La nonviolenza e' in cammino. 911



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 911 del 26 aprile 2005

Sommario di questo numero:
1. Giulio Vittorangeli: La parola, cosa preziosa
2. Eleonora Cirant: Il desiderio, il potere, il dovere di dare la vita
3. Anna Maria Crispino: Con ragione e sentimento
4. La "Carta" del Movimento Nonviolento
5. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: LA PAROLA, COSA PREZIOSA
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per
questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori
di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da
sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

L'origine della letteratura europea e' l'epica. Viene da epos: "parola".
All'origine c'e' la Parola, il Verbo. E' il verbo incarnato, per il Vangelo
o per il Faust, la base della nostra cultura. Al libro cosi' fragile si
affida la cosa piu' duratura, e piu' preziosa, che l'uomo abbia inventato:
la parola.
E che cosa sta succedendo? Succede che le parole non sono piu' pietre, come
dicevano gli antichi popoli italici; semplicemente non contano piu' niente
perche' svuotate del loro significato primario. Ci sono una serie di parole
e di frasi fatte, rubate al passato, la cui diffusione va adesso
categoricamente rifiutata.
La parola giustizia per commettere le ingiustizie; ricchezza per allungare
la fila dei poveri; salute per lasciare i meno abbienti morire di
raffreddore; pace per creare e fomentare guerre. Ancora piu' significativo
il caso della parola liberta', ormai completamente sovvertita. Una retorica
ben organizzata ha trasformato il linguaggio in una montatura permanente, un
arazzo di bugie che ci presenta le societa' capitaliste come "libere", e nel
nome della liberta' giustifica atti barbari e vergognosi.
L'ultima forzatura a cui sottoponiamo il nostro vocabolario per poter fare
la guerra chiamandola pace e' l'Iraq: tutti sono terroristi, perche'
guerriglia e' una parola di nobili origini ottocentesche e catalane
inventata contro Napoleone... e noi combattiamo il "Male". Qualcosa di
difficilmente reversibile e' avvenuto nel livello culturale e nel senso
comune del nostro paese. Ha prodotto una sorta di anestesia e di perdita di
senso delle parole. Termini come liberta', terrorismo, sicurezza,
democratico, fanatico, ecc. sono stati ridotti a stracci per camuffare la
nuova crudelta' imperante. Cosi' che i leader politici dicono un giorno una
cosa e il giorno dopo il contrario e pretendono di essere coerenti.
I giullari di regime ci ossessionano ogni giorno con parole che non sono
parole, ma strumenti contundenti. I "martiri" di tutte le fedi si ammazzano
e ammazzano chi capita senza pronunciare piu' una parola, e le uniche parole
che sanno sillabare sono oscene frasi in cui si cita il nome di dio invano,
che lo si chiami Allah, Quetzalcoatl o Gesu'.
Il mondo e' impazzito ed e' impazzito perche' all'improvviso ha deciso che
non sa piu' che farsene delle parole: non del Logos, la parola razionale;
proprio dell'Epos, la parola suggestiva, quella che esprime i sentimenti,
gli affetti, il destino dell'uomo.
Ci sveglieremo in tempo per capire che e' stato solo un incubo, il terribile
incubo che viene dopo l'ubriachezza?
In ogni caso, tanti di noi vivono immersi in questo incubo sono pieni di
orrore, ma con la consapevolezza che oggi servirsi del vocabolario
tradizionale, utilizzato dai potenti e dai media, non fa che aumentare
l'oscurita' e la desolazione in cui siamo immersi.
Ricorderete il significativo colloquio di Alice e il coniglio (in Alice nel
paese delle meraviglie, di Lewis Carrol): "Quando uso una parola essa
significa esattamente cio' che io voglio significhi... ne' piu' ne' meno".
Alice ribatte: "Il problema e' sapere se lei puo' far dire alle parole cose
differenti". Il coniglio sentenzia: "Il problema e' sapere chi comanda...
Solo questo".
Questo breve dialogo parla del potere delle parole e delle parole del
potere; delle concezioni del mondo, dei progetti politici, della
materialita' della vita sociale.
Per questo, e' sul terreno del linguaggio, sulla condivisione di un senso
non reversibile da restituire alle parole, che si deve agire con attenzione.
