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La nonviolenza e' in cammino. 911
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 911
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 26 Apr 2005 00:09:10 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 911 del 26 aprile 2005 Sommario di questo numero: 1. Giulio Vittorangeli: La parola, cosa preziosa 2. Eleonora Cirant: Il desiderio, il potere, il dovere di dare la vita 3. Anna Maria Crispino: Con ragione e sentimento 4. La "Carta" del Movimento Nonviolento 5. Per saperne di piu' 1. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: LA PAROLA, COSA PREZIOSA [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta' concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre 1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara, la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo, Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996; Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria, una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno, luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio 2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che solidarieta'"] L'origine della letteratura europea e' l'epica. Viene da epos: "parola". All'origine c'e' la Parola, il Verbo. E' il verbo incarnato, per il Vangelo o per il Faust, la base della nostra cultura. Al libro cosi' fragile si affida la cosa piu' duratura, e piu' preziosa, che l'uomo abbia inventato: la parola. E che cosa sta succedendo? Succede che le parole non sono piu' pietre, come dicevano gli antichi popoli italici; semplicemente non contano piu' niente perche' svuotate del loro significato primario. Ci sono una serie di parole e di frasi fatte, rubate al passato, la cui diffusione va adesso categoricamente rifiutata. La parola giustizia per commettere le ingiustizie; ricchezza per allungare la fila dei poveri; salute per lasciare i meno abbienti morire di raffreddore; pace per creare e fomentare guerre. Ancora piu' significativo il caso della parola liberta', ormai completamente sovvertita. Una retorica ben organizzata ha trasformato il linguaggio in una montatura permanente, un arazzo di bugie che ci presenta le societa' capitaliste come "libere", e nel nome della liberta' giustifica atti barbari e vergognosi. L'ultima forzatura a cui sottoponiamo il nostro vocabolario per poter fare la guerra chiamandola pace e' l'Iraq: tutti sono terroristi, perche' guerriglia e' una parola di nobili origini ottocentesche e catalane inventata contro Napoleone... e noi combattiamo il "Male". Qualcosa di difficilmente reversibile e' avvenuto nel livello culturale e nel senso comune del nostro paese. Ha prodotto una sorta di anestesia e di perdita di senso delle parole. Termini come liberta', terrorismo, sicurezza, democratico, fanatico, ecc. sono stati ridotti a stracci per camuffare la nuova crudelta' imperante. Cosi' che i leader politici dicono un giorno una cosa e il giorno dopo il contrario e pretendono di essere coerenti. I giullari di regime ci ossessionano ogni giorno con parole che non sono parole, ma strumenti contundenti. I "martiri" di tutte le fedi si ammazzano e ammazzano chi capita senza pronunciare piu' una parola, e le uniche parole che sanno sillabare sono oscene frasi in cui si cita il nome di dio invano, che lo si chiami Allah, Quetzalcoatl o Gesu'. Il mondo e' impazzito ed e' impazzito perche' all'improvviso ha deciso che non sa piu' che farsene delle parole: non del Logos, la parola razionale; proprio dell'Epos, la parola suggestiva, quella che esprime i sentimenti, gli affetti, il destino dell'uomo. Ci sveglieremo in tempo per capire che e' stato solo un incubo, il terribile incubo che viene dopo l'ubriachezza? In ogni caso, tanti di noi vivono immersi in questo incubo sono pieni di orrore, ma con la consapevolezza che oggi servirsi del vocabolario tradizionale, utilizzato dai potenti e dai media, non fa che aumentare l'oscurita' e la desolazione in cui siamo immersi. Ricorderete il significativo colloquio di Alice e il coniglio (in Alice nel paese delle meraviglie, di Lewis Carrol): "Quando uso una parola essa significa esattamente cio' che io voglio significhi... ne' piu' ne' meno". Alice ribatte: "Il problema e' sapere se lei puo' far dire alle parole cose differenti". Il coniglio sentenzia: "Il problema e' sapere chi comanda... Solo questo". Questo breve dialogo parla del potere delle parole e delle parole del potere; delle concezioni del mondo, dei progetti politici, della materialita' della vita sociale. Per questo, e' sul terreno del linguaggio, sulla condivisione di un senso non reversibile da restituire alle parole, che si deve agire con attenzione. E' tempo di ripristinare la devastata lingua italiana, sottrarre le parole rubate, per ricollocarle nel loro contesto, raccontandoci la materialita', la quotidianita'. Restaurare gli sfregi fatti, perche' le parole sono cose, muovono il mondo, passano attraverso la carne, sono incarnate, passano attraverso ciascuno/a di noi, ci appartengono, le portiamo nei luoghi che abitiamo, anche con costi personali, di cui diamo conto. E' tempo per la solidarieta' internazionale di crescere e custodire le parole del futuro; cercando ostinatamente parole che siano come un balsamo sulla ferita dell'indifferenza e dell'ingiustizia; che siano capaci di ridare alla politica la ricchezza della cultura e della democrazia reale e partecipativa. 