La nonviolenza e' in cammino. 1061



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1061 del 22 settembre 2005

Sommario di questo numero:
1. Aldo Ricci: Proibire il commercio delle armi, si'
2. Rete Italiana per il disarmo: sosteniamo il referendum brasiliano
3. Luigi Pirelli: Si'
4. Anna Bravo: La Shoa' e i Giusti in Italia
5. Monica Lanfranco colloquia con Lidia Menapace sulle donne e il potere
6. Ida Dominijanni: La relazione, il crocevia
7. Khaled Fouad Allam: Islam e laicita'
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. ALDO RICCI: PROIBIRE IL COMMERCIO DELLE ARMI, SI'
[Ringraziamo Aldo Ricci (per contatti: aldoricci at freemail.it) per questo
intervento. Aldo Ricci, amico della nonviolenza, volontario internazionale,
attivo in ogni occasione di solidarieta' concreta, e' da sempre uno dei
principali collaboratori di questo foglio, uno dei migliori costruttori di
pace che vivono a Viterbo, e una delle persone piu' buone e miti e sagge che
conosciamo]

In questo nostro tempo di nebbia fitta, dove non si riesce a vedere
l'orizzonte, dove e' facile perdere l'orientamento, dove succedono le cose
piu' atroci senza che ce ne accorgiamo o che ce ne facciamo carico; ogni
tanto arriva uno squarcio di luce che ci conforta e ci rassicura.
Il referendum che il 23 ottobre permettera' ai brasiliani di pronunciarsi
sul commercio delle armi e', comunque vada, una scossa vitale per noi tutti.
E si', e' ancora possibile dire cose logiche, fare cose buone per il bene di
tutti andando diretti ai punti cardine dei problemi.
Vorra' pur dire qualcosa che in Brasile la societa' civile ci sia arrivata e
da noi no.
Sara' perche' la' ci sono piu' vittime di armi da fuoco leggere in mano ai
privati?
Sara' perche' tanto chi le costruisce e' all'estero e quindi non si perdono
posti di lavoro?
Sara' perche' c'e' un presidente di sinistra?
Penso piuttosto che sia un segno di ricchezza di umanita', di coraggio
civile, di necessita' di andare in fretta al cuore dei problemi.
Quindi non c'e' remora a dire la verita': vendere armi significa trarre
profitto nel provvedere a che un uomo posssa uccidere altri uomini.
E' la considerazione piu' banale e insieme sconvolgente che tutti possiamo
fare.
*
Grazie a Dio uomini di buona volonta', tra cui amici italiani, religiosi e
laici, ci ricordano che altre "ovvieta'" debbono essere dette:
- Costruire armi per alimentare l'industria della guerra (di qualsiasi tipo)
e' sostenere un crimine contro l'umanita'.
- Chi facendo politica cede alla guerra o la fomenta perpetra un crimine
contro l'umanita.
- Chi in nome di Dio ammette o spinge alla soppressione di un solo essere
umano rinnega se stesso e il Divino che e' patrimonio di tutti.
- Costruire armi senza regole comuni vuol dire spingere il mercato e quindi
ricercare (ricreare) le condizioni perche' ci sia la richiesta e il consumo.
- Legittimare l'uso delle armi e' soccombere alla fatalita' della barbarie.
- Rinunciare o limitarsi nell'educazione alla nonviolenza e' accettare
l'annientamento reciproco tra essere umani.
*
Bisognerebbe pensarci quando usiamo la competizione, in tutti i campi, per
celebrare il vincere anziche' il con-vincere.
Bisognerebbe riflettere su quanto facilmente siamo disponibili ad annientare
altri essere umani.
Lo facciamo direttamente con la nostra vita frenetica e la consideriamo
normale convivenza, o indirettamente con il nostro silenzio e la nostra
indifferenza.
Grazie alle donne e agli uomini di buona volonta' che dal Brasile sapranno
dare un segnale forte che si senta fino da noi.
Grazie agli amici italiani che si adoperano perche' da questa iniziativa
nascano anche da noi frutti buoni, prospettive di vita.

2. INIZIATIVE. RETE ITALIANA PER IL DISARMO: SOSTENIAMO IL REFERENDUM
BRASILIANO
[Dal sito della Rete italiana per il disarmo (www.disarmo.org) riprendiamo
il seguente testo]

Alcune cose che si possono fare
Sensibilizzare tutte le associazioni e le Ong che hanno progetti in Brasile,
affinche' premano sui propri contatti nel pase sudamericano e portino avanti
una forte campagna per il si'.
- Scrivere una lettera di supporto e di plauso a questa iniziativa
all'ambasciata brasiliana in Italia.
- Diffondere dati riguardanti le armi in Brasile e cercare di inviare il
materiale ufficiale della campagna a piu' cittadini brasiliani possibile.
*
Un riferimento utile
Il sito ufficiale della campagna per il si':
www.referendosim.com.br
*
Le tappe che hanno condotto al referendum
- Primo passo: approvazione dello Statuto per il disarmo.
E' la legge n. 10.826, del 22 dicembre 2003 (gia' col governo Lula) che e'
entrata in vigore dopo la firma del Presidente e pubblicata il 23 dicembre
2003.
Il decreto che la regola, n. 5.123 del primo luglio 2004, e' stato
pubblicato il 2 luglio 2004, data in cui e' entrato in vigore.
Questo decreto pone regole piu' ferree alla circolazione di armi, accessori
e munizioni e ne aumenta fortemente il controllo sulla vendita e
l'esportazione.
- Secondo passo: il disarmo volontario, un precedente importante.
Il 15 luglio 2004 e' stata lanciata una campagna per la consegna volontaria
di armi da fuoco. Prevista all'inizio per soli sei mesi, ha avuto un
successo tale (piu' di 400.000 armi sono gia' state consegnate) che si e'
deciso di prorogarla fino al 23 ottobre 2005, data del referendum.
In che cosa consiste la campagna del disarmo volontario: il cittadino che
consegna la sua arma in posti prestabiliti (polizia federale, chiese,
sindacati...) non deve spiegare nulla (se era roba rubata, o comprata, o
illegale...) e riceve fino a 300 reali come compenso.
- Terzo passo: il referendum.
Il Decreto Legge che stabilisce il Referendum e la domanda e' stato
approvato dalla Camera Federale il 6 luglio 2005.
Chi vota: per i cittadini tra i 18 e 70 anni il voto e' obbligatorio. Tra i
16 e 18 anni e oltre i 70, il voto e' facoltativo.
Il quesito del referendum: "Il commercio di armi da fuoco e munizioni deve
essere proibito in Brasile?".
Nell'urna elettronica il n. 01 e' per il no; Il n. 02 per il si'.
La data del referendum: 23 ottobre 2005.
Conseguenze: se vince il si' il commercio delle armi da fuoco e delle
munizioni sara' proibito. Se vince il no, resteranno comunque in vigore
tutte le restrizioni sul porto d'armi previste nello Statuto per il disarmo
recentemente entrato in vigore.

