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La nonviolenza e' in cammino. 1275
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1275
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 24 Apr 2006 12:31:13 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1275 del 24 aprile 2006 Sommario di questo numero: 1. Una Presidente della Repubblica partigiana, femminista, amica della nonviolenza 2. Cindy Sheehan: Nonne furiose contro la guerra 3. Paola Azzolini: Un incontro con Fatema Mernissi 4. Grazia Casagrande intervista Assia Djebar (1999) 5. Daniela Pizzagalli intervista Assia Djebar (2004) 6. Marco Deriu presenta "Il corpo del nemico ucciso" di Giovanni De Luna 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. UNA PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA PARTIGIANA, FEMMINISTA, AMICA DELLA NONVIOLENZA [Lidia Menapace (per contatti: lidiamenapace at aliceposta.it) e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti della societa' civile, della nonviolenza in cammino. Nelle elezioni politiche del 9-10 aprile 2006 e' stata eletta senatrice. La maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. Il futurismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; L'ermetismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001; (con Fausto Bertinotti e Marco Revelli), Nonviolenza, Fazi, Roma 2004] Cosa potremmo desiderare di meglio di una Presidente della Repubblica partigiana, femminista, amica della nonviolenza? Per la sua ntida e preziosa storia personale, e per le storie collettive di cui, intensamente partecipe, e' profondamente rappresentativa, Lidia Menapace, oggi senatrice, ci pare possa essere la migliore candidata possibile alla Presidenza della Repubblica Italiana. 2. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: NONNE FURIOSE CONTRO LA GUERRA [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di Cindy Sheehan. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel sito www.koabooks.com] Sono qui seduta a guardare il servizio televisivo sul Congresso, che sta tenendo una speciale udienza riguardante le violazioni dei diritti umani in Cina: il che, ovviamente, e' una cosa importante e va affrontata. Un rapporto di Amnesty International, appena uscito, indica come fra tutti i paesi del mondo gli Usa siano il quarto per numero di esecuzioni capitali, dietro alla Cina, all'Iran e all'Arabia Saudita. In Cina la maggior parte delle persone vengono giustiziate con quello che sembra un ritorno alla barbarie. Ma chiunque abbia un cervello, e un'idea sulla direzione che il nostro paese sta prendendo, dovrebbe chiedere al Congresso di investigare sul nostro governo e su se stesso per le violazioni dei diritti umani. Signori del Congresso, il nostro governo sta commettendo crimini contro l'umanita', crimini di guerra e crimini contro la nostra Costituzione e contro la legge. Invece di investigare sulla Cina, dovrebbero investigare su se stessi e su George Bush e i suoi amici, che stanno violando tutto cio' che abbiamo caro come americani, e stanno uccidendo e torturando migliaia di persone come ciliegina sulla torta. Ogni americano che abbia orecchie e senta il "decisore" mentire, e chiunque abbia occhi e lo veda calpestare i nostri diritti civili, dovrebbe usare la propria voce per urlare contro la crudelta' di Bush e compagnia, e dovrebbe usare i suoi piedi per sfilare in solidarieta' con gli altri americani che rigettano la crudelta', e dovrebbe usare il suo didietro per sedersi davanti ai luoghi del potere, a chiedere che i nostri leader smettano di usare i nostri nomi per imprigionare persone indefinitamente e senza processo, e torturarle mentre accusano ipocritamente altri governi di violare i diritti umani. * Gli americani devono capire una volta per tutte che il nostro governo ha accusato falsamente Saddam Hussein di possedere armi di distruzione di massa; che il nostro governo sta usando armi di distruzione di massa sulla gente dell'Iraq; che il nostro governo non sta affatto tentando di evitare l'uso di armi nucleari contro l'Iran. Dio non voglia che l'Iran abbia il nucleare, e se l'Iran ci sta solo pensando, il nucleare glielo daremo noi, e uccideremo migliaia di persone innocenti che non hanno tecnologia nucleare, e che tutto quello che vogliono e' vivere in pace ed essere lasciati stare dagli Usa. Gli Stati Uniti hanno gia' usato armi nucleari, e' un dato di fatto; e siamo i soli che hanno usato e stanno usando l'uranio impoverito in Iraq, adesso, mentre ne stiamo parlando. Non si puo' avere fiducia negli Usa, rispetto a questa tecnologia. Perche' barattiamo i nostri segreti nucleari con l'India in cambio di qualche mango e proibiamo ad altri paesi di cercare la medesima tecnologia? Puo' essere che la vera ragione sia controllare le riserve naturali iraniane di gas e petrolio? Forse la Esso non e' stata abbastanza soddisfatta del dividendo di 400 milioni di dollari dell'anno scorso. George Bush vuole costruire 125 bombe nucleari in piu' all'anno: penso che debba avere qualche amico nel settore da favorire. Il discorso dovrebbe vertere sul disarmare le nazioni che gia' hanno armi nucleari e garantire un futuro migliore alle prossime generazioni. Peccato che sia troppo tardi per la gente del Medio Oriente, che ha avuto la propria regione contaminata da radiazioni cancerogene che dureranno per moltissimi anni. * Stamattina ho presenziato all"inizio del processo alle "Nonne Furiose" di New York, che hanno provocatoriamente tentato di arruolarsi lo scorso ottobre, e che sono state arrestate per aver bloccato l'ingresso