[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
La nonviolenza e' in cammino. 1061
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1061
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 22 Sep 2005 02:20:21 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1061 del 22 settembre 2005 Sommario di questo numero: 1. Aldo Ricci: Proibire il commercio delle armi, si' 2. Rete Italiana per il disarmo: sosteniamo il referendum brasiliano 3. Luigi Pirelli: Si' 4. Anna Bravo: La Shoa' e i Giusti in Italia 5. Monica Lanfranco colloquia con Lidia Menapace sulle donne e il potere 6. Ida Dominijanni: La relazione, il crocevia 7. Khaled Fouad Allam: Islam e laicita' 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. ALDO RICCI: PROIBIRE IL COMMERCIO DELLE ARMI, SI' [Ringraziamo Aldo Ricci (per contatti: aldoricci at freemail.it) per questo intervento. Aldo Ricci, amico della nonviolenza, volontario internazionale, attivo in ogni occasione di solidarieta' concreta, e' da sempre uno dei principali collaboratori di questo foglio, uno dei migliori costruttori di pace che vivono a Viterbo, e una delle persone piu' buone e miti e sagge che conosciamo] In questo nostro tempo di nebbia fitta, dove non si riesce a vedere l'orizzonte, dove e' facile perdere l'orientamento, dove succedono le cose piu' atroci senza che ce ne accorgiamo o che ce ne facciamo carico; ogni tanto arriva uno squarcio di luce che ci conforta e ci rassicura. Il referendum che il 23 ottobre permettera' ai brasiliani di pronunciarsi sul commercio delle armi e', comunque vada, una scossa vitale per noi tutti. E si', e' ancora possibile dire cose logiche, fare cose buone per il bene di tutti andando diretti ai punti cardine dei problemi. Vorra' pur dire qualcosa che in Brasile la societa' civile ci sia arrivata e da noi no. Sara' perche' la' ci sono piu' vittime di armi da fuoco leggere in mano ai privati? Sara' perche' tanto chi le costruisce e' all'estero e quindi non si perdono posti di lavoro? Sara' perche' c'e' un presidente di sinistra? Penso piuttosto che sia un segno di ricchezza di umanita', di coraggio civile, di necessita' di andare in fretta al cuore dei problemi. Quindi non c'e' remora a dire la verita': vendere armi significa trarre profitto nel provvedere a che un uomo posssa uccidere altri uomini. E' la considerazione piu' banale e insieme sconvolgente che tutti possiamo fare. * Grazie a Dio uomini di buona volonta', tra cui amici italiani, religiosi e laici, ci ricordano che altre "ovvieta'" debbono essere dette: - Costruire armi per alimentare l'industria della guerra (di qualsiasi tipo) e' sostenere un crimine contro l'umanita'. - Chi facendo politica cede alla guerra o la fomenta perpetra un crimine contro l'umanita. - Chi in nome di Dio ammette o spinge alla soppressione di un solo essere umano rinnega se stesso e il Divino che e' patrimonio di tutti. - Costruire armi senza regole comuni vuol dire spingere il mercato e quindi ricercare (ricreare) le condizioni perche' ci sia la richiesta e il consumo. - Legittimare l'uso delle armi e' soccombere alla fatalita' della barbarie. - Rinunciare o limitarsi nell'educazione alla nonviolenza e' accettare l'annientamento reciproco tra essere umani. * Bisognerebbe pensarci quando usiamo la competizione, in tutti i campi, per celebrare il vincere anziche' il con-vincere. Bisognerebbe riflettere su quanto facilmente siamo disponibili ad annientare altri essere umani. Lo facciamo direttamente con la nostra vita frenetica e la consideriamo normale convivenza, o indirettamente con il nostro silenzio e la nostra indifferenza. Grazie alle donne e agli uomini di buona volonta' che dal Brasile sapranno dare un segnale forte che si senta fino da noi. Grazie agli amici italiani che si adoperano perche' da questa iniziativa nascano anche da noi frutti buoni, prospettive di vita. 2. INIZIATIVE. RETE ITALIANA PER IL DISARMO: SOSTENIAMO IL REFERENDUM BRASILIANO [Dal sito della Rete italiana per il disarmo (www.disarmo.org) riprendiamo il seguente testo] Alcune cose che si possono fare Sensibilizzare tutte le associazioni e le Ong che hanno progetti in Brasile, affinche' premano sui propri contatti nel pase sudamericano e portino avanti una forte campagna per il si'. - Scrivere una lettera di supporto e di plauso a questa iniziativa all'ambasciata brasiliana in Italia. - Diffondere dati riguardanti le armi in Brasile e cercare di inviare il materiale ufficiale della campagna a piu' cittadini brasiliani possibile. * Un riferimento utile Il sito ufficiale della campagna per il si': www.referendosim.com.br * Le tappe che hanno condotto al referendum - Primo passo: approvazione dello Statuto per il disarmo. E' la legge n. 10.826, del 22 dicembre 2003 (gia' col governo Lula) che e' entrata in vigore dopo la firma del Presidente e pubblicata il 23 dicembre 2003. Il decreto che la regola, n. 5.123 del primo luglio 2004, e' stato pubblicato il 2 luglio 2004, data in cui e' entrato in vigore. Questo decreto pone regole piu' ferree alla circolazione di armi, accessori e munizioni e ne aumenta fortemente il controllo sulla vendita e l'esportazione. - Secondo passo: il disarmo volontario, un precedente importante. Il 15 luglio 2004 e' stata lanciata una campagna per la consegna volontaria di armi da fuoco. Prevista all'inizio per soli sei mesi, ha avuto un successo tale (piu' di 400.000 armi sono gia' state consegnate) che si e' deciso di prorogarla fino al 23 ottobre 2005, data del referendum. In che cosa consiste la campagna del disarmo volontario: il cittadino che consegna la sua arma in posti prestabiliti (polizia federale, chiese, sindacati...) non deve spiegare nulla (se era roba rubata, o comprata, o illegale...) e riceve fino a 300 reali come compenso. - Terzo passo: il referendum. Il Decreto Legge che stabilisce il Referendum e la domanda e' stato approvato dalla Camera Federale il 6 luglio 2005. Chi vota: per i cittadini tra i 18 e 70 anni il voto e' obbligatorio. Tra i 16 e 18 anni e oltre i 70, il voto e' facoltativo. Il quesito del referendum: "Il commercio di armi da fuoco e munizioni deve essere proibito in Brasile?". Nell'urna elettronica il n. 01 e' per il no; Il n. 02 per il si'. La data del referendum: 23 ottobre 2005. Conseguenze: se vince il si' il commercio delle armi da fuoco e delle munizioni sara' proibito. Se vince il no, resteranno comunque in vigore tutte le restrizioni sul porto d'armi previste nello Statuto per il disarmo recentemente entrato in vigore. 