3. 23 OTTOBRE. LUIGI PIRELLI: SI'
[Ringraziamo Luigi Pirelli (per contatti: l.pirelli at acsys.it) per questo
intervento. Luigi Pirelli e' impegnato nell'esperienza del gruppo di lavoro
tematico sulla nonviolenza e i conflitti della Rete Lilliput,
nell'esperienza delle Critical Mass (per la mobilita' ciclistica di contro
alla violenta e onnidistruttiva mobilita' automobilistica), ed in molte
iniziative di pace, per i diritti umani e per la difesa della biosfera]

Puo' un referendum invertire una tendenza? puo' uno strumento legislativo,
un si' o un no, ridefinire il contesto che genera il bisogno di armi? Lo
strumento e' limitato, lo so, lo sappiamo. Lo strumento e' solo sinergico.
Tra le centinaia di motivazioni riportate dai promotori e sostenitori del
referendum brasiliano per il disarmo, alcune vanno nella direzione di una
sinergia, quella di proporre investimenti alternativi nella sicurezza
sociale e nella sperimentazione educativa.
Vivessi in Brasile, nella San Paolo che solo un giorno ho attraversato con
gli occhi, cercando di scorgere un mondo nascosto dai finestrini del mio
taxi, affittata arma soft di distruzione di massa... beh se vivessi a San
Paolo, non avrei dubbi, voterei si' e scenderei dall'auto per dar corpo e
carne al referendum.

4. MEMORIA. ANNA BRAVO: LA SHOA' E I GIUSTI IN ITALIA
[Ringraziamo Anna Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it) per averci messo a
disposizione questo suo testo, la voce "Giusti d'Italia", pubblicata nel
Dizionario dell'Olocausto, Einaudi, Torino 2004 ( edizione italiana curata
da Alberto Cavaglion). Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e
lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle
donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile,
cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche
partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del
comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita
promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa
parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici
dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione
Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Opere di Anna Bravo:
(con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini
nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una
misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia,
Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie
di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia),
Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta
Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza,
Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta
Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza,
Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003]