2. RIFLESSIONE. ELEONORA CIRANT: IL DESIDERIO, IL POTERE, IL DOVERE DI DARE LA VITA [Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questo testo tratto dal libro collettivo: AA. VV., Un'appropriazione indebita. L'uso del corpo della donna nella nuova legge sulla procreazione medicalmente assistita, Baldini Castoldi Dalai Editori, Milano 2004. Eleonora Cirant e' impegnata nella Libera universita' delle donne di Milano, nell'Unione femminile nazionale, ed in altre rilevanti esperienze dei movimenti femministi di cui e' anche acuta studiosa] Conflitto, desiderio, controllo, potere, responsabilita', limite: l'approvazione di una legge che, per la prima volta in Italia, detta le regole sulla tecnologia applicata ai processi del generare la vita, ha fatto emergere molte contraddizioni che ci riguardano. La legge 40/2004 ha caratteristiche tali che opporsi e' una via obbligata, come altri interventi di questo libro mettono bene in evidenza. Eppure, contrapporsi senza vedere e nominare l'ambivalenza su cui poggia tutta la vicenda significa lasciare ad altri il potere di dire e di decidere il cosa, il come e il perche' di una partita che si gioca sui nostri corpi e sulla nostra identita'. Si tratta di camminare ad occhi aperti sul crinale tra desideri e bisogni indotti, intrecciando lotta politica e coscienza, cercando di tenere in mano tutti i fili di un groviglio che pare inestricabile. La scommessa si gioca nel riconoscere le ambivalenze e tentare di dare loro un senso e una composizione che siano praticabili nelle scelte concrete: quel che nessuna legge puo' imporre passa dalla cruna dell'ago che e' la responsabilita' individuale. Sto cercando, con questo testo, di articolare un punto di vista incarnato e non astratto su un argomento fitto di temi che incrociano la dimensione soggettiva e collettiva, interiorita' e regole che determinano l'agire sociale. Non pretendo di parlare a nome di, ne' di proporre facili soluzioni proprio perche' la promessa di una facile soluzione e' cio' che voglio mettere in discussione. Porto qui alcuni spunti di riflessione raccolti in una ricerca personale e nel corso di momenti di dibattito e di azione insieme ad altre donne: il soggetto delle frasi e' in movimento, dall'io al noi, perche' rispecchia il con-testo corale entro cui questi spunti hanno preso vita. Mi riferisco, pur nell'assenza di un movimento di massa nel quale sia visibile e riconoscibile un soggetto politico determinato, ad un tessuto di idee e di azioni che prendono vita in gruppi piu' o meno grandi e piu' o meno stabili, con azioni piu' o meno efficaci, spesso sotterranee ma vive nella fluidita' delle relazioni: forme di resistenza, di confronto e di azione politica che si manifestano in pratiche poco visibili nei mezzi di comunicazione di massa. * Partecipo al gruppo Sconvegno e al gruppo Pro-creativo. Nel primo siamo sei donne intorno ai trent'anni, abbiamo iniziato ad incontrarci nel 2002 per organizzare un momento di confronto fra i molti femminismi di oggi; da allora ci siamo concentrate sulla nostra condizione di donne al lavoro e sulla precarieta' che investe tutti gli aspetti della nostra vita. Nel secondo siamo donne fra i trenta e i sessant'anni, abbiamo iniziato ad incontrarci nel periodo successivo all'approvazione della legge con l'obiettivo di indagare le molteplici dimensioni della questione. Il presupposto da cui siamo partite e' la consapevolezza che nell'opporci in tutte le fasi della discussione della legge non avevamo raggiunto l'obiettivo di dare visibilita' pubblica al problema, lasciando allo stesso tempo in secondo piano gli aspetti piu' contrastanti di cio' su cui la legge interviene. In questi anni la tecnologia ha corso molto veloce, in assenza di regole, trainata dalla locomotiva del profitto economico e dalla domanda ad esso associata. Molto piu' veloce di quanto abbia fatto il dibattito pubblico: siamo gia' parecchio in ritardo in una necessaria presa di coscienza e di responsabilita' sia come esseri umani, perche' le biotecnologie sono ormai una realta' che muove interessi giganteschi, sia come esseri umani di sesso femminile, perche' in questa partita il nostro corpo e' snodo simbolico, terreno di conflitto tra desiderio e controllo. Con questa legge l'Italia copre un vuoto legislativo non solo in ritardo, ma anche in conflitto con i corpi e le scelte delle donne e - va detto, andrebbe detto da loro stessi - degli uomini. Questo e' evidente gia' dal primo articolo, che, stabilendo la parita' di tutti i soggetti compreso il concepito, mette in discussione il diritto che il soggetto donna ha di decidere secondo la propria coscienza cosa fare rispetto al "soggetto" embrione. Questa legge ci riguarda anche in modo meno evidente, e forse piu' difficile da affrontare, perche' interroga noi donne proprio in cio' che per secoli e a tutte le latitudini ha condizionato il nostro ruolo sociale e la nostra identita': il desiderio, il potere, il dovere di dare la vita. * Il legislatore, non a caso culturalmente e/o fisicamente maschio eterosessuale cattolico, nel determinare i criteri di accesso alla fecondazione assistita delegittima le famiglie in cui una delle due parti della coppia non e' fertile, quelle non unite da un vincolo matrimoniale, quelle formate da individui dello stesso sesso, quelle portatrici di malattie genetiche o hiv: in Italia queste persone esistono e sono una parte consistente di cittadine e cittadini privati cosi' del diritto di essere rappresentati. Noi siamo contro questa legge, perche' cerchiamo di costruire le nostre relazioni familiari in modo diverso da quelle che sono state per le donne e per gli uomini fino ad un passato molto recente; sto parlando della famiglia intesa come "cellula della societa'", luogo della divisione sociale del lavoro tra produttivo e riproduttivo, gratuito e salariato, della divisione del potere tra uomini e donne che ha assegnato alle seconde la posizione piu' scomoda. Questa legge fa appello ad un modello di famiglia proprio nel momento in cui esso e' in crisi, e lo fa con l'arroganza di chi impone con la forza un argomento cui non potrebbe convincere con la ragionevolezza. Appartengo ad una generazione infarcita della retorica per la quale viviamo in una societa' in cui ogni questione che riguarda il rapporto tra i sessi e' risolta. Eppure a molte di noi e' accaduto di vivere eventi che hanno svelato l'inganno della neutralita', facendoci prendere coscienza del fatto che le diversita' sessuali costituiscono ancora il terreno su cui si instaurano i rapporti di potere, anziche' ali per la liberazione di ogni individuo. Non vogliamo fare la parte delle donne povere vittime, ma osservare che la realta' e' declinata in modi differenti a seconda che si nasca maschi o femmine. Non siamo piu', ma non siamo ancora: essere donna e' per noi una ricerca quotidiana e pensiamo che anche gli uomini abbiano un percorso da fare su se stessi, per comprendere come modificare il modo in cui e' determinata socialmente la mascolinita'. Ci e' capitato di osservare che quando al lavoro un uomo dichiara di stare per diventare padre, acquisisce un'aura di responsabilita' e garanzia di produttivita': puo' accadere che gli venga concessa una promozione o un aumento; ma se e' una donna a dichiarare di star per diventare madre, un alone di diffidenza si espande intorno alla sua persona: si sa gia' che avra' tempi condizionati, energie non piu' pienamente disponibili, ogni giorno altri problemi; sara' tagliata fuori, e questo e' evidente e marcato quanto piu' la competitivita' caratterizza l'ambiente. La scelta del part time per conciliare famiglia e lavoro produttivo e' ancora una via praticata molto dalle donne e poco dagli uomini, a conferma del fatto che sul terreno della divisione sessuale del lavoro non si manifestano cambiamenti significativi. Non sta scritto da nessuna parte che il part time equivalga quasi automaticamente al blocco del proprio percorso lavorativo in termini di qualifica e potere decisionale. Eppure nelle aziende accade proprio cosi'. Tutto cio' e' in relazione con il fatto che il legislatore oggi ci dice quale famiglia va bene e quale no, abusando del proprio potere di regolare la vita sociale attraverso le leggi, e invadendo un campo che, in uno Stato laico, dovrebbe appartenere alla sfera della responsabilita' e della scelta individuale. * Qui incontriamo un altro elemento del groviglio, la responsabilita' individuale: seguiamolo prima di perderne le tracce, allacciando questo capo del filo a quello della tecnologia applicata alla nascita. In termini assoluti, svincolate dal contesto, le tecniche di fecondazione assistita avrebbero un grande potenziale di trasformazione sulle relazioni che si accompagnano ai processi riproduttivi, dunque sulla famiglia e sulle relazioni tra donne e uomini. Ma quanto il contesto sia determinante e' dimostrato da cio' che sta accadendo negli Stati Uniti, paese nel quale le prime banche del seme ad uso commerciale sono attive dal 1972 e oggi muovono un mercato di milioni di dollari. Qui si riscontra un rafforzamento della struttura sociale nelle sue articolazioni di gerarchia e disuguaglianza. Perche' accade che le strategie di marketing, adottate con successo dalle banche del seme, stabiliscono l'equivalenza tra caratteristiche del donatore e sviluppo della persona nata col contributo del suo seme. Tali strategie di vendita, nel proporre un modello di caratteristiche desiderabili, sottolineano proprio quei caratteri che individuano nell'immaginario il tipo dominante, rafforzando i modelli di comportamento e di relazione che in astratto la fecondazione in vitro potrebbe contribuire ad indebolire. Le consumatrici sappiano che per avere un figlio sano e di successo devono scegliere il seme di un uomo aitante, sportivo, con una buona carriera, meglio se bianco e occidentale. L'architrave di questa impalcatura, fondamentalmente razzista, sta nell'idea sempre piu' diffusa che non sia il contesto sociale a determinare l'individuo, ma il suo patrimonio genetico, rispetto al quale il seme maschile risulta determinante. Tutto "come da programma", verrebbe da dire. * Per rimanere in tema di immaginario patriarcale intorno allo sperma e alla sua azione determinante nel processo procreativo, e' interessante osservare il modo in cui e' descritto l'atto fecondativo: gli spermatozoi dell'uomo si lanciano in una corsa furiosa dove il piu' forte vince annaspando e arrivando finalmente all'agognata meta, l'ovulo della donna, che intanto se ne sta in attesa al caldino, passivo e tranquillo. La realta' e' diversa da come ce la raccontano: "la maggior parte delle volte e' la cellula uovo a viaggiare per incontrarsi con lo spermatozoo che ha vagato per quasi tre giorni la' intorno aspettando che lei arrivasse". Le due rappresentazioni, quella della fecondazione naturale e quella della fecondazione artificiale, collimano nell'assegnare al seme maschile un ruolo attivo e determinante, all'ovulo femminile un ruolo ricettivo e determinato. Questo per dire che una tecnologia non e' in se' portatrice di alcuna trasformazione, se nel contesto in cui e' adottata non ci sono le condizioni. L'argomento e' tanto piu' consistente quanto piu' la tecnologia aumenta il potere dell'azione umana di modificare l'ambiente, compreso l'organismo umano stesso. Nella storia dell'umanita', ogni invenzione tecnologica ha comportato una ridefinizione del rapporto dinamico tra specie e ambiente, determinando ogni volta il significato di "natura". Lo sviluppo stesso delle specie viventi e' il risultato dell'interazione tra patrimonio genetico e condizioni ambientali. L'indirizzo della ricerca biotecnologica dalle sue origini e' stato di focalizzarsi sul primo dei due elementi piu' che sulla relazione (esattamente come accade nel marketing della nascita) tra i geni e l'ambiente, nell'illusione di controllare il processo della vita tramite la manipolazione del patrimonio genetico. Lo strumento per la tutela del patrimonio genetico non e' la personificazione dell'embrione, attuata in modi diversi e con fini opposti dal mercato intorno alle banche del seme e dalla Chiesa. Noi non siamo certo d'accordo con il Movimento per la vita, che organizza surreali funerali di embrioni equiparando l'esistenza di una persona a quella di un composto di cellule date dall'incontro (voluto o non voluto) tra ovocita e spermatozoo. Noi proponiamo invece di mettere in discussione la presunzione della biotecnologia di controllare il tutto attraverso l'azione sulle sue parti, intervenendo alla rinfusa in processi complessi e delicati. Crediamo sia di pari passo necessario assumerci la responsabilita' del fatto che, cosi' facendo, gli scienziati permettono di placare l'ansia vissuta dalle persone per la mancanza di controllo su aspetti dell'esistenza che fino ad ora erano affidati al caso, alla natura appunto. Noi contrastiamo questa legge perche' pretende di tutelare l'embrione invadendo territori da cui dovrebbe tenersi fuori. Affermiamo che di pari passo abbiamo consapevolezza dei fantasmi di onnipotenza sollecitati dalle promesse della biotecnologia e denunciamo i fenomeni che si innestano sulla confusione tra genetica ed eugenetica. A partire da questa consapevolezza chiediamo il controllo sulla ricerca scientifica, la trasparenza nell'uso dei geni e sugli interessi commerciali che di esso si nutrono: pensiamo che in questo campo lo strumento legislativo sia opportuno e necessario. * E' ancora interessante notare le vicende degli Stati Uniti, dove una legge in materia di fecondazione assistita e' stata a lungo bloccata proprio dagli attivisti antiabortisti, che vedevano nella distruzione degli embrioni non utilizzati entro il ciclo di fecondazione uno sterminio anche peggiore di quello che secondo loro verrebbe praticato con gli aborti. Sono dovuti passare vent'anni perche' fosse varata, nel 1996, la prima legge sulla fecondazione artificiale. Nel frattempo la ricerca e' andata comunque avanti, veicolata da un mercato rigoglioso per domanda e per offerta. Le persone che hanno adottato il metodo della fecondazione artificiale, sono state di fatto le cavie di un esperimento condotto su grande scala senza monitoraggio. I criteri della ricerca scientifica, secondo cui i risultati degli esperimenti devono essere condivisi e messi all'esame delle conoscenze in possesso della comunita' scientifica nelle sue diverse componenti, non sono stati applicati. Al mancato controllo della societa' civile nelle sue diverse parti, si e' aggiunto un uso della tecnologia regolato piu' dalle leggi economiche che dalle regole di una ricerca scientifica rigorosa. Sul controllo del processo tecnologico poggia dunque un grande potere. Anche in questo caso, la realta' non e' neutra ma si declina in modi differenti a seconda del sesso, complicando la faccenda del controllo che non abbiamo rispetto al processo tecnologico. Proprio perche' di potere si tratta, siamo certe che "chiedere" non sara' sufficiente, come e' successo tante altre volte nella storia. Per prenderlo nelle nostre mani sara' necessario esplicitare un conflitto, ma questo avra' un senso solo se contemporaneamente ci poniamo il problema di come trasformare questo potere sulla base di principi etici. La stragrande maggioranza delle persone ignora che fino al 1993 i test sui farmaci sono stati effettuati solo su maschi (occidentali), risultando troppo costoso considerare negli esperimenti la complessita' dell'organismo femminile esposto alle fluttuazioni continue dell'equilibrio ormonale e a rischio di gravidanza. Ancora oggi la percentuale di donne arruolate negli studi clinici e' molto bassa, e si riduce a zero nelle fasi della ricerca in cui si cercano i dosaggi dei farmaci, con il risultato che noi donne assumiamo dosi e tipi di farmaci che non corrispondono alle nostre reali esigenze, rischiando di intossicarci. * Quando abbiamo potuto studiare la storia dei fatti e delle idee della "civilta'" occidentale con uno sguardo non neutro ma attento alle differenze, abbiamo imparato come le donne che in questa civilta' hanno vissuto e generato siano state oggetto di cio' che e' stato fatto, detto, immaginato, realizzato sui loro corpi, piu' di quanto abbiano mai potuto o voluto essere soggetto. La trama di questa storia e' il luogo delle nostre radici, la sua ricostruzione e osservazione contribuisce ad una consapevolezza che ci porta a protestare per come oggi e ancora il corpo femminile e' il luogo in cui si esprime un potere rispetto a cui non abbiamo autonomia. Protestiamo, ma ancora una volta vediamo che non c'e' un nemico univoco e determinato contro cui scagliarci. Osserviamo che la sollecitazione al consumo su scala multimediale oggi si esercita soprattutto sulla seduzione e sull'erotismo veicolati da un corpo desiderabile ad ogni costo, i cui caratteri sono resi omogenei e determinati da un immaginario che non ci piace. In questo le donne sono sempre piu' in compagnia degli uomini, che stanno guadagnando terreno nella rincorsa ai canoni necessari alla vendita della propria "forza di seduzione". La norma rispetto all'immagine che si deve dare di se' e' ferrea anche se si manifesta come possibilita' di scelta (una merce diversa per ogni target). E' luogo di controllo il corpo di "chi ha preferito diventare egli stesso una merce, piuttosto che subirne semplicemente la tirannia", fondendo in un unico movimento il consumo di prodotti per il corpo e consumo del proprio corpo come prodotto da vendere sul mercato. Nel gioco della seduzione avremmo infinite possibilita' di espressione, ma constatiamo che le donne oggi si accontentano perlopiu' di stare entro i codici dell'immaginario stereotipato di un corpo femminile eternamente giovane, riprodotto ossessivamente nella pubblicita'. Le veline e i lifting trasmessi in diretta sono parte della sua fenomenologia piu' evidente. Osserviamo che un corpo adattato ai canoni della bellezza, e' un corpo reso produttivo. Ci chiediamo un poco sgomente: un corpo reso adatto ai canoni della maternita', e' un corpo reso produttivo? * Seguendo il filo srotolato a partire dal corpo, mi trovo ad incrociarne altri che, lasciati sciolti nella trama del testo, voglio ora allacciare a questa domanda. Uno di quei fili e' il ruolo materno nella famiglia ed il ruolo della famiglia nella divisione sociale del lavoro, e si stringe al nodo della famiglia per come e' definita nella legge 40/2000. Seguendolo fino in fondo, il discorso si potrebbe allargare a comprendere l'analisi e la critica delle politiche del governo in materia di welfare. Mi limito ad osservare che lo stesso governo con una mano sottrae risorse ai servizi che sostengono le donne nel lavoro di cura per figli piccoli o genitori anziani. Con l'altra mano, quella che dovrebbe garantire la tutela dell'embrione, si aggrappa ad un modello di famiglia fortemente in crisi, in tempi di erosione dei redditi e nel disfacimento di quelle relazioni di solidarieta' tra generazioni femminili che garantivano la collaborazione di nonne, zie, sorelle. Se la quantita' del totale di lavoro non pagato delle donne supera quella del totale di lavoro pagato, significa che qualche domanda sul rapporto tra i sessi nel contesto familiare forse dobbiamo ancora porcela. Dopo averli messi al mondo, una figlia o un figlio vanno anche cresciuti, giorno per giorno e per molti anni. Entro quale famiglia e in quali rapporti? Se curare un bambino e' un'esperienza che fa crescere e arricchisce la donna da molti punti di vista, perche' privare gli uomini di questa stessa possibilita'? Perche' non condividere con loro questa emozione e questa responsabilita' del curare e del riprodurre quotidianamente la vita? Perche' non tentare di dare forma ad altri contesti rispetto a quelli che ora, oltretutto, scricchiolano? Alcune di noi stanno tentando di condividere un progetto di vita in comune con altre persone uscendo dai ruoli della famiglia patriarcale, scegliendo un'appartenenza rispetto al senso delle azioni quotidiane, attraverso cui praticare un'alternativa alla parcellizzazione e al consumo coatto. * A questo tema si allaccia l'altro dei fili lasciati in sospeso, quello della maternita' dal punto di vista del desiderio. Osserviamo il percorso di una donna che pur di generare un figlio e' disposta a sottoporsi alla trafila della fecondazione artificiale, Che comporta trattamenti ormonali molto invasivi, a spendere soldi, energie, impegno. Ci chiediamo perche'. Da dove viene questo desiderio e quali pressioni esterne si scaricano su di esso? Quando sondiamo in questo senso, la razionalita' cede il passo ad emozioni e rappresentazioni di cui e' molto difficile cogliere le sfumature. Sul tracciato incerto che con-fonde cio' che appartiene alla natura e cio' che appartiene alla cultura, alcuni elementi ci hanno colpito facendoci riflettere. Ad esempio, ci accorgiamo che ogni limite del nostro corpo e' immediatamente assunto come patologico e reso oggetto di cure mediche e farmacologiche; anche la difficolta' di procreare potrebbe ricadere in questo aspetto? Crediamo di si'. Quello che ci preoccupa e' il contesto entro cui la difficolta' di procreare trova soluzione. La percezione del proprio limite e' condizionata da un immaginario per il quale basta pagare per accedere alla soddisfazione immediata di un desiderio, e ciascun desiderio e' a sua volta pesantemente condizionato dall'immaginario nel quale siamo immerse/i. Fra i molti esempi possibili, scelgo una storia americana, quella dell'ormone umano della crescita modificato geneticamente. Somministrandolo, si ottiene l'aumento di statura dei bambini affetti da nanismo; fu brevettato da multinazionali del farmaco che ottennero condizioni di vendita privilegiate per il fatto di avere investito in una "malattia" rara come il nanismo. Ma e' poi accaduto che il farmaco sia stato somministrato anche alle persone semplicemente un poco basse e non affette da nanismo; e siccome l'altezza e' associata a forza, prestanza e successo, molti adolescenti che non potevano avere questi ormoni attraverso prescrizione medica hanno iniziato a procurarseli al mercato nero. La percezione del proprio limite, ma anche di quel che e' sano o no, quel che e' normale o no: sono elementi che appartengono alle contraddizioni dell'umano, rispetto ai quali ogni tempo riformula le sue risposte. * La domanda sulla maternita' ci fa fermare e riflettere proprio per l'interazione fra desiderio e contesto, per la tensione tra aspettative e identita', per il ruolo determinante della tecnologia nell'interazione tra questi elementi. Non ci scivola addosso, e finche' non saremo in grado di intersecare questa domanda con l'obiezione alla legge in vigore sulla fecondazione assistita, saremo piu' facilmente strumentalizzabili. Cio' che del desiderio ci piace e nello stesso tempo ci fa paura, e' che esso puo' farci traballare, trascinarci oltre e altrove rispetto al controllo che possiamo esercitare sulle sue conseguenze. L'evento della maternita' si connette al controllo in modo duplice e ambivalente: da un lato introduce un elemento di totale imprevedibilita' (fuori controllo) nella nostra vita; da un altro lato ci incanala in un ruolo e in un ordine di priorita' (sotto controllo). Le donne hanno procreato, anche in condizione di estrema poverta' e disagio. Ma appena hanno avuto un poco di autonomia rispetto alla propria fertilita', hanno smesso di far figli "come conigli" per tutto l'arco della vita, dall'adolescenza alla menopausa. Ora possiamo non solo scegliere di fare meno figli, ma anche di non farne del tutto. In astratto, potremmo avere la liberta' di scegliere che fare del nostro desiderio. Stringiamo il campo e ci focalizziamo sull'elemento del desiderio, ingigantendolo e facendo scomparire il contorno. Pero' le aspettative dell'ambiente, i modelli femminili di riferimento, il percorso di un'identita' che procede per tentativi, tutto contribuisce a confondere questa presunta liberta'. La scelta costituisce sempre un elemento di complicazione, la consapevolezza nella scelta aumenta la complessita' degli elementi attraverso i quali si sceglie. L'ambivalenza qui sta nel fatto che da un lato abbiamo piu' strumenti razionali per decidere, ma l'oggetto della decisione ha a che fare soprattutto con la nostra sfera affettiva. E' come se non avessimo il linguaggio adeguato a raccontare. Come se cercassimo di misurare con il metro l'impalpabile materia del sogno, o di controllare cio' che per sua natura sfugge al controllo. D'altro lato la scelta non e' cosi' libera come ci vogliono far credere. Le generazioni di donne che ci hanno preceduto si sono poste il problema di come controllare la propria fertilita'. Oggi abbiamo il problema di quale posto assegnarle, in un tempo di vita sempre piu' condizionato dalla precarieta' delle condizioni di sussistenza. In particolare, la precarieta' lavorativa e' un deterrente notevole rispetto al desiderio materno. Confrontandoci, ci siamo rese conto che il nostro futuro e' compresso in un presente continuo, una transizione costante. La piattaforma temporale su cui cerchiamo di stare in equilibrio non ci permette di progettare oltre l'arco di un semestre; il terreno economico e' pieno di buchi e fratture: oggi guadagni, domani chissa'; un evento pratico di alto valore simbolico nei passaggi della vita, qual e' la sicurezza di una casa entro cui vivere autonomamente (la tana, il luogo delle proprie radici), e' rinviato a data da destinarsi, forse mai. Si