il potere era ormai l'unico contenuto della
politica. Non si arrestava mai: obbediva a una espansione illimitata di se
stesso, come se fossero ritornati i tempi di Alessandro Magno. Ma con Hitler
e Stalin, quel progetto si capovolse: non mirava piu' all'aumento delle
ricchezze, e non obbediva a nessuna considerazione di carattere economico o
militare. Per Stalin, lo sviluppo ininterrotto della polizia era molto piu'
decisivo del petrolio di Baku, del carbone degli Urali, dei cereali
dell'Ucraina, dei tesori della Siberia. Distrusse l'agricoltura sovietica:
fucilo' i generali alla vigilia dell'invasione tedesca. Nel 1944,
amministrare le fabbriche della morte era, per Hitler, piu' importante che
vincere la guerra. Sebbene gli stati totalitari costruissero un rigido
sistema di leggi e di gerarchie, cio' che appassionava Hitler e Stalin era
distruggere le leggi che avevano imposto. Le gerarchie formavano dei poteri
paralleli, che si occupavano della stessa materia: ognuno piu' potente
dell'altro, ognuno piu' misterioso e invisibile dell'altro - polizie sempre
piu' segrete, istituti sempre piu' oscuri. La gerarchia piu' potente era
quella di cui, alla superficie, non giungeva nemmeno una traccia. Con
disperazione dei politologi, non si erano mai visti stati piu' complessi,
confusi e intricati degli onnipotenti stati nazista e comunista. Erano molto
piu' prossimi alle invenzioni della Cabbala, che ai moderni ordinamenti
politici. Nebel und Nacht, "nebbia e notte", come diceva il titolo che
raccoglieva i documenti sui campi di sterminio.
In questa "nebbia e notte", i fedelissimi adoratori di Stalin e di Hitler
erano rotelle di una macchina: come disse Himmler, in "nessun caso avrebbero
fatto una cosa per se stessa". Il vero antenato dei nazisti e dei comunisti
era Necaev, il terrorista russo allievo di Bakunin: "Il rivoluzionario non
ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali,
proprieta'. Non ha neppure un nome. Un unico interesse lo assorbe ed esclude
ogni altro, un unico pensiero, un'unica passione... Conosce un'unica
scienza: la scienza della distruzione". Quanto ai sudditi, dovevano
rinunciare ad ogni ricordo della vita privata, dimenticando il gioco degli
scacchi o lo scopone scientifico o la pittura. Sopra ogni cosa, cancellare
tutto cio' che era spontaneo, casuale, imprevedibile nell'esistenza: cioe'
la vita stessa. La voce dell'esperienza doveva tacere. Non c'erano piu'
fatti. Nell'opaco tramonto di tutto il visibile, trionfava soltanto
l'ideologia: elementi fantastici, osservazioni immaginarie, trasformate in
un sistema fitto, compatto, unitario, che in sogno rispondeva a tutte le
domande.
Sebbene non venisse mai pronunciato, il vero nome dei sudditi era peccatori,
che nel gergo staliniano si traduceva con nemici oggettivi. Qualsiasi cosa
facessero erano colpevoli: non importava che conducessero una vita
esemplare, rispettando la legge, inneggiando a Hitler, a Stalin e ai loro
servi, perche' le leggi cambiavano continuamente e la suprema virtu' di oggi
diventava, domani, la suprema colpa. E poi la colpa stava scritta non nelle
azioni ma nei cuori, che sono incomprensibili. Ne' i poliziotti ne' gli
accusati potevano conoscerli a fondo. Il poliziotto sovietico aveva
sviluppato il dono di scoprire e smascherare la colpa, come un teologo
bizantino. Ma tutto questo non serviva a niente: ne' lo spionaggio, ne'
l'analisi, ne' l'autoanalisi. La certezza rimaneva unica: i sudditi erano
insieme colpevoli e superflui. Tutti meritavano di essere torturati,
fucilati, gassati ad Auschwitz e negli altri campi, fatti a pezzi, uccisi
dalla fame, mandati a morire di gelo nelle miniere della Kolyma. Nel momento
della morte, diventavano finalmente eguali, come Dio li aveva creati. "Non
morivano come individui, uomini e donne, bambini e adulti, buoni e cattivi,
belli e brutti, ma venivano ridotti al minimo comun denominatore della vita
organica, sprofondati nell'abisso piu' profondo e cupo dell'uguaglianza
originaria. Morivano come bestie, come materia, come cose che non avevano
piu' ne' corpo ne' anima, nemmeno un volto su cui la morte potesse imporre
il suo sigillo".
Il potere totalitario divorava i suoi figli: Stalin mando' nei gulag e fece
uccidere i comunisti che lo avevano sostenuto contro Trockij e Bucharin; i
servi di Hitler diventarono sempre piu' insicuri, sebbene mascherassero
l'incertezza con la ferocia. Sia in Germania che in Russia, via via che
l'opposizione politica perdeva ogni forza, il terrore crebbe, diventando
infinito. In Unione Sovietica si proclamo' (sebbene venisse combattuta a
parole) la "rivoluzione permanente": in Germania, la "costante marcia in
avanti verso obiettivi continuamente nuovi". Ogni stabilita' era uccisa. Un
movimento incessante, folle, spasmodico trascinava avanti i capi, i seguaci,
le folle, cambiava programmi e nemici, liquidava lo stato e le gerarchie,
cancellava l'amministrazione, annullava i miglioramenti economici. Nemmeno
l'ideologia contava piu': nemmeno l'antisemitismo aveva piu' rilievo; lo
sterminio non sarebbe cessato nemmeno quando tutti gli ebrei fossero morti.
Sia Stalin sia Mao Tse-Tung miravano a un altro balzo in avanti, che sarebbe
stato seguito da una serie inimmaginabile di balzi in avanti. Mai era
accaduto che la storia venisse cosi' battuta, istigata e sferzata, costretta
a un ritmo tanto vertiginoso. Alla fine, il potere totalitario confessava la
sua anima nichilista: la sua natura consisteva in questo incessante processo
di distruzione di se' e di ogni potere possibile. Non voleva il governo del
mondo, ma la fine e l'esplosione definitiva del mondo.
Nella Summa Theologica, san Tommaso scrisse una frase mirabile: "Se il male
totale potesse essere, distruggerebbe se stesso". San Tommaso aveva torto:
il ventesimo secolo ha dimostrato che il male totale esiste: eppure esso
vuole, pretende la propria distruzione, come Hitler e Stalin hanno
dimostrato. Hannah Arendt pensava che i governi democratici non
comprendessero la natura profonda del loro avversario: Churchill, Roosevelt
e De Gaulle erano dei nipioi avrebbero detto i greci. Ma il totalitarismo
era uno sconosciuto: forse persino a se stesso; e ignota era la forza che lo
portava alla propria cancellazione. Un teologo cattolico avrebbe aggiunto
che il Male Assoluto non puo' durare nella storia, sebbene sembri, per
qualche tempo, trionfare. Nessun altro segno ci rivela che la Provvidenza
non abita soltanto nei dimenticati libri di teologia della tradizione
cristiana.
Hitler e Stalin possedevano un'immaginazione, dalla quale noi, mediocri
inquilini del ventunesimo secolo, siamo ancora atterriti. Come il presidente
Schreber, forse erano dei paranoici che hanno riempito alcuni decenni di
delirii e spaventosi fantasmi, inscenando quel grandioso spettacolo teatrale
che e' l'inferno. Ma forse Hitler e Stalin non erano affatto paranoici.
Avevano capito che la paranoia ininterrotta e' l'unico sistema possibile di
potere assoluto: qualche volta Stalin appariva dietro le quinte, guardava
ironicamente, si prendeva gioco dello spettacolo che aveva inscenato, di se
stesso burattinaio, di noi tutti, poveri burattini. Non siamo certi di
nulla. Forse Hitler e Stalin furono capi politici, che cambiavano pareri e
desideri con velocita' inimmaginabile. Forse furono degli spettri, i quali
misero in moto una forza sconosciuta, che funziono' per molti anni da sola:
lo scorpione, il grande ragno, la tarantola, la macchina sorda e insensibile
di Dostoevskij, che maciullo' decine di milioni di uomini.
Nel suo misero stanzino di New York, Hannah Arendt aveva studiato gli
antecedenti del totalitarismo: l'antisemitismo ottocentesco, l'imperialismo
dei primi anni del secolo, in parte il marxismo fino a Lenin e Stalin. Aveva
scoperto i sintomi, le leggi, la struttura della malattia sconosciuta. Il
suo lungo lavoro era compiuto, nel grande libro che ancora oggi vive davanti
a noi, ci stimola e ci agita. Ma la sua conclusione era la stessa di quando
le prime notizie sullo sterminio giunsero a New York. Per quanto se ne studi
la storia, il totalitarismo e' incomprensibile. Non ha cause precise. Non si
puo' capire perche' il livore antisemita e il fanatismo marxista abbiano
condotto a Auschwitz e alla Kolyma. Il Male Assoluto resta inspiegabile: la
profonda oscurita' del mondo.
*
Negli anni in cui Hannah Arendt scriveva, Auschwitz sconvolse le
intelligenze dei teologi ebrei e cristiani. Dio, che era apparso nella
Bibbia, non intervenne mai: non lascio' nemmeno un segno nei lager e dei
gulag. Meglio di ogni altro, Hans Jonas spiego' la sua assenza. Quando creo'
la terra e l'uomo, con un atto di sovranita' assoluta Dio consenti' a non
essere piu' il Signore della Bibbia: si autolimito', rinuncio' alla propria
onnipotenza, venne intaccato da cio' che, nel mondo, "accade e tramonta".
Con questo gesto, rischio', affronto' una condizione di costante pericolo,
si indeboli', divento' vulnerabile - come noi, sue creature, siamo feribili
e vulnerabili. Cosi', ad Auschwitz e alla Kolyma, Dio non salvo' nemmeno una
persona: i miracoli che accaddero durante la persecuzione furono opera di
creature umane. Tacque. Rimase immerso nel piu' assoluto silenzio. Non
intervenne nella storia degli uomini: non perche' non volle, ma perche' non
era piu' in condizione di farlo.
Hannah Arendt rifiuto' la spiegazione di Hans Jonas, che risaliva alle
grandiose speculazioni della Gnosi ebraica. Proprio lei, che aveva compreso
e rappresentato come nessun altro il Male metafisico del ventesimo secolo,
rinuncio' a qualsiasi interpretazione gnostica e manichea del mondo moderno.
Quando anni dopo vide Eichmann a Gerusalemme - questo pallido fantasma
rinchiuso nella scatola di vetro, quest'uomo di mezza eta', magro, di
statura media, con un'incipiente calvizie, dentatura irregolare, occhi
miopi, un tic nervoso alle labbra, pieno di buoni sentimenti e ossequioso a
tutte le leggi - si convinse che non era un mostro ne' una creatura
demoniaca. Era soltanto un uomo normale: un impiegato qualsiasi, uno
scrupoloso pater familias come Himmler. Il male possedeva "una spaventosa,
indicibile e inimmaginabile banalita'".
La visione di Eichmann nella scatola di vetro sconvolse la Arendt. E,
discutendo subito dopo con Gershom Scholem, giunse a sostenere che il Male
"radicale" o "assoluto" o "metafisico" non esiste, perche' non ha
profondita' ne' dimensione demoniaca. "Solo il bene - aggiunse - e'
profondo", radicale e assoluto. La Arendt aveva torto. Il Male Assoluto puo'
scegliere, e ha preferito scegliere nel secolo scorso, gli Himmler e gli
Eichmann, gli uomini normali e banali, per realizzare le sue mete: ma anche
in loro, nel loro mediocre buon senso, nel rispetto della legge, nei buoni
sentimenti da scrupolosi padri di famiglia, si avverte l'orribile soffio
della Tenebra. Sotto il nazismo e lo stalinismo, muovendo da quegli oscuri
centri di irradiazione che furono Hitler e Stalin, il contagio aveva invaso
tutti i servi del potere, cancellando i decaloghi e le regole della
convivenza civile. Il mostruoso e il demoniaco erano presenti dappertutto,
in qualsiasi veste e maschera. Quando la Arendt negava che il Male Assoluto
esistesse, agiva su di lei la tradizione del pensiero cristiano, che ebbe
sempre terrore di ogni concezione autonoma del Male, e rifuggi' da ogni sia
pur vago ricordo gnostico e manicheo. Il Male, dicevano gli scrittori
cristiani (ma non Paolo ne' sempre Agostino) era soltanto una privazione di
bene, senza sostanza propria.
Malgrado la sua lucida rappresentazione del totalitarismo, Hannah Arendt non
credette piu', nell'ultima parte della sua vita, che la potenza oscura
potesse invadere e soggiogare la terra. "Non si puo' andare, ella disse,
contro la propria vitalita' naturale"; e lei era felice. Quando vedeva la
creazione, contemplava gli spettacoli della luce, i paesaggi d'America e
d'Europa, parlava con gli amici, passeggiava per le vie di Parigi, si
appassionava e scriveva e rideva piena di gioia, il mondo le "sembrava
buono". Malgrado le parole di Nietzsche, pensava che Dio non fosse morto.
Aveva conservato una infantile fiducia nel mite Dio della Bibbia, che crea
la luce, il firmamento, il sole, la luna, i volatili, i pesci, le erbe
verdi, i passeri e le cicogne, e foggia l'uomo a sua immagine e somiglianza.
Da lui ci viene la nostra parte e dignita' nella creazione. Egli ci da' il
mondo. Ci da' la bonta', che e' piu' forte del male. Ci da' l'inizio, che,
diceva Platone, salva ogni cosa; e il miracolo. Soprattutto ci da' la
compassione: la virtu' suprema, piu' alta di qualsiasi sentimento umano,
sebbene la Arendt avesse rifiutato di manifestarla verso gli Ebrei. La
compassione abolisce ogni distanza tra gli uomini, e tra Dio e l'uomo. Gesu'
la prova nel discorso del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di
Dostoevskij: la prova in silenzio, perche' la voce della compassione e' uno
"strano silenzio" e uno strano imbarazzo verso le parole, che la contrappone
alla eloquenza della virtu'.
(Parte seconda - fine)

5. STRUMENTI. L'AGENDA "GIORNI NONVIOLENTI" 2007

Come ogni anno le Edizioni Qualevita mettono a disposizione l'agenda-diario
"Giorni nonviolenti", un utilissimo strumento di lavoro per ogni giorno
dell'anno. Vivamente la raccomandiamo. Il costo di una copia e' di 9,50
euro, con sconti progressivi con l'aumento del numero delle copie richieste.
Per informazioni ed acquisti: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2, 67030
Torre dei Nolfi (Aq), tel. e fax: 0864460006, cell. 3495843946, e-mail:
qualevita3 at tele2.it

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1472 del 7 novembre 2006

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