3. 23 OTTOBRE. LUIGI PIRELLI: SI' [Ringraziamo Luigi Pirelli (per contatti: l.pirelli at acsys.it) per questo intervento. Luigi Pirelli e' impegnato nell'esperienza del gruppo di lavoro tematico sulla nonviolenza e i conflitti della Rete Lilliput, nell'esperienza delle Critical Mass (per la mobilita' ciclistica di contro alla violenta e onnidistruttiva mobilita' automobilistica), ed in molte iniziative di pace, per i diritti umani e per la difesa della biosfera] Puo' un referendum invertire una tendenza? puo' uno strumento legislativo, un si' o un no, ridefinire il contesto che genera il bisogno di armi? Lo strumento e' limitato, lo so, lo sappiamo. Lo strumento e' solo sinergico. Tra le centinaia di motivazioni riportate dai promotori e sostenitori del referendum brasiliano per il disarmo, alcune vanno nella direzione di una sinergia, quella di proporre investimenti alternativi nella sicurezza sociale e nella sperimentazione educativa. Vivessi in Brasile, nella San Paolo che solo un giorno ho attraversato con gli occhi, cercando di scorgere un mondo nascosto dai finestrini del mio taxi, affittata arma soft di distruzione di massa... beh se vivessi a San Paolo, non avrei dubbi, voterei si' e scenderei dall'auto per dar corpo e carne al referendum. 4. MEMORIA. ANNA BRAVO: LA SHOA' E I GIUSTI IN ITALIA [Ringraziamo Anna Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it) per averci messo a disposizione questo suo testo, la voce "Giusti d'Italia", pubblicata nel Dizionario dell'Olocausto, Einaudi, Torino 2004 ( edizione italiana curata da Alberto Cavaglion). Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003] Poco numerosi, relativamente ben integrati nel tessuto sociale e nelle istituzioni, concentrati nelle citta', gli ebrei italiani parlavano la stessa lingua dei loro connazionali e avevano abitudini cosi' simili da riuscire in pratica indistinguibili. Nonostante la tradizione dell'antigiudaismo cristiano e la propaganda del regime, non esisteva un diffuso antiebraismo radicale. L'occupazione tedesca, che dura venti mesi mentre nel resto dell'Europa si conta in anni, inizia quando i tedeschi sono manifestamente in difficolta' su tutti i fronti, e la popolazione ha sperimentato l'incapacita' del regime a garantire minime condizioni materiali, conosce i disastri militari dell'Italia, e' ostile alla guerra e potenzialmente solidale con le sue vittime: nell'Italia del '43-'45 chi protegge gli ebrei puo' sperare, se non nell'appoggio, in una certa benevolenza dei concittadini. Infine a Roma c'e' il Vaticano, sede del papato con la sua autorita' internazionale, e centro di una rete fitta di parrocchie e conventi con una lunga pratica di asilo ai bisognosi. Gli aspetti favorevoli all?opera dei soccorritori sono dunque molti. Eppure 8.000 ebrei/e italiani vengono deportati, a volte su delazione o per l'accanimeto di funzionari statali, piu' spesso perche' non trovano nessuno disposto a spendersi per loro. E' vero che il rischio e' grande, e che i nazisti considerano gli italiani una popolazione inferiore e traditrice contro cui infierire. Resta il fatto che ci si decide a dare aiuto solo quando e' evidente che per gli ebrei e' questione di vita o di morte, e che a agire e' una minoranza. Come in tutta Europa, si tratta di persone diverse fra loro, non riconducibili a un determinato tipo umano e sociale o a una fede religiosa o politica, e neppure alla difficilmente verificabile categoria della "personalita' altruista" o a una condizione di marginalita' sociale che favorirebbe autonomia di giudizio e scelte trasgressive. Sono differenti anche le modalita' di azione. C'e' chi si appoggia a forze partigiane, chi fa riferimento alle reti di resistenza civile che lavorano per mettere in salvo in Svizzera antifascisti e prigionieri alleati, chi e' in contatto con la Delasem, l'organizzazione ebraica di soccorso ai perseguitati; altri si servono dei rapporti fra parrocchie e fra conventi, altri ancora usano la loro posizione nelle catene ufficiali di comando, come quei capi militari e alti funzionari delle zone occupate dall'Italia - Croazia, sud della Francia, Grecia - che in varia misura e con varie motivazioni ostacolano gli arresti di ebrei del luogo. Alla base di moltissime iniziative ci sono networks di tipo familiare, amicale, di comunita', di vicinato, quasi sempre piccoli o piccolissimi, spesso costituiti di un individuo con una minima rete di aiutanti; a volte c'e' una sola persona. Per lo piu' si comincia offrendo occasionalmente cibo, contatti o ospitalita', per poi passare a un sostegno piu' continuativo e impegnativo, e si arriva all'illegalita' gradualmente e senza averlo programmato, ma in tempi rapidi e conoscendone i pericoli. * Di questa minoranza i Giusti italiani (325 al gennaio 2003) costituiscono uno spaccato, non un campione - in quegli anni, per esempio, l'aiuto offerto da una famiglia veniva accreditato al padrone di casa, anche se l'iniziativa era stata della moglie, figlia o sorella; il riconoscimento dipende da molte variabili, compreso il caso. Ma le vicende dei Giusti sono indicatori preziosi delle