del centro di reclutamento dell'esercito a Times Square. La loro eta' media e' oltre i 60 anni, e la piu' anziana ne ha 90. Diciotto di loro sono arrivate al processo, oggi, sfilando lente ed orgogliose (molte aiutandosi con i bastoni) sino alle panche degli imputati, a difendere il vostro diritto a riunirsi pacificamente per dissentire da un governo che non ha piu' alcun controllo, e per esprimere il proprio disgusto rispetto alla guerra in Iraq, e per poter dire: "Non state commettendo questi crimini in nostro nome!". Noi dobbiamo prendere le distanze da leader che sono criminali di guerra, se non vogliamo essere accusati dello stesso crimine noi stessi. Chiunque in questo paese non abbia tentato di chiudere un centro di reclutamento, o non sia andato a sedersi davanti all'ufficio del suo rappresentante al Congresso per chiedere la fine della guerra, chiunque non sia andato ad una manifestazione, non abbia scritto centinaia di lettere o sia venuto a Crawford, chiunque non sia in qualche modo uscito dalla propria "zona sicura" per ripudiare il regime di Bush, dovrebbe profondamente vergognarsi di se stesso. Se le care nonne, che dovrebbero poter stare a casa a cucinare biscotti se ne avessero voglia, o poter fare ginnastica, leggere libri, dipingere, o fare qualsiasi altra cosa le renda felici, se queste nonne mettono i loro corpi in gioco per la pace, affinche' vostro figlio non debba andare a combattere una guerra basata sulle bugie, e non debba morire o uccidere gente innocente, se queste nonne possono farlo, perche' voi non potete? * Oggi, io e le mie coimputate, arrestate davanti alla missione Usa dell'Onu, abbiamo consegnato i mandati di comparizione a Peggy Kerry (sorella di John Kerry e rappresentante di Ong all'Onu, che ci aveva combinato l'appuntamento per consegnare la petizione), alla missione Usa ed alla compagnia commerciale che ha la proprieta' dell'edificio e che vi gestisce bar, ristoranti ed il servizio di sicurezza. Il nostro processo si svolgera' la prossima settimana, il 26 aprile, e noi vogliamo sapere chi si e' rifiutato di ricevere la nostra petizione benche' avessimo un appuntamento, e vogliamo sapere chi ha dato l'ordine di arrestarci invece di prendere quella petizione che e' stata firmata da decine di migliaia di donne in tutto il mondo. Le Nonne Furiose e noi, Americane Furiose, siamo disposte ad andare in prigione per proteggere voi, i vostri diritti e la vita dei vostri figli. Chi puo' voler vivere libero in una societa' che ha un disprezzo totale per i diritti umani, e l'umanita' intera, e pratica crudelta' degne dell'Inquisizione? Chi puo' voler vivere libero in una societa' che arresta e processa le nonne e cittadine comuni che stanno solo esercitando i diritti che tutti abbiamo dalla nascita? I diritti che mio figlio e molti altri si sono visti sottrarre assieme alle loro vite. * Il Congresso ha gia' permesso all'esecutivo di portarsi via un bel po' dei nostri diritti e delle nostre liberta'. Se voi non siete indignati, significa che non ve ne siete accorti. Allora sappiate che c'e' gente che sta bruciando dall'indignazione per la soppressione del dissenso e il furto dei nostri diritti. Sappiate che ci sono molte persone che stanno lavorando per rimettere a posto il nostro paese. Fate la vostra parte. La democrazia richiede partecipazione attiva, non attiva e complice apatia. 3. INCONTRI. PAOLA AZZOLINI: UN INCONTRO CON FATEMA MERNISSI [Dal sito www.ecologiasociale.org riprendiamo il seguente articolo apparso su "Il Giornale di Vicenza" del 28 aprile 2004. Paola Azzolini e' scrittrice, giornalista, critica letteraria; collabora con "L'Arena di Verona" ed altre testate, ha curato edizioni di opere di Manzoni e Capuana, pubblicato studi su vari temi di letteratura italiana otto-novecentesca, svolto ricerche sulle scrittrici italiane del Novecento, contribuito a varie pubblicazioni. Tra le opere di Paola Azzolini: Il cielo vuoto dell'eroina, Bulzoni, Roma 2002. Fatema Mernissi (ma il nome puo' essere traslitterato anche in Fatima) e' nata a Fez, in Marocco, nel 1940, acutissima intellettuale di forte impegno civile, impegnata per i diritti delle donne, per la democrazia e i diritti umani di tutti gli esseri umani, docente universitaria di sociologia a Rabat, studiosa del Corano, saggista e narratrice; tra i suoi libri disponibili in italiano: Le donne del Profeta, Ecig, 1992; Le sultane dimenticate, Marietti, 1992; Chahrazad non e' marocchina, Sonda, 1993; La terrazza proibita, Giunti, 1996; L'harem e l'Occidente, Giunti, 2000; Islam e democrazia, Giunti, 2002; Karawan. Dal deserto al web, Giunti, 2004. Il sito internet di Fatema Mernissi e' www.mernissi.net] Una sultana, la mitica Sheherazad, che con la forza della parola vince la crudelta' del sultano: cosi' e' apparsa Fatima Mernissi alle socie e simpatizzanti della Societa' italiana delle letterate, riunite nel loro quinto convegno internazionale nelle sale della facolta' di lettere dell'universita' di Ferrara. Alta, con un viso regolare, sorridente, gli occhi neri e vivacissimi, il profilo deciso, Mernissi, che e' di nazionalita' marocchina e insegna sociologia all'universita' di Rabat, e' diventata famosa anche in Italia con la sua autobiografia, La terrazza proibita, che inizia con una frase che fa scalpore in Occidente: "Sono nata in un harem". Ma cos'e' un harem? Gli europei sorridono imbarazzati e pensano ad un paradiso di lascivie, con donne giovani, numerose, disponibili e sempre piu' o meno nude. In realta', chiarisce Mernissi, un harem e' una prigione, le donne sono assolutamente vestite, non sono affatto disponibili, perche' prigioniere e quindi irritabili e disposte alla vendetta. E del mito tutto occidentale dell'harem ha scritto in un altro libro di successo, L'harem e l'Occidente. Ma Fatima Mernissi vede con assoluta lucidita' anche i limiti di cui e' prigioniera la donna occidentale, che dovrebbe essere libera, ma di fatto e' sottomessa ad un costume assurdo, ad una mentalita' ancora troppo legata ad alcuni stereotipi. Per esempio l'ossessione della bellezza e della giovinezza: le donne dovrebbero sempre avere 18 anni, portare la taglia 42 e sembrare assolutamente inferiori come intelligenza al loro partner maschile. Ma Sheherazad era colta, intelligente, con una capacita' politica eccezionale e per questo ha avuto la meglio sulla violenza misogina del sultano. E Sheherazad e' il modello della donna orientale che, anche nell'harem, cerca di usare la sua intelligenza. * L'altro argomento, strettamente connesso al precedente, che Mernissi ha affrontato nel suo discorso al convegno, e' stato quello della globalizzazione. Un argomento niente affatto lontano dal problema della liberta' e autonomia delle donne. Perche' alla base di ambedue, la prigionia delle donne dietro il velo e il rifiuto degli occidentali per gli arabi e degli arabi verso gli occidentali, sta un unico sentimento: la paura del diverso. "Abbiamo paura dello straniero - dice Mernissi -. Ma perche'? Bisogna studiare il passato per avere forza per il futuro. Occidente e Oriente hanno due modelli che si affrontano: il cow-boy che spara allo straniero e Sindbad che va per i mari e conosce lo straniero, parla con lui, affronta la diversita' che e' un arricchimento, non un pericolo". A proposito: in ottobre esce la traduzione italiana di Sindbad il marocchino, ultimo libro della Mernissi. Mernissi e' ottimista: nel mondo moderno c'e' un potere che lavora contro la guerra ed e' la comunicazione: "Ci sono ben 140 tv arabe e non esiste nei paesi islamici differenza tra tv pubblica o privata, ma ci sono almeno 40 proprietari di tv che si fanno concorrenza con un unico fine: perche' il pubblico guardi la tv bisogna rispettarlo, e il pubblico e' per il 50% femminile". E ancora: "Il satellite sta realizzando la profezia di Alvin Toffler, che scriveva nel 1990: il potere si sposta dalla violenza, la spada, alla comunicazione, la penna, la parola, la conoscenza. Per questo io sono ottimista: Sindbad, l'uomo che usa la comunicazione, sara' il vincitore nella sfida della globalizzazione". Ma la questione delle donne non e' estranea a questo percorso verso un mondo in cui le differenze diventano una ricchezza per tutti: "Gli sceicchi del petrolio hanno bisogno di speakers competitivi per attirare l'audience: cosi' non cercano soltanto competenti Sindbad, ma anche delle Sheherazad, perche' il satellite ha distrutto le tradizionali barriere tra pubblico e privato, cioe' le barriere dell'harem. Le donne hanno invaso le tv. In Egitto le notizie sono lette per l'85% da donne. E da noi lo spettatore, ma ancora di piu' le spettatrici che sono piu' numerose, governano il mondo con lo zapping". * Poi il discorso torna alla donna musulmana, sui limiti imposti dal costume, piu' che dal Corano, sul velo. Ma Mernissi ha una profonda fiducia nell'intelligenza di Sheherazad, nella capacita' della parola di vincere la violenza, e le donne arabe si sono impadronite del potere rappresentato dalla cultura, dalla conoscenza e del suo veicolo principale, nel mondo moderno, la rete telematica. In fondo pero' anche l'harem ha favorito lo scambio di idee e talvolta non la rivalita', ma l'alleanza tra le donne. Le donne arabe infatti indicano la cerimonia che le vede, a certe ore del giorno, radunate intorno alla teiera di peltro lucido che contiene il the di menta, come "il the mentale". Parlare, conversare, pensare: il primo modo per cambiare il mondo. 4. RIFLESSIONE. GRAZIA CASAGRANDE INTERVISTA ASSIA DJEBAR (1999) [Dal sito www.cafeletterario.it riprendiamo la seguente intervista del 24 dicembre 1999. Grazia Casagrande e' giornalista, scrittrice, redattrice di "alice.it", portale dedicato alle segnalazioni librarie. Assia Djebar e' una illustre intellettuale algerina impegnata per i diritti umani, scrittrice, storica, antropologa, docente universitaria, cineasta. Opere di Assia Djebar: cfr. almeno Donne d'Algeri nei loro appartamenti, Giunti, Firenze 1988; Lontano da Medina. Figlie d'Ismaele, Giunti, Firenze 1993, 2001; L'amore, la guerra, Ibis, 1995; Vaste est la prison, Albin Michel, Paris 1995; Bianco d'Algeria, Il Saggiatore, Milano 1998; Nel cuore della notte algerina, Giunti, Firenze 1998; Ombra sultana, Baldini & Castoldi, Milano 1999; Le notti di Strasburgo, Il Saggiatore, Milano 2000; Figlie d'Ismaele nel vento e nella tempesta, Giunti, Firenze 2000; La donna senza sepoltura, Il Saggiatore, Milano 2002. Opere su Assia Djebar: cfr. il libro-intervista di Renate Siebert, Andare ancora al cuore delle ferite, La Tartaruga, Milano 1997. Dal sito www.rainews24.it riprendiamo anche la seguente scheda: Nata in Algeria, Assia Djebar e' stata, nel 1955, la prima donna algerina ammessa all'Ecole normale superieure francese. Sostenitrice dell'emancipazione femminile nel mondo islamico, dopo aver partecipato al movimento di liberazione dell'Algeria, si e' imposta come narratrice di lingua francese, raccontando i temi propri del suo mondo d'origine. All'impegno narrativo (i suoi libri sono tradotti in molte lingue), ha affiancato la poesia, la saggistica, la drammaturgia, la scrittura e la regia di opere documentaristiche e cinematografiche. Nel corso della sua carriera ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali tra cui, nel 2000, il prestigioso Premio per la pace. Attualmente insegna alla New York University e vive tra Parigi e gli Stati Uniti... Per tutte le donne del Terzo Mondo, scrivere riconduce a una doppia proibizione, allo stesso tempo dello sguardo e del sapere. Scrivere, per la maggior parte delle mie sorelle, e' scontrarsi inevitabilmente con il muro del silenzio e dell'invisibilita'. Nello stesso tempo, nasce un'urgenza per via della quale il fatto di scrivere puo' diventare "scrivere per", cioe' un impegno del verbo, una scrittura appassionata e combattiva. Assia Djebar e' sicuramente una di queste figure, un'artista mossa - come lei stessa dice - "dall'urgenza della scrittura, l'urgenza della parola dinanzi al disastro". L'urgenza della denuncia, del recupero della memoria. La volonta' di togliere il velo del silenzio alle donne islamiche. Tutta la sua produzione artistica affronta temi come l'identita', la condizione femminile nell'Islam, il fanatismo religioso, il senso della scrittura e il ruolo dell'intellettuale nella societa' civile. Un impegno che proprio la condizione di donna rende piu' gravoso ma che, per contro, vede sempre piu' donne in prima linea come testimonia anche il recente premio Nobel assegnato alla iraniana Shirin Ebadi. Bibliografia: Queste voci che mi assediano, Il Saggiatore; Andare ancora al cuore delle ferite, La Tartaruga; Lontano da Medina. Figlie d'Ismaele, Giunti, 1993, 2002; L'amore, la guerra, Ibis, 1995; Bianco d'Algeria, Il Saggiatore, 1998; Nel cuore della notte algerina, Giunti, 1998; Ombra sultana, Baldini e Castoldi, 1999; Donne d'Algeri nei loro appartamenti, Giunti, 2000; Figlie d'Ismaele nel vento e nella tempesta. Dramma musicale in 5 atti e 21 quadri, Giunti, 2000; Le notti di Strasburgo, Il Saggiatore, 2000; Vasta e' la prigione, Bompiani, 2001; La donna senza sepoltura, Il Saggiatore, 2002"] Un'intellettuale, una signora elegante e raffinata, eppure ha sfidato la morte, ha saputo dichiarare il dissenso e la voglia di liberta', la radicale opposizione all'integralismo violento che domina nel suo paese. Incontriamo Assia Djebar e, con grande rispetto e ammirazione, ascoltiamo le sue opinioni sulla letteratura e la vita. * - Grazia Casagrande: Quando ha pensato di presentare, attraverso i suoi romanzi, la condizione femminile algerina in Occidente, e perche'? - Assia Djebar: Io non ho pensato, mostrato, presentato: quello che descrivo e' la realta' della mia infanzia. Non ho neppure pensato ad un pubblico. Se qualcuno comincia a scrivere lo fa per una esigenza interiore, per rendere piu' stabile, piu' chiaro quello che inizia a pensare, a cercare. Non ho un'idea del pubblico, del lettore. * - Grazia Casagrande: Nelle donne che presenta, nelle loro vite, c'e' la testimonianza di una situazione, di una condizione. - Assia Djebar: Si', certo. Dopo i quarant'anni, e dopo dieci anni di silenzio, ho cominciato a scrivere. All'inizio era il piacere a spingermi: era come montare un film, come rendere vivi dei personaggi che avevo in mente. Un piacere quasi gratuito. Ma e' evidente che quando si comincia a scrivere si parte dall'esperienza dell'infanzia, dalla propria formazione, se fossi nata in Irlanda il mio mondo letterario sarebbe stato diverso. Non ho nemmeno pensato alle differenze tra Occidente e Oriente. Lasciata l'Algeria ho viaggiato molto, sono stata negli Stati Uniti, e quindi in Francia. Ho scritto in francese perche' e' una lingua piu' traducibile dell'arabo, la lingua stessa infatti e la sua traducibilita' rendono piu' aperto l'Occidente. Mi ha spinto a scrivere l'urgenza di rappresentare la vita, una vita tragica, appassionata. Il bisogno di scrivere e' l'illusione di lottare contro l'oblio, forse e' proprio solo un'illusione. Gli eventi vengono raccontati da una persona all'altra, passano di bocca in bocca, ma un giorno si dimenticano, si cancellano: da qui il desiderio di fissarli. Ma e' un sogno perche' tutto si cancella. * - Grazia Casagrande: Non tutto. - Assia Djebar: Si' invece, qualcosa per sparire puo' metterci anche piu' di duemila anni, ma alla fine tutto si cancella. Presso certe dinastie di faraoni c'era chi scriveva ogni fatto accaduto, eppure oggi tutto cio' e' scomparso... Evidentemente nel corso di una vita, per trenta, quarant'anni un libro puo' restare, puo', a volte, anche sopravvivere al suo autore, puo' durare altri cinquanta, cento anni, ma tutto alla fine si cancella. Io ho l'esigenza di credere che la narrazione possa lottare, possa almeno cercare di lottare, contro l'oblio. * - Grazia Casagrande: Puo' lottare anche contro l'arroganza del potere? - Assia Djebar: Si', ma il potere, e chi lo detiene, non e' mai scalfito dalla letteratura. Quando a uno scrittore fanno domande in una trasmissione, quando vengono fatti commenti alle otto di sera da uno schermo televisivo, allora c'e' qualche potente che si scandalizza e dice: "Ha osato dire questo, ha nominato e colpito quello", ma non va poi a leggere i libri, non sa davvero quello che lo scrittore denuncia. * - Grazia Casagrande: Lei pero' ha avuto dei problemi in Algeria per quello che ha scritto e detto. - Assia Djebar: Non credo che i miei problemi siano stati piu' importanti di quelli di molte altre persone in Algeria. Non bisogna esagerare nel dipingermi come un'eroina. Ho incontrato moltissime donne che solo per aver detto buongiorno a qualcuno, per aver parlato con il vicino per la strada hanno subito pesanti persecuzioni o sono state uccise. Ho un'amica giudice (e non un giudice di cause politiche), molto conosciuta e importante, che per andare in tribunale doveva far controllare dalla sua porta di casa se ci fosse qualcuno che la seguisse, eppure andava senza paura a svolgere la sua professione. C'e' un destino per ognuno. Certo c'e' una minaccia contro la liberta' di pensiero, ma c'e' anche il destino individuale. Io resisto, so che i miei lettori insorgerebbero se mi fosse fatto qualcosa, e mi sento protetta. I miei libri si vendono e in molti paesi: questa e' la mia sicurezza. Certo ho anche maggiori responsabilita'. Ma la responsabilita' e' nel sapere che quello che viene detto, se si e' noti, diventa molto importante. Sono un essere umano e posso sbagliare, per cui faccio molta attenzione a quello che affermo. So se un mio libro e' ben scritto, ma non ho la certezza che quello che dico in un dibattito sia la verita'. Le televisioni mi chiedono commenti su fatti politici o di cronaca e io rispondo che quello non e' il mio lavoro, non sono ne' una giornalista, ne' una specialista. E non perche' non abbia il coraggio delle mie idee, ma perche' non vorrei, sbagliandomi, indurre in errore altre persone. Ho diritto anche di sbagliarmi, vivo lontana dal mio paese... * - Grazia Casagrande: Ma lo scrittore sa spesso vedere piu' lontano. - Assia Djebar: Non e' questione di intuizione. Per quanto riguarda me, in Bianco d'Algeria, romanzo che ha forti caratteri politici (ma anche in Lontano da Medina), ho usato un metodo di lavoro che si risolve nel porre domande al passato (il passato piu' lontano), e cercare di vedere la struttura politica del Paese, la struttura delle abitudini psicologiche collettive, e nel vedere se ora, nella violenza e nell'intolleranza, queste sono cambiate. A partire da quanto il passato porta, come chiarimenti o spiegazioni, si puo' dire che la guerra civile non e' inerente al fatto di essere musulmani. Il mio prossimo libro tratta del periodo in cui Sant'Agostino e' stato in Algeria e si puo' vedere che i Donatisti erano integralisti come oggi lo sono gli islamisti algerini, cosi' sicuri di possedere la verita' da diventare violenti per affermarla. In questo modo scrivendo utilizzo la competenza storica e assolvo al bisogno di narrare, di andare in profondita', rivolgendomi piu' al passato che al presente. Non credo molto all'intuizione... * - Grazia Casagrande: Pensa che ci sara' una cultura sincretica, che accolga elementi occidentali e orientali, laici e religiosi? - Assia Djebar: La cultura francese non e' poi cosi' laica. Esiste un integralismo laico, esempio ne sia l'espulsione di studentesse musulmane con il chador dalle scuole pubbliche francesi. Non si devono allontanare dalla scuola le ragazze che provengono da famiglie integraliste, perche' a poco a poco, inserendole e integrandole, pue' esser fatto loro capire che esistono altri spazi, altre realta'. Anche in Italia la Chiesa continua ad avere una forte influenza sulla stessa Costituzione. In Algeria l'Islam e' la religione della maggioranza della popolazione, ma non ci deve essere nessuno che obblighi a rispettarla. Dal 1962 maschi e femmine vanno a scuola insieme e questa e' stata la prima cosa che gli integralisti volevano cambiare e per questo maestri e maestre sono stati uccisi ma, grazie a Dio, la scuola rimane mista. Non abbiamo una Costituzione davvero laica, ma rivendichiamo un Islam tollerante in cui sia possibile la coesistenza con le minoranze cristiana ed ebraica, come e' avvenuto in passato. * - Grazia Casagrande: In Europa oggi c'e' una forte immigrazione islamica. Secondo lei, questo rappresentera' un problema? - Assia Djebar: No, in Francia ci sono tre milioni di musulmani, e' la seconda religione. Penso che invece potra' essere un'opportunita', perche' i musulmani che vivono in Europa, uomini e donne, e sono una minoranza, se continuano ad approfondire la loro cultura, a leggere i loro testi, hanno la possibilita' di acquisire una concezione moderna di Islam. * - Grazia Casagrande: Che cos'e' per lei la liberta' per una donna? - Assia Djebar: E' molto semplice. E' poter uscire liberamente dall'interno all'esterno. Ci sono ragazze a cui il padre o il fratello, a partire dai dieci anni, proibiscono di uscire: questo avveniva ai tempi di mia madre che non e' piu' uscita di casa se non con il marito e sempre coperta da un velo. E' la realta' dell'Afghanistan, dell'Arabia Saudita, non dell'Iran in cui le donne sono velate, ma possono svolgere tutte le attivita', anche quelle maschili. L'obbligo per le donne di restare in casa significa renderle prigioniere: e' quello che racconto nel mio ultimo romanzo. Come si impara a camminare per le strade se fino a trent'anni si e' costrette a rimanere recluse? Questa e' la prima liberta'. E per questo ho deciso, tre anni dopo l'indipendenza, di non sopportare piu' l'idea di non potermene andare dal mio Paese senza l'autorizzazione dell'amministrazione: mi sembrava un attentato alla nostra indipendenza. Cosi' ho lasciato l'Universita', la mia casa confortevole (avevo gia' trent'anni) e sono andata a Parigi a completare i miei studi. Ho mantenuto la nazionalita' algerina e la residenza nella mia citta', ma avevo un indirizzo a Parigi: per me la liberta' e' liberta' di movimento. Di certo pero' non e' l'unica. Un'altra e' l'imparare a ragionare con la propria testa, senza essere condizionati dalla televisione o dalla societa' dei consumi. Continuo a lavorare nelle universita' e credo che il mio contributo consista proprio nell'insegnare a ragionare con la propria testa. 