Poco numerosi, relativamente ben integrati nel tessuto sociale e nelle
istituzioni, concentrati nelle citta', gli ebrei italiani parlavano la
stessa lingua dei loro connazionali e avevano abitudini cosi' simili da
riuscire in pratica indistinguibili. Nonostante la tradizione
dell'antigiudaismo cristiano e la propaganda del regime, non esisteva un
diffuso antiebraismo radicale. L'occupazione tedesca, che dura venti mesi
mentre nel resto dell'Europa si conta in anni, inizia quando i tedeschi sono
manifestamente in difficolta' su tutti i fronti, e la popolazione ha
sperimentato l'incapacita' del regime a garantire minime condizioni
materiali, conosce i disastri militari dell'Italia, e' ostile alla guerra e
potenzialmente solidale con le sue vittime: nell'Italia del '43-'45 chi
protegge gli ebrei puo' sperare, se non nell'appoggio, in una certa
benevolenza dei concittadini. Infine a Roma c'e' il Vaticano, sede del
papato con la sua autorita' internazionale, e centro di una rete fitta di
parrocchie e conventi con una lunga pratica di asilo ai bisognosi.
Gli aspetti favorevoli  all?opera dei soccorritori sono dunque molti. Eppure
8.000 ebrei/e italiani vengono deportati, a volte su delazione o per
l'accanimeto di funzionari statali, piu' spesso perche' non trovano nessuno
disposto a spendersi per loro. E' vero che il rischio e' grande, e che i
nazisti considerano gli italiani una popolazione inferiore e traditrice
contro cui infierire. Resta il fatto che ci si decide a dare aiuto solo
quando e' evidente che per gli ebrei e' questione di vita o di morte, e che
a agire e' una minoranza.
Come in tutta Europa, si tratta di persone diverse fra loro, non
riconducibili a un determinato tipo umano e sociale o a una fede religiosa o
politica, e neppure alla difficilmente verificabile categoria della
"personalita' altruista" o a una condizione di marginalita' sociale che
favorirebbe autonomia di giudizio e scelte trasgressive. Sono differenti
anche le modalita' di azione. C'e' chi si appoggia a forze partigiane, chi
fa riferimento alle reti di resistenza civile che lavorano per mettere in
salvo in Svizzera antifascisti e prigionieri alleati, chi e' in contatto con
la Delasem, l'organizzazione ebraica di soccorso ai perseguitati; altri si
servono dei rapporti fra parrocchie e fra conventi, altri ancora usano la
loro posizione nelle catene ufficiali di comando, come quei capi militari e
alti funzionari delle zone occupate dall'Italia -  Croazia, sud della
Francia, Grecia - che in varia misura e con varie motivazioni ostacolano gli
arresti di ebrei del luogo.
Alla base di moltissime iniziative ci sono networks di tipo familiare,
amicale, di comunita', di vicinato, quasi sempre piccoli o piccolissimi,
spesso costituiti di un individuo con una minima rete di aiutanti; a volte
c'e' una sola persona. Per lo piu' si comincia offrendo occasionalmente
cibo, contatti o ospitalita', per poi passare a un sostegno piu'
continuativo e impegnativo, e si arriva all'illegalita' gradualmente e senza
averlo programmato, ma in tempi rapidi e conoscendone i pericoli.
*
Di questa minoranza i Giusti italiani (325 al gennaio 2003) costituiscono
uno spaccato, non un campione - in quegli anni, per esempio, l'aiuto offerto
da una famiglia veniva accreditato al padrone di casa, anche se l'iniziativa
era stata della moglie, figlia o sorella; il riconoscimento dipende da molte
variabili, compreso il caso. Ma le vicende dei Giusti sono indicatori
preziosi delle dinamiche sociali e delle vie attraverso cui si diventa
salvatori.
Nella situazione italiana, i network informali hanno un ruolo di spicco, e
per buone ragioni. L'8 settembre 1943 il paese esce da vent'anni di un
regime che ha frantumato l'opposizione e avviato la fascistizzazione delle
strutture sociali. I partiti antifascisti mancano di radicamento, mezzi, a
volte di consapevolezza. Diversamente che in altri paesi europei, le
associazioni professionali, culturali o di altro tipo e i grandi nomi
dell'intellettualita' non si attivano in alcun modo. I sentimenti civici,
storicamente deboli, sono sbriciolati; la coesione sociale e' scarsa, le
istituzioni statali svuotate.
Al contrario, i legami personali, familiari e comunitari, tradizionalmente
piu' solidi, reggono, ed ecco perche' riescono a realizzare le iniziative
piu' efficaci (ma anche meno visibili alle categorie della politica).
*
Almeno in un caso e' documentato il coinvolgimento di un'intera comunita'. A
Nonantola, un paese dell'Emilia-Romagna, nell'estate '42 sono accolti una
novantina di ragazzi ebrei di vari paesi europei, che il presidente
nazionale della Delasem Vittorio Valobra e' riuscito a trasferire  dalla
Jugoslavia. Sistemati a villa Sacerdoti alla periferia di Nonantola, i
piccoli profughi vivono abbastanza tranquillamente e trovano amici fra gli
abitanti. Rapporti preziosi, perche' dopo l'8 settembre 1943, quando i
tedeschi occupano il paese, i ragazzi saranno nascosti, oltre che nei locali
del Seminario e nell'asilo delle suore, presso famiglie del posto. Nel
frattempo si prepara la loro fuga verso la Svizzera. I due Giusti di
Nonantola, il dottor Giuseppe Morreali e don Arrigo Beccari, riescono a far
preparare carte d'identita' false intestate al comune di Larino, in
provincia di Campobasso, dove si spera sia impossibile fare controlli. Tutto
avviene all'interno della comunita', e solo per facilitare il passaggio in
Svizzera Beccari e Morreali cercano contatti con il neonato movimento
partigiano del centro-nord.
*
Fra quanti decidono e operano da soli o quasi - il gruppo forse piu'
eterogeneo - alcuni hanno una storia di impegno politico. Cosi' il medico
piemontese Carlo Angela, che era stato tra i fondatori del partito
Democrazia sociale nel 1921, e che per il suo antifascismo aveva scontato
vessazioni e ostacoli nella carriera. Nel 1943, Angela dirige la clinica
psichiatrica Villa Turina Amione di San Maurizio Canavese, un paese delle
valli torinesi. Ha moglie e due figli appena adolescenti, e' di poca salute,
e' lui stesso sotto sorveglianza; il paese e' stato piu' volte rastrellato,
fascisti e tedeschi entrano a loro piacere nella clinica, fra i dipendenti
non mancano i collaborazionisti. Eppure Angela accoglie a Villa Turina varie
famiglie ebree, scrive falsi certificati medici, fronteggia le ispezioni e
gli interrogatori dei fascisti, nel febbraio '44 e' preso in ostaggio e si
salva fortunosamente. Nel caso di Renzo Segre e Nella Morelli, ospitati per
20 mesi facendo passare lui per malato, lei per sua assistente, arriva a
presentarsi al temutissimo presidio fascista torinese per farsi garante
della loro identita' fittizia. Sostenuto soltanto da un piccolissimo nucleo
di dipendenti della clinica, il settantenne Angela opera con piu' efficacia
delle forze della resistenza e del clero locale.
*
34 anni, figlia di commercianti milanesi, corista alla Scala, Liuba Bandini
non ha invece un curriculum politico e ha imparato a detestare i
totalitarismi attraverso l'esperienza dell'ex marito Giorgio Scerbanenco,
profugo dall'Ucraina. Anche lei agisce di propria iniziativa e
sostanzialmente da sola, nascondendo nella sua casa milanese i coniugi
Alberto e Marisa Campelung dal primo dicembre 1943 alla primavera 1945;
l'unico sostegno le viene dalla sorella Ines, che abita nello stesso stabile
e custodisce i bagagli della coppia. Il 14 marzo, avvertiti che i tedeschi
sono sulle loro tracce, i Campelung devono fuggire, e Liuba viene
pesantememente minacciata dalla polizia SS. Non solo tiene testa
all'interrogatorio, lei donna sola e madre di un bimbo di 4 anni, ma per
quanto sorvegliata riesce in seguito a far arrivare qualche aiuto ai suoi ex
ospiti.
*
Per quanto riguarda l'opera di preti e religiosi/e, non esiste alcuna
specifica direttiva del papa che la solleciti, e l'impegno nasce per altre
vie.
Alcuni si attivano su richiesta e in accordo con la Delasem, come don
Francesco Repetto, giovane segretario del cardinale di Genova Pietro Boetto,
cui poco dopo l'8 settembre Valobra aveva chiesto di distribuire sussidi
agli ebrei della zona e agli stranieri rifugiati. Dato che molti sono presto
costretti a nascondersi, Repetto si trova a procurare viveri, documenti
falsi, asilo presso conventi e privati, guide per la fuga in Svizzera.
Intanto lavora per mobilitare una quantita' di religiosi nella diocesi
genovese e per sensibilizzare sacerdoti e vescovi dell'Italia
settentrionale. Scoperto nel luglio '44, sara' sostituito da un altro futuro
Giusto, don Carlo Salvi.
Molti religiosi/e agiscono pero' indipendentemente dai canali delle Curie:
in Piemonte, il domenicano padre Girotti, che sara' deportato nell'estate
'44 e ucciso a Dachau, ospita nel suo monastero molti ebrei, pare senza
chiedere e dire nulla ai superiori gerarchici.
A Assisi, dove non ci sono rappresentanti della Delasem, e' invece la chiesa
a prendere l'iniziativa. Nella cittadina era gia' in piedi un comitato per
l'assistenza ai profughi promosso dal vescovo Nicolini e affidato a don Aldo
Brunacci - un organismo perfettamente legale, che colmava il vuoto lasciato
dalla crisi delle istituzioni e che si giovava delle tante strutture di
accoglienza. Quando dopo l'8 settemebre cominciano ad arrivare ebrei
italiani e profughi di altri paesi che non parlano la lingua e hanno bisogno
di tutto, il comitato passa a operare segretamente. Don Brunacci persuade
alcuni impiegati comunali a procurare documenti in bianco e un tipografo a
creare timbri ufficiali di comuni delle zone occupate dagli alleati o
distrutti dai bombardamenti. Nel frattempo si rivolge alle suore di Assisi e
del circondario perche' ospitino nelle loro foresterie le persone senza
mezzi, facendole passare per pellegrini stranieri. Partecipa al lavoro di
assistenza anche padre Rufino Nicacci, superiore del convento di San
Damiano, che fra l'altro sistema molti rifugiati presso il monastero delle
Clarisse di San Quirico, assicurando loro viveri e conforto.
Don Brunacci dira' in seguito che Nicolini  gli aveva confidato di aver
ricevuto una lettera del segretario di stato vaticano Maglione con l'invito
a soccorrere antifascisti e ebrei, e che a ogni vescovo ne era stata mandata
una simile. Ma di nessuna si e' mai trovata traccia. Probabilmente Brunacci
aveva visto una lettera nelle mani del vescovo, che gli aveva lasciato
credere che si trattasse della richiesta papale, e si era convinto che fosse
cosi' perche' lo desiderava e lo trovava naturale; e forse a sua volta ne
aveva fatto cenno ad altri preti, a suore e monaci per guadagnarne
l'appoggio. Certo, come molti altri italiani/e, don Brunacci e padre Nicacci
agiscono spinti dalla pietas cristiana; ma nessun sentimento affiorerebbe in
assenza di quell'immedesimazione con i perseguitati che puo' nascere
dall'incontro con la loro sofferenza e il loro bisogno di protezione, e che
e' il tratto piu' diffuso fra i soccorritori, indipendentemente dalla loro
religione e religiosita'.
*
Segue lo stesso impulso il padovano Giorgio Perlasca, il piu' noto e il piu'
singolare fra i salvatori italiani. Fascista, volontario nellle guerre
d'Etiopia e di Spagna, ma ostile alle leggi antiebraiche del '38 e
all'alleanza con la Germania, di mestiere commerciante di carni, Perlasca si
trova a Budapest nell'inverno '44, al momento in cui stanno precipitando
deportazioni e massacri. Si offre di collaborare con l'ambasciata spagnola,
che di concerto con quelle di altri paesi neutrali, ospita gruppi di ebrei
in edifici extraterritoriali e li fornisce di lettere di protezione; alla
partenza del titolare d'ambasciata decide di rimanere per continuare
l'opera, spacciandosi per il nuovo incaricato d'affari spagnolo. Fatta
eccezione per un microgruppo di aiutanti, Perlasca e' solo, con pochi mezzi,
e il suo bluff lo rende vulnerabilissmo; eppure moltiplica le lettere di
protezione, riempie le case, accorre per fronteggiare le aggressioni di SS e
bande naziste, tratta con i capi della polizia e delle Croci frecciate
alternando lusinghe, minacce, promesse di impunita', corruzione. Alla fine,
circa 5.000 persone saranno salve, un risultato reso possibile dalle doti
personali del protagonista, ma, imprevedibilmente, anche dal suo passato: al
momento del congedo dalla guerra di Spagna, Perlasca ha infatti ricevuto
dalle autorita' franchiste un documento che lo legittima a rivolgersi in
caso di necessita' a qualsiasi sede diplomatica spagnola. Nell'Ungheria del
44, che dopo il rovesciamento italiano delle alleanze e' un paese nemico, ha
bisogno di una nuova identita' come cittadino spagnolo per salvarsi e
tornare in Italia, e la ottiene. Diventera' invece un paradossale esempio di
Giusto, che salva gli ebrei nonostante sia (sia stato) fascista, e nello
stesso tempo perche' e' (e' stato) un fascista e ha combattuto al fianco dei
fascisti spagnoli.

5. RIFLESSIONE. MONICA LANFRANCO COLLOQUIA CON LIDIA MENAPACE SULLE DONNE E
IL POTERE
[Dal quotidiano "Liberazione" del 18 settembre 2005.
Monica Lanfranco (per contatti: mochena at tn.village.it), giornalista
professionista, nata a Genova il 19 marzo 1959, vive a Genova; collabora con
le testate delle donne "DWpress" e "Il paese delle donne"; ha fondato il
trimestrale "Marea"; dirige il semestrale di formazione e cultura "IT -
Interpretazioni tendenziose"; dal 1988 al 1994 ha curato l'Agendaottomarzo,
libro/agenda che veniva accluso in edicola con il quotidiano "l'Unita'";
collabora con il quotidiano "Liberazione", i mensili "Il Gambero Rosso" e
"Cucina e Salute"; e'' socia fondatrice della societa' di formazione Chance.
Nel 1988 ha scritto per l'editore PromoA Donne di sport; nel 1994 ha scritto
per l'editore Solfanelli Parole per giovani donne - 18 femministe parlano
alle ragazze d'oggi, ristampato in due edizioni. Per Solfanelli cura una
collana di autrici di fantasy e fantascienza. Ha curato dal 1990 al 1996
l'ufficio stampa per il network europeo di donne "Women in decision making".
Nel 1995 ha curato il libro Valvarenna: nonne madri figlie: un matriarcato
imperfetto nelle foto di fine secolo (Microarts). Nel 1996 ha scritto con
Silvia Neonato, Lotte da orbi: 1970 una rivolta (Erga): si tratta del primo
testo di storia sociale e politica scritto anche in braille e disponibile in
floppy disk utilizzabile anche dai non vedenti e rintracciabile anche in
Internet. Nel 1996 ha scritto Storie di nascita: il segreto della
partoriente (La Clessidra). E' stato pubblicato recentemente il suo libro,
scritto insieme a Maria G. Di Rienzo, Donne disarmanti, Intra Moenia, Napoli
2003. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati
(politici, sindacali, scolastici) sulla storia del movimento delle donne e
sulla comunicazione.
Lidia Menapace (per contatti: lidiamenapace at aliceposta.it) e' nata a Novara
nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento
cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del
"Manifesto"; e' tra le voci piu' alte e significative della cultura delle
donne, dei movimenti della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La
maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa
in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi
libri cfr. Il futurismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968;
L'ermetismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; (a cura di), Per un
movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La
Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della
differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con
Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma
1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la
luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001; (con Fausto
Bertinotti e Marco Revelli), Nonviolenza, Fazi, Roma 2004]

"Nel femminismo (solo li'?) si va piu' d'accordo tra nonne e nipoti che tra
madri e figlie. E' bello essere nonne. Spero lo sia anche essere le nostre
nipoti". Cosi' rifletteva, in un fascicolo di "Marea" del 2002, Lidia
Menapace sul rapporto tra generazioni di donne. Uno dei suoi talenti e'
quello di dire in modo semplice cose complesse, e non e' poco. Con i suoi
instancabili ottantadue anni e la sua piccola borsa a tracolla porta a
spasso per questa Italia dolente socialmente e arida politicamente una delle
menti piu' lucide e moderne. Con le sue parole terminiamo alla grande questo
breve viaggio di suggestioni sul genere e il potere.
- Monica Lanfranco: Cominciamo la conversazione con te, come quelle con
tutte le interlocutrici che ti hanno preceduto, da Audre Lorde e dalla sua
frase: "Non possiamo smantellare la casa del padrone con i suoi attrezzi".
Sei d'accordo con lei? e cosa ti evoca questa affermazione?
- Lidia Menapace: La frase di Audre Lorde mi dice: non e' vero che il fine
influisce sui mezzi, fino a renderli giusti anche se non lo sono, ma
piuttosto che i mezzi, se ingiusti o sbagliati, inquinano anche il migliore
dei fini ("salvare" qualcuno contro la sua volonta': e' l'esempio che viene
dalle religioni e documenta terribili e cruente iniziative di conversioni
imposte, crociate, inquisizioni, scomuniche, fatwe eccetera). Una prova sta
sotto i nostri occhi: persino chi credesse alla buona fede di chi dichiara
di voler esportare la democrazia e i diritti (fini buoni) attraverso la
guerra (strumento cattivissimo) non puo' non vedere i risultati nefasti.
Persino chi legittimamente resiste all'occupazione diventa, se non trova
mezzi e metodi diversi da quelli degli occupanti, non meno barbaro.
*
- Monica Lanfranco: Pur con alcune eccezioni sembra che anche le donne con
le migliori intenzioni, una volta arrivate ai vertici del potere, si
uniformino ad esso, diventando una fotocopia dell'agire maschile. Dove sta
il problema: nella politica o nelle donne?
- Lidia Menapace: Chi si muove nell'esistente non puo' far altro che
copiarlo. Magari con un po' piu' di fascino estetico. Non si puo' modificare
ne' la casa ne' i modi dei padroni, se li si ammira e li si considera
modelli. Per questo il femminismo e' una cultura politica radicalmente altra
e molto difficile da costruire e trasmettere. Come diceva Marx in ogni
societa' sono dominanti le forme culturali della classe dominante. La
famiglia operaia e' oppressiva quanto e piu' di quella borghese, che resta
il suo modello; proletari e figli di proletari nella scuola accettano la
cultura della classe che li sfrutta. Vale anche per le relazioni di genere:
il genere dominante influisce sul genere oppresso. Non e' una colpa, e' un
fatto provato. E da li' si parte per costruire ipotesi del tutto "altre" e
procedure, linguaggi, simboli, pratiche differenti.
*
- Monica Lanfranco: Si puo' cambiare la politica, e il mondo, senza prendere
il potere, come sostiene Halloway?
- Lidia Menapace: A me - devo dirlo - sembra una espressione tipo quella
della volpe e dell'uva: siccome non ce la faccio a raggiungerla, dico che
non e' matura. L'espressione che mi disturba non e' la parola "potere", ma
il verbo "prendere", che indica la solita sequenza di eventi: qualcuno ha il
potere e chi non ne condivide ne' fini ne' metodi, cerca di "prenderglielo"
incorrendo percio' in una sequenza di sentimenti e pratiche analoghi. A me
rimane invece sempre lucida come una stella polare l'analisi che fece
Alessandra Bocchetti in un memorabile convegno al Teatro Tenda a Roma, dal
titolo "Le donne con le donne possono". Era: per il genere maschile il verbo
potere (e l'uso sostantivato che ne consegue: "Il potere") e' un verbo
assoluto, preferibilmente senza oggetto; per il genere femminile il verbo
potere e' un verbo servile e indica vari ambiti relativi. Noi donne vogliamo
poter votare, poter parlare, poter scrivere, poterci essere, poter agire
efficacemente. Io resto a questa determinazione che mi e' sempre sembrata
geniale e molto vera. Dunque voglio poter votare mie simili, scelte da me,
poter parlare col mio simbolico, poter agire efficacemente, poter essere
menzionata, chiedo il diritto di citazione e di memoria.
*
- Monica Lanfranco: Sei stata attiva nella politica istituzionale (o in
gruppi di donne extra-istituzioni) a qualunque livello, puoi raccontare i
punti di forza e quelli di debolezza della tua esperienza?
- Lidia Menapace: Sono stata consigliera comunale a Bolzano e a Roma,
consigliera regionale del Trentino-Alto Adige, assessora nella Giunta
provinciale di Bolzano, consigliera regionale del Lazio. Molto avrei
desiderato essere parlamentare, ma questo non e' mai stato possibile. Nelle
mie varie esperienze sapevo di poter agire solo in modo "neutro", forzando
continuamente al massimo in senso femminista contenuti e forme (il che si
chiamava in generale atteggiamento "riformatore", ben distinto da quello
riformista): fino a quando si e' l'unica donna o comunque una parte molto
minoritaria e casuale di eletti non si puo' fare molto.
Ricordo che durante il periodo del consiglio comunale di Roma mi tocc'
rispondere alle obiezioni di chi non voleva che il Buon Pastore fosse
assegnato al movimento femminista. Fu una discussione molto accesa nel corso
della quale repubblicani e liberali (che facevano parte della maggioranza di
centrosinistra in Campidoglio) dissero di non poter accettare che da una
occupazione (l'edificio era occupato da 13 anni dal movimento femminista
romano) discendesse la legittimazione e il riconoscimento del Comune. Mi
tocco' tirar giu' i ricordi risorgimentali, dato che nemmeno la breccia di
Porta Pia fu una cosa molto "legale", e se volevano avviare una nuova
"questione romana" contro il femminismo, si sarebbero trovati a fare contro
di noi cio' che i papi avevano fatto contro di loro.
In consiglio regionale del Lazio ci fu una occasione trasversale che riun'
le sei donne (su 60 consiglieri) di tutti i partiti, quando si seppe che in
alcuni ospedali romani si praticavano mutilazioni genitali a donne
musulmane, e dopo il parto le si ricuciva. Tra noi non vi furono differenze.
Tali pratiche in Italia sono reati e tali restano. Alcuni colleghi maschi
ostentarono atteggiamenti comprensivi e tolleranti dicendo "E' la loro
cultura", ma furono zittiti.
*
- Monica Lanfranco: Quali possono essere gli alleati, e quali invece i
peggiori ostacoli alla realizzazione di una diversa qualita' della politica
per le donne?
- Lidia Menapace: La piu' importante vicina di casa e' la coscienza di se',
la cognizione fredda delle perduranti ingiustizie, discriminazioni,
eccetera, e la convinzione che oggi cio' che il femminismo chiede e' utile
in generale. Oggi in particolare il neopatriarcato e i vari fondamentalismi,
e in genere il rilancio di culture tradizionali, sono il maggiore ostacolo
che le donne incontrano. E' necessario mettere in piedi strumenti per la
conoscenza, trasmissione, storia del movimento femminista nella varieta' e
non riducibilita' delle sue forme. Tutto cio' che ci riguarda e' nelle
nostre mani.
*
- Monica Lanfranco: Se ti trovassi al governo quali sarebbero cinque punti
dei primi cento giorni?
- Lidia Menapace: Ritirare immediatamente e senza condizioni le truppe
italiane dall'Iraq come chiesi dalla tribuna del Social forum europeo a
Parigi lo stesso 11 novembre della strage di Nassiriya. Chiedere come mai
nessuno in parlamento si e' accorto che per finanziare la spedizione in Iraq
sono stati usati i fondi lasciati allo stato da chi non versa l'otto per
mille alle chiese, e che cosa si puo' fare contro tale evidente distrazione
di fondi dal bilancio dello stato. Avere nelle primarie sempre due
candidature, una di un uomo e una di una donna. Pretendere che venga
radicalmente modificata la legge 40 sulle procreazione medicalmente
assistita. Mutare la base dell'insegnamento della storia e i criteri sui
quali si basa la memorabilita'. Fuori sacco: avviare un impeachment verso il
presidente del Senato, che non puo' ricoprirequel ruolo istituzionale ed
esprimersi in modo cosi' vergognosamente anticostituzionale.

6. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: LA RELAZIONE, IL CROCEVIA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 settembre 2005. Ida Dominijanni,
giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale
all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista]

C'e' un pensiero femminile del presente che eccede le categorie del politico
con cui il presente viene pensato anche quando a sua volta palesemente le
eccede. Il giro di parole e' contorto, ma meno di quanto sembri: e' in corso
un mutamento che si caratterizza anche, e forse in primo luogo, perche' non
e' tutto interpretabile sulla base della logica politica della modernita',
ma che viene forzosamente piegato a questa logica, dalla quale alcune
analisi femminili si sottraggono, in forza di un pensiero allenato a leggere
la politica sulla base di categorie tradizionalmente considerate non
politiche, o impolitiche.
Voglio segnalare oggi due esempi di queste analisi: il testo di Luisa Muraro
intitolato Al capolinea della modernita': relazione, relativismo,
relativita', pubblicato sull'ultimo numero di "Via Dogana", e il dialogo su
Condizione umana contro "natura" fra Adriana Cavarero e Judith Butler
pubblicato sull'ultimo numero di "Micromega" (l'annuale almanacco di
filosofia della rivista, questa volta dedicato alla "natura umana").
*
Sono due testi diversi per linguaggio e intenzioni, ma entrambi si
interrogano sullo scenario di guerra e violenza nel quale siamo immersi
rifiutando di considerarlo, come scrive Muraro, "l'unico e fatale corso
delle cose", e entrambi lavorano su un'uscita da questo scenario incentrata
su una pratica della relazione contrapposta alla pratica dello scontro
frontale. Che di questi tempi, com'e' noto, si rappresenta come scontro di
civilta': "una ricerca d'identita' fondamentalmente reattiva - lo definisce
Muraro -, sul piano inclinato di fare dell'altro lo specchio della propria
superiorita'"; un confronto simmetrico radicato profondamente tanto nelle
strutture bipolari dell'ordine simbolico quanto nella logica politica
dell'amico-nemico. Che pero' non e' l'unica logica politica possibile, se si
prende sul serio la scommessa della politica delle donne di lottare per "un
cambiamento in meglio che dipende anche dall'altro, l'avversario", e che non
si trincera nella fissita' degli schieramenti, "fonte di identita' troppo
chiuse e troppo strette l'una all'altra, come mascelle serrate", ma la
rompe.
Si tratta, si badi, di una scommessa tutt'altro che soft: non a caso, nel
testo di Muraro, accanto alla figura della relazione compare, mutuata da
Irigaray, quella della croce e del crocevia a cui nel mondo globale ci
inchioda quotidianamente il confronto con l'altro. Si' che la relazione non
va messa tanto in sequenza con il relativismo, quanto con la relativita':
"relativismo significa abbandonare la ricerca di qualcosa di universalmente
vero e giusto, nessuna possibile risposta potendosi considerare superiore
alle altre"; mentre la relativita' comporta "la ricerca di mediazioni per
passare dall'uno all'altro punto di vista".
Tradotto in politica, al relativismo corrisponde un pluralismo delle
differenze che le lascia spesso intatte e incomunicanti, laddove la
relativita' suggerisce "uno stare in relazione con l'altro che ci distacca
dai nostri assoluti ma non ci trasforma nell'altro, genera la fine di una
certa nostra fissita' e la possibilita' di altro".
*
Scommessa non soft, e nemmeno optional.
Nel dialogo fra Cavarero e Butler (che si segnala, oltretutto, per un
interessante duello fra le due filosofe sullo statuto della psicoanalisi e
sul rapporto fra psicoanalisi, teoria del soggetto e decostruzione) la
categoria e la pratica della relazione vengono riportate a un piano di
necessita' ontologica, come gia' nei loro precedenti lavori (e segnatamente
in Vite precarie, il libro di Butler sul dopo-11 settembre): la relazione e'
la forma sociale che ci e' imposta dalla condizione di fragilita' e
esposizione all'altro che accomuna tutti gli umani sotto ogni latitudine e
ogni cultura, e dalla relazione primaria di dipendenza, quella con la madre,
in cui tutti veniamo messi al mondo.
Anche in questo caso, relazione non e' sinonimo di morbidezza: essere
esposti all'altro significa anche essere esposti alla violenza dell'altro, o
esporlo alla nostra violenza; e dunque non negare l'aggressivita' ma -
psicoanaliticamente, secondo Butler - "riconciliarsi con la capacita'
distruttiva che e' in ognuno di noi, dirigere la propria aggressivita' verso
scopi costruttivi"; e quanto alla violenza politica, "cercare di comprendere
la connessione fra le concezioni della sovranita' e le figure del se', fra
le nozioni di nazionalismo e i modelli di mascolinita'", fra l'affermazione
della "revanche" patriottica americana e il bisogno di negare o rimuovere i
rapporti di interdipendenza in cui anche una grande potenza si trova nel
mondo globale.
Alla fine della modernita', ritroviamo infatti le nozioni di sovranita' e di
individuo connesse come all'origine: pensare un'ontologia della relazione e
della dipendenza, sottolinea giustamente Cavarero, implica la separazione
definitiva dal mito dell'individuo liberale, sovrano e autonomo, che si
ripresenta ossessivamente nelle "patologie egocentriche" della soggettivita'
contemporanea, tanto tronfia della propria capacita' autopoietica quanto
ossessionata dall'angoscia di doversi contaminare e di potersi perdere
nell'altro.

7. RIFLESSIONE. KHALED FOUAD ALLAM: ISLAM E LAICITA'
[Dal quotidiano "Liberazione" del 15 settembre 2005 riprendiamo
l'anticipazione del testo di Khaled Fouad Allam pubblicato nel volume di AA.
VV. (a cura di Geminello Preterossi), Le ragioni dei laici, Laterza,
Roma-Bari 2005, con saggi, oltre a quello di Khaled Fouad Allam, di
Geminello Preterossi, Remo Bodei, Carlo Galli, Francesco Remotti, Vincenzo
Ferrone, Francesco Margiotta Broglio, Tullio De Mauro, Claudio Magris,
Pietro Scoppola, Andrea Riccardi, Anna Foa, Ida Dominijanni, Umberto
Veronesi. Khaled Fouad Allam, nato a Tlemcen in Algeria, residente in Italia
dal 1982, dopo aver vissuto in Marocco, Algeria e Francia, cittadino
italiano dal 1990, e' docente di Sociologia del mondo musulmano e di Storia
e istituzioni dei paesi islamici all'universita' di Trieste e di Islamistica
all'universita' di Urbino. Si occupo da anni di Islam contemporaneo, tema su
cui ha pubblicato vari saggi. E' stato esperto presso il Consiglio d'Europa
sull'immigrazione e le nuove cittadinanze]

La questione dei rapporti fra islam e laicita' permea la storia del mondo
musulmano nel XX secolo, da quando sulle rovine dell'impero ottomano,
dissoltosi definitivamente nel 1924, si costruirono i futuri Stati-nazione
del mondo musulmano. Mentre nel califfato l'articolazione fra religione,
politica e societa' era garantita dalla figura e dall'autorita' califfale,
nello Stato-nazione quell'articolazione si trova spezzata e il potere
politico tende al controllo del potere religioso degli ulema. Scomparendo
quell'autorita' centrale, che da secoli rappresentava il fattore di coesione
fra islam e societa', i moderni Stati inventarono gia' nella prima meta' del
secolo scorso un ministero degli affari religiosi: habus nei paesi del
Maghreb, waqf nel Medio Oriente, dianet in Turchia. Questa nuova
subordinazione della dimensione religiosa al potere politico, se ha
comportato una razionalizzazione dei poteri, non e' pero' risultata da un
mutamento nello strutturarsi delle societa' musulmane.
Possiamo dunque parlare di una laicita' acquisita dall'esterno, che non e'
stata accompagnata da un vasto movimento di secolarizzazione. I motivi di
questa frattura fra laicita' e secolarizzazione si radicano nella storia
stessa dell'islam; e' necessario allora evidenziare quali fenomeni si
radicano sin dall'inizio nell'islam e quali invece sono legati ai suoi
cambiamenti recenti.
Vanno sottolineati in particolare alcuni aspetti della questione. Nel mondo
islamico la configurazione politica e' piu' il risultato di circostanze
storiche che di una logica intrinseca alla religione rivelata. Tutti gli
autori sono d'accordo nell'affermare che, in materia di organizzazione del
sistema politico, il corpus dei testi fondatori dell'islam - il Corano e la
Sunna - e' nell'insieme indicativo e non fornisce prescrizioni precise, e
che la maggior parte delle costruzioni politiche nel mondo islamico ha lo
scopo di legittimare un potere politico gia' istituito. Le strutture
politiche tendono quindi a conformarsi a logiche di gruppo o a risolvere i
conflitti in corso attraverso la ricerca e la legittimazione di
un'autorita': questo e', a tutt'oggi, il grande problema dell'islam
contemporaneo.
Questa apparente fluidita' fra religione e politica si sviluppa sin
dall'inizio, nel califfato degli Omayyadi (661-750), traducendosi su grande
scala con la statalizzazione dell'islam: il califfo diviene detentore del
potere spirituale e del potere temporale. Storicamente la dinastia Omayyade,
che pone la sua capitale a Damasco, fa prevalere il potere temporale su
quello spirituale, privilegiando un gruppo etnico, quello degli arabi. Tale
asimmetria fra temporale e spirituale e' all'origine della cacciata e del
rovesciamento di questa dinastia; in opposizione ad essa, si impone un nuovo
califfato, quello della dinastia Abbasside (750-1258), che sposta la
capitale a Baghdad e rafforza l'aspetto spirituale rispetto a quello
temporale, per cui il califfo si arroga prerogative come quella
dell'infallibilita'; e' in quell'epoca che il califfo assume il titolo di
comandante dei credenti. Questo accento fortemente simbolico sulla funzione
califfale va a scapito della gestione politica dell'impero, e provoca la
crisi del califfato abbasside: l'impero si frammenta in una serie di
sultanati locali, che piu' tardi si contenderanno il potere califfale,
preparando l'avvento dei Selgiuchidi e piu' tardi dell'impero ottomano.
Questo breve excursus sulle formazioni politiche nell'islam serve a mostrare
l'ambiguita' che ha connotato i rapporti fra islam e politica. Si puo'
affermare che storicamente, nell'islam, i rapporti fra politica e religione
sono stati caratterizzati da un certo pragmatismo; quindi alla base della
riflessione su islam e laicita', rimane di fondamentale importanza la
questione antropologica.
*
L'aspetto antropologico
L'estendersi territoriale e culturale dell'islam corrisponde all'inclusione
nel mondo musulmano di popoli e culture estremamente eterogenei tra loro. La
diffusione della dominazione musulmana ha implicato per quei popoli anche un
diverso modo di strutturarsi e spesso la costruzione di un'identita'
universalizzante, che trascendeva le identita' di gruppo locali.
Nell'adesione all'islam, le culture locali si sono trovate a possedere due
identita' tra loro complementari, fatto che sociologicamente si e' tradotto
nella presenza di una duplice identita' collettiva. Cio' non rappresentava
un fattore di conflittualita', perche' la cultura locale fungeva da vettore
portante della cultura, universalizzante, islamica.
La crisi dei rapporti fra cultura antropologica e religione intervenuta nel
Novecento pone il problema dei rapporti fra islam e laicita'. Nel secolo
scorso si e' assistito al progressivo affievolirsi delle culture locali di
fronte ai processi di modernizzazione, che hanno scardinato quelli che erano
i ritmi ancestrali del mondo musulmano: lo Stato si e' fatto promotore di
una nuova societa', accanto alla societa' agricola e' iniziata un'attivita'
industriale, e le culture urbane hanno spezzato il legame tradizionale fra
islam e identita' locale. Tale crisi, che ha investito il mondo musulmano
durante tutto il XX secolo e non e' a tutt'oggi risolta, ha portato l'islam
a riformularsi secondo nuovi modelli culturali che spesso risultano deboli e
non riescono a definire un adeguato quadro di interazione tra religione e
societa', e tra religione e politica.
L'esempio piu' eclatante di questa crisi e' la situazione delle donne, e in
particolare la questione del velo. Nella societa' tradizionale la questione
del velo semplicemente non si pone perche' la donna esce solo raramente
dallo spazio domestico; ma in seguito ai processi di acculturazione delle
societa' musulmane nel XX secolo le donne iniziano a frequentare la scuola,
a lavorare a contatto con uomini, a confrontarsi direttamente con lo spazio
pubblico: una parte del clero reagisce allora attraverso un'interpretazione
massimalista dell'uso del velo. Questo caso mostra come nell'islam
contemporaneo i richiami all'ortodossia si intreccino profondamente con i
processi di modernizzazione e di acculturazione delle societa' musulmane.
*
La crisi dello Stato laico
Nell'islam contemporaneo e' assente una dinamica in grado di costruire uno
spazio laico entro una cultura secolarizzata; nelle odierne societa'
musulmane, il processo di secolarizzazione rafforza paradossalmente la
specificita' del religioso e mette in crisi la neutralita' dello Stato.
Il processo di secolarizzazione avvenuto nelle societa' occidentali risulta
da un compromesso fra Stato e religione, fondato non solo sul fatto che i
diversi attori si sono accordati sulla condivisione di uno stesso spazio
politico, ma anche sul fatto che i credenti hanno interiorizzato una
definizione di religione fornita dalla cultura laica. Cio' significa che le
religioni sono divenute socio-culturalmente laiche, in modo che la fede e le
pratiche religiose sono considerate come fatti privati e non piu' pubblici.
Oggi nelle nuove forme della religiosita', tra cui quelle dell'islam, i
credenti accettano la laicita', ma chiedono un riconoscimento pubblico alla
loro appartenenza identitaria, mettendo in evidenza la relazione tra
religione e spazio pubblico, e chiedendo di riformulare il ruolo dello Stato
di fronte alle nuove domande. E' proprio un'asimmetria quella che si sta
creando fra politica e religione; ma, come notano alcuni studiosi, non si
tratta della richiesta di ricostruire il rapporto tra religione e politica,
bensi' di riformulare il rapporto fra religione e societa'. Per esempio, il
neo-fondamentalismo (non il radicalismo) islamico e' molto piu' interessato
alla questione dei musulmani nella societa' che a quella dei loro rapporti
con il potere politico.
Cio' che si sta delineando e' la fine di un laicismo improntato alla cultura
della rivoluzione francese, per spostarsi a un approccio piu' vicino a
quello di un Tocqueville, vale a dire una visione piu' vicina ai modelli
anglosassoni dei rapporti fra religione e societa', in cui le identita'
religiose sono soggette a un processo di diluizione nella complessita'
sociale. Questo approccio mette in crisi lo Stato, che si trova costretto a
scegliere, in moltissimi campi, se varcare o no confini delicatissimi: ad
esempio nella bioetica, nelle questioni della cittadinanza ecc.
Torna alla mente un'osservazione di Andre' Malraux: egli scrisse nelle sue
Antimemoires che il XXI secolo sara' religioso o non sara'.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1061 del 22 settembre 2005

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