dinamiche sociali e delle vie attraverso cui si diventa salvatori. Nella situazione italiana, i network informali hanno un ruolo di spicco, e per buone ragioni. L'8 settembre 1943 il paese esce da vent'anni di un regime che ha frantumato l'opposizione e avviato la fascistizzazione delle strutture sociali. I partiti antifascisti mancano di radicamento, mezzi, a volte di consapevolezza. Diversamente che in altri paesi europei, le associazioni professionali, culturali o di altro tipo e i grandi nomi dell'intellettualita' non si attivano in alcun modo. I sentimenti civici, storicamente deboli, sono sbriciolati; la coesione sociale e' scarsa, le istituzioni statali svuotate. Al contrario, i legami personali, familiari e comunitari, tradizionalmente piu' solidi, reggono, ed ecco perche' riescono a realizzare le iniziative piu' efficaci (ma anche meno visibili alle categorie della politica). * Almeno in un caso e' documentato il coinvolgimento di un'intera comunita'. A Nonantola, un paese dell'Emilia-Romagna, nell'estate '42 sono accolti una novantina di ragazzi ebrei di vari paesi europei, che il presidente nazionale della Delasem Vittorio Valobra e' riuscito a trasferire dalla Jugoslavia. Sistemati a villa Sacerdoti alla periferia di Nonantola, i piccoli profughi vivono abbastanza tranquillamente e trovano amici fra gli abitanti. Rapporti preziosi, perche' dopo l'8 settembre 1943, quando i tedeschi occupano il paese, i ragazzi saranno nascosti, oltre che nei locali del Seminario e nell'asilo delle suore, presso famiglie del posto. Nel frattempo si prepara la loro fuga verso la Svizzera. I due Giusti di Nonantola, il dottor Giuseppe Morreali e don Arrigo Beccari, riescono a far preparare carte d'identita' false intestate al comune di Larino, in provincia di Campobasso, dove si spera sia impossibile fare controlli. Tutto avviene all'interno della comunita', e solo per facilitare il passaggio in Svizzera Beccari e Morreali cercano contatti con il neonato movimento partigiano del centro-nord. * Fra quanti decidono e operano da soli o quasi - il gruppo forse piu' eterogeneo - alcuni hanno una storia di impegno politico. Cosi' il medico piemontese Carlo Angela, che era stato tra i fondatori del partito Democrazia sociale nel 1921, e che per il suo antifascismo aveva scontato vessazioni e ostacoli nella carriera. Nel 1943, Angela dirige la clinica psichiatrica Villa Turina Amione di San Maurizio Canavese, un paese delle valli torinesi. Ha moglie e due figli appena adolescenti, e' di poca salute, e' lui stesso sotto sorveglianza; il paese e' stato piu' volte rastrellato, fascisti e tedeschi entrano a loro piacere nella clinica, fra i dipendenti non mancano i collaborazionisti. Eppure Angela accoglie a Villa Turina varie famiglie ebree, scrive falsi certificati medici, fronteggia le ispezioni e gli interrogatori dei fascisti, nel febbraio '44 e' preso in ostaggio e si salva fortunosamente. Nel caso di Renzo Segre e Nella Morelli, ospitati per 20 mesi facendo passare lui per malato, lei per sua assistente, arriva a presentarsi al temutissimo presidio fascista torinese per farsi garante della loro identita' fittizia. Sostenuto soltanto da un piccolissimo nucleo di dipendenti della clinica, il settantenne Angela opera con piu' efficacia delle forze della resistenza e del clero locale. * 34 anni, figlia di commercianti milanesi, corista alla Scala, Liuba Bandini non ha invece un curriculum politico e ha imparato a detestare i totalitarismi attraverso l'esperienza dell'ex marito Giorgio Scerbanenco, profugo dall'Ucraina. Anche lei agisce di propria iniziativa e sostanzialmente da sola, nascondendo nella sua casa milanese i coniugi Alberto e Marisa Campelung dal primo dicembre 1943 alla primavera 1945; l'unico sostegno le viene dalla sorella Ines, che abita nello stesso stabile e custodisce i bagagli della coppia. Il 14 marzo, avvertiti che i tedeschi sono sulle loro tracce, i Campelung devono fuggire, e Liuba viene pesantememente minacciata dalla polizia SS. Non solo tiene testa all'interrogatorio, lei donna sola e madre di un bimbo di 4 anni, ma per quanto sorvegliata riesce in seguito a far arrivare qualche aiuto ai suoi ex ospiti. * Per quanto riguarda l'opera di preti e religiosi/e, non esiste alcuna specifica direttiva del papa che la solleciti, e l'impegno nasce per altre vie. Alcuni si attivano su richiesta e in accordo con la Delasem, come don Francesco Repetto, giovane segretario del cardinale di Genova Pietro Boetto, cui poco dopo l'8 settembre Valobra aveva chiesto di distribuire sussidi agli ebrei della zona e agli stranieri rifugiati. Dato che molti sono presto costretti a nascondersi, Repetto si trova a procurare viveri, documenti falsi, asilo presso conventi e privati, guide per la fuga in Svizzera. Intanto lavora per mobilitare una quantita' di religiosi nella diocesi genovese e per sensibilizzare sacerdoti e vescovi dell'Italia settentrionale. Scoperto nel luglio '44, sara' sostituito da un altro futuro Giusto, don Carlo Salvi. Molti religiosi/e agiscono pero' indipendentemente dai canali delle Curie: in Piemonte, il domenicano padre Girotti, che sara' deportato nell'estate '44 e ucciso a Dachau, ospita nel suo monastero molti ebrei, pare senza chiedere e dire nulla ai superiori gerarchici. A Assisi, dove non ci sono rappresentanti della Delasem, e' invece la chiesa a prendere l'iniziativa. Nella cittadina era gia' in piedi un comitato per l'assistenza ai profughi promosso dal vescovo Nicolini e affidato a don Aldo Brunacci - un organismo perfettamente legale, che colmava il vuoto lasciato dalla crisi delle istituzioni e che si giovava delle tante strutture di accoglienza. Quando dopo l'8 settemebre cominciano ad arrivare ebrei italiani e profughi di altri paesi che non parlano la lingua e hanno bisogno