erodono i pochi margini di benessere creati dal lavoro dei nostri genitori. * Osservando questo scenario mobile, le figure si scompongono e ricompongono come al caleidoscopio. Dopo secoli, il libero arbitrio si e' introdotto nella sfera procreativa, introducendo spiragli di liberta' ma anche la difficolta' della scelta. Pare che la svolta pericolosa stia nell'alchimia di questo elemento di liberta' che si mescola con le forze del mercato, svolta che rischia di ricondurre il desiderio nel recinto delle scelte obbligate. Pare che la lotta per i diritti fatta nel secolo scorso non sia stata accompagnata da una revisione profonda dei rapporti tra i sessi, che in questa direzione ci sia ancora parecchia strada da fare, per donne e uomini. Crediamo che questa complessita' sia la sfida per chi oggi vuole tentare di cambiare se stessa e il mondo. Rispetto ad essa vogliamo essere attive e non passive, per esistere ed agire nel mondo in modo consapevole. Ringrazio le donne e gli uomini che hanno reso possibile questo intervento. 3. RIFLESSIONE. ANNA MARIA CRISPINO: CON RAGIONE E SENTIMENTO [Dal sito www.donnealtri.it riprendiamo il seguente articolo, apparso nell'ultimo fascicolo della rivista "Leggendaria". Anna Maria Crispino e' nata a Napoli, ma vive e lavora a Roma; giornalista, si occupa prevalentemente di questioni internazionali; ha ideato la rivista "Leggendaria - Libri, letture, linguaggi" che dirige dal 1987; e' tra le socie fondatrici - e attualmente presidente - della Societa' Italiana delle Letterate. Giuliana Sgrena, giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra cui: a cura di, La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004); e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo. Nicola Calipari, nato a Reggio Calabria, laureato in giurisprudenza, con una straordinaria e prestigiosa esperienza nelle forze dell'ordine con ruoli di grande responsabilita' nella lotta contro il crimine, da due anni funzionario del Sismi, e' l'eroe che ha salvato la vita a Giuliana Sgrena, come gia' prima alle due Simone; e' stato ucciso il 4 marzo a Baghdad] "I sentimenti non sono dettagli": questa frase continua a girarmi in mente, nei momenti anche piu' inaspettati. Di tante parole che sono state scritte e dette sul rapimento di Giuliana Sgrena, durante le quattro settimane del suo sequestro, nelle ore concitate della sua liberazione, oscurate subito dopo dalla notizia della sparatoria contro l'auto che la stava portando in salvo sulla strada tra Baghdad e l'aeroporto, dalla morte di Nicola Calipari e dal ferimento della stessa Giuliana, e nei giorni successivi, quando "Il manifesto" ha continuato a pubblicare lettere e messaggi, questa frase scritta da un gruppo di donne dell'Udi di Napoli in una lettera a Giuliana ("Il manifesto" del 18 marzo 2005) mi ha dato il senso di quanto ancora ci sia da elaborare, pensare, di questa vicenda e di come labbiamo vissuta. Mi ha fatto tornare in mente anche un piccolo libro prezioso, purtroppo introvabile di Marie Depusse' (Dio e' nei dettagli, a cura di Maria Teresa Carbone) in cui, raccontando di un'esperienza fuori dell'ordinario di lavoro con persone sofferenti per problemi psichici, la differenza sta nel "modo" della relazione e nella capacita' di tenere insieme sentimenti e pratiche. E di sentimenti vorrei provare a parlare, sapendo che e' terreno scivoloso, a rischio, ma che non si tratta di quel territorio dell'irrazionale e dell'incontrollato che secondo la vulgata corrente dovrebbe essere tenuto sotto controllo dalla mente lucida e vigile. Se una deriva sentimentalistica puo' sfociare nella peggiore retorica, ebbene nella vicenda che ha coinvolto Giuliana Sgrena questo non e' avvenuto. Mi riferisco ovviamente alle persone che piu' le vogliono bene. Degli altri, in questa sede, non voglio parlare per non lasciare spazio alla volgarita'. Mai retorici il suo compagno Pier Scolari, i suoi genitori e il fratello, i compagni e le compagne del "Manifesto", le donne e le giornaliste sue amiche e colleghe che hanno presidiato per un mese la Casa Internazionale delle Donne a Roma, e tanti altre e altri nel resto d'Italia, persino le centinaia di migliaia di persone che hanno sfilato per lei - "una di noi" anche per coloro che non la conoscono di persona - in un memorabile sabato (il 19 febbraio) a Roma, hanno dimostrato che i sentimenti non sono dettagli, ma il motore potente di una politica alta. Quando un evento ci colpisce direttamente, e' facile che il giudizio possa oscurarsi. Ma la richiesta della sua liberazione non si e' mai disgiunta dalla condanna della guerra, non ne ha appannato le ragioni, non si e' trasformata in ostilita' o odio per gli iracheni; la felicita' per la sua salvezza non ha impedito l'espressione sincera di dolore per la morte di un uomo che non era "uno di noi" ma certo una persona degna. "Una persona straordinaria", l'ha definito Giuliana, che pure e' stata con lui solo meno di un'ora. Non c'e' retorica in queste sue parole: mi ha rassicurata quando ero terrorizzata e mi ha salvato due volte, spiega in molte interviste successive. I sentimenti hanno dunque acuito invece che intorbidire la capacita' del giudicare, e dell'agire di conseguenza. Politica, appunto. La nostra, vorrei dire. Quella politica che ha imparato ad ascoltare anche quello che l'esperienza emotiva e' in grado di dirci, e di metterlo in gioco. * Io lavoro in un'agenzia di stampa. Nel dipartimento esteri. E' dunque capitato che quel 4 di febbraio, era un venerdi', avessimo tra i primi la notizia dai network internazionali. Una giornalista italiana era stata rapita. Era Giuliana. Un'agenzia di stampa e' una fabbrica di notizie: fornisce la "materia prima" a giornali, radio, Tv. I "lanci" si susseguono a ritmo vertiginoso, li scrivi, e dopo qualche minuto qualcuno li legge in Tv o li flashano sui siti, e tu ti trovi in una specie di vortice impazzito, di parole che rimbalzano, in corsa contro il tempo, che non e' il "tempo reale" di cio' che accade, come spesso si dice, ma quello dei fatti che diventano notizie. Una telefonata al "Manifesto" conferma l'accaduto: resto attaccata al collegamento satellitare con Baghdad, altri chiamano insistentemente quel numero di cellulare del "contatto" in Iraq che deve restare segreto. Una ridda di voci da confermare, smentire, lanciare in rete con tutta la cautela del caso, ma senza perdere tempo. Poi mi si chiede di scrivere di lei: chi e' Giuliana Sgrena? Mi fermo, le mani sulla tastiera del computer, il cuore stretto dall'emozione, lo sguardo che mi si appanna e mi manda lo schermo fuori fuoco. Stacco il contatto con le "fonti": ora la fonte sono io. Come posso dire chi e' Giuliana Sgrena in 50 righe? Qualche collega servizievole mi stampa da internet scarne biografie, risvolti di copertine dei libri che ha pubblicato. Ma non mi servono: io la conosco. Lei e' quella che per prima mi ha convinta che l'Islam va compreso, studiato, guardato con attenzione nelle sue diversita'. Che l'islamismo fanatico e armato non e' un residuo del passato, il prodotto dell'arretratezza di un mondo con il quale noi europei meridionali siamo stati in strettissimo rapporto per secoli, bensi' la risposta di una parte di quel mondo, qui e ora, alla piega che ha preso la post-modernita' globalizzata. Una risposta fatta anche di paura e rabbia, sentimenti fortissimi. Lei e' quella che mi ha spiegato che cosa e' stata quella colata di violenza che negli anni Novanta ha sommerso l'Algeria e l'Afghanistan dei Taleban, raccontando spesso delle donne e facendole parlare. Mi ha raccontato anche la Kabul del dopo-guerra e, in un capitolo di Alla scuola dei Taleban, lei, cosi' discreta e controllata, ha descritto la sua paura di donna occidentale in un albergo pieno di spettri. E poi l'Iraq di Saddam Hussein e quello sotto occupazione: cosi' che dopo una giornata passata a scrivere magari proprio di Iraq e della sequenza implacabile degli attentati e degli attacchi, leggere i suoi articoli il giorno dopo mi ha aiutato in questi anni a mettere le cose in prospettiva, perche' io lavoro da un luogo virtuale con molte connessioni ma lei era li'. Perche' mi fidavo del suo sguardo, delle connessioni concrete che operava, del quadro che ogni giorno si componeva nei suoi articoli, ritrovando senso - spesso un senso tragico - nello sgomento della guerra al di la' del puro elenco dei massacri e delle dichiarazioni ufficiali che mi erano passati tra le mani per farle diventare notizie. E mi viene in mente una telefonata fatta alla redazione di "Liberation" qualche settimana prima, dopo il rapimento di Florence Aubenas - che e' ancora ostaggio dei suoi rapitori. Il presidente francese, Jacques Chirac, aveva affermato che i giornalisti non dovevano piu' andare in Iraq, ma a "Liberation", pur pieni di dolore e preoccupazione per Florence, avevano ribadito: se i giornalisti non restano in Iraq, avremo solo le veline del Pentagono e i video dei terroristi e quel Paese sara' cieco. Mi aveva colpito, quella parola: un Paese "cieco", noi stessi ciechi, non piu' capaci di vedere, sapere, quello che accade. Privati dunque della possibilita' di comprendere, e giudicare. Nonostante il rapimento di Florence, Giuliana poco dopo e' a Baghdad, perche' non si puo' rinunciare ad esserci. Anche se quando sei li' - come in ogni altro teatro di guerra - magari vedi solo "dettagli". Perche' li cerchi, se sei una giornalista come lei. E lei, quella mattina del rapimento era andata proprio a verificare quello che i portavoce delle forze d'occupazione si erano impegnati per settimane a presentare come un dettaglio: che fine avevano fatto e cosa avevano da raccontare i profughi civili di Falluja, la citta' che qualche settimana prima l'aviazione americana aveva bombardato per distruggere "le forze anti-irachene" (cosi', a proposito di veline, i comandi militari Usa definiscono gli iracheni, resistenti, insorti o terroristi, senza distinzione). Una storia che quasi certamente ne' io da Roma, ne' altri giornalisti chiusi negli alberghi di Baghdad, avremmo trovato nelle fonti "ufficiali" e che dunque non avrei, non avremmo capito, se Giuliana non l'avesse raccontata. Sarei stata "cieca" rispetto ad uno degli episodi forse centrali della vicenda irachena, di cui avevo potuto sapere la dinamica solo dal punto di vista dei comandi americani. Ho scritto le mie 50 righe. Poi sono partita per gli Stati Uniti. Seguendo da la' quel poco che la stampa americana dava sul rapimento: il video, soprattutto, che le tv hanno mandato in onda ossessivamente. Ma spesso in quei giorni ho pensato - stupendomi di me stessa, perche' non ricordavo che mi fosse mai accaduto prima - che la dis-locazione, il fatto che fossi la' e non in Italia, mi faceva provare una strana sensazione: ero felice di essere italiana, europea. Perche' "noi" siamo capaci di preoccuparci e mobilitarci per una singola persona, per una sola vita. Il "New York Times" riporta ogni giorno nelle pagine interne sulla politica internazionale un minuscolo riquadro con i nomi dei soldati morti in Iraq. Solo un francobollo in un mare di piombo, senza commenti. Leggevo quei nomi - unici dettagli, grado ed eta' - erano tutti di giovani, uomini e donne. E pensavo a quei corpi che tornano in silenzio, quasi in segreto, consegnati alle famiglie con una lettera di condoglianze che il segretario alla difesa Donald Rumsfeld non si prende neanche la briga di firmare personalmente. Pensavo a quelle cerimonie funebri, mi scorrevano nella testa immagini come quelle che abbiamo visto in tanti film, le salve di fucile e la bandiera a stelle e strisce perfettamente ripiegata in un triangolo che un soldato consegna alla madre o alla moglie di un ragazzo (o una ragazza) morto laggiu'. Ma lontano dagli occhi delle telecamere, perche' il lutto non puo' essere esibito, altrimenti "il pubblico" potrebbe turbarsi e farsi magari delle domande sulla guerra di Bush per sconfiggere il tiranno ed esportare la democrazia e rendere piu' sicura l'America. Noi invece i nostri morti li piangiamo pubblicamente. I nostri sequestrati cerchiamo di salvarli, ad ogni costo. Torno in Italia e Giuliana e' ancora in ostaggio dei suoi sequestratori. E ancora una volta sono in redazione quando arriva la notizia della sua liberazione. Lei e' viva, e' salva. Sono, siamo pazzi di gioia, si prepara una lunga notte di lavoro. Ancora una volta si cerca il "contatto" in Iraq, ma il telefono squilla a lungo, a vuoto. Comincia a circolare la voce che c'e' stata una sparatoria. All'inizio pensiamo che Giuliana non sia stata consegnata dai rapitori, ma che ci sia stato un blitz, un'azione di forza. Ma i conti non tornano: i contatti si fanno frenetici. Sono gli americani che hanno sparato, ci sono dei feriti, uno e' grave, no, c'e' un morto. Ed e' Calipari. E Giuliana e' ferita, ma non e' grave. Calipari: i colleghi del dipartimento lo conoscono da quando era alla Questura di Roma, sono stravolti. Qualcuno deve scrivere chi e' Nicola Calipari e degli ultimi contatti "segreti" avuti con lui. Non io, che lavoro connessa a Baghdad, e riferisco della prima incredibile versione dei fatti da fonti Usa: la macchina andava veloce ad un posto di blocco, non si e' fermata, abbiamo sparato per avvertimento... E' venerdi' notte, e ho la nausea. * Due giorni dopo, Walter Veltroni scrive uno dei pezzi a mio avviso piu' belli su Nicola Calipari, una testimonianza personale e politica (su "l'Unita'" del 6 marzo 2005): "... ho sotto gli occhi un appunto sul periodo in cui, tra il 2001 e il 2002, Nicola Calipari ha lavorato come dirigente dell'Ufficio Immigrazione della Questura, a stretto contatto con il Comune di Roma. Lo leggo e rileggo, con un po' di commozione, inseguendo qualche ricordo e il filo di una storia che sento vicina alla mia, alla nostra, a quella di queste citta'. L'impegno del "progetto Roxanne" per strappare alla schiavitu' le donne comprate e vendute alla prostituzione; le fatiche e le soddisfazioni della concertazione con le comunita' straniere: incontri, trattative, e alla fine soluzioni accettate da tutti; il piano per l'accoglienza dei richiedenti asilo... Quando accade una vicenda terribile e irreparabile come la morte violenta di un uomo e' questo che si cerca: il filo della sua storia, una sostanza che ci renda l'idea del suo sacrificio se non accettabile, meno dura. Il filo di Nicola e' quello di un uomo sobrio, discreto, solido, con le sue idee e le sue passioni, ma lontano dall'idea di farne un credo da sbandierare. Un onesto servitore dello Stato, si sarebbe detto un tempo (e forse e' il tempo che si torni a dire), fedele alle istituzioni e anche a se stesso, alla propria coerenza, fino al sacrificio della propria vita in un atto di eroismo che e' stato il supremo, definitivo compimento di un dovere che non contiene in se' neppure una bava di retorica. E' l'immagine di un'Italia che c'e', anche se ci capita raramente di accorgercene. Un'Italia che non grida, che non cerca i riflettori, non insegue televisori e indici di gradimento, che non litiga per litigare e non stupisce per stupire, che non involgarisce e riserva le sue indignazioni a quel tanto che c'e', nel mondo, da meritare l'indignazione: una prostituta bambina sul ciglio di una strada, per esempio; la sofferenza di un povero cristo scappato dalla fame o dalla tortura; una donna sequestrata dai terroristi in un paese lontano; le ingiustizie vere, quelle che versano sul mondo la morte e il dolore. Un'Italia che c'e'. Nella compostezza, nella serieta', nel rispetto di se' e degli altri, di tanti che lavorano nelle istituzioni, di tanti uomini e donne della forze dell'ordine che mettono per il bene di tutti a repentaglio la propria vita, e non in astratto ma concretamente, correndo a salvare chi e' in difficolta' e magari non sparando per primi a un posto di blocco, perche' davanti ad una pistola c'e' comunque una vita. Nell'esperienza dei ragazzi (sono tanti, tantissimi, molto di piu' di quanto normalmente si pensi) che vanno a fare i volontari nei paesi piu' disgraziati e lontani o in quella triste periferia dell'anima del mondo ricco che vive nella poverta' e nel degrado sotto le nostre case. Nella forza d'animo dei familiari degli, oramai tanti, italiani che sono stati rapiti in Iraq: l'ostinazione nell'ottimismo dei genitori, dei fratelli e delle sorelle di Stefio, Agliana e Cupertino, il dolore composto dei familiari di Quattrocchi e poi di Baldoni, la serenita' dei genitori di Simona Torretta e Simona Pari, la tristezza che, alla notizia della morte dell'uomo che le aveva salvato la figlia, e' calata sul volto da patriarca di Franco Sgrena...". * A Roma, sul muro dell'antico convento di via della Lungara che e' diventato la Casa Internazionale delle Donne, per quattro settimane hanno sventolato le gigantografie di Giuliana Sgrena e Florence Aubenas con una scritta identica: "Liberatela". Ora quella di Florence e' rimasta uguale - aspettiamo la sua liberazione e siamo straziate da come l'abbiamo vista nell'unico video che i rapitori hanno mandato nel mondo - quella di Giuliana ha la scritta: "Bentornata". Le donne che frequentano la Casa - e sono moltissime - conoscono personalmente Giuliana, sempre disposta a incontri e dibattiti sui temi che le stanno a cuore - non credo qualcuna abbia mai incontrato di persona Florence. Ma e' lo stesso: sono tutt'e due comprese in quel "noi" della comunita' delle donne, un pronome plurale denso di significato, fatto di un impasto sedimentato nel tempo e nelle/dalle pratiche delle nostre relazioni, quelle dirette ma anche quelle mediate dalla parola scritta. Quel senso di similitudine che non cancella il riconoscimento dell'altra, la bellezza che vi scorgiamo, affetto e ammirazione, ascolto e attenzione alla parola e ai gesti, nella vicinanza e nella lontananza. Un "noi" che spesso confina/sconfina in altre dimensioni dell'identita' collettiva - la professione o le possibili scelte di campo "miste" ma anche la poesia, lo yoga o l'essere vegetariane o magari l'appartenenza alla comunita' lesbica o quella piu' indistinta delle etero-che-pero'-le-donne-sono-tanto-piu'-interessanti - ma che e', per molte, il nostro modo di stare al mondo, il luogo formidabile da cui, e attraverso il quale, guardare e sentire e capire cio' che accade e dargli senso e misura. Con ragione e sentimento. 4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 5. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 911 del 26 aprile 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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