E' tempo di ripristinare la devastata lingua italiana, sottrarre le parole
rubate, per ricollocarle nel loro contesto, raccontandoci la materialita',
la quotidianita'. Restaurare gli sfregi fatti, perche' le parole sono cose,
muovono il mondo, passano attraverso la carne, sono incarnate, passano
attraverso ciascuno/a di noi, ci appartengono, le portiamo nei luoghi che
abitiamo, anche con costi personali, di cui diamo conto.
E' tempo per la solidarieta' internazionale di crescere e custodire le
parole del futuro; cercando ostinatamente parole che siano come un balsamo
sulla ferita dell'indifferenza e dell'ingiustizia; che siano capaci di
ridare alla politica la ricchezza della cultura e della democrazia reale e
partecipativa.

2. RIFLESSIONE. ELEONORA CIRANT: IL DESIDERIO, IL POTERE, IL DOVERE DI DARE
LA VITA
[Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questo testo tratto dal
libro collettivo: AA. VV., Un'appropriazione indebita. L'uso del corpo della
donna nella nuova legge sulla procreazione medicalmente assistita, Baldini
Castoldi Dalai Editori,  Milano 2004. Eleonora Cirant e' impegnata nella
Libera universita' delle donne di Milano, nell'Unione femminile nazionale,
ed in altre rilevanti esperienze dei movimenti femministi di cui e' anche
acuta studiosa]

Conflitto, desiderio, controllo, potere, responsabilita', limite:
l'approvazione di una legge che, per la prima volta in Italia, detta le
regole sulla tecnologia applicata ai processi del generare la vita, ha fatto
emergere molte contraddizioni che ci riguardano.
La legge 40/2004 ha caratteristiche tali che opporsi e' una via obbligata,
come altri interventi di questo libro mettono bene in evidenza.
Eppure, contrapporsi senza vedere e nominare l'ambivalenza su cui poggia
tutta la vicenda significa lasciare ad altri il potere di dire e di decidere
il cosa, il come e il perche' di una partita che si gioca sui nostri corpi e
sulla nostra identita'.
Si tratta di camminare ad occhi aperti sul crinale tra desideri e bisogni
indotti, intrecciando lotta politica e coscienza, cercando di tenere in mano
tutti i fili di un groviglio che pare inestricabile. La scommessa si gioca
nel riconoscere le ambivalenze e tentare di dare loro un senso e una
composizione che siano praticabili nelle scelte concrete: quel che nessuna
legge puo' imporre passa dalla cruna dell'ago che e' la responsabilita'
individuale.
Sto cercando, con questo testo, di articolare un punto di vista incarnato e
non astratto su un argomento fitto di temi che incrociano la dimensione
soggettiva e collettiva, interiorita' e regole che determinano l'agire
sociale. Non pretendo di parlare a nome di, ne' di proporre facili soluzioni
proprio perche' la promessa di una facile soluzione e' cio' che voglio
mettere in discussione.
Porto qui alcuni spunti di riflessione raccolti in una ricerca personale e
nel corso di momenti di dibattito e di azione insieme ad altre donne: il
soggetto delle frasi e' in movimento, dall'io al noi, perche' rispecchia il
con-testo corale entro cui questi spunti hanno preso vita. Mi riferisco, pur
nell'assenza di un movimento di massa nel quale sia visibile e riconoscibile
un soggetto politico determinato, ad un tessuto di idee e di azioni che
prendono vita in gruppi piu' o meno grandi e piu' o meno stabili, con azioni
piu' o meno efficaci, spesso sotterranee ma vive nella fluidita' delle
relazioni: forme di resistenza, di confronto e di azione politica che si
manifestano in pratiche poco visibili nei mezzi di comunicazione di massa.
*
Partecipo al gruppo Sconvegno e al gruppo Pro-creativo. Nel primo siamo sei
donne intorno ai trent'anni, abbiamo iniziato ad incontrarci nel 2002 per
organizzare un momento di confronto fra i molti femminismi di oggi; da
allora ci siamo concentrate sulla nostra condizione di donne al lavoro e
sulla precarieta' che investe tutti gli aspetti della nostra vita. Nel
secondo siamo donne fra i trenta e i sessant'anni, abbiamo iniziato ad
incontrarci nel periodo successivo all'approvazione della legge con
l'obiettivo di indagare le molteplici dimensioni della questione. Il
presupposto da cui siamo partite e' la consapevolezza che nell'opporci in
tutte le fasi della discussione della legge non avevamo raggiunto
l'obiettivo di dare visibilita' pubblica al problema, lasciando allo stesso
tempo in secondo piano gli aspetti piu' contrastanti di cio' su cui la legge
interviene.
In questi anni la tecnologia ha corso molto veloce, in assenza di regole,
trainata dalla locomotiva del profitto economico e dalla domanda ad esso
associata. Molto piu' veloce di quanto abbia fatto il dibattito pubblico:
siamo gia' parecchio in ritardo in una necessaria presa di coscienza e di
responsabilita' sia come esseri umani, perche' le biotecnologie sono ormai
una realta' che muove interessi giganteschi, sia come esseri umani di sesso
femminile, perche' in questa partita il nostro corpo e' snodo simbolico,
terreno di conflitto tra desiderio e controllo.
Con questa legge l'Italia copre un vuoto legislativo non solo in ritardo, ma
anche in conflitto con i corpi e le scelte delle donne e - va detto,
andrebbe detto da loro stessi - degli uomini. Questo e' evidente gia' dal
primo articolo, che, stabilendo la parita' di tutti i soggetti compreso il
concepito, mette in discussione il diritto che il soggetto donna ha di
decidere secondo la propria coscienza cosa fare rispetto al "soggetto"
embrione.
Questa legge ci riguarda anche in modo meno evidente, e forse piu' difficile
da affrontare, perche' interroga noi donne proprio in cio' che per secoli e
a tutte le latitudini ha condizionato il nostro ruolo sociale e la nostra
identita': il desiderio, il potere, il dovere di dare la vita.
*
Il legislatore, non a caso culturalmente e/o fisicamente maschio
eterosessuale cattolico, nel determinare i criteri di accesso alla
fecondazione assistita delegittima le famiglie in cui una delle due parti
della coppia non e' fertile, quelle non unite da un vincolo matrimoniale,
quelle formate da individui dello stesso sesso, quelle portatrici di
malattie genetiche o hiv: in Italia queste persone esistono e sono una parte
consistente di cittadine e cittadini privati cosi' del diritto di essere
rappresentati.
Noi siamo contro questa legge, perche' cerchiamo di costruire le nostre
relazioni familiari in modo diverso da quelle che sono state per le donne e
per gli uomini fino ad un passato molto recente; sto parlando della famiglia
intesa come "cellula della societa'", luogo della divisione sociale del
lavoro tra produttivo e riproduttivo, gratuito e salariato, della divisione
del potere tra uomini e donne che ha assegnato alle seconde la posizione
piu' scomoda.
Questa legge fa appello ad un modello di famiglia proprio nel momento in cui
esso e' in crisi, e lo fa con l'arroganza di chi impone con la forza un
argomento cui non potrebbe convincere con la ragionevolezza.
Appartengo ad una generazione infarcita della retorica per la quale viviamo
in una societa' in cui ogni questione che riguarda il rapporto tra i sessi
e' risolta. Eppure a molte di noi e' accaduto di vivere eventi che hanno
svelato l'inganno della neutralita', facendoci prendere coscienza del fatto
che le diversita' sessuali costituiscono ancora il terreno su cui si
instaurano i rapporti di potere, anziche' ali per la liberazione di ogni
individuo. Non vogliamo fare la parte delle donne povere vittime, ma
osservare che la realta' e' declinata in modi differenti a seconda che si
nasca maschi o femmine. Non siamo piu', ma non siamo ancora: essere donna e'
per noi una ricerca quotidiana e pensiamo che anche gli uomini abbiano un
percorso da fare su se stessi, per comprendere come modificare il modo in
cui e' determinata socialmente la mascolinita'.
Ci e' capitato di osservare che quando al lavoro un uomo dichiara di stare
per diventare padre, acquisisce un'aura di responsabilita' e garanzia di
produttivita': puo' accadere che gli venga concessa una promozione o un
aumento; ma se e' una donna a dichiarare di star per diventare madre, un
alone di diffidenza si espande intorno alla sua persona: si sa gia' che
avra' tempi condizionati, energie non piu' pienamente disponibili, ogni
giorno altri problemi; sara' tagliata fuori, e questo e' evidente e marcato
quanto piu' la competitivita' caratterizza l'ambiente.
La scelta del part time per conciliare famiglia e lavoro produttivo e'
ancora una via praticata molto dalle donne e poco dagli uomini, a conferma
del fatto che sul terreno della divisione sessuale del lavoro non si
manifestano cambiamenti significativi. Non sta scritto da nessuna parte che
il part time equivalga quasi automaticamente al blocco del proprio percorso
lavorativo in termini di qualifica e potere decisionale. Eppure nelle
aziende accade proprio cosi'.
Tutto cio' e' in relazione con il fatto che il legislatore oggi ci dice
quale famiglia va bene e quale no, abusando del proprio potere di regolare
la vita sociale attraverso le leggi, e invadendo un campo che, in uno Stato
laico, dovrebbe appartenere alla sfera della responsabilita' e della scelta
individuale.
*
Qui incontriamo un altro elemento del groviglio, la responsabilita'
individuale: seguiamolo prima di perderne le tracce, allacciando questo capo
del filo a quello della tecnologia applicata alla nascita.
In termini assoluti, svincolate dal contesto, le tecniche di fecondazione
assistita avrebbero un grande potenziale di trasformazione sulle relazioni
che si accompagnano ai processi riproduttivi, dunque sulla famiglia e sulle
relazioni tra donne e uomini. Ma quanto il contesto sia determinante e'
dimostrato da cio' che sta accadendo negli Stati Uniti, paese nel quale le
prime banche del seme ad uso commerciale sono attive dal 1972 e oggi muovono
un mercato di milioni di dollari.
Qui si riscontra un rafforzamento della struttura sociale nelle sue
articolazioni di gerarchia e disuguaglianza. Perche' accade che le strategie
di marketing, adottate con successo dalle banche del seme, stabiliscono
l'equivalenza tra caratteristiche del donatore e sviluppo della persona nata
col contributo del suo seme. Tali strategie di vendita, nel proporre un
modello di caratteristiche desiderabili, sottolineano proprio quei caratteri
che individuano nell'immaginario il tipo dominante, rafforzando i modelli di
comportamento e di relazione che in astratto la fecondazione in vitro
potrebbe contribuire ad indebolire. Le consumatrici sappiano che per avere
un figlio sano e di successo devono scegliere il seme di un uomo aitante,
sportivo, con una buona carriera, meglio se bianco e occidentale.
L'architrave di questa impalcatura, fondamentalmente razzista, sta nell'idea
sempre piu' diffusa che non sia il contesto sociale a determinare
l'individuo, ma il suo patrimonio genetico, rispetto al quale il seme
maschile risulta determinante.
Tutto "come da programma", verrebbe da dire.
*
Per rimanere in tema di immaginario patriarcale intorno allo sperma e alla
sua azione determinante nel processo procreativo, e' interessante osservare
il modo in cui e' descritto l'atto fecondativo: gli spermatozoi dell'uomo si
lanciano in una corsa furiosa dove il piu' forte vince annaspando e
arrivando finalmente all'agognata meta, l'ovulo della donna, che intanto se
ne sta in attesa al caldino, passivo e tranquillo. La realta' e' diversa da
come ce la raccontano: "la maggior parte delle volte e' la cellula uovo a
viaggiare per incontrarsi con lo spermatozoo che ha vagato per quasi tre
giorni la' intorno aspettando che lei arrivasse". Le due rappresentazioni,
quella della fecondazione naturale e quella della fecondazione artificiale,
collimano nell'assegnare al seme maschile un ruolo attivo e determinante,
all'ovulo femminile un ruolo ricettivo e determinato.
Questo per dire che una tecnologia non e' in se' portatrice di alcuna
trasformazione, se nel contesto in cui e' adottata non ci sono le
condizioni. L'argomento e' tanto piu' consistente quanto piu' la tecnologia
aumenta il potere dell'azione umana di modificare l'ambiente, compreso
l'organismo umano stesso.
Nella storia dell'umanita', ogni invenzione tecnologica ha comportato una
ridefinizione del rapporto dinamico tra specie e ambiente, determinando ogni
volta il significato di "natura". Lo sviluppo stesso delle specie viventi e'
il risultato dell'interazione tra patrimonio genetico e condizioni
ambientali. L'indirizzo della ricerca biotecnologica dalle sue origini e'
stato di focalizzarsi sul primo dei due elementi piu' che sulla relazione
(esattamente come accade nel marketing della nascita) tra i geni e
l'ambiente, nell'illusione di controllare il processo della vita tramite la
manipolazione del patrimonio genetico.
Lo strumento per la tutela del patrimonio genetico non e' la
personificazione dell'embrione, attuata in modi diversi e con fini opposti
dal mercato intorno alle banche del seme e dalla Chiesa. Noi non siamo certo
d'accordo con il Movimento per la vita, che organizza surreali funerali di
embrioni equiparando l'esistenza di una persona a quella di un composto di
cellule date dall'incontro (voluto o non voluto) tra ovocita e spermatozoo.
Noi proponiamo invece di mettere in discussione la presunzione della
biotecnologia di controllare il tutto attraverso l'azione sulle sue parti,
intervenendo alla rinfusa in processi complessi e delicati. Crediamo sia di
pari passo necessario assumerci la responsabilita' del fatto che, cosi'
facendo, gli scienziati permettono di placare l'ansia vissuta dalle persone
per la mancanza di controllo su aspetti dell'esistenza che fino ad ora erano
affidati al caso, alla natura appunto.
Noi contrastiamo questa legge perche' pretende di tutelare l'embrione
invadendo territori da cui dovrebbe tenersi fuori. Affermiamo che di pari
passo abbiamo consapevolezza dei fantasmi di onnipotenza sollecitati dalle
promesse della biotecnologia e denunciamo i fenomeni che si innestano sulla
confusione tra genetica ed eugenetica. A partire da questa consapevolezza
chiediamo il controllo sulla ricerca scientifica, la trasparenza nell'uso
dei geni e sugli interessi commerciali che di esso si nutrono: pensiamo che
in questo campo lo strumento legislativo sia opportuno e necessario.
*
E' ancora interessante notare le vicende degli Stati Uniti, dove una legge
in materia di fecondazione assistita e' stata a lungo bloccata proprio dagli
attivisti antiabortisti, che vedevano nella distruzione degli embrioni non
utilizzati entro il ciclo di fecondazione uno sterminio anche peggiore di
quello che secondo loro verrebbe praticato con gli aborti. Sono dovuti
passare vent'anni perche' fosse varata, nel 1996, la prima legge sulla
fecondazione artificiale. Nel frattempo la ricerca e' andata comunque
avanti, veicolata da un mercato rigoglioso per domanda e per offerta. Le
persone che hanno adottato il metodo della fecondazione artificiale, sono
state di fatto le cavie di un esperimento condotto su grande scala senza
monitoraggio. I criteri della ricerca scientifica, secondo cui i risultati
degli esperimenti devono essere condivisi e messi all'esame delle conoscenze
in possesso della comunita' scientifica nelle sue diverse componenti, non
sono stati applicati. Al mancato controllo della societa' civile nelle sue
diverse parti, si e' aggiunto un uso della tecnologia regolato piu' dalle
leggi economiche che dalle regole di una ricerca scientifica rigorosa.
Sul controllo del processo tecnologico poggia dunque un grande potere. Anche
in questo caso, la realta' non e' neutra ma si declina in modi differenti a
seconda del sesso, complicando la faccenda del controllo che non abbiamo
rispetto al processo tecnologico. Proprio perche' di potere si tratta, siamo
certe che "chiedere" non sara' sufficiente, come e' successo tante altre
volte nella storia. Per prenderlo nelle nostre mani sara' necessario
esplicitare un conflitto, ma questo avra' un senso solo se
contemporaneamente ci poniamo il problema di come trasformare questo potere
sulla base di principi etici.
La stragrande maggioranza delle persone ignora che fino al 1993 i test sui
farmaci sono stati effettuati solo su maschi (occidentali), risultando
troppo costoso considerare negli esperimenti la complessita' dell'organismo
femminile esposto alle fluttuazioni continue dell'equilibrio ormonale e a