di tutto, il comitato passa a operare segretamente. Don Brunacci persuade alcuni impiegati comunali a procurare documenti in bianco e un tipografo a creare timbri ufficiali di comuni delle zone occupate dagli alleati o distrutti dai bombardamenti. Nel frattempo si rivolge alle suore di Assisi e del circondario perche' ospitino nelle loro foresterie le persone senza mezzi, facendole passare per pellegrini stranieri. Partecipa al lavoro di assistenza anche padre Rufino Nicacci, superiore del convento di San Damiano, che fra l'altro sistema molti rifugiati presso il monastero delle Clarisse di San Quirico, assicurando loro viveri e conforto. Don Brunacci dira' in seguito che Nicolini gli aveva confidato di aver ricevuto una lettera del segretario di stato vaticano Maglione con l'invito a soccorrere antifascisti e ebrei, e che a ogni vescovo ne era stata mandata una simile. Ma di nessuna si e' mai trovata traccia. Probabilmente Brunacci aveva visto una lettera nelle mani del vescovo, che gli aveva lasciato credere che si trattasse della richiesta papale, e si era convinto che fosse cosi' perche' lo desiderava e lo trovava naturale; e forse a sua volta ne aveva fatto cenno ad altri preti, a suore e monaci per guadagnarne l'appoggio. Certo, come molti altri italiani/e, don Brunacci e padre Nicacci agiscono spinti dalla pietas cristiana; ma nessun sentimento affiorerebbe in assenza di quell'immedesimazione con i perseguitati che puo' nascere dall'incontro con la loro sofferenza e il loro bisogno di protezione, e che e' il tratto piu' diffuso fra i soccorritori, indipendentemente dalla loro religione e religiosita'. * Segue lo stesso impulso il padovano Giorgio Perlasca, il piu' noto e il piu' singolare fra i salvatori italiani. Fascista, volontario nellle guerre d'Etiopia e di Spagna, ma ostile alle leggi antiebraiche del '38 e all'alleanza con la Germania, di mestiere commerciante di carni, Perlasca si trova a Budapest nell'inverno '44, al momento in cui stanno precipitando deportazioni e massacri. Si offre di collaborare con l'ambasciata spagnola, che di concerto con quelle di altri paesi neutrali, ospita gruppi di ebrei in edifici extraterritoriali e li fornisce di lettere di protezione; alla partenza del titolare d'ambasciata decide di rimanere per continuare l'opera, spacciandosi per il nuovo incaricato d'affari spagnolo. Fatta eccezione per un microgruppo di aiutanti, Perlasca e' solo, con pochi mezzi, e il suo bluff lo rende vulnerabilissmo; eppure moltiplica le lettere di protezione, riempie le case, accorre per fronteggiare le aggressioni di SS e bande naziste, tratta con i capi della polizia e delle Croci frecciate alternando lusinghe, minacce, promesse di impunita', corruzione. Alla fine, circa 5.000 persone saranno salve, un risultato reso possibile dalle doti personali del protagonista, ma, imprevedibilmente, anche dal suo passato: al momento del congedo dalla guerra di Spagna, Perlasca ha infatti ricevuto dalle autorita' franchiste un documento che lo legittima a rivolgersi in caso di necessita' a qualsiasi sede diplomatica spagnola. Nell'Ungheria del 44, che dopo il rovesciamento italiano delle alleanze e' un paese nemico, ha bisogno di una nuova identita' come cittadino spagnolo per salvarsi e tornare in Italia, e la ottiene. Diventera' invece un paradossale esempio di Giusto, che salva gli ebrei nonostante sia (sia stato) fascista, e nello stesso tempo perche' e' (e' stato) un fascista e ha combattuto al fianco dei fascisti spagnoli. 5. RIFLESSIONE. MONICA LANFRANCO COLLOQUIA CON LIDIA MENAPACE SULLE DONNE E IL POTERE [Dal quotidiano "Liberazione" del 18 settembre 2005. Monica Lanfranco (per contatti: mochena at tn.village.it), giornalista professionista, nata a Genova il 19 marzo 1959, vive a Genova; collabora con le testate delle donne "DWpress" e "Il paese delle donne"; ha fondato il trimestrale "Marea"; dirige il semestrale di formazione e cultura "IT - Interpretazioni tendenziose"; dal 1988 al 1994 ha curato l'Agendaottomarzo, libro/agenda che veniva accluso in edicola con il quotidiano "l'Unita'"; collabora con il quotidiano "Liberazione", i mensili "Il Gambero Rosso" e "Cucina e Salute"; e'' socia fondatrice della societa' di formazione Chance. Nel 1988 ha scritto per l'editore PromoA Donne di sport; nel 1994 ha scritto per l'editore Solfanelli Parole per giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi, ristampato in due edizioni. Per Solfanelli cura una collana di autrici di fantasy e fantascienza. Ha curato dal 1990 al 1996 l'ufficio stampa per il network europeo di donne "Women in decision making". Nel 1995 ha curato il libro Valvarenna: nonne madri figlie: un matriarcato imperfetto nelle foto di fine secolo (Microarts). Nel 1996 ha scritto con Silvia Neonato, Lotte da orbi: 1970 una rivolta (Erga): si tratta del primo testo di storia sociale e politica scritto anche in braille e disponibile in floppy disk utilizzabile anche dai non vedenti e rintracciabile anche in Internet. Nel 1996 ha scritto Storie di nascita: il segreto della partoriente (La Clessidra). E' stato pubblicato recentemente il suo libro, scritto insieme a Maria G. Di Rienzo, Donne disarmanti, Intra Moenia, Napoli 2003. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati (politici, sindacali, scolastici) sulla storia del movimento delle donne e sulla comunicazione. Lidia Menapace (per contatti: lidiamenapace at aliceposta.it) e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. Il futurismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; L'ermetismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001; (con Fausto Bertinotti e Marco Revelli), Nonviolenza, Fazi, Roma 2004] "Nel femminismo (solo li'?) si va piu' d'accordo tra nonne e nipoti che tra madri e figlie. E' bello essere nonne. Spero lo sia anche essere le nostre nipoti". Cosi' rifletteva, in un fascicolo di "Marea" del 2002, Lidia Menapace sul rapporto tra generazioni di donne. Uno dei suoi talenti e' quello di dire in modo semplice cose complesse, e non e' poco. Con i suoi instancabili ottantadue anni e la sua piccola borsa a tracolla porta a spasso per questa Italia dolente socialmente e arida politicamente una delle menti piu' lucide e moderne. Con le sue parole terminiamo alla grande questo breve viaggio di suggestioni sul genere e il potere. - Monica Lanfranco: Cominciamo la conversazione con te, come quelle con tutte le interlocutrici che ti hanno preceduto, da Audre Lorde e dalla sua frase: "Non possiamo smantellare la casa del padrone con i suoi attrezzi". Sei d'accordo con lei? e cosa ti evoca questa affermazione? - Lidia Menapace: La frase di Audre Lorde mi dice: non e' vero che il fine influisce sui mezzi, fino a renderli giusti anche se non lo sono, ma piuttosto che i mezzi, se ingiusti o sbagliati, inquinano anche il migliore dei fini ("salvare" qualcuno contro la sua volonta': e' l'esempio che viene dalle religioni e documenta terribili e cruente iniziative di conversioni imposte, crociate, inquisizioni, scomuniche, fatwe eccetera). Una prova sta sotto i nostri occhi: persino chi credesse alla buona fede di chi dichiara di voler esportare la democrazia e i diritti (fini buoni) attraverso la guerra (strumento cattivissimo) non puo' non vedere i risultati nefasti. Persino chi legittimamente resiste all'occupazione diventa, se non trova mezzi e metodi diversi da quelli degli occupanti, non meno barbaro. * - Monica Lanfranco: Pur con alcune eccezioni sembra che anche le donne con le migliori intenzioni, una volta arrivate ai vertici del potere, si uniformino ad esso, diventando una fotocopia dell'agire maschile. Dove sta il problema: nella politica o nelle donne? - Lidia Menapace: Chi si muove nell'esistente non puo' far altro che copiarlo. Magari con un po' piu' di fascino estetico. Non si puo' modificare ne' la casa ne' i modi dei padroni, se li si ammira e li si considera modelli. Per questo il femminismo e' una cultura politica radicalmente altra e molto difficile da costruire e trasmettere. Come diceva Marx in ogni societa' sono dominanti le forme culturali della classe dominante. La famiglia operaia e' oppressiva quanto e piu' di quella borghese, che resta il suo modello; proletari e figli di proletari nella scuola accettano la cultura della classe che li sfrutta. Vale anche per le relazioni di genere: il genere dominante influisce sul genere oppresso. Non e' una colpa, e' un fatto provato. E da li' si parte per costruire ipotesi del tutto "altre" e procedure, linguaggi, simboli, pratiche differenti. * - Monica Lanfranco: Si puo' cambiare la politica, e il mondo, senza prendere il potere, come sostiene Halloway? - Lidia Menapace: A me - devo dirlo - sembra una espressione tipo quella della volpe e dell'uva: siccome non ce la faccio a raggiungerla, dico che non e' matura. L'espressione che mi disturba non e' la parola "potere", ma il verbo "prendere", che indica la solita sequenza di eventi: qualcuno ha il potere e chi non ne condivide ne' fini ne' metodi, cerca di "prenderglielo" incorrendo percio' in una sequenza di sentimenti e pratiche analoghi. A me rimane invece sempre lucida come una stella polare l'analisi che fece Alessandra Bocchetti in un memorabile convegno al Teatro Tenda a Roma, dal titolo "Le donne con le donne possono". Era: per il genere maschile il verbo potere (e l'uso sostantivato che ne consegue: "Il potere") e' un verbo assoluto, preferibilmente senza oggetto; per il genere femminile il verbo potere e' un verbo servile e indica vari ambiti relativi. Noi donne vogliamo poter votare, poter parlare, poter scrivere, poterci essere, poter agire efficacemente. Io resto a questa determinazione che mi e' sempre sembrata geniale e molto vera. Dunque voglio poter votare mie simili, scelte da me, poter parlare col mio simbolico, poter agire efficacemente, poter essere menzionata, chiedo il diritto di citazione e di memoria. * - Monica Lanfranco: Sei stata attiva nella politica istituzionale (o in gruppi di donne extra-istituzioni) a qualunque livello, puoi raccontare i punti di forza e quelli di debolezza della tua esperienza? - Lidia Menapace: Sono stata consigliera comunale a Bolzano e a Roma, consigliera regionale del Trentino-Alto Adige, assessora nella Giunta provinciale di Bolzano, consigliera regionale del Lazio. Molto avrei desiderato essere parlamentare, ma questo non e' mai stato possibile. Nelle mie varie esperienze sapevo di poter agire solo in modo "neutro", forzando continuamente al massimo in senso femminista contenuti e forme (il che si chiamava in generale atteggiamento "riformatore", ben distinto da quello riformista): fino a quando si e' l'unica donna o comunque una parte molto minoritaria e casuale di eletti non si puo' fare molto. Ricordo che durante il periodo del consiglio comunale di Roma mi tocc' rispondere alle obiezioni di chi non voleva che il Buon Pastore fosse assegnato al movimento femminista. Fu una discussione molto accesa nel corso della quale repubblicani e liberali (che facevano parte della maggioranza di centrosinistra in Campidoglio) dissero di non poter accettare che da una occupazione (l'edificio era occupato da 13 anni dal movimento femminista romano) discendesse la legittimazione e il riconoscimento del Comune. Mi tocco' tirar giu' i ricordi risorgimentali, dato che nemmeno la breccia di Porta Pia fu una cosa molto "legale", e se volevano avviare una nuova "questione romana" contro il femminismo, si sarebbero trovati a fare contro di noi cio' che i papi avevano fatto contro di loro. In consiglio regionale del Lazio ci fu una occasione trasversale che riun' le sei