La nonviolenza e' in cammino. 1131



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1131 del primo dicembre 2005

Sommario di questo numero:
1. "Azione nonviolenta" di dicembre
2. Alberto L'Abate: Proposte per il servizio civile
3. Marina Forti intervista Fatemeh Motamed Aria
4. Marina Forti intervista Nezam Manouchehri
5. Marina Forti intervista Mohsen Makhmalbaf
6. Maura Gualco intervista Rigoberta Menchu'
7. Domenico Barberio presenta "Abitavamo vicino alla stazione" di Paolo
Cinanni
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. STRUMENTI. "AZIONE NONVIOLENTA" DI DICEMBRE
[Dalla redazione di "Azione nonviolenta" (per contatti: an at nonviolenti.org)
riceviamo e diffondiamo]

E' uscito il numero di dicembre 2005 di "Azione nonviolenta", rivista del
Movimento Nonviolento fondata da Aldo Capitini nel 1964; mensile di
formazione, informazione e dibattito sulle tematiche della nonviolenza in
Italia e nel mondo.
In questo numero:
- L'alta velocita' si ferma davanti alla forza della Valle, Mao Valpiana
intervista Alberto Perino;
- Le possibili alternative sostenibili all'alta velocita' in Val di Susa, di
Nanni Salio)
- Breve storia di un'opera che non s'ha da fare;
- Luoghi comuni su un luogo non comune;
- Contro la militarizzazione del nostro territorio, per rispettare la
volonta' popolare e l'ambiente, di Barbara Debernardi;
- Nelle banlieues francesi non c'e' liberte', fraternite', egalite', di
Christoph Baker;
- Dai sobborghi parigini una rivolta senza rivendicazioni. Occorrono idee
nuove per una politica della citta', di Jean Marie Peticlerc;
- Le dieci caratteristiche della personalita' nonviolenta: La pazienza, di
Mao Valpiana.
E le consuete rubriche:
- Cinema, Le leggi cambiano, la coscienza resta. La nonviolenza di Sophie.
La rosa Bianca, di Enrico Peyretti;
- Economia, Ode alla pedalata. Quando la tecnologia e' intelligente, di
Paolo Macina;
- Musica, Nobel e premi agli artisti per la pace, di Paolo Predieri;
- Per esempio, Le campagne di Jagori per i diritti delle donne, di Maria G.
Di Rienzo;
- Lilliput, Aiuto! Anche l'opposizione vuole piu' spese militari, a cura di
Massimiliano Pilati;
- Movimento, Non uccidere gli animali fa crescere la pace nel mondo, di
Carmen Somaschi.
In copertina: Il presepio, di Mauro Biani.
In ultima: Il 2006 con "Azione nonviolenta".
*
Per abbonarsi ad "Azione nonviolenta" inviare 29 euro sul ccp n. 10250363
intestato ad "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona.
E' possibile chiedere una copia omaggio, inviando una e-mail a:
an at nonviolenti.org scrivendo nell'oggetto "copia di 'Azione nonviolenta'".
per informazioni e contatti: redazione, direzione, amministrazione: via
Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e
15-19), fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

2. PROPOSTE. ALBERTO L'ABATE: PROPOSTE PER IL SERVIZIO CIVILE
[Da varie persone amiche riceviamo e volentieri diffondiamo questo documento
della segreteria dell'Ipri e della Rete italiana Corpi civili di pace.
L'Ipri e' l'Italian peace research institute con sede a Torino presso il
Centro studi "Sereno Regis" (per contatti: info at cssr-pas.org).
Alla Rete italiana Corpi civili di pace aderiscono: Associazione per la
Pace, Alon (Associazione locale obiezione e nonviolenza) di Forli', Berretti
Bianchi Onlus, Casa pace di Milano, Centro studi difesa civile,  Centro
studi "Sereno Regis" di Torino,  Gavci (Gruppo autonomo volontariato  civile
in Italia), Lega obiettori di coscienza, Movimento internazionale della
riconciliazione, Movimento Nonviolento, Operazione Colomba dell'Associazione
Papa Giovanni XXIII, Casa per la pace di Pax Christi di Firenze, Peace
Brigades International - Italy, Rete Lilliput - nodo di Bologna, Servizio
civile internazionale, Sispa (Societa' italiana scienze psicosociali per la
pace).
Alberto L'Abate e' nato a Brindisi nel 1931, docente universitario,
promotore del corso di laurea in "Operazioni di pace, gestione e mediazione
dei conflitti" dell'Universita' di Firenze, amico di Aldo Capitini, e'
impegnato nel Movimento Nonviolento, nella Peace Research, nell'attivita' di
addestramento alla nonviolenza, nelle attivita' della diplomazia non
ufficiale per prevenire i conflitti; ha collaborato alle iniziative di
Danilo Dolci e preso parte a numerose iniziative nonviolente; come
ricercatore e programmatore socio-sanitario e' stato anche un esperto
dell'Onu, del Consiglio d'Europa e dell'Organizzazione Mondiale della
Sanita'; ha promosso e condotto l'esperienza dell'ambasciata di pace a
Pristina, ed e' impegnato nella "Campagna Kossovo per la nonviolenza e la
riconciliazione". E' portavoce dei "Berretti Bianchi". Tra le opere di
Alberto L'Abate: segnaliamo almeno Addestramento alla nonviolenza,
Satyagraha, Torino 1985; Consenso, conflitto e mutamento sociale, Angeli,
Milano 1990; Prevenire la guerra nel Kossovo, La Meridiana, Molfetta 1997;
Kossovo: una guerra annunciata, La Meridiana, Molfetta 1999; Giovani e pace,
Pangea, Torino 2001]

La segreteria congiunta dell'Ipri e della Rete italiana dei Corpi civili di
pace riunitasi a Bologna il 27 settembre 2005, presa in analisi la proposta
di legge dell'on. Realacci, recentemente presentata pubblicamente a Firenze
(3 settembre 2005) dallo stesso Realacci alla presenza dell'on. Rutelli, di
altri parlamentari della Margherita e di importanti rappresentanti del mondo
dell'associazionismo, proposta che prevede un servizio civile obbligatorio
di sei mesi per tutti i giovani italiani, e che, secondo alcuni degli
intervenuti al convegno suddetto, farebbe gia' parte del programma dell'on.
Prodi, pur apprezzando l'intento di tale proposta, e cioe' valorizzare ed
estendere il servizio civile che puo' essere un importante momento di
socializzazione dei giovani e di rinforzo della solidarieta' sociale in
quanto aiuto alle fasce piu' deboli della popolazione, ha approvato
all'unanimita' le seguenti obiezioni di fondo al testo presentato, e le
successive proposte alternative.
*
1. L'Obbligatorieta' di tale servizio ci sembra del tutto improponibile. A
parte infatti il palese contrasto con l'articolo 4 della Convenzione Europea
sui diritti dell'uomo che vieta forme di schiavitu' e di lavoro forzato
(contrasto  ben illustrato dal magistrato Domenico Gallo nel suo articolo
sul "Manifesto" del 21 settembre 2005), la sospensione dell'obbligo del
servizio militare pone, a questo tipo di lavoro, problemi rilevanti: non si
puo' infatti prevedere il servizio civile come sostitutivo di quello
militare, come era in passato. Se, nella legge, si ponesse al centro di tale
servizio, non tanto, e non solo, l'aiuto umanitario alle fasce piu' deboli
della popolazione, ed indirettamente agli enti che organizzano tali servizi,
ma anche  la Difesa popolare nonviolenta, o la Difesa civile nonarmata
(riconosciuta dalla legge di riforma dell'obiezione di coscienza, n.
230/1998), che invece nella proposta Realacci non viene inserita tra i
settori in cui si puo' svolgere tale servizio, si potrebbe forse superare
tale obiezione di formalita' in omogeneita' con il servizio militare, il cui
obbligo e' "sospeso" ma non annullato, e in caso di necessita' puo' essere
ripristinato; lo stesso si potrebbe fare con il servizio civile considerato,
da una sentenza storica della Corte Costituzionale (n. 164/1985), come una
forma di impegno rispondente al dovere di difesa della patria. In questo
caso il cittadino dovrebbe poter scegliere tra il servizio militare, il cui
obbligo fosse stato ripristinato, ed il servizio civile, ripristinato anche
questo da un obbligo puramente potenziale che tale legge potrebbe
introdurre.
*
2. Una seconda obiezione riguarda il periodo di sei mesi previsto da tale
proposta. Chi ha esperienza di servizio civile sa che, a meno di impiegare
il giovane in lavori puramente esecutivi (che non gli servono affatto per
maturare ed apprendere una professionalita', ma servono solo agli enti per
risparmiare sul costo del lavoro - aumentando percio' il gia' elevato tasso
di disoccupazione giovanile -, i sei mesi non sono affatto sufficienti a
portare avanti un lavoro serio, se si tiene conto anche del necessario
periodo di formazione. Quando il giovane ha imparato a svolgere bene i suoi
compiti avrebbe finito il suo periodo di servizio.
*
3. La terza obiezione riguarda il salario percepito. Mentre il salario dei
militari, attraverso la loro professionalizzazione, viene notevolmente
aumentato per rendere tale servizio appetibile, ai giovani di questo
eventuale servizio civile obbligatorio verrebbe fatta l'elemosina di 300
euro al mese, non sufficienti ne' per mangiare ne' per un eventuale
alloggio, a meno che questi servizi non vengano offerti dall'ente stesso,
impegno che nel progetto non viene affatto indicato. Ma nel caso che questo
fosse indicato e previsto, che interesse avrebbero gli enti a spendere soldi
per preparare i giovani, come si dice nella proposta, e dar loro prospettive
professionalizzanti, per un  tempo cosi' ristretto e senza far fare loro
lavori puramente esecutivi che permettono agli enti di risparmiare in costo
del lavoro ma che contraddirebbero agli obiettivi dello stesso progetto?
*
Ma oltre alle obiezioni abbiamo anche delle proposte alternative:
a) Il costo di realizzazione  di un tale progetto e' molto elevato. Anche se
la paga prevista e' misera, il numero di giovani "coscritti" (circa
800.000) e' elevato, e l'impegno economico del governo sarebbe percio'
rilevante. Dato che il servizio civile volontario e' attualmente richiesto
da oltre 30.000 giovani, ben superiori ai posti  previsti nei progetti
approvati, perche' non incentivare notevolmente i fondi a disposizione
dell'Unsc (Ufficio nazionale per il servizio civile) ed estendere il numero
di progetti approvati? Il servizio in tale caso resterebbe volontario,
sarebbe pagato un po' di piu' di quello previsto dal progetto suddetto (415
euro al mese, magari anche elevando tale cifra , e durerebbe almeno un anno.
I progetti da svolgere potrebbero essere potenziati, e ulteriormente
qualificati.
Ad esempio le Comunita' di pace in Colombia, comunita' che nella lotta
armata tra l'esercito governativo, i paramilitari da questo coperti, e la
guerriglia, hanno scelto la neutralita' e la nonviolenza, e non collaborano
con nessuna di queste parti in conflitto (e per questo sono spesso soggette
ad angherie, sequestri, uccisioni ed attacchi armati), richiedono con forza
(vedi documento conclusivo del convegno "Colombia Vive!",  Cascina, 17-18
settembre 2005) una maggiore presenza di osservatori ed operatori
internazionali, che, come le Pbi - Peace brigades internazionali - stanno
sul posto ed accompagnano, del tutto disarmate, i dirigenti di queste
comunita' che sono a rischio di azioni violente da parte soprattutto degli
squadroni della morte. La presenza e l'accompagnamento di volontari delle
Pbi ha reso piu' difficili e rari questi attacchi. Ma questi volontari sono
solo una trentina  e possono lavorare soltanto con poche Comunita' di pace,
mentre molte altre comunita' di questo tipo (oltre un centinaio)  richiedono
il loro aiuto. Perche' un progetto del genere, che potrebbe coinvolgere
varie centinaia di giovani civilisti, non potrebbe  entrare trai i progetti
dell'Unsc ed essere approvato? Sarebbe un modo concreto di portare pace in
un  paese da anni martoriato da cruenti conflitti armati.
Oppure, rispondendo alle molte richieste di ong europee, ed alle mozioni
ripetutamente approvate dal Parlamento Europeo, perche' non dar vita
concretamente a Corpi civili di pace nazionali, ma da integrare con quelli
europei, che intervengano, disarmati ma ben preparati alla azione
nonviolenta ed alla risoluzione nonviolenta dei conflitti, nel conflitto
israelo-palestinese per mitigare il conflitto attuale e farlo passare
dall'azione armata ad un confronto civile nonviolento?
Ed anche, e soprattutto nel nostro paese, perche' non  dar vita, con
volontari in servizio civile, a gruppi di azione nonviolenta da impiegare
nella lotta alla criminalita' organizzata (mafia, camorra...) sviluppando
attivita' di prevenzione sociale e di monitoraggio capillare del territorio?
Se il nostro paese vuole realmente operare per la pace deve sviluppare un
lavoro e di attivita' di questo tipo, rischiose si', ma sicuramente piu'
produttrici di pace degli attuali interventi armati che spesso rinfocolano
il terrorismo o la mafia, invece di combatterli.
*
b) Una seconda proposta positiva riguarda una revisione dell'attuale legge
sul servizio civile per permettere di partecipare a queste attivita' anche a
persone piu' anziane che spesso hanno una esperienza molto maggiore dei
giovani in servizio civile (che, sulla base della legge attuale, devono
avere meno di 26 anni). Queste sono infatti piu' mature, e piu' preparate
dei giovani, ad affrontare  e lavorare in situazioni difficili e rischiose
come quelle indicate prima. Come ha gia' fatto qualche Regione italiana
(l'Emilia, ad esempio) la legge sul servizio civile andrebbe rivista per
permettere appunto a persone di qualsiasi eta' di partecipare a queste
attivita'. Chi ha esperienza di questo tipo di interventi sa come, spesso,
persone anche in eta' di pensione possano essere preziose per portare avanti
attivita' di questo tipo.
*
c) Ma questo richiede anche l'approvazione di una legge, come quella
proposta dalla nostra segreteria e presentata dall'on. Valpiana e da altri
parlamentari italiani, che riconosca una aspettativa dal lavoro di almeno un
anno alle persone che lavorano e che si impegnino in attivita' di questo
tipo (Corpi civili di pace) soprattutto, ma non necessariamente solo,
all'estero. Questo amplierebbe notevolmente le possibilita' di persone di
tutte le eta', e non solo dei giovani e degli anziani pensionati, persone
che hanno spesso anche una formazione professionale solida, di partecipare
ad attivita' di questo tipo, rendendo questi interventi molto piu' validi e
produttivi di quanto si possa fare attualmente.
*
Con l'auspicio che queste osservazioni e queste proposte vengano prese in
attenta considerazione,
il presidente dell'Ipri - Rete italiana Corpi civili di pace
Alberto L'Abate

3. IRAN. MARINA FORTI INTERVISTA FATEMEH MOTAMED ARIA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 23 novembre 2005.
Marina Forti, giornalista particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, dei
diritti umani, del sud del mondo, della globalizzazione, scrive per il
quotidiano "Il manifesto" sempre acuti articoli e reportages sui temi
dell'ecologia globale e delle lotte delle persone e dei popoli del sud del
mondo per sopravvivere e far sopravvivere il mondo e l'umanita' intera.
Opere di Marina Forti: La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati
ambientali nel Sud del mondo, Feltrinelli, Milano 2004.
Fatemeh Motamed Aria, notissima attrice iraniana, e' la protagonista del
recente film "Gilaneh" di Rakhshan Bani-Etemad e Mohsen Abdolvahab]

La guerra e' entrata in modo subdolo nella vita di Gilaneh, una donna sola
in un villaggio dell'Iran settentrionale. E' arrivata la mattina in cui il
figlio e' partito per il fronte insieme ad altri ragazzi del villaggio. Lo
stesso giorno la figlia incinta decide di andare a Tehran a cercare il
marito disertore. Gilaneh, affranta, la accompagna. E' l'ultimo anno della
guerra tra Iran e Iraq, che qui si presenta agli spettatori attraverso le
due donne angosciate in viaggio nella notte: un autobus che incrocia
ambulanze sgangherate, l'incontro con famiglie sfollate da una Tehran
bombardata, una tv in bianco e nero con le ultime notizie dal fronte, volti
di soldati sfigurati dai gas, la sirena dell'allarme aereo. Gilaneh e' la
protagonista dell'omonimo film di Rakhshan Bani-Etemad e di Mohsen
Abdolvahab, e ha il bel volto di una delle piu' note attrici iraniane,
Fatemeh Motamed Aria - che in questi giorni e' a Roma, ospite della rassegna
"Incontri con il cinema asiatico", diretta da Italo Spinelli e giunta alla
sesta edizione.
*
"Gilaneh non mi assomiglia ne' per eta', ne' per il linguaggio o il
carattere del personaggio", mi dice l'attrice: "Pero' quando mi hanno
proposto la sceneggiatura di quel film ho pensato che potevo farlo e che
volevo farlo. Perche'? In Iran siamo stati in guerra per otto anni, dal 1980
all'88. E' stato un conflitto disastroso, ha fatto oltre mezzo milione di
morti; centinaia di migliaia di persone hanno perso tutto, a cominciare dal
proprio corpo rovinato. Ora pero' sono dimenticati: la guerra e' stata
rimossa".
Gia', la guerra e' un ricordo vago e lontano per i giovani: due terzi dei 60
milioni di iraniani ha meno di trent'anni e ha solo vaghissimi ricordi di
appelli ad andare al fronte, allarmi antiaerei, missili scud che si
abbattono sulle case. Resta pero' nelle vite di tanti iraniani.
Resta nella vita di Gilaneh: la seconda parte del film ce la mostra quindici
anni dopo, nel 2003, madre ormai stanca dell'esistenza, che si consuma per
assistere il figlio menomato dalle armi chimiche. Resta nelle vite delle
"madri dei martiri", povere donne rimaste sole che trovano ormai l'unico
senso di se' nell'accudire la tomba del figlio caduto in guerra (nel
documentario Behesht Zahra, girato da Mehran Tamadon con Firouzeh Khosrovani
nel grande cimitero a sud della capitale iraniana, il "cimitero dei
martiri": anche questo e' stato proiettato a Roma nell'ambito della rassegna
asiatica). Parte del messaggio e' nel commento amaro di un uomo che guarda
la tv, nella notte dei bombardamenti su Tehran, e sbotta: "Il governo poteva
mettere fine a questo massacro molto prima".
"L'Iran dovrebbe ripensare quella guerra, non rimuoverla", continua Fatemeh
Motamed Aria. E' questo, dice, il messaggio che ha voluto mettere in quel
film (Gilaneh sara' presentato questa sera alla Casa del cinema, a Roma,
alla presenza dell'attrice).
La storia della madre del veterano disabile e' parte di una trilogia della
regista Rakhshan Bani-Etemad, considerata oggi una decana del cinema
iraniano (e Fatemeh Motamed Aria ha recitato in piu' d'uno dei suoi film).
*
Sulla quarantina, Fatemeh Motamed Aria si considera parte della "vecchia
generazione" del cinema iraniano, quella che aveva cominciato prima della
rivoluzione islamica nel 1979. In effetti lei aveva cominciato a studiare
teatro da quattordicenne, per una decina d'anni. "Poi pero' dopo la
rivoluzione il teatro e' stato bandito - solo negli ultimi anni e' ripreso.
Allora sono passata al cinema. Oggi sono molto contenta di questo passaggio,
ma sono anche felice di aver cominciato con la recitazione classica".
Spiega: "Ho lottato molto per portare nel nostro cinema cose che allora non
c'erano. Per esempio usare la mia voce, la ripresa in diretta senza
doppiaggio. Ho insistito che un'attrice non deve necessariamente essere
bella, deve saper recitare. Deve avere un'idea: io ho sempre preteso di
avere voce in capitolo. E tutto questo l'avevo imparato con il teatro. Oggi
tutto questo e' diventata la norma, e sono contenta di essere stata tra i
fautori di questo cambiamento".
Oggi il cinema iraniano e' in una fase di passaggio, dice Fatemeh Motamed
Aria. "C'e' la vecchia generazione e ce n'e' una nuova, post-rivoluzionaria,
forse piu' audace. Ma e' come se ci fosse un vuoto tra le due, linguaggi
troppo diversi per mescolarsi".
Certo e' che il cinema oggi e' una delle forme espressive dominanti in Iran.
Ne testimoniano una produzione di una sessantina di film all'anno,
un'audience interna e internazionale, una decina di magazines di cinema sia
in farsi che in inglese. Alcuni film gireranno pero' solo nel mercato
underground, in videocassette e dvd (tutta la produzione occidentale arriva
in Iran cosi'). "Gli iraniani vanno al cinema volentieri, il pubblico e' di
ogni eta': ci vanno i molto giovani, ma e' anche un passatempo di famiglia".
Sono estremamente popolari i festival di cinema: quelli piu' rinomati a
Tehran e a Isfahan, e diversi festival minori, rassegne di cortometraggi,
cartoni animati, un festival di film sull'ambiente. "Il pubblico accetta
quando parli con onesta'. Cosa intendo dire? Prendi la guerra: nessuno
accetterebbe i proclami patriottici".
*
Negli anni '90 il cinema iraniano ha vissuto una rinascita, come in genere
le arti. I film hanno cominciato a mostrare donne in rottura con il loro
mondo, questioni sociali, storie d'amore, le complessita' della vita: temi
sempre al limite. Registi e registe sono diventati autorita'. Sono venute
alla ribalta donne di grande capacita': come Bani-Etemad, o come la
femminista Tahmineh Milani, o la giovane (ha 23 anni) Samira Makhmalbaf -
tutte conosciute nei festival internazionali, ma conosciute e viste prima di
tutto in Iran.
Tutte e tutti si sono scontrati con la censura, prima o poi (Milani e' anche
andata in carcere, per il film La meta' nascosta, del 2001, in cui
ripercorre in modo critico il ruolo e la sorte dei gruppi studenteschi
durante la rivoluzione, quando si scontrarono laici e islamici. Ma il film
continuava a restare nelle sale, e alla fine anche lei e' stata rilasciata
per intercessione dell'allora presidente Mohammad Khatami). In Iran ogni
progetto e sceneggiatura va sottoposto in anticipo all'approvazione delle
autorita', cosi' come la selezione del cast e l'editing finale. Ma ormai
generazioni di registi e attori-attrici hanno imparato come spingersi ai
limiti del permesso e forzarli. "E' un meccanismo subdolo. Tutti noi
conosciamo bene cosa si puo' e non si puo' fare, non c'e' neppure bisogno
che ci venga detto: ci autocensuriamo benissimo. Ma se sai usare il
linguaggio del cinema, riesci a dire quello che vuoi. Se mi sono scontrata
con la censura? certo. Ma sono riuscita ad aggirarla. In Gilaneh io, la
madre, abbraccio e bacio mio figlio, lo tocco [per trascinarlo sulla sedia a
rotelle, ndr]. Questo e' vietatissimo da tutte le regole, niente contatto
fisico tra donne e uomini. E pero' i censori l'hanno accettato, alle strette
non hanno potuto rifiutare. Se sai fare cinema hai un certo potere".
Certo, resta un esercizio difficile, spesso estenuante. A volte le
sceneggiature aspettano anni prima di ricevere il nulla osta (come del resto
i libri). In fondo, nel cinema e' successo come per la stampa e l'editoria:
e' diventato un terreno di scontro molto politico, fin dai tempi di cui
Mohammad Khatami era ministro della cultura (nel '92 aveva dato le
dimissioni in protesta contro "l'ignoranza e arretratezza" dei censori) e
poi quando, arrivato alla presidenza della repubblica, aveva inaugurato una
stagione di apertura nella societa' iraniana - e se le riforme politiche
sono fallite, il cambiamento nel clima culturale del paese e' forse il
maggiore successo di quegli otto anni.
Ora quella stagione politica e' chiusa, l'Iran ha un parlamento a
maggioranza conservatrice e un presidente, Mahmoud Ahmadi-Nejad, che si
definisce fondamentalista. "Si', ora abbiamo i radicali al potere. Cosa
succede ora? per il momento nulla di molto visibile: come se tutti fossero
in attesa. Ma non potranno riportare l'Iran indietro di 27 anni", commenta
Fatemeh Motamed Aria. "La nuova generazione, quella che e' cresciuta con la
rivoluzione islamica, non accetta facilmente le imposizioni".

4. IRAN. MARINA FORTI INTERVISTA NEZAM MANOUCHEHRI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 23 novembre 2005.
Nezam Manouchehri e' un regista cinematografico iraniano]

Foto color seppia, l'autore da bambino, la casa della nonna con un grande
giardino ora un po' trasandato: Lettere dall'Iran, di Nezam Manouchehri, ha
qualcosa di struggente. Sara' forse la voce dell'autore, fuori campo, che
accompagna la narrazione. O forse e' che in questo film-documentario
(presentato a Roma nell'ambito degli Incontro con il cinema asiatico) la
Tehran di oggi e' mostrata con un realismo sconsolante - anche se mai
pessimista. E' una lunga lettera per immagini e suoni che l'autore invia a
immaginari amici - in effetti a un pubblico occidentale.
"Voglio parlare di una parte dell'Iran che non e' spesso rappresentata nei
film, e neppure molto nelle notizie", ci spiega Nezam Manouchehri,
incontrato a Roma. "E' che spesso circolano immagini stereotipate della vita
iraniana. Gli occidentali tendono a cercare fenomeni come la prostituzione o
la tossicodipendenza come novita', e ne danno un'immagine in qualche modo
esotica. Si tende a rappresentare solo le aberrazioni. Per non parlare del
chador: anche questo appare molto esotico, e pero' la vita delle donne in
Iran ha piu' dimensioni". Insomma, dice Nezam Manouchehri: "c'e' un'immagine
distorta dell'Iran", e lui voleva rappresentare la normale vita di persone
normali. La sua, ad esempio: uno che appartiene a un ceto medio
intellettuale, ha studiato cinematografia a San Francisco, e' tornato a
Tehran durante la rivoluzione, poi ancora negli Stati Uniti, poi di nuovo in
Iran per stabilirsi con la moglie e i figli nella casa di fronte a quella
della nonna.
"Sono tornato a Tehran nel 1987, era l'ultimo anno della guerra. Quel solo
anno sulla capitale iraniana sono caduti 133 missili iracheni: e mi sono
reso conto che all'occidente non importava proprio niente di quello che ci
stava succedendo, non c'era nessuna copertura mediatica della guerra. Forse
ci vedevano tutti come fanatici terroristi, dopo la rivoluzione".
Lettere dall'Iran e' la prima opera di Nezam Manouchehri. A lungo, spiega,
ha lavorato per la televisione, oppure ha fatto traduzioni, ha lavorato come
supporto a troupes straniere, ma non pensava di poter fare un suo film nel
clima di censura ufficiale: "Ho deciso di farlo quando e' cominciato il
processo di liberalizzazione" [con il presidente Mohammad Khatami eletto nel
1997 - ndr]. Ha lavorato senza finanziamenti ufficiali, e' un filmmaker
indipendente.
Ecco dunque gli scorci di vita "normale" raccontata da Manoucheri. La casa
della nonna perde poco a poco il suo giardino, venduto per campare, mentre
attorno si moltiplicano i cantieri edili e spuntano nuovi palazzi a molti
piani: finche' la nonna non c'e' piu' e la casa viene venduta. Tehran ha
oggi 12 milioni di abitanti, "forse 17 milioni dai calcoli non ufficiali", e
continua a gonfiarsi di persone che emigrano dalle campagne. La speculazione
edilizia ha segnato gli anni '90, "mancano regolamentazioni e vincoli
edilizi: si distruggono tranquillamente vecchie belle case per tirare su'
palazzoni pretenziosi, scompaiono macchie di verde e luoghi storici". E' il
potere dei soldi, nuove ricchezze accumulate con il commercio. "Con la casa
della nonna e' scomparso il luogo dove la famiglia allargata si riuniva: ora
non ci vediamo piu'. E suppongo che succeda a molte altre famiglie di
Tehran".
Altri scorci quotidiani: la visita settimanale del "video man", l'uomo che
arriva con una valigetta piena di videocassette importate senza passare per
la censura. La figlia sedicenne che si copre di soprabiti e foulard per
uscire, il timore che le diano fastidio per strada per via del trucco
visibile: "I giovani sono sempre guardati con sospetto, come potenziali
trasgressori delle norme sociali". La moglie, artista, compone tele in cui
compaiono corpi femminili: e infatti non ha il permesso di esporle in Iran,
ma le espone all'estero. I giovani sulla passeggiata in collina che sovrasta
Tehran, ragazze e ragazzi ridono e stanno appiccicati uno all'altra: "Se poi
ci arrestano tanto peggio" ("nella cappa di proibizioni in cui vivono hanno
un senso esagerato della trasgressione: ma come potrebbe essere
altrimenti?"). Il traffico, i negozi eleganti, le macchine grandi, i
palazzoni: "Una rivoluzione che si pretendeva popolare e' finita in
consumismo, la coesione e solidarieta' di una societa' che aveva un progetto
comune e' finita: oggi resta l'individualismo dei soldi".
La domanda ricorre, nel film: "partire, andare all'estero, o restare?".
Chiedo: come ha risposto a questa domanda? "Io vivo a Tehran, ma continuo a
pormi questa domanda. E' una questione di responsabilita': il sistema
scolastico in Iran e' sovraccarico, e anche molto costoso. Il figlio dovra'
fare il servizio militare. Se hai la possibilita', ti poni il problema. Mia
figlia ora e' lontano, noi restiamo". E anche questo e' comune a molti
iraniani: i giovani che possono vanno a studiare all'estero, molti non
tornano, "il drenaggio dei cervelli e' molto forte".
Eppure non e' di fuga che parla Lettere dall'Iran. "Si', forse c'e'
tristezza nel mio film. Ma io ho speranza, il cambiamento in Iran e'
inevitabile. Ma il cambiamento ha molte dimensioni, non solo quella
politica: e' anche sociale, culturale. E quello che mi preoccupa e' la
direzione piu' ampia che prende la societa', i giovani soprattutto. Oggi in
Iran abbiamo tutte le manifestazioni tecnologiche dell'occidente, viviamo
immersi in computer, telefonini, telecomunicazioni. Ma manca una riflessione
sulla cultura che viene insieme a tutto questo. Si sta disfacendo la
coesione sociale - e questo mi preoccupa molto piu' di un presidente".

5. IRAN. MARINA FORTI INTERVISTA MOHSEN MAKHMALBAF
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 novembre 2005.
Mohsen Makhmalbaf (Teheran 1957) e' uno dei maggiori registi cinematografici
iraniani. Tra le opere di Mohsen Makhmalbaf: L'ambulante (1987); Il ciclista
(1989); I giorni dell'amore (1990); Salam cinema (1995); Pane e fiori
(1996); Il silenzio (1998); Viaggio a Kandahar (2001)]

L'annuncio diceva "lezione di cinema" di Mohsen Makhmalbaf. Cosi' ieri
mattina la Casa del cinema di Roma, immersa nei colori autunnali di villa
Borghese, era strapiena: sia per il film Sex and Philosophy (2005, girato e
prodotto in Tajikistan, parlato in tajiko e russo), sia per il suo autore,
tra i piu' noti cineasti iraniani. La sua pero' non e' stata una "lezione",
ma piuttosto un incontro: conversazione, contraddittorio, intervista
collettiva (e poi privata, con alcuni giornali tra cui "Il manifesto").
Regista, scrittore, poeta, nonche' imprenditore del cinema (la sua e' una
vera e propria azienda "familiare"), Makhmalbaf e' ospite della rassegna
"Incontri con il cinema asiatico" (che oggi si conclude all'Auditorium di
Roma). Un'occasione per inquadrare un regista che ha avuto diverse stagioni,
noto al pubblico internazionale - dalle prime opere, come Il ciclista (1987)
o Pane e fiori (1996), al celeberrimo Viaggio a Kandahar, uscito nel 2001
proprio quando una coalizione internazionale bombardava l'Afghanistan dei
Taleban, agli ultimi film in cui divaga sull'amore e la solitudine umana.
*
Il nome Makhmalbaf pero' oggi indica un'impresa familiare. Come lavora la
Makhmalbaf Family? "Ho due figlie e un figlio. La maggiore, Samira, a 14
anni ha cercato di suicidarsi per costringermi a farle lasciare la scuola e
fare cinema. Cosi' sono stato costretto a creare una specie di scuola
familiare, con lezioni teoriche e pratiche". Samira ha esordito giovanissima
come film-maker, e anche sua madre e' una regista apprezzata. La sorella fa
da assistente, a volte Samira assiste il padre. "Quando ci interessa un
soggetto partiamo tutti per un viaggio: andiamo a conoscere il paese, le
strade, le persone. Lavoriamo insieme alla preparazione. Non scriviamo
sceneggiature definite, solo una traccia che potra' adattarsi alle cose.
Scegliamo attori che possano dare un contributo creativo. Poi chi gira - io,
Samira, mia moglie - ci mette la propria sensibilita' diversa".
Mohsen Makhmalbaf parla di un paese dove il cinema e' importante: e lo e'
diventato soprattutto dopo la rivoluzione che nel 1979 ha messo fine al
regime dello Shah. "Prima della rivoluzione, erano i poeti il punto di
riferimento culturale. Poi lo sono diventati i cineasti". Prima, "la
produzione di Hollywood aveva ucciso il cinema iraniano. I film americani
erano comprati a poco prezzo, doppiati, e riempivano le sale. Due anni prima
della caduta dello Shah l'Iran non aveva prodotto un solo un film". Dopo la
rivoluzione islamica la censura ha bloccato gran parte del cinema
occidentale: "Come Mussolini aveva bisogno di propaganda, anche la
rivoluzione. Cosi' la produzione nazionale e' ripartita. Allora non c'erano
molti altri divertimenti e il cinema e' diventato subito molto popolare -
almeno c'erano immagini diverse da quelle della tv, tutta sermoni e
preghiere del venerdi'".
Il cinema e' diventato uno dei mezzi espressivi piu' importanti in Iran.
"Coloro che si erano stancati della lotta politica per analizzare la
societa' sono passati all'arte". Il cinema "aiuta a diffondere semi di
cambiamento", dice il regista. In Iran ha acquistato influenza. Cita
l'esempio del suo Alfabeto afghano (2002): "In Iran abbiamo avuto fino a tre
milioni di rifugiati afghani e almeno 700.000 bambini erano esclusi dalla
scuola perche' erano senza documenti. Quando e' uscito il mio film si e'
parlato di questo anche in parlamento e il governo di allora - c'era il
presidente Mohammad Khatami - ha deciso di fare qualcosa: infine, mezzo
milione di bambini afghani ha potuto andare a scuola".
*
Makhmalbaf ha partecipato in pieno alla battaglia contro il vecchio regime
prima, e alla rivoluzione poi - e ora alla corrente critica del sistema.
Ricorda i 4 anni di carcere fatti da ragazzo, ai tempi dello Shah: "Quando
sono stato arrestato una pallottola mi aveva trapassato dalla schiena alla
pancia, cosi' all'inizio ero in ospedale, ammanettato al letto. Poi in una
celletta con quattro persone, dovevamo dormire a turno oppure raggomitolarci
testa-piedi. Ogni giorno torture con i cavi elettrici. Mi hanno detto che
quella prigione ora e' un museo, per mostrare le atrocita' dello Shah. Ho
detto: bene, ma mi fate vedere le prigioni di adesso?".
Il problema dell'Iran, dice, e' che sembra cambiare ma non cambia... "Prendi
Khatami: sembrava che andassimo verso una strada nuova, e invece ora stiamo
tornando indietro".
"Ogni volta che l'Iran compie passi verso la democrazia, forze esterne lo
impediscono", incalza uno spettatore: "E' successo nel 1953 con Mossadeqh
[il premier che aveva nazionalizzato il petrolio e cominciato a
liberalizzare il sistema politico - ndr], e anche ora: Khatami aveva avviato
aperture, ma con le guerre in Afghanistan e in Iraq oggi l'Iran e'
accerchiato". Vero, ribatte il regista: "Ma non possiamo attribuire a forze
esterne i nostri fallimenti. L'ostacolo alla democrazia oggi in Iran e'
interno. E sta nel fatto che la politica e la religione sono un'unica cosa,
cosi' che ogni critica politica e' bollata di empieta'".
Che ruolo ha avuto il cinema nella stagione di cambiamento avviata con la
presidenza di Khatami? E' presto per dirlo, mi risponde Makhmalbaf: "Ma
credo che il cinema sia stato piu' importante prima. Con Khatami e' la
stampa che ha avuto un ruolo prominente, di battaglia". Certo, l'industria
cinematografica ha continuano a lavorare, ha toccato punte di un centinaio
di film all'anno. C'e' un filone di propaganda, uno commerciale, "e un dieci
per cento di produzione d'autore".
I bei film che arrivano nei festival internazionali sono visti in Iran?
"Si', ma poco: un po' per la censura, un po' perche' la distribuzione non li
fa circolare. Piu' che vietare i film ne fanno una distribuzione cosi'
modesta da renderli irrilevanti. E' stata la sorte di Viaggio a Kandahar, o
del film di mia moglie Piccoli ladri, pure ambientato in Afghanistan. Sanno
bene che dietro la critica alla morale dei taleban c'e' una critica al
nostro sistema ideologico".
Dove va l'Iran? Makhmalbaf e' categorico: "Fino a prova contraria, penso che
stia andando verso il fascismo. Nella stessa misura in cui la presidenza di
Khatami aveva aperto la societa', ora Ahmadi-Nejad la sta chiudendo". La
tensione internazionale? "Penso che il regime iraniano vuole costruirsi la
bomba atomica, per diventare una potenza. L'occidente pero' fa un errore: la
bomba non e' per voi. E' destinata a noi, gli iraniani: e' la sopravvivenza
del regime. Vogliono la bomba per rendersi invulnerabili alla critica
interna".

6. RIFLESSIONE. MAURA GUALCO INTERVISTA RIGOBERTA MENCHU'
[Dal sito del quotidiano "L'Unita'" (www.unita.it) riprendiamo la seguente
intervista del 25 novembre 2005 di Maura Gualco a Rigoberta Menchu'.
Maura Gualco e' una giornalista particolarmente impegnata sui temi dei
diritti umani e dei conflitti internazionali.
Rigoberta Menchu', india guatemalteca, premio Nobel per la pace, e' una
delle figure piu' splendide dell'impegno per la dignita' umana, i diritti,
la pace, la solidarieta'. Opere di Rigoberta Menchu': Mi chiamo Rigoberta
Menchu', (a cura di Elisabeth Burgos), Giunti, Firenze 1987; Rigoberta i
maya e il mondo, (con la collaborazione di Dante Liano e Gianni Mina'),
Giunti, Firenze 1997]

"I poveri non sono mendicanti. Non hanno bisogno dell'elemosina e non vanno
trasformati in vittime. Bisogna aiutare l'Africa a creare il proprio
sviluppo".
La premio Nobel per la pace Rigoberta Menchu', non ha dubbi sul ruolo
dell'Occidente nel Terzo Mondo. Parole dure, ma non isolate, nella seconda
giornata del VI Summit mondiale dei premi Nobel per la pace in corso a Roma.
(...). Stretta nel suo scialle di cotone colorato, in un rigoroso
abbigliamento indigeno, Rigoberta Menchu', la donna guatemalteca, simbolo
delle battaglie degli indios, risponde alle domande de "L'Unita'".
*
- Maura Gualco: Molti esperti di Africa come Latouche ritengono che "il
semplice aiuto umanitario allunghi l'agonia dell'Africa",
occidentalizzandola. Lei cosa ne pensa?
- Rigoberta Menchu': Sono d'accordo. Non e' sufficiente regalare fondi per
il mio paese o per il continente africano, e' necessario rafforzare le
organizzazioni locali, e' importante dare dignita' alle persone che vivono
li'. Non esiste una ricchezza sufficiente a dare assistenza a tutti i poveri
del mondo. Inoltre, si creerebbe una dipendenza che trasforma la popolazione
in vittime. E non e' opportuno convertire un popolo in vittime. Questo e'
quello che abbiamo vissuto anche noi. Sentirsi vittime elimina l'autostima,
distrugge la leadership locale, le persone perdono la loro cultura e non
valorizzano il loro patrimonio spirituale e culturale. Non bisogna limitarsi
all'assistenza: i poveri non sono mendicanti. Devono mantenere la loro
dignita'. C'e' un altro aspetto, poi, che normalmente non si considera. I
governanti che ci sono in questi paesi, spesso sono caratterizzati da
corruzione, anche se a volte vengono definiti "democratici". Il sistema
elettorale e' in crisi in Africa. Si discute molto, a livello mondiale,
sulle proteste, le marce, gli scioperi. Alcuni pensano che questi strumenti
possono debilitare lo Stato e la governabilita'. Ma anche bloccare
l'iniziativa di un popolo vuol dire limitare la governabilita', visto che
prima o poi i problemi esplodono. Bisogna appoggiare i popoli perche'
rafforzino le loro iniziative di protesta e non bisogna limitarle.
*
- Maura Gualco: Se non soltanto l'assistenza, come intervenire allora nella
tragedia africana? E qual e' il ruolo che possono avere le Ong
(Organizzazioni non governative)?
- Rigoberta Menchu': Bisogna avere un equilibrio tra l'aiuto ufficiale e
l'aiuto non governativo. Dobbiamo rafforzare la leadership e le
organizzazioni locali. E le Ong possono essere un ostacolo, quando queste
ultime si sostituiscono agli attori locali. C'e' il rischio che le Ong
portino settarismo, divisione e si trasformino in intermediari. E questi
ultimi che siano governativi o non governativi sono negativi. Dobbiamo
tornare ad avere un equilibrio, e' l'unica possibilita' per ottenere
l'approvazione della comunita' locale.
*
- Maura Gualco: Il ruolo delle missioni cattoliche?
- Rigoberta Menchu': Devono rispettare le culture. Un errore molto grave
commesso dalla Chiesa cattolica e' stato quello di omogeneizzare le persone,
un fenomeno negativo da tutti i punti di vista, poiche' vuol dire andare
contro la natura umana, contro la diversita'. Quindi e' il momento che la
Chiesa rispetti le differenza culturali, linguistiche, ma anche la
spiritualita' delle persone. Altrimenti continuano ad essere dei
colonizzatori.
*
- Maura Gualco: L'Africa e' devastata dall'aids. Ma i brevetti dei farmaci
impediscono la produzione di farmaci generici. Gli altri sono cari. Come
uscirne?
- Rigoberta Menchu': Credo che il tema dei brevetti e' interessantissimo.
L'aids e le gravi malattie sono state trasformate in un business per le
multinazionali. Invece di democratizzare il prezzo delle medicine, queste
diventano sempre piu' care. Si tratta di una contraddizione rispetto alla
preservazione della vita. Alcune multinazionali chiedono soldi per la
ricerca e trasformano il farmaco in uno strumento di profitto. Ma se si
democratizzasse l'uso della scienza medica, tutti i malati avrebbero accesso
ai farmaci. Abbiamo cento farmacie in Guatemala che vendono farmaci
generici: piu' riusciamo a far utilizzare generici e piu' i prezzi si
riducono. Si guadagna ugualmente anche se i prezzi sono inferiori perche' se
ne vendono una maggiore quantita'. Purtroppo con il pretesto dei costi di
ricerca si lucra sulla vita umana.

7. LIBRI. DOMENICO BARBERIO PRESENTA "ABITAVAMO VICINO ALLA STAZIONE" DI
PAOLO CINANNI
[Ringraziamo Domenico Barberio (per contatti: ciaramella76 at hotmail.com) per
questa recensione. Domenico Barberio e' impegnato nell'esperienza del gruppo
"Gubbio per la pace" promotore di molte iniziative di pace, solidarieta' e
nonviolenza, e collabora alla rivista "L'altrapagina"]

Esce per Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, Abitavamo vicino alla
stazione. Storia, idee e lotte di un meridionalista contemporaneo, pp. 306,
euro 15, antologia di scritti di Paolo Cinanni.
Duplice la valenza della pubblicazione che ci restituisce, dopo un
ingiustificato periodo d'oblio, la figura del politico e uomo di cultura
calabrese nato a Gerace nel 1916 e morto a Roma il 18 aprile del 1988.
Cinanni infatti non e' stato solo uno studioso serio e rigoroso ma anche e
soprattutto ammirevole militante comunista, animato da un indomito senso del
dovere, strenuo difensore di quei valori che quel partito cercava di
rappresentare.
Si legge nella premessa scritta da Giovanni Cinanni, figlio di Paolo, e
Salvatore Oliverio, profondo conoscitore delle opere di Cinanni, colui che
piu' di tutti ha creduto nella realizzazione di questa antologia: "I suoi
studi, le sue riflessioni su alcune relazioni tematiche (emigrazione e
imperialismo, lotte contadine e usurpazione del demanio pubblico, terra e
identita' comunitaria) riferite soprattutto all'immediato secondo dopoguerra
e agli anni cinquanta, costituiscono un patrimonio intellettuale di notevole
valore, una stimolante e obbligata lettura per comprendere appieno un
periodo importante della storia politica, economica, civile, umana della
Calabria e del nostro Mezzogiorno".
*
Di umile origine, costretto a lasciare giovanissimo la Calabria, segnato da
un terribile incidente (un tram lo investi' quando aveva quattordici anni e
per salvarlo i medici furono costretti ad amputargli una gamba), tutta la
sua vicenda umana racconta di un uomo buono e generoso, un "vecchio
galantuomo comunista" scriveva Goffreddo Fofi, sempre al servizio di
qualcosa e di qualcuno.
Durante la seconda guerra mondiale entra nelle file del Pci e poi della
Resistenza piemontese; sono gli anni dell'amicizia con Leone Ginzburg, Luigi
Capriolo, Elvira Pajetta, Eugenio Curiel, Cesare Pavese. Con Cesare Pavese
si crea un legame intenso, sincero, nato dopo l'incontro tra i due nel 1935
a Torino quando Pavese, rientrato da poco proprio dal confino in Calabria,
decide di diventare maestro del giovane Paolo. Scrive Cinanni ne Il passato
presente. Una vita nel Pci, Grisolia Editore, Marina di Belvedere (CS) 1986:
"Durante la lezione Pavese si trasformava: si trattasse dei canti di Saffo o
di Catullo, del Paradiso di Dante o del De rerum natura di Lucrezio, man
mano che la materia lo prendeva egli vi si immedesimava talmente che te la
trasmetteva con lo sguardo, con il gesto, col suono della voce prima ancora
che attraverso la parola o il  ragionamento".
Nell'immediato dopoguerra si occupa come dirigente del Pci
dell'organizzazione delle masse contadine calabresi e piemontesi impegnate
nelle lotte per la terra. Dal '46 al '53 e' in Calabria: l'altopiano silano
e' il centro della sua azione con un affetto particolare per San Giovanni in
Fiore, il paese dove trovera' la donna della sua vita e dove riposano le sue
spoglie. Dal '53 al '56 e' in Piemonte, quindi dal '56 al '62 il ritorno in
Calabria e la carica di segretario dell'Acmi (l'Associazione dei contadini
del mezzogiorno d'Italia). Quelle esperienze di lotta, da tanti
colpevolmente dimenticate, Cinanni le ricordera' con Lotte per la terra e
comunisti in Calabria 1943-1953, Feltrinelli, Milano 1977, e Lotte contadine
nel Mezzogiorno, Marsilio, Venezia 1979.
Negli anni sessanta s'interessa allo studio delle condizioni economiche,
materiali, morali dei tanti emigrati italiani dispersi nel mondo,
"un'umanita' sofferente che ci attraeva per la sua universalita' di dolore e
fatica, di isolamento e di nostalgia". Quegli emigrati che non rientravano
nel cliche', allora come oggi assai di moda,  dell'italiano di successo
capace di diventare ricco e famoso all'estero. Sara' tra i fondatori con
Carlo Levi della Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e loro
famiglie). Levi e' presidente e Cinanni vicepresidente, sara' un'attivita'
che unira' i due in una "vivificante amicizia" come scrive lo stesso
Cinanni, fino agli ultimi giorni del grande scrittore e pittore. Emigrazione
e imperialismo, Editori Riuniti, Roma 1968, ed Emigrazione e unita' operaia,
Feltrinelli, Milano 1974 (con prefazione di Carlo Levi) sono parte delle
riflessioni che Cinanni ha offerto.
Cominciano pero' le delusioni : nel '65 Giancarlo Pajetta direttore di
"Rinascita" lo chiama a Roma per lavorare al giornale incaricandolo di un
compito certo non tra i piu' gratificanti (la promozione e la diffusione
della rivista); ricorda Cinanni in proposito: "ritenevo, forse un po'
ingenuamente, che il partito avesse interesse ad introdurre nel collettivo
di intellettuali di 'Rinascita' un compagno di origine proletaria e
meridionale, che aveva accumulato una certa esperienza in grandi lotte di
massa..."; dal '68 non fara' piu' parte del comitato centrale e non
ricoprira' piu' incarichi negli organismi direttivi del Pci.
Cinanni comunque decide di continuare nell'approfondimento delle questioni
che piu' gli stavano a cuore e che tanto lo avevano segnato. Di quel
periodo, il 1973, la docenza di filosofia all'Universita' di Urbino.
*
Le sue analisi restano ancora oggi validi e preziosi strumenti per coloro
che si avvicinano, o che gia' hanno conoscenze consolidate, ai temi
dell'emigrazione e della questione agraria. Problemi - e non sembri retorico
ricordarlo - drammaticamente urgenti, irrisolti, attuali. Di fronte allo
spettacolo deprimente di una politica fatta di piccoli e mediocri accordi,
di politici affaccendati in attivita' piu' o meno lecite, di intellettuali
impegnati in vacue riflessioni piu' che nella ricerca del vero e del giusto,
Paolo Cinanni con il suo stile, il suo rigore, il suo impegno, resta un
solido punto di riferimento umano ed intellettuale.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1131 del primo dicembre 2005

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