5. RIFLESSIONE. DANIELA PIZZAGALLI INTERVISTA ASSIA DJEBAR (2004) [Dal sito de "Il porto ritrovato" (www.ilportoritrovato.net) riprendiamo la seguente intervista apparsa sul "Secolo XIX" del 6 marzo 2004. Daniela Pizzagalli e' nata a Milano dove vive e lavora; psicologa e giornalista, svolge attivita' di critica letteraria e storica su quotidiani e periodici. Opere di Daniela Pizzagalli: Tra due dinastie, Camunia, 1988; Bernabo' Visconti, Rusconi, 1994; L'amica. Clara Maffei e il suo salotto nel Risorgimento, Mondadori, 1996; La dama con l'ermellino. Vita e passioni di Cecilia Gallerani nella Milano di Ludovico, Rizzoli, 1999; La signora di Milano. Vita e passioni di Bianca Maria Visconti, Rizzoli, 2000; La signora del Rinascimento. Vita e splendori di Isabella d'Este alla corte di Mantova, Rizzoli, 2001; La regina di Roma. Vita e misteri di Cristina di Svezia nell'Italia barocca, Rizzoli, 2002; La signora della pittura. Vita di Sofonisba di Anguissola, gentildonna e artista nel Rinascimento, Rizzoli, 2003; La signora della poesia. Vita e passioni di Veronica Gambara, artista del Rinascimento, Rizzoli, 2004] La sua bellezza berbera e' intatta, nonostante il trascorrere del tempo e i luoghi sempre piu' lontani dove la conduce la vita. Assia Djebar infatti lascia spesso la sua casa di Parigi per trascorrere lunghi mesi negli Stati Uniti, dove insegna letteratura francese in un'Universita' di New York e in Louisiana, e non torna in Algeria da molti anni. Eppure portera' tutta la luce e il calore della sua terra a Pordenone, dove la manifestazione e' quest'anno in suo onore. Politica e cultura s'intrecciano nei suoi romanzi e nei suoi film, e anche nella raccolta di saggi appena uscita, Queste voci che mi assediano (Il Saggiatore, pp. 246, euro 18), anche se il libro sembra imperniato essenzialmente sul rapporto tra linguaggio e scrittura. * - Daniela Pizzagalli: Quali sono queste voci che l'assediano, e hanno dato il titolo al suo libro? - Assia Djebar: Sono le voci di donne che giungono dalla mia infanzia, dalla mia famiglia, e che hanno plasmato la mia visionarieta'. Parlano in dialetto arabo e berbero, sono voci dell'oralita', che per fare mie nella scrittura ho dovuto tradurre in francese. E'.stata un'operazione che ha reso il mio stile narrativo come un coacervo di esperienze: i critici francesi trovano nella mia scrittura un ritmo, una circolarita', una modulazione poetica che deroga dall'uso letterario francese, e riflette invece la fantasia femminile araba della tradizione orale. * - Daniela Pizzagalli: La scolarizzazione in lingua francese in Algeria era portata del dominio coloniale; si puo' dire che, se con la colonizzazione molti paesi africani sono stati sottoposti a un'occidentalizzazione forzata, oggi e' in atto un'islamizzazione forzata? - Assia Djebar: Bisogna tener conto che l'Islam nei paesi del Maghreb ha una tradizione antichissima, quindi anche nel periodo coloniale era l'Islam a indirizzare lo stile di vita quotidiano, soprattutto nelle classi piu' basse. La differenza e' che, finito il dominio politico straniero, l'Islam non e' piu' stato soltanto un modello religioso che influiva sui costumi, ma e' diventato uno strumento di potere. Non parlerei quindi di islamizzazione, ma piuttosto di politicizzazione dell'Islam. * - Daniela Pizzagalli: Nel nostro mondo interculturale e multimediale, qual e' l'impatto dello stile di vita occidentale sulle popolazioni musulmane? - Assia Djebar: Rispondo ricordando le mie stesse reazioni quando da ragazzina, in Algeria, vedevo le donne francesi aggirarsi da sole in citta' con vestiti succinti: non c'era ammirazione o invidia, dentro di me, ma disapprovazione per la loro mancanza di pudore, che andava contro tutti i valori insegnati in famiglia, dove le donne uscivano solo una volta alla settimana, per andare a lavarsi e purificarsi all'hammam, preferibilmente di sera per esporsi il meno possibile agli occhi altrui. Pensate che scandalo possono provocare i programmi televisivi occidentali che ormai entrano in tutte le case. Il rispetto del corpo femminile fa parte integrante della cultura araba, mentre in occidente lo sfruttamento del corpo non e' un dato culturale, ma economico, perche' si espone l'anatomia della donna per vendere piu' prodotti. * - Daniela Pizzagalli: In questi giorni si e' acceso un dibattito sullo spot elettorale di Bush, che sfrutta le immagini dell'esplosione delle torri di New York. Lei che ha vissuto da vicino quel momento, che cosa pensa dell'espediente del presidente americano? - Assia Djebar: Lo disapprovo. Io l'11 settembre del 2001 ero a casa mia a New York, vicinissima alle torri, quindi ho vissuto questa tragedia in prima persona, e non penso che le emozioni legate a quell'evento debbano essere monopolizzate a scopo elettorale. Pero' devo aggiungere che quell'episodio ha significato per gli americani il primo vero contatto con la realta' della guerra, del terrorismo, della violenza, che prima avevano visto soltanto alla tv, e che sembrava non riguardarli da vicino. Prima erano un po' fuori dal mondo. Soltanto quella che ci e' prossima e' davvero realta': ci sono da trarre importanti insegnamenti da questo. 6. LIBRI. MARCO DERIU PRESENTA "IL CORPO DEL NEMICO UCCISO" DI GIOVANNI DE LUNA [Dal quotidiano "Liberazione" del 19 aprile 2006. Marco Deriu, sociologo e saggista, docente universitario, e' stato direttore della rivista "Alfazeta" dal 1996 al 1999; consulente culturale per diversi enti pubblici e privati, segue in particolare la progettazione e le attivita' del "Laboratorio per la cultura della pace" dell'assessorato ai servizi sociali della Provincia di Parma. Tra le opere di Marco Deriu: (a cura di), Gregory Bateson, Bruno Mondadori, Milano 2000; (a cura di), L'illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive della solidarieta' internazionale, Emi, Bologna 2001; (a cura di, con Pietro Montanari e Claudio Bazzocchi), Guerre private, Il ponte, Bologna 2004; La fragilita' dei padri. Il disordine simbolico paterno e il confronto con i figli adolescenti, Unicopli, Milano 2004; Dizionario critico delle nuove guerre, Emi, Bologna 2005. Giovanni De Luna e' storico e docente universitario. Tra le opere di Giovanni De Luna: Storia del Partito d'Azione 1942-1947, nuova edizione Editori Riuniti, Roma 1997; (con Marco Revelli), Fascismo antifascismo, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1995; Il corpo del nemico ucciso, Einaudi, Torino 2006] Il recente libro dello storico Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea (Einaudi, pp. 302, euro 25) si presenta a tutti gli effetti come un'opera singolare e notevole. Singolare perche' si presenta come una storia delle guerre del Novecento che prende come oggetti privilegiati di analisi - al tempo stesso come documenti e come testimoni - i corpi dei morti. Notevole perche' proprio attraverso questa prospettiva riesce a dare profondita' e spessore ad una critica dei fondamenti della guerra. L'opera mostra la sua forza ed efficacia proprio nell'obbiettivo perseguito di riaffermare il nesso indissolubile tra guerra e morte in un'epoca dove la retorica militare ma anche il linguaggio corrente - si pensi alle formule "guerra a zero morti", "guerra chirurgica", "operazione di polizia internazionale", "peace-keeping", "danni collaterali" - tendono piuttosto a rimuovere la consapevolezza della portata di violenza, morte, distruzione, efferatezza che la guerra esprime. A questo tentativo De Luna oppone la volonta' opposta di ricordare la "magia del corpo" e l'annientamento o la trasformazione radicale che esso subisce nella guerra. "I morti scalfiscono la monumentalita' della guerra - afferma De Luna - la rendono piu' accessibile, la assottigliano, la frantumano lungo tante linee di faglia; rifiutandosi di essere tutti uguali, consentono di ripristinare la cronologia come categoria interpretativa, di percepire le continuita' e le rotture lungo la linea del tempo". Parlare dei corpi, metterli al centro del nostro sguardo significa provare a raccontare la guerra non a partire dalle sue dimensioni strategiche, politiche e militari ma anzitutto a partire dalla sua inevitabile conclusione, da quei morti che rappresentano i suoi "prodotti finali": "E' come guardare l'erba dalla parte delle radici; cambia la prospettiva metodologica, ma cambiano anche le priorita' contenutistiche e concettuali". I risultati del lavoro di De Luna sono principalmente due. Il primo e' quello di storicizzare la guerra ovvero di sottrarla alla sua dimensione mitica e universale, di immutabilita' e inconoscibilita', per riportare l'attenzione sulle questioni fondamentali e comprendere ed evidenziare le caratteristiche specifiche di ciascun tipo di guerra. A partire dallo studio delle forme della violenza e del trattamento riservato ai corpi dei nemici uccisi, De Luna mostra le differenze e le peculiarita' di guerre diverse, dislocate ognuna nello spazio e nel tempo - dalle guerre coloniali a quelle civili, dalle guerre dei totalitarismi a quelle della resistenza, dai genocidi alle guerre postnovecentesche, da quelle simmetriche a quelle asimmetriche -, riuscendo allo stesso tempo a smontare e demistificare le artificiali e rassicuranti opposizioni tra arcaismo e modernita', tra civilta' e barbarie. Il secondo risultato e' quello di far parlare i morti, di togliere i loro corpi dal silenzio estremo in cui gli uccisori li avevano relegati e farli addirittura testimoniare contro i propri carnefici, aiutandoci a smascherarne le visioni ideologiche, gli obiettivi coscienti e le intenzioni piu' recondite, sia quando esibiscono il corpo della vittima sia quando lo nascondono o cercano di cancellarne le tracce. In effetti lo stesso tentativo di rimuovere il nesso tra guerra e morte, ovvero di cancellare le tracce della violenza puo' essere a sua volta storicizzato e interpretato, per esempio in relazione alla difficolta' di far fronte ad una situazione storica in cui il numero di vittime di eventi bellici ha raggiunto numeri e proporzioni mai incontrate prima nella storia dell'umanita'. * Certo la lettura di un'opera come questa non puo' lasciare indifferenti. Non puo' che nascere un disagio profondo - lo stesso che ha vissuto l'autore nel suo lavoro di composizione - nel ripercorrere una storia novecentesca costellata di cadaveri e di ogni genere di crudelta' ed efferatezza. Eppure la sensibilita' umana e civile dell'autore si rivela proprio nella sua capacita' di attraversare la storia dell'orrore senza mai normalizzarlo e soprattutto senza estetizzarlo. Le foto selezionate per raccontare sono poche e scelte con cura. Il racconto e' asciutto e composto e non concede nulla - come sarebbe stato facile visto l'argomento - al gusto della spettacolarizzazione e del voyeurismo. L'autore mostra di aver compreso dalla storia del Novecento che la riproduzione fotografica della morte, soprattutto nella sua sovrabbondanza quantitativa tipica della societa' dello spettacolo, non solo non aiuta a comprendere ma al contrario anestetizza, crea assuefazione e rimozione: "L''uomo dei consumi', plasmato dal mercato, che abita il mondo postnovecentesco, divora voracemente anche la morte messa in scena". L'atteggiamento di De Luna e' il contrario della reiterazione superficiale e passiva del consumatore moderno della violenza e della morte. Con la sua ricerca lo storico ha scelto, si puo' dire, di immergersi in questo universo di orrore, non per adagiarvisi, ma al contrario per ritrovare un senso differente, per scoprire le modalita' adeguate per far fronte a questa banalizzazione e normalizzazione della violenza e della morte; soprattutto per tornare poi a ricordare e a ricordarci che "l''umano' e' un costrutto culturale, un recinto costruito intorno a valori condivisi e riconoscibili" e che la violenza nelle sue forme eccessive "sradica" e demolisce questi fragili confini. Tale riflessione diventa assolutamente cruciale in un momento in cui il monopolio statale della violenza e' travolto da un'incalzante privatizzazione della guerra e soprattutto nel momento in cui le forme della violenza bellica mirano non piu' solo ad uccidere il nemico e ad infierire sul corpo, ma anche a "minare le fondamenta culturali e religiose stesse delle societa' nemiche, destabilizzandole nelle loro strutture piu' profonde". Si tratta dunque di ritrovare la necessita' della politica non tanto nel senso di una Costituzione legale dello Stato ma ancor piu' - per riprendere il termine di Wolfgang Sofsky - nel senso di una "costituzione corporea" o se si vuole di una cittadinanza corporea capace di ricordare la comune vulnerabilita' e la necessita' di stringersi l'uno all'altro per difendersi e proteggersi. * La riflessione di De Luna potrebbe comunque essere approfondita e problematizzata. In particolare un aspetto che purtroppo e' stato trascurato nella sua analisi e' l'attenzione alla differenza dei corpi. Non conta nulla per la comprensione della guerra la diversa natura sessuata dei corpi? Non conta il fatto che la stragrande maggioranza dei corpi autori delle violenze siano uomini? E non conta del resto il fatto che il corpo femminile sia uno dei bersagli specifici e caratteristici di questa violenza? In effetti questo lavoro si fonda su una contrapposizione che pur essendo pertinente e analiticamente fondamentale non e' tuttavia esaustiva. A partire dal titolo del libro, De Luna distingue tra corpo amico e corpo nemico: "Il 'corpo amico' viene rispettato sempre, onorato spesso", nota, mentre "il 'corpo nemico' e' talvolta rispettato, quasi sempre profanato". Tuttavia se si tenesse conto della differenza sessuale la prospettiva cambierebbe non di poco. Non solo per la specificita' delle violenze sulle donne che in guerra non sono solo uccise, imprigionate o seviziate ma anche rapite, stuprate, inseminate, sfigurate, mutilate degli organi sessuali, o anche costrette a sposarsi, a servire o a prostituirsi. Ma soprattutto perche' tali crimini attraversano trasversalmente entrambi gli schieramenti, senza rispettare la distinzione amico/nemico. In altre parole le violenze non riguardano solamente le donne della popolazione avversaria, ma anche le donne delle popolazioni amiche, le donne del proprio stesso paese, le donne del proprio esercito e da ultimo anche le proprie compagne poiche' le ricerche rivelano anche una maggior percentuale di violenza intrafamiliare tra i reduci di guerra. Quello che voglio dire e' che le violenze sul corpo delle donne vanno oltre il dualismo amico-nemico, e forse per questo rivelano qualcosa in piu' sul significato della guerra. * Questa attenzione alla differenza tra i corpi forse ci aiuterebbe a mettere ulteriormente a fuoco una questione che percorre in filigrana tutto il libro di De Luna e che riguarda il rapporto degli esseri umani con il corpo. O meglio l'essere propriamente corpi degli esseri umani. Come se ci fosse una questione non compiutamente risolta degli esseri umani rispetto alla propria natura corporea. Molte delle pratiche repertoriate e descritte da De Luna di penetrazione, apertura, mutilazione, escissione, estrazione, rivelano io credo una curiosita' e una pulsione che sembrano nascere da un vissuto di disagio anzitutto verso il proprio corpo. Un disagio sentito piu' fortemente dagli uomini che non dalle donne. Tant'e' che le forme sociali che stanno dietro la guerra - la dimensione di unita' integrata tra diversi uomini che si sperimenta in un plotone o in un esercito che attraverso le fattezze di una comune divisa e la sincronizzazione marziale dei movimenti, assume l'immagine di un unico corpo collettivo maschile (si pensi del resto alle espressioni "il corpo militare", "il corpo di spedizione", "i corpi speciali") - hanno sempre avuto fra l'altro la funzione di rafforzare un'identita' maschile costantemente sentita come precaria. Da questo punto di vista, io credo che la lezione piu' profonda che emerge da una storia del rapporto guerra/corpo/morte e' quella che l'essere umano e' l'unico essere vivente che non puo' dare per scontata la sua natura corporea. L'evoluzione del pensiero, della ragione e della cultura lo espongono piu' degli animali a forme di scissione e scomposizione traumatica nelle rappresentazioni di se' e degli altri. La massima privazione cui puo' essere oggetto un essere umano e' forse proprio la rottura tra queste due dimensioni: quella biologica-corporea e quella simbolico-sociale. E spetta proprio alla cultura, dunque, ritrovare e riaffermare questa necessaria unita' per scongiurare il diffondersi della violenza. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1275 del 24 aprile 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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