donne (su 60 consiglieri) di tutti i partiti, quando si seppe che in alcuni ospedali romani si praticavano mutilazioni genitali a donne musulmane, e dopo il parto le si ricuciva. Tra noi non vi furono differenze. Tali pratiche in Italia sono reati e tali restano. Alcuni colleghi maschi ostentarono atteggiamenti comprensivi e tolleranti dicendo "E' la loro cultura", ma furono zittiti. * - Monica Lanfranco: Quali possono essere gli alleati, e quali invece i peggiori ostacoli alla realizzazione di una diversa qualita' della politica per le donne? - Lidia Menapace: La piu' importante vicina di casa e' la coscienza di se', la cognizione fredda delle perduranti ingiustizie, discriminazioni, eccetera, e la convinzione che oggi cio' che il femminismo chiede e' utile in generale. Oggi in particolare il neopatriarcato e i vari fondamentalismi, e in genere il rilancio di culture tradizionali, sono il maggiore ostacolo che le donne incontrano. E' necessario mettere in piedi strumenti per la conoscenza, trasmissione, storia del movimento femminista nella varieta' e non riducibilita' delle sue forme. Tutto cio' che ci riguarda e' nelle nostre mani. * - Monica Lanfranco: Se ti trovassi al governo quali sarebbero cinque punti dei primi cento giorni? - Lidia Menapace: Ritirare immediatamente e senza condizioni le truppe italiane dall'Iraq come chiesi dalla tribuna del Social forum europeo a Parigi lo stesso 11 novembre della strage di Nassiriya. Chiedere come mai nessuno in parlamento si e' accorto che per finanziare la spedizione in Iraq sono stati usati i fondi lasciati allo stato da chi non versa l'otto per mille alle chiese, e che cosa si puo' fare contro tale evidente distrazione di fondi dal bilancio dello stato. Avere nelle primarie sempre due candidature, una di un uomo e una di una donna. Pretendere che venga radicalmente modificata la legge 40 sulle procreazione medicalmente assistita. Mutare la base dell'insegnamento della storia e i criteri sui quali si basa la memorabilita'. Fuori sacco: avviare un impeachment verso il presidente del Senato, che non puo' ricoprirequel ruolo istituzionale ed esprimersi in modo cosi' vergognosamente anticostituzionale. 6. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: LA RELAZIONE, IL CROCEVIA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 settembre 2005. Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista] C'e' un pensiero femminile del presente che eccede le categorie del politico con cui il presente viene pensato anche quando a sua volta palesemente le eccede. Il giro di parole e' contorto, ma meno di quanto sembri: e' in corso un mutamento che si caratterizza anche, e forse in primo luogo, perche' non e' tutto interpretabile sulla base della logica politica della modernita', ma che viene forzosamente piegato a questa logica, dalla quale alcune analisi femminili si sottraggono, in forza di un pensiero allenato a leggere la politica sulla base di categorie tradizionalmente considerate non politiche, o impolitiche. Voglio segnalare oggi due esempi di queste analisi: il testo di Luisa Muraro intitolato Al capolinea della modernita': relazione, relativismo, relativita', pubblicato sull'ultimo numero di "Via Dogana", e il dialogo su Condizione umana contro "natura" fra Adriana Cavarero e Judith Butler pubblicato sull'ultimo numero di "Micromega" (l'annuale almanacco di filosofia della rivista, questa volta dedicato alla "natura umana"). * Sono due testi diversi per linguaggio e intenzioni, ma entrambi si interrogano sullo scenario di guerra e violenza nel quale siamo immersi rifiutando di considerarlo, come scrive Muraro, "l'unico e fatale corso delle cose", e entrambi lavorano su un'uscita da questo scenario incentrata su una pratica della relazione contrapposta alla pratica dello scontro frontale. Che di questi tempi, com'e' noto, si rappresenta come scontro di civilta': "una ricerca d'identita' fondamentalmente reattiva - lo definisce Muraro -, sul piano inclinato di fare dell'altro lo specchio della propria superiorita'"; un confronto simmetrico radicato profondamente tanto nelle strutture bipolari dell'ordine simbolico quanto nella logica politica dell'amico-nemico. Che pero' non e' l'unica logica politica possibile, se si prende sul serio la scommessa della politica delle donne di lottare per "un cambiamento in meglio che dipende anche dall'altro, l'avversario", e che non si trincera nella fissita' degli schieramenti, "fonte di identita' troppo chiuse e troppo strette l'una all'altra, come mascelle serrate", ma la rompe. Si tratta, si badi, di una scommessa tutt'altro che soft: non a caso, nel testo di Muraro, accanto alla figura della relazione compare, mutuata da Irigaray, quella della croce e del crocevia a cui nel mondo globale ci inchioda quotidianamente il confronto con l'altro. Si' che la relazione non va messa tanto in sequenza con il relativismo, quanto con la relativita': "relativismo significa abbandonare la ricerca di qualcosa di universalmente vero e giusto, nessuna possibile risposta potendosi considerare superiore alle altre"; mentre la relativita' comporta "la ricerca di mediazioni per passare dall'uno all'altro punto di vista". Tradotto in politica, al relativismo corrisponde un pluralismo delle differenze che le lascia spesso intatte e incomunicanti, laddove la relativita' suggerisce "uno stare in relazione con l'altro che ci distacca dai nostri assoluti ma non ci trasforma nell'altro, genera la fine di una certa nostra fissita' e la possibilita' di altro". * Scommessa non soft, e nemmeno optional. Nel dialogo fra Cavarero e Butler (che si segnala, oltretutto, per un interessante duello fra le due filosofe sullo statuto della psicoanalisi e sul rapporto fra psicoanalisi, teoria del soggetto e decostruzione) la categoria e la pratica della relazione vengono riportate a un piano di necessita' ontologica, come gia' nei loro precedenti lavori (e segnatamente in Vite precarie, il libro di Butler sul dopo-11 settembre): la relazione e' la forma sociale che ci e' imposta dalla condizione di fragilita' e esposizione all'altro che accomuna tutti gli umani sotto ogni latitudine e ogni cultura, e dalla relazione primaria di dipendenza, quella con la madre, in cui tutti veniamo messi al mondo. Anche in questo caso, relazione non e' sinonimo di morbidezza: essere esposti all'altro significa anche essere esposti alla violenza dell'altro, o esporlo alla nostra violenza; e dunque non negare l'aggressivita' ma - psicoanaliticamente, secondo Butler - "riconciliarsi con la capacita' distruttiva che e' in ognuno di noi, dirigere la propria aggressivita' verso scopi costruttivi"; e quanto alla violenza politica, "cercare di comprendere la connessione fra le concezioni della sovranita' e le figure del se', fra le nozioni di nazionalismo e i modelli di mascolinita'", fra l'affermazione della "revanche" patriottica americana e il bisogno di negare o rimuovere i rapporti di interdipendenza in cui anche una grande potenza si trova nel mondo globale. Alla fine della modernita', ritroviamo infatti le nozioni di sovranita' e di individuo connesse come all'origine: pensare un'ontologia della relazione e della dipendenza, sottolinea giustamente Cavarero, implica la separazione definitiva dal mito dell'individuo liberale, sovrano e autonomo, che si ripresenta ossessivamente nelle "patologie egocentriche" della soggettivita' contemporanea, tanto tronfia della propria capacita' autopoietica quanto ossessionata dall'angoscia di doversi contaminare e di potersi perdere nell'altro. 7. RIFLESSIONE. KHALED FOUAD ALLAM: ISLAM E LAICITA' [Dal quotidiano "Liberazione" del 15 settembre 2005 riprendiamo l'anticipazione del testo di Khaled Fouad Allam pubblicato nel volume di AA. VV. (a cura di Geminello Preterossi), Le ragioni dei laici, Laterza, Roma-Bari 2005, con saggi, oltre a quello di Khaled Fouad Allam, di Geminello Preterossi, Remo Bodei, Carlo Galli, Francesco Remotti, Vincenzo Ferrone, Francesco Margiotta Broglio, Tullio De Mauro, Claudio Magris, Pietro Scoppola, Andrea Riccardi, Anna Foa, Ida Dominijanni, Umberto Veronesi. Khaled Fouad Allam, nato a Tlemcen in Algeria, residente in Italia dal 1982, dopo aver vissuto in Marocco, Algeria e Francia, cittadino italiano dal 1990, e' docente di Sociologia del mondo musulmano e di Storia e istituzioni dei paesi islamici all'universita' di Trieste e di Islamistica all'universita' di Urbino. Si occupo da anni di Islam contemporaneo, tema su cui ha pubblicato vari saggi. E' stato esperto presso il Consiglio d'Europa sull'immigrazione e le nuove cittadinanze] La questione dei rapporti fra islam e laicita' permea la storia del mondo musulmano nel XX secolo, da quando sulle rovine dell'impero ottomano, dissoltosi definitivamente nel 1924, si costruirono i futuri Stati-nazione del mondo musulmano. Mentre nel califfato l'articolazione fra religione, politica e societa' era garantita dalla figura e dall'autorita' califfale, nello Stato-nazione quell'articolazione si trova spezzata e il potere politico tende al controllo del potere religioso degli ulema. Scomparendo quell'autorita' centrale, che da secoli rappresentava il fattore di coesione fra islam e societa', i moderni Stati inventarono gia' nella prima meta' del secolo scorso un ministero degli affari religiosi: habus nei paesi del Maghreb, waqf nel Medio Oriente, dianet in Turchia. Questa nuova subordinazione della dimensione religiosa al potere politico, se ha comportato una razionalizzazione dei poteri, non e' pero' risultata da un mutamento nello strutturarsi delle societa' musulmane. Possiamo dunque parlare di una laicita' acquisita dall'esterno, che non e' stata accompagnata da un vasto movimento di secolarizzazione. I motivi di questa frattura fra laicita' e secolarizzazione si radicano nella storia stessa dell'islam; e' necessario allora evidenziare quali fenomeni si radicano sin dall'inizio nell'islam e quali invece sono legati ai suoi cambiamenti recenti. Vanno sottolineati in particolare alcuni aspetti della questione. Nel mondo islamico la configurazione politica e' piu' il risultato di circostanze storiche che di una logica intrinseca alla religione rivelata. Tutti gli autori sono d'accordo nell'affermare che, in materia di organizzazione del sistema politico, il corpus dei testi fondatori dell'islam - il Corano e la Sunna - e' nell'insieme indicativo e non fornisce prescrizioni precise, e che la maggior parte delle costruzioni politiche nel mondo islamico ha lo scopo di legittimare un potere politico gia' istituito. Le strutture politiche tendono quindi a conformarsi a logiche di gruppo o a risolvere i conflitti in corso attraverso la ricerca e la legittimazione di un'autorita': questo e', a tutt'oggi, il grande problema dell'islam contemporaneo. Questa apparente fluidita' fra religione e politica si sviluppa sin dall'inizio, nel califfato degli Omayyadi (661-750), traducendosi su grande scala con la statalizzazione dell'islam: il califfo diviene detentore del potere spirituale e del potere temporale. Storicamente la dinastia Omayyade, che pone la sua capitale a Damasco, fa prevalere il potere temporale su quello spirituale, privilegiando un gruppo etnico, quello degli arabi. Tale asimmetria fra temporale e spirituale e' all'origine della cacciata e del rovesciamento di questa dinastia; in opposizione ad essa, si impone un nuovo califfato, quello della dinastia Abbasside (750-1258), che sposta la capitale a Baghdad e rafforza l'aspetto spirituale rispetto a quello temporale, per cui il califfo si arroga prerogative come quella dell'infallibilita'; e' in quell'epoca che il califfo assume il titolo di comandante dei credenti. Questo accento fortemente simbolico sulla funzione califfale va a scapito della gestione politica dell'impero, e provoca la crisi del califfato abbasside: l'impero si frammenta in una serie di sultanati locali, che piu' tardi si contenderanno il potere califfale, preparando l'avvento dei Selgiuchidi e piu' tardi dell'impero ottomano. Questo breve excursus sulle formazioni politiche nell'islam serve a mostrare l'ambiguita' che ha connotato i rapporti fra islam e politica. Si puo' affermare che storicamente, nell'islam, i rapporti fra politica e religione sono stati caratterizzati da un certo pragmatismo; quindi alla base della riflessione su islam e laicita', rimane di fondamentale importanza la questione antropologica. * L'aspetto antropologico L'estendersi territoriale e culturale dell'islam corrisponde all'inclusione nel mondo musulmano di popoli e culture estremamente eterogenei tra loro. La diffusione della dominazione musulmana ha implicato per quei popoli anche un diverso modo di strutturarsi e spesso la costruzione di un'identita' universalizzante, che trascendeva le identita' di gruppo locali. Nell'adesione all'islam, le culture locali si sono trovate a possedere due identita' tra loro complementari, fatto che sociologicamente si e' tradotto nella presenza di una duplice identita' collettiva. Cio' non rappresentava un fattore di conflittualita', perche' la cultura locale fungeva da vettore portante della cultura, universalizzante, islamica. La crisi dei rapporti fra cultura antropologica e religione intervenuta nel Novecento pone il problema dei rapporti fra islam e laicita'. Nel secolo scorso si e' assistito al progressivo affievolirsi delle culture locali di fronte ai processi di modernizzazione, che hanno scardinato quelli che erano i ritmi ancestrali del mondo musulmano: lo Stato si e' fatto promotore di una nuova societa', accanto alla societa' agricola e' iniziata un'attivita' industriale, e le culture urbane hanno spezzato il legame tradizionale fra islam e identita' locale. Tale crisi, che ha investito il mondo musulmano durante tutto il XX secolo e non e' a tutt'oggi risolta, ha portato l'islam a riformularsi secondo nuovi modelli culturali che spesso risultano deboli e non riescono a definire un adeguato quadro di interazione tra religione e societa', e tra religione e politica. L'esempio piu' eclatante di questa crisi e' la situazione delle donne, e in particolare la questione del velo. Nella societa' tradizionale la questione del velo semplicemente non si pone perche' la donna esce solo raramente dallo spazio domestico; ma in seguito ai processi di acculturazione delle societa' musulmane nel XX secolo le donne iniziano a frequentare la scuola, a lavorare a contatto con uomini, a confrontarsi direttamente con lo spazio pubblico: una parte del clero reagisce allora attraverso un'interpretazione massimalista dell'uso del velo. Questo caso mostra come nell'islam contemporaneo i richiami all'ortodossia si intreccino profondamente con i processi di modernizzazione e di acculturazione delle societa' musulmane. * La crisi dello Stato laico Nell'islam contemporaneo e' assente una dinamica in grado di costruire uno spazio laico entro una cultura secolarizzata; nelle odierne societa' musulmane, il processo di secolarizzazione rafforza paradossalmente la specificita' del religioso e mette in crisi la neutralita' dello Stato. Il processo di secolarizzazione avvenuto nelle societa' occidentali risulta da un compromesso fra Stato e religione, fondato non solo sul fatto che i diversi attori si sono accordati sulla condivisione di uno stesso spazio politico, ma anche sul fatto che i credenti hanno interiorizzato una definizione di religione fornita dalla cultura laica. Cio' significa che le religioni sono divenute socio-culturalmente laiche, in modo che la fede e le pratiche religiose sono considerate come fatti privati e non piu' pubblici. Oggi nelle nuove forme della religiosita', tra cui quelle dell'islam, i credenti accettano la laicita', ma chiedono un riconoscimento pubblico alla loro appartenenza identitaria, mettendo in evidenza la relazione tra religione e spazio pubblico, e chiedendo di riformulare il ruolo dello Stato di fronte alle nuove domande. E' proprio un'asimmetria quella che si sta creando fra politica e religione; ma, come notano alcuni studiosi, non si tratta della richiesta di ricostruire il rapporto tra religione e politica, bensi' di riformulare il rapporto fra religione e societa'. Per esempio, il neo-fondamentalismo (non il radicalismo) islamico e' molto piu' interessato alla questione dei musulmani nella societa' che a quella dei loro rapporti con il potere politico. Cio' che si sta delineando e' la fine di un laicismo improntato alla cultura della rivoluzione francese, per spostarsi a un approccio piu' vicino a quello di un Tocqueville, vale a dire una visione piu' vicina ai modelli anglosassoni dei rapporti fra religione e societa', in cui le identita' religiose sono soggette a un processo di diluizione nella complessita' sociale. Questo approccio mette in crisi lo Stato, che si trova costretto a scegliere, in moltissimi campi, se varcare o no confini delicatissimi: ad esempio nella bioetica, nelle questioni della cittadinanza ecc. Torna alla mente un'osservazione di Andre' Malraux: egli scrisse nelle sue Antimemoires che il XXI secolo sara' religioso o non sara'. 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1061 del 22 settembre 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
- Prev by Date: La nonviolenza e' in cammino. 1060
- Next by Date: La nonviolenza e' in cammino. 1061
- Previous by thread: La nonviolenza e' in cammino. 1060
- Next by thread: La nonviolenza e' in cammino. 1061
- Indice: