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Nonviolenza. Femminile plurale. 82
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 82
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 21 Sep 2006 10:16:50 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 82 del 21 settembre 2006 In questo numero: 1. Donna St. George: Storia di Suzanne 2. Constantinos Kavafis: Anna Dalassena 3. Serena Fuart: Ricamare una vita 4. Caterina Bori e Samuela Pagani: Nello specchio dello straniero 1. MONDO. DONNA ST. GEORGE: STORIA DI SUZANNE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Donna St. George apparso sul "Washington Post" del 19 settembre 2006. "Al momento attuale la protagonista di questa storia, Suzanne Swift, e' al centoduesimo giorno di 'stato d'arresto', in attesa della corte marziale, a Fort Lewis. Nonostante sia una detenuta, l'esercito le sta facendo svolgere un completo orario di lavoro. Sua madre, Sara Rich, riferisce che la salute mentale della figlia si sta deteriorando. In questi centodue giorni le e' stato concesso di vedere lo psicologo che l'ha in cura per sei volte. I 'Veterani dell'Iraq contro la guerra' e i 'Veterani per la pace' stanno tenendo un sit-in da cinque giorni nell'ufficio del deputato competente per territorio, Peter DeFazio, e non se ne andranno prima di aver raggiunto un accordo con lui sulle azioni da prendere a favore della giovane donna detenuta. Una petizione popolare in suo sostegno ha gia' raggiunto oltre 6.000 firme" (nota di Maria G. Di Rienzo). Donna St. George e' giornalista del "Washington Post". Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005] Eugene, Oregon. Suzanne Swift ricorda il momento in cui si trovava nel soggiorno della madre, a poche ore dal suo secondo invio in Iraq. Il suo bagaglio militare era gia' stato spedito, assieme ai suoi dvd e libri, al suo cuscino rosa, al suo pacchetto di semi di girasole. Aveva in mano le chiavi dell'auto, pronta a guidare sino alla base militare. Di colpo, si giro' verso sua madre: "Non posso farlo, non posso andare". Suzanne, soldato specializzato, ora ventiduenne, ricorda il suo stomaco stringersi, la sorpresa di sua madre. Di colpo, non poteva sopportare l'idea di passare un altro anno come il primo. Era stata molestata sessualmente da un superiore, e forzata a fare sesso con un altro. "Non volevo che succedesse di nuovo". Ora Suzanne Swift potrebbe comparire di fronte alla corte marziale. Arrestata in giugno per essere diventata un'"assente senza permesso", ha denunciato tre episodi di violenza sessuale agli ufficiali dell'esercito, che hanno dato inizio agli accertamenti. Uno dei casi e' gia' stato verificato, e il perpetratore punito. Ma venerdi' scorso l'esercito ha deciso che gli altri due non sono sufficientemente provati. Ora decideranno che azione disciplinare comminare a Suzanne per la sua assenza di cinque mesi. Se giudicata colpevole di diserzione, la giovane donna dovra' fronteggiare la prigione e il congedo con disonore. Il caso di Suzanne Swift ha infiammato gli attivisti contrari alla guerra e le organizzazioni delle donne, che hanno dato inizio ad una petizione ed hanno dimostrato di fronte alla base di Fort Lewis, fuori Tacoma (Washington). * Il suo caso solleva inquietanti questioni sul rapporto fra i sessi nell'esercito. Molte veterane dicono che esso e' un crudo esempio della vita militare quale e' realmente, che la maggior parte delle molestie non vengono denunciate, che le donne giovani e dal grado basso sono le piu' vulnerabili e che quando subiscono aggressioni sessuali temono di essere trattate ancora peggio se ne parlano. "E' molto piu' comune di quanto la gente pensi", dice Colleen Mussolino, fondatrice del gruppo Donne veterane d'America, "Ci sono, letteralmente, migliaia di donne che hanno sperimentato vicende simili". Il Pentagono parla di 500 casi di violenze sessuali che coinvolgono le forze Usa in Iraq, ma gli ufficiali ammettono che il problema e' piu' vasto, e che e' reso maggiormente complicato dallo scenario di guerra. Lory Manning, direttrice del progetto di ricerca "Donne nell'esercito" per il "Women's Research and Education Institute", sottolinea che nell'ambito militare le relazioni sessuali sono inserite nel concetto di "catena di comando" e non sono viste come consensuali neppure se chi e' subordinato acconsente. "La presunzione e' che il subordinato debba prenderlo come un ordine, e temere castighi se si nega", spiga Manning, capitana della marina militare in pensione, "Piu' giovane e' il subordinato, piu' e' difficile che si rifiuti, nel timore delle conseguenze". * Suzanne Swift aveva 19 anni, ed era uno dei membri della sua unita' con minore esperienza, quando fu inviata in Kuwait nel febbraio 2004. Aveva completato l'addestramento al campo e fatto sei settimane di formazione sui compiti della polizia militare. Era stata assegnata alla 66ma Military Police Company. Suzanne firmo' per la polizia militare perche' pensava che questo l'avrebbe tenuta lontana dall'Iraq, ma quando la sua unita' vi fu destinata per un anno, parti'. In Kuwait, racconta, un sergente di plotone che sino a quel momento era stato amichevole nei suoi confronti, e che alla partenza aveva rassicurato sua madre con un "Non si preoccupi, signora. Avremo cura di sua figlia", la fermo' mentre si stava recando alle docce e disse: "Swift, perche' hai l'aria di voler fare sesso con me?". Scioccata, Suzanne replico': "Devi essere diventato matto". Il giorno seguente, sul convoglio, il sergente insiste'. "No, amico", gli rispose la giovane parecchie volte. Suzanne dice che non era preparata ad una situazione del genere, che nulla di simile le era accaduto durante l'addestramento. Confido' quanto era accaduto ad un soldato il cui compito era ricevere le lamentele riguardanti le pari opportunita'. Egli sembro' ricettivo, e promise che ne avrebbe parlato ad un capitano, ma non accadde nulla. La sua unita' si mosse e raggiunse quindi Camp Lima a Karbala, in Iraq, a sudovest di Baghdad. Il suo compito era essere di sostegno alla polizia irachena. Suzanne noto' subito che lo strano comportamento del sergente continuava. Egli persisteva nel metterla in guardia rispetto ai suoi compagni: "Stai attenta a quel tipo, intende farsela con te". Nel contempo prendeva da parte alcuni di essi e domandava perentoriamente "Come stanno le cose tra te e Swift?". Presto i soldati cominciarono a stare distanti da Suzanne. Privatamente, il sergente aveva fatto ore ed ore di domande alla ragazza, sulla sua vita e le sue precedenti relazioni. Suzanne e' stata cresciuta dalla sola madre, ha frequentato un liceo alternativo, ed e' stata sposata per breve tempo. Una notte, mentre stavano accanto ad un mezzo da trasporto a Camp Lima, il sergente l'afferro' e la bacio'. "Non volevo avere una storia con lui, non mi piaceva. Ma avevo paura. Si', avevo una scelta, ma era una scelta obbligata". Da allora, capitava che le notti il sergente bussasse rumorosamente alla sua porta, completamente ubriaco, insistendo per fare sesso con lei. Quando riusci' finalmente a respingerlo, il sergente si vendico'. Le ordino' ad esempio di indossare un orologio da parete attorno al collo, e di fargli rapporto in tenuta da combattimento ogni ora. I rapporti negativi sul soldato Swift cominciarono a fioccare. Zach Thompson, il suo caposquadra, che aveva sentito della faccenda dell'orologio da altri militari, ha di Suzanne un'opinione del tutto diversa e la giudica persona positiva ed affidabile. "Non avrei potuto chiedere un soldato migliore", dice, "Era veramente intelligente e si inseriva con facilita' nelle varie situazioni. Non mi ha mai detto degli abusi, mentre eravamo in Iraq. Se lo avesse fatto, le avrei detto di denunciarli formalmente". E aggiunge convinto: "Non mi ha mai mentito, percio' qualsiasi cosa mi avesse detto io le avrei creduto". Un'altra donna dell'unita' di Suzanne Swift, che non vuole essere identificata per timore di ritorsione, racconta di aver ricevuto molestie dallo stesso sergente durante il suo turno di servizio in Iraq, e non ha dubbi che la storia di Swift sia vera. Sebbene non avesse denunciato formalmente le molestie, Suzanne si confido' al telefono con sua madre, la quale divenne cosi' preoccupata da rivolgersi nel novembre 2004 al deputato della sua zona, il democratico Peter A. DeFazio. I membri dell'ufficio di quest'ultimo le dissero che non potevano intervenire sino a quando sua figlia non avesse intrapreso un'azione legale. Suzanne rifiuto' di farlo, ricordando alla madre che era in Iraq, ancora sotto il comando di quel particolare sergente (che ora non fa piu' parte dell'esercito). * Le denunce che ora la giovane donna ha fatto concernono anche il suo ritorno dall'Iraq. Mente si trovava a Fort Lewis, un altro sergente suo superiore diretto fece parecchi commenti spiacevoli su di lei. Il giorno in cui gli chiese dove dovesse fargli rapporto le fu risposto: "Nel mio letto, nuda". Successivamente, le chiese di fare sesso davanti ai commilitoni schierati e lei gli rispose di chiudere la bocca e uso' un termine insultante. Le fu ordinato di fare flessioni per punizione. Suzanne non tacque l'incidente ed il sergente fu ammonito ed assegnato ad una diversa unita'. Nel descrivere la vita militare come lei l'ha vissuta, Suzanne Swift dice che i commenti a sfondo sessuale sono comuni, e che ne ha ricevuti e sentiti molti, ma che la faccenda e' diversa quando vengono da un superiore: "Gli altri soldati non hanno potere su di te". * Suzanne era casa da otto mesi quando le giunse notizia che doveva tornare in Iraq. Quando prese la decisione di non andare, sua madre la porto' a fare una visita medica e le fu diagnosticato l'esaurimento collegato agli abusi sessuali. L'esercito contesta anche questo: hanno detto a Suzanne che lei mostra dei sintomi, ma che non ha una malattia vera e propria. Ingaggiato dalla madre, un avvocato si e' recato a Fort Lewis per tentare di accordarsi su un congedo, e gli fu risposto che "l'esercito non tratta con i disertori". Nel giugno scorso, la polizia di Eugene ha bussato alla porta di casa delle due donne. Suzanne e' stata arrestata nel soggiorno di sua madre. 2. POESIA E VERITA'. CONSTANTINOS KAVAFIS: ANNA DALASSENA [Da Costantino Kavafis, Poesie, Mondadori, Milano 1961, 1991, p. 171 (la traduzione e' di Filippo Maria Pontani). Constantinos Kavafis (Alessandria d'Egitto 1863-1933), e' una delle grandi voci della poesia novecentesca, e della poesia classica. Opere di Constantinos Kavafis: Poiemata, Ikaros, Atene 1983, 2 voll. (a cura di G. P. Savvidis); Poesie, Mondadori, Milano 1961, 1991 (cura e traduzione di Filippo Maria Pontani); Cinquantacinque poesie, Einaudi, Torino 1968, 1984 (cura e traduzione di Margherita Dalmati e Nelo Risi). Opere su Constantinos Kavafis: Paola M. Minucci, Costantino Kavafis, Firenze 1979; M. Peri, Quattro saggi per Kavafis, Vita e pensiero, Milano 1978; G. Lorando, L. Marcheselli, A. Gentilini, Lessico di Kavafis, Liviana, Padova 1970; cfr. anche il bel saggio di Marguerite Yourcenar, in Eadem, Con beneficio d'inventario, Bompiani 1985, 1993] Alessio Comneno promulgo' una bolla d'oro per rendere alla madre un alto onore, alla saggissima sovrana, ad Anna Dalassena, nei costume e nell'opere perfetta. Vi sono elogi a iosa. Riporto una preziosa e bella frase: ne vale la pena: "Il mio o il tuo: parola gelida: tra noi non fu mai detta". 3. INCONTRI. SERENA FUART: RICAMARE UNA VITA [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo pressoche' integralmente la seguente relazione di Serena Fuart dell'incontro del Circolo della Rosa svoltosi il primo aprile 2006 presso la Libreria delle donne di Milano. Trattandosi di una trascrizione di sintesi di interventi orali, ovviamente alcune espressioni possono essere imprecise, alcune ricostruzioni frettolose e in taluni punti non condivisibili, ed alcuni giudizi anche inadeguati e discutibili: chi legge ne tenga conto; con questa avvertenza, si tratta di un resoconto assai utile di un'iniziative assai apprezzabile (p. s.). Serena Fuart e' una prestigiosa intellettuale femminista. Adele Manzi, cofondatrice della ong "Najdeh", e' impegnata nella solidarieta' col popolo palestinese ed ha trascorso parte della sua vita in Libano fra le palestinesi profughe. Luisa Muraro, una delle piu' influenti pensatrici viventi, ha insegnato all'Universita' di Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di "Diotima"; dal sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo la seguente scheda biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei sorelle e cinque fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita' Cattolica di Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una carriera accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare nella scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva: La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981, ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima (1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel 1997". Stefano Sarfati Nahmad, intellettuale milanese di forte impegno civile, e' impegnato nella "Rete ebrei contro l'occupazione". Manuela Dviri Vitali Norsa, nata a Padova nel 1949, dopo il matrimonio si e' trasferita in Israele dedicandosi all'insegnamento; giornalista e scrittrice, e' impegnata nel movimento pacifista israeliano; "Dal giorno della morte in territorio libanese del figlio ventenne, Jonathan, durante il servizio di leva, Manuela Dviri e' diventata una importante esponente del movimento pacifista israeliano e tra i sostenitori del dialogo e la collaborazione tra la societa' israeliana e palestinese. Giornalista e scrittrice... e' stata tra le esponenti del gruppo delle 'quattro madri' per il ritiro delle truppe israeliane dalla striscia di sicurezza libanese, poi avvenuto nel 2000. Pubblica su vari giornali israeliani e sul 'Corriere della Sera'" ("Il manifesto"). Opere di Manuela Dviri: La guerra negli occhi, Avagliano Editore, Cava de' Tirreni 2003; Vita nella terra di latte e miele, Ponte alle grazie, Milano 2004. Eitan Bronstein, impegnato per la memoria condivisa, la pace, il reciproco e comune riconoscimento di umanita' e la riconciliazione, ha fondato l'associazione "Zochrot". Laura Minguzzi, di origini ravennati, insegna lingue straniere in licei milanesi; femminista storica, ha promosso insieme ad altre una "Comunita' di pratica e di riflessione pedagogica e di ricerca storica" che si ispira alla pratica politica della Libreria delle donne di Milano, di cui fa parte; e' autrice di varie pubblicazioni. Vita Cosentino e' un'autorevole intellettuale femminista. Federico Lastaria, docente al Politecnico di Milano, e' impegnato nella solidarieta' col popolo palestinese. Annamaria di Ciommo, artista e artigiana, e' socia del Circolo della Rosa di Milano] Dal 31 marzo al 2 aprile Il Circolo della Rosa ha ospitato una mostra di artigianato palestinese (ricami e tessuti) organizzata da Adele Manzi, amica di Stefano Sarfati Nahmad, la quale ha trascorso parte della sua vita in Libano fra le palestinesi profughe. Sabato primo aprile, Luisa Muraro e Stefano Sarfati Nahmad hanno dialogato con Adele Manzi per parlare e ragionare sui problemi del popolo palestinese, ponendo speciale attenzione alle donne. Tra gli argomenti trattati, il delicato lavoro di mediazione in situazione di conflitto; le figure mediatrici, protagoniste di questo delicato compito che viene portato avanti valorizzando cultura e memoria. Si e' parlato di ricamo naturalmente, una delle vie della mediazione, che favorisce l'incontro tra le donne, lo scambio culturale, il ritorno alle origini. * E' Luisa Muraro a dare inizio alla discussione introducendo uno dei temi della serata, la figura delle mediatrici, argomento su cui lei, a partire dalla sua esperienza e in relazione alla vita e al lavoro di Adele Manzi, ha riflettuto personalmente arrivando a delle considerazioni che toccano il suo modo di sentire e la politica che fa. "Ho capito qualcosa che mi riguarda, riguarda il mio modo di sentire e la politica che faccio. Come ho spiegato ad Adele, non sono dedita alla causa palestinese, sono concentrata qui, su noi e l'agire politico. Una delle caratteristiche di queste figure mediatrici e' che lavorano spesso nell'ombra, anche se non tutte, come il primo ministro svedese, Olof Palme, ucciso in circostanze poco chiare. "Per arrivare al punto, le mie riflessioni mi hanno portato a pensare che queste persone non abbiano il cuore abitato essenzialmente dalla causa della giustizia, dal proposito di farla. Il loro atteggiamento e' diverso, ci hanno rinunciato. Sono rimasta colpita dal linguaggio di Ricamare una vita, la dispensa che Adele mi ha fatto leggere, in cui racconta della catastrofe del 1948, anno in cui il popolo palestinese ha dovuto lasciare traumaticamente le sue terre, i villaggi, i campi. Quello che mi colpisce nel linguaggio usato e' la totale assenza di parole di protesta. "Penso a me che sono stata militante politica nel senso classico della parola. Ricordo una serata alla Casa della cultura, in cui ho pronunciato parole terribili in difesa del popolo palestinese, contro le decisioni, i poteri e tutto quello che era stato fatto loro. Ricordo anche gli applausi degli studenti siriani presenti. Quello che mi muoveva era la volonta' che si facesse giustizia, che chi ha subito un torto avesse riparazione. "Le figure mediatrici sono differenti - continua Luisa Muraro -. Queste persone mettono innanzi qualcos'altro, a costo di mortificare la loro volonta' di giustizia. I temi della giustizia sono questioni che sanno e che sentono ma non proclamano, stando in una sorta di mortificazione, anche se non so se mortificazione sia la parola appropriata. "Ritengo che, in questo lavoro di mediazione, un ruolo molto importante lo abbiano le parole. Parole che possono essere non necessariamente di mezzo, cioe' dare un po' ragione all'uno e un po' all'altro. In questi conflitti estremi e polarizzati e' necessario che ambo le parti facciano uno spostamento". A proposito del lavoro di Adele Manzi e, come del suo, quello di tanti altri, Luisa Muraro continua il suo intervento sostenendo che "si tratta di un impegno accompagnato sempre dalla fedelta' della memoria. Il ricordare, il dire senza accuse, e' un atto dovuto a chi ha patito un torto, a chi a sofferto. "Il lavoro di Adele Manzi ha il principale scopo di far conoscere e raccogliere le testimonianze delle donne palestinesi dei campi profughi nel Libano". Il suo impegno pero' e' anche culturale con la mediazione della bellezza, continua Luisa facendo riferimento al lavoro del ricamo: "Queste produzioni in se' belle, pacifiche, serene e festose, creano anch'esse una sorta di mediazione, ci fanno vedere la bellezza di un'arte femminile. Questi lavori in mezzo a noi questa sera portano traccia di colori e di festa in un Paese e in un contesto completamente diversi. E' come spostare il mio, il nostro pensiero, verso momenti, luoghi, sentimenti di festa, gioia, di collaborazione. Questo secondo me e' opera di mediazione". * L'intervento successivo e' di Stefano Sarfati Nahmad che racconta d'aver conosciuto Adele durante una manifestazione, rimanendo colpito dal fatto che avesse lavorato per trent'anni accanto alle donne palestinesi. "Conosco parecchie persone molto impegnate in politica, tuttavia incontrare una donna dall'apparenza cosi' fragile ed esile che, con poche parole, mi ha testimoniato un'intera esistenza a favore di un'idea che in quel momento portava alle persone per strada sfilando, mi ha colpito parecchio. Ho scoperto in seguito che conosceva Luisa Muraro e siamo arrivati all'appuntamento di questa sera". Riguardo quanto detto da Luisa Muraro sulla figura della mediazione, Stefano cita un'altra donna: "per me - dice -, una persona di un certo calibro per quanto riguarda la sua capacita' di mediazione e' Manuela Dviri Norsa. Si tratta di una figura... contestata infatti da molti per il lavoro che fa. Il suo progetto e' aiutare i bambini palestinesi che hanno subito dei traumi fisici tramite un istituto ospedaliero israeliano. Il suo scopo e' quindi convogliare soldi per questa causa, cosa contestata da molti genitori palestinesi, i quali sostengono che i soldi non dovrebbero andare agli israeliani i quali, "prima li ammazzano e dopo li aggiustano", accusa che io non le muovo ma che ho sentito farle. Personalmente leggevo i suoi articoli sul 'Corriere della sera'...". Stefano racconta poi di averla conosciuta personalmente e intervistata. "Un'esperienza molto interessante. In quell'occasione ha preso posizioni nettissime, posizioni che ebrei e italiani considererebbero radicali, addirittura 'antisemite'. Tra i suoi progetti quello di far ricamare camicie fatte in Israele da donne palestinesi. Il suo scopo era mettere in contatto le due genti, perche' secondo lei l'unica soluzione e' mettere in contatto i popoli, favorire l'incontro. L'ho ricordata perche', anche lei, sul tema del ricamo ha creato una mediazione. "Io sono qui oggi in quanto ebreo che ha a cuore la causa dei palestinesi. Questa dei palestinesi e' una questione che urla vendetta. Mi e' capitato una sera di vedere la trasmissione di Giuliano Ferrara durante la quale e' intervenuto un ebreo dalla Svizzera. Questi sosteneva che: "in fondo le guerre israeliane sono state delle guerre costruttive. Alla televisione passano invece notizie di fatti inaccettabili, indicibili. Quelle parole pero' hanno un percorso: la vita in Palestina e' invivibile e inaccettabile, e' una diaspora, nemesi storica per mano ebraica, ma in tv e' strumentalizzata in maniera indegna. Questo si ritorcera' contro Israele. "Quello che io vorrei raccontare questa sera e' qual e' il percorso umano di un ebreo che appoggia i palestinesi, quando la triste realta' e' che la maggior parte degli ebrei si identifica con Israele, nello Stato di Israele difendendo l'indifendibile. Un paragone che viene spesso fatto a proposito di questa questione e' quello di una madre che difende il figlio stupratore. Il mio percorso e' stato quello di uscire dalla mera identita' ebraica e dedicare semplice buon senso. Partecipando poi alla vita della Libreria delle donne, parallelamente, ho fatto un altro percorso che mi porta a giocare un po' fuori casa, ovvero quello di uomo che si interessa alle cause delle donne. Concludo ritornando sulla figura delle medianti. Questi percorsi si possono fare in presenza di alcune particolare persone che di solito sono donne". * La parola passa poi ad Adele Manzi. Adele e' una delle fondatrici di Najdeh (termine che significa "soccorso"), un'associazione non governativa nata dopo la caduta di Tell el-Zatar, campo di rifugiati palestinesi che si trovava nella zona del Libano cristiana (l'altra e' musulmana). L'associazione opera in questi campi in Libano per contribuire a soddisfare i bisogni piu' urgenti: scuole materne, centri di formazione professionale, alfabetizzazione e sostegno scolastico, assistenza alle famiglie, creazione di possibilita' di lavoro. All'interno di questa sono nati laboratori di ricamo che non soltanto hanno un ruolo economico ma consentono alle generazioni nate in esilio di riappropriarsi di uno degli aspetti della cultura di origine. I loro prodotti sono recentemente entrati nel circuito del commercio equo e solidale con l'etichetta Al Badia. Adele Manzi inizia il suo intervento raccontando di quando nel 1975 ha preso la decisione di lavorare con donne palestinesi rifugiate in Iran. "Lo volevo da molto tempo ma l'ho deciso in quell'anno quando c'e' stata la caduta di Tell el-Zatar. In quell'occasione la gente e' stata decimata, si e' trattato di un massacro. Molti uomini sono stati trucidati e portati via mentre sono state lasciate partire le donne e i bambini". Adele Manzi spiega come si proceda in questo tipo di progetti: "Per creare un gruppo che lavora nei campi palestinesi bisogna avere la protezione di un partito palestinese. Noi siamo stati appoggiati da una fazione palestinese che pero' non ha mai approvato gli attacchi al di fuori delle terre conquistate". Per dare un'idea della situazione, Adele Manzi fa due esempi. "Per le attivita' di ricamo ci siamo appoggiati a dei cataloghi di ricami palestinesi conservati nei vari musei del mondo, il primo e' stato, paradossalmente, in America. Un'amica belga che lavorava a Betlemme ci ha mandato un piccolo album stampato in Israele. Si trattava di una raccolta di differenti motivi che cerchiamo di fare anche noi, creando un album che ha circolato e che e' stato copiato dal suo. Ad un certo punto questo album e' scomparso. Forse in quanto proveniente da Israele, in cui la parola Palestina non compare. L'unica scritta che c'era era arabesque, anche se non si trattava di questo". Adele parla poi della responsabile generale di Najdeh, che in Francia ha visitato due associazioni francesi, una protestante e una cattolica. Queste due realta' l'hanno messa davanti a una scelta, che lei ha accettato, ovvero incontrare due israeliani. Il primo e' Eitan Bronstein, fondatore di un'associazione israeliana che si chiama Zochrot (di cui si parla in seguito, ndr). Una delle condizioni di questo incontro era indagare la sofferenza e i torti subiti da parte del popolo palestinese. Questa associazione, tra le ultime nate dei numerosi movimenti pacifisti israeliani, ha, tra gli scopi, quello di dare al pubblico israeliano una conoscenza storica di quello che e' successo nel '48. Il loro impegno e' visitare i luoghi, quali ad esempio un kibbutz, un villaggio israeliano costruito sulle rovine di un villaggio palestinese, e mettere delle lapidi che ricordino cosa c'era in quel luogo prima del '48. Eitan Bronstein e' sostenitore dell'idea di non paragonare il ritorno degli ebrei in Palestina con quello dei palestinesi in quanto il ritorno degli ebrei e' stato realizzato con l'espulsione di una gran parte dei palestinesi. La pace non e' possibile se gli israeliani non riconoscono questa immensa ingiustizia. L'altro israeliano, membro di Peace Now, su questo non era d'accordo. Si e' discusso e la giovane palestinese responsabile dell'associazione ha accettato di dialogare. * Ritornando al tema del ricamo, Luisa Muraro interviene chiedendo ad Adele se nei ricami sia possibile identificare una sorta di linguaggio "Hai parlato di questi ricami e di persone che hanno prodotto cataloghi e raccolte, anche in America ed Europa. E' possibile che, in questi ricami, figure e motivi, ci sia un linguaggio? E' possibile che chi ha la cultura di questi riconosca le figure?". Adele risponde che e' difficile parlare di linguaggio. Racconta che a Damasco una signora tedesca, abile ricamatrice che fa lavorare le donne palestinesi, ha scritto un articolo sull'origine dei questi ricami. "C'e' una grossa quantita' di ricami - dice - e la loro origine e' molto controversa. Una figura ricorrente comunque sono i cipressi". Dal nord al sud della Palestina ci sono caratteristiche diverse, ha detto poi. "Bisogna immaginare che la Palestina era un paese moderno: c'era una ferrovia che lo attraversava interamente, era aperto all'occidente, e prima ancora con i paesi arabi e con la Siria. C'e' stata una contaminazione con l'occidente. Quando qualcuno mi porta un modello di un certo ricamo, a volte riconosco che e' stato copiato. Il fatto di copiare e' avvenuto quando si e' cominciato a ricevere dall'estero, assieme ai fili da ricamo, anche i cataloghi". "Quindi quella palestinese e' una cultura viva", continua Luisa Muraro: "tutte le culture - dice - hanno una continua capacita' di contaminarsi anche se e' vero che esiste parallelamente un lavoro di conservazione. Nonostante questo pero' le persone sono liberamente esposte a sollecitazioni da altre parti. Una cultura e' vera quando si apre ad acquisire". Adele Manzi racconta allora a Luisa quanto sia interessante vedere sugli antichi modelli da loro usati delle tracce di altre culture. "La Palestina - dice - e' stata una paese di passaggio, di scambi culturali. Ci sono forme di cipressi che sembrano copiati dalle maioliche iraniane. Ci sarebbe tutto uno studio da fare...". * La parola passa poi ai numerosi partecipanti intervenuti. Laura Minguzzi pone una questione sul linguaggio del ricamo: "I ricami sono tutti fatti con la tecnica del punto croce: c'e' un particolare significato simbolico legato all'uso di questa tecnica?". Adele Manzi risponde che il punto croce non e' la sola tecnica usata anche se comunque molto diffusa. "Il punto croce non ha nessun significato simbolico, e' pero' la tecnica piu' facile da eseguire". Adele parla anche di un altro punto, quello con il cordoncino fissato per fare dei geroglifici. Questo punto permette di realizzare figure tonde e di crearne molte altre. * Vita Cosentino chiede ulteriori informazioni sull'attivita' delle donne nell'associazione. In particolare, in che modo si ritrovano insieme, se discutono, come decidono le cose. Adele risponde che l'associazione e' stata fondata con lo scopo di occuparsi delle donne. "Abbiamo chiesto alla popolazione interessata cosa desiderasse venisse fatto. C'era bisogno in primo luogo delle scuole materne, luogo che protegga i bambini dalla vita delle strade. Ed e' la prima cosa che abbiamo fatto, occupandoci poi anche della formazione professionale delle adolescenti per permetter loro di entrare successivamente nel mercato del lavoro. "Abbiamo poi pensato di favorire la socialita' di queste donne facendole lavorare insieme. Abbiamo quindi creato dei piccoli laboratori in cui loro possono lavorare: c'e' una donna che distribuisce le consegne e insegna il lavoro. Il fatto che le donne si raggruppino rende possibile l'emergere dei problemi che possono cosi' essere discussi tra loro. Questo ha reso possibile il crearsi di una socialita' tra loro. L'associazione si occupa inoltre di dare una formazione culturale e anche politica". * Lucia, una delle partecipanti, racconta di aver conosciuto Adele in Libano durante un viaggio in cui il loro scopo era cercare di capire la realta' dei campi profughi palestinesi. "Quello che mi e' sembrato di capire delle donne palestinesi e anche degli uomini - dice Lucia - e' il fatto che vivano con il sogno del ritorno, ritorno alla loro casa, terra, campi. Il ricamo e' anche un modo che hanno per capire, prima di tutto, chi sono, qual e' la loro identita', da dove vengono". Quasi tutti i ricami richiamano abiti di donne, diversi a seconda dei villaggi. Nei ricami ricostruiscono il luogo d'origine, trasmettendolo cosi' anche alle giovani che non sono mai state in Palestina. Giovani che non la conoscono e che la sognano secondo quello che vien loro trasmesso dalle generazioni precedenti. La funzione del ricamo per loro non e' soltanto di riunirle, ma anche di far conservare la propria identita'. E' importante mantenere le tradizioni, capire da dove si viene. I ricami hanno questa funzione indispensabile, ovvero mantenere la tradizione, cosa fondamentale soprattutto per chi e' sradicato dalla sua terra e vive in un altro posto, nelle condizioni dei campi profughi. Condizioni che comportano tutta una serie di problemi, tra cui il fatto di non poter esercitare la propria professione pur essendo pienamente qualificati, questione in cui il problema dello sradicamento diviene particolarmente evidente. "Quindi possiamo dire che il ricamo sia diventato un linguaggio del ritorno, del radicamento in certi posti - conclude Luisa Muraro -. Si tratta quindi di un richiamo, una forma poetica di collegamento di origini, ai luoghi di provenienza, un modo di spostare il patimento dello sradicamento in qualcosa che lo raffigura". * Nell'intervento del professor Federico Lastaria si e' parlato piu' dettagliatamente dell'associazione Zochrot. "Si tratta di un'associazione di israeliani che pone come prioritorario il tema del ricordo. Ricordo della Nakba, cioe' dell'espulsione dei palestinesi nel '48. La scelta del nome, Zochrot, ha anche un suo significato. Si tratta di una parola ebraica che significa coloro che si ricordano, ed e' una parola declinata al femminile. La scelta di un nome femminile, anche se l'associazione e' composta sia da uomini che da donne, ha lo scopo di colorare al femminile il ricordo della Nakba, dargli un senso non militaristico, valorizzando aspetti quali l'accoglienza, caratteri questi, piu' tipici dell'animo femminile che di quello maschile. "L'associazione ha quattro anni, e' sorta nel 2002. Ad esempio nella citta' di Miske che oggi si chiama Mischendorf/Pinkamiske, l'associazione si impegna a giustapporre, non sostituire - precisa - i nomi delle vie attuali con la denominazione araba che c'era prima del '48; o anche, sulle rovine di villaggio arabo distrutto si mettono delle targhe indicanti quello che c'era prima. Il tema della memoria e' importante perche' se non comprende la questione dell'espulsione nel 1948, non si capisce molto dei palestinesi. L'altro punto su cui si impegna l'associazione e' di ricordare in lingua ebraica. Non e' la stessa cosa ricordare il dramma dei palestinese in inglese o in ebraico, bisogna parlare al femminile e in ebraico perche' e' la lingua che gli ebrei prediligono per riflettere". * In uno degli ultimi interventi Annamaria di Ciommo racconta come i temi della serata le abbiano fatto ricordare la sua infanzia: "Mia mamma - racconta - mi mandava dalle zie a ricamare e imparare il punto e croce. Era il momento in cui tutte le zie giovani mi insegnavano la storia della famiglia e insieme ai ricami imparavo l'arte della pazienza: scucire, ricucire e fare le cose nel migliore dei modi. Attraverso le nostre conversazioni e i loro racconti ho imparato la storia di tutti i miei parenti. Si trattava di momenti ricchi, ero circondata da zie molto giovani. Questo fatto comunque non credo fosse proprio solo della mia famiglia. Vivevo ad Avello in provincia di Potenza. Queste esperienze sono forse tipiche della cultura mediterranea". * Luisa Muraro conclude la serata con la considerazione che la pazienza e' la virtu' principe delle figure mediatrici che lavorano nell'ombra: "In tutti i grandi conflitti ci sono queste figure di persone che, tra le virtu', sommano tenacia e pazienza". Luisa Muraro ringrazia Laura Minguzzi per la cura e l'amore con cui ha accolto al Circolo della Rosa la manifestazione e la mostra di Adele Manzi e dell'associazione Najdeh. * Per chi fosse interessata/o e' disponibile in visione un cd-rom della mostra "Ricamare una vita", realizzato da un'amica di Adele Manzi durante l'esposizione dei tessuti ricamati. 4. RIFLESSIONE. CATERINA BORI E SAMUELA PAGANI: NELLO SPECCHIO DELLO STRANIERO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 settembre 2006. Caterina Bori e' teaching fellow di storia dell'islam alla School of Oriental and African Studies dell'Universita' di Londra. Samuela Pagani e' ricercatrice di lingua e letteratura araba all'Universita' di Lecce] "Un tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dall'interno": cosi' Benedetto XVI ha definito la sua lectio all'universita' di Regensburg del 12 settembre scorso. Nella storia della ragione occidentale, argomenta il papa, "l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunita' e scadono nell'ambito della discrezionalita' personale", per colpa in primo luogo della scienza sperimentale, una "autolimitazione" della ragione che esclude il divino dal proprio dominio, e dunque dal dominio dell'universalita' e pubblicita' della conoscenza. Soluzione: tornare alla metafisica razionalista della filosofia scolastica, che ci puo' dire ex cathedra - a noi, "comunita' europea" - da dove veniamo e verso dove andiamo, e soprattutto e in primo luogo chi siamo: la perfetta e universale sintesi del logos greco e della fede biblica, operata dal Verbo incarnato. Per affermare pienamente questa identita' europea in pericolo occorre escludere: la ragione critica e il pensiero delle scienze naturali su cui si basa il "concetto moderno della ragione"; le manifestazioni imperfette del cristianesimo, come le chiese orientali ("Non e' sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa": e Bisanzio dov'era, in Asia o in Europa?); le tendenze "deellenizzanti" (antimetafisiche) nate nel cristianesimo europeo. Ma perche' lo spunto di questa "purificazione" dell'identita' europea dall'interno viene proprio da una presa di posizione perentoria (l'Imperatore Manuele II Paleologo e' "brusco" e "pesante", dice il papa) contro l'islam? Perche' proprio l'islam e' scelto nell'ouverture come esempio per eccellenza di cio' che e' "altro" da noi? Forse perche' un'identita' assediata da ogni parte da nemici "interni", come quella appena descritta, ha bisogno, per definirsi, di specchiarsi in un "altro" assoluto. Ma anche perche' il papa sa bene che l'islam e' attualmente piu' capace del cristianesimo di creare una comunita', o una identita'. E in questo senso e' un potente rivale dell'universalismo identitario da lui proposto. Manuele Paleologo e' un exemplum perche' simboleggia un'identita' minacciata (Bisanzio assediata dagli Ottomani; come l'Europa dalla Turchia?), e da questo punto di vista rinvia a una rivalita' islamo-cristiana di natura essenzialmente politica. Ma la scelta di veicolare il messaggio attraverso un frammento di controversia teologica medievale serve anche a ribadire che le radici della contrapposizione con l'islam sono, prima che politiche, teologiche, ossia essenziali e non occasionali. Al tentativo di "critica della ragione moderna" si affianca cosi' l'abbozzo di una "teologia dello scontro di civilta'". Questa "cerniera teologica" fra l'obiettivo politico e l'obiettivo filosofico del papa e' un aspetto centrale della sua argomentazione, come ha spiegato Ida Dominijanni nella sua analisi sul "Manifesto" del 15 settembre. Data la gravita' di una simile presa di posizione dottrinale, il papa si circonda di cautele, giocando abilmente con le citazioni. Innanzitutto, lui stesso ci avverte che il frammento prescelto "e' piuttosto marginale nella struttura dell'intero dialogo" fra l'imperatore e il persiano). Si potrebbe essere piu' precisi: la frase isolata dal papa non solo contrasta, per la sua aggressivita', con il tono generale molto piu' pacato del dialogo, ma e' in realta' a sua volta una citazione indiretta della Confutazione della Legge dei Saraceni scritta alla fine del Duecento dal domenicano Ricoldo di Montecroce (Silvia Ronchey ha spiegato sulla "Stampa" del 13 settembre come questo testo si sia trasmesso dall'Occidente latino a Bisanzio). La tesi per cui la religione islamica sarebbe "irragionevole" e "violenta" e' un caposaldo della polemica di Ricoldo, a cui sono dedicati due interi capitoli della Confutazione. Insomma: rinviando nella forma a un testo che appartiene alla ricca e raffinata tradizione della controversia teologica fra le chiese d'Oriente e l'islam, il papa recupera nella sostanza la libellistica anti-islamica del cristianesimo latino, funzionale alla legittimazione delle Crociate. In questo contesto polemico militante, il rimprovero rivolto all'islam di affermare la fede con la forza e' una parte irrinunciabile dell'argomentazione: serve infatti a confutare la pretesa di "logicita'" della religione rivale, la sua ambizione di rappresentare "l'universalita' della ragione", contesa fra i due monoteismi universalisti. Quello che veramente disturba il polemista cristiano non e' la radicale differenza dell'islam, ma la sua somiglianza emulatrice (e la coscienza di questa somiglianza affiora nella frase: "Mostrami pure cio' che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava": il nuovo e' solo la violenza, il potere, la politica, e dunque il resto e' solo una variante deviata del cristianesimo). Perche' posto che l'autentica ragione universale e' quella teologica, questa puo' essere una sola. Il fatto che "le culture profondamente religiose del mondo" (cioe' le religioni extra-europee non cristiane) aspirino a essere incluse nella "universalita' della ragione" non significa che tutte possano allo stesso titolo rappresentarla: le loro aspirazioni confermano semmai che tutti gli uomini hanno bisogno della verita', ma non che la possiedono, poiche' la loro "teologia", non essendo greco-cristiana, ignora la vera natura del logos, non e' veramente universale (dunque parliamoci per convertirli, e, se sono cattivi, difendiamoci). Escludere l'islam dalla salvezza del logos greco e' tanto piu' necessario, per affermare la differenza occidentale, in quanto le somiglianze sono piu' evidenti e fastidiose. La sintesi greco-biblica e' infatti il fondamento della cultura politico-religiosa medievale tanto nel cristianesimo quanto nell'islam: il califfo abbaside al-Ma'mun (m. 833) afferma la sua immagine di legittimo erede della tradizione imperiale romana, contro l'imperatore di Bisanzio, sognando Aristotele. Per rendere plausibile questa esclusione, il papa ricorre all'astuzia dialettica di scegliere, come portavoce della teologia musulmana, un autore molto originale: Ibn Hazm di Cordova, che rappresenta, nella scolastica musulmana, una corrente critica altrettanto minoritaria di quel volontarismo cristiano che il discorso del papa non manca di condannare. Gli esegeti piu' concilianti potranno dire che il papa, concentrandosi su un caso di letteralismo estremo, vuole rivolgersi contro gli estremisti. Ma il ragionamento e' un po' tortuoso. L'intenzione piu' evidente del suo discorso e' piuttosto quella di inchiodare la teologia musulmana alla sua corrente piu' radicalmente deellenizzante, per mostrarne la marginalita' culturale, ed eludere al tempo stesso il discorso apologetico razionalista della corrente maggioritaria, di fronte al quale e' molto piu' difficile sostenere una differenza radicale di atteggiamenti fra islam e cristianesimo. L'idea che la religione "vera" e autenticamente universale sia quella piu' conforme alla ragione e dunque alla natura umana e' infatti condivisa dai teologi ufficiali di entrambi i fronti. La teologia musulmana si chiama 'ilm al-kalam ("scienza del discorso") proprio perche' si basa sull'idea che il trionfo della fede debba essere effettuato attraverso la persuasione. Per i teologi musulmani (come per i loro colleghi avversari), non e' certo la violenza che assicura il trionfo della fede, ma piuttosto il suo intrinseco valore di verita', che, nel caso dell'islam, si traduce nella piu' perfetta corrispondenza di questa religione con la "disposizione naturale" dell'uomo - anche se naturalmente il successo nelle armi non fa che confermare il sostegno divino. Lo testimonia nel modo migliore un'interpretazione tradizionale del versetto coranico citato dal papa, secondo la quale le parole "non c'e' costrizione nella religione" (2, 256) non esprimono un divieto, ma un'impossibilita': la fede, in quanto "atto del cuore", non puo' essere imposta con la forza. Secondo la tradizione musulmana, questo versetto, sia detto per inciso, risale al quarto anno dell'Egira, o emigrazione, del Profeta a Medina (625 d. C.). Esso appartiene cioe' al periodo in cui il Profeta si afferma anche come capo di una nuova comunita', e non al "periodo iniziale", quando "era ancora senza potere e minacciato". Ma non e' un caso che l'Imperatore - e poi il papa - non si siano attardati sui particolari. Il metodo delle controversie teologiche e' dialettico e non dimostrativo, direbbe un vero interprete della ragione greca come Averroe'. Quel che conta e' assestare un colpo efficace, anche a costo di omissioni e approssimazioni, se non di vere e proprie mistificazioni, al destinatario fittizio dell'apologia. Il desiderio di comprensione storica dell'Islam e' ovviamente del tutto estraneo a questa impostazione, a-scientifica per definizione. Dire che il papa esprime "la verita' storica" (Magdi Allam sul "Corriere della sera") e' un po' come dire che la teoria del "disegno intelligente" rappresenta la "verita' scientifica" nella storia naturale. Del resto, il fatto stesso di brandire "la verita' storica" come un manganello e' il segno della completa estraneita' alla mentalita' scientifica degli epigoni "laici" del papa. Nelle scienze storiche, come nelle scienze naturali e matematiche, non c'e' "verita'" che non possa essere messa in discussione da nuovi dati e nuove interpretazioni. Gli atei devoti teocon di oggi confermano, se fosse necessario, che il dogmatismo e il fanatismo non hanno bisogno, per prosperare, di essere illuminati dalla fede. Nella citazione del papa, "il colto interlocutore persiano" dell'Imperatore non ha la parola. "I suoi ragionamenti" non hanno posto nella lectio, perche' la sua figura serve soltanto a evocare un'immagine di alterita' a cui contrapporsi per riconoscersi. Ne e' prova eloquente la sua anonimia, e la stessa vaghezza con cui e' definito. E' vero quindi che il papa, come hanno detto i rappresentanti del Vaticano rispondendo alle reazioni di sdegno del mondo islamico, non si e' voluto impegnare in una discussione sull'islam, o il jihad, e ha evitato di pronunciare un giudizio diretto su questa religione. Si e' limitato a farne il limite, il confine, della nostra identita'. Un territorio straniero che dovrebbe restare tale. L'equivalente contemporaneo del mutismo del "persiano", il destinatario fittizio dell'apologia bizantina, e' lo sdegno di massa spettacolarizzato. Largamente prevedibili, le reazioni di un mondo islamico veramente (militarmente) in stato di assedio, servono magnificamente a dare corpo al fantasma di una moltitudine "irragionevole" (senza logos), pronta a cancellare cio' che siamo. Cosi', un breve accenno in apertura contro "l'intolleranza" islamica e' riuscito a trasformare una polemica contro i valori "interni" all'Occidente post-illuminista in un manifesto dell'Occidente contro il nemico esterno, una bandiera dietro la quale anche gli europei piu' riottosi sono invitati a schierarsi. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 82 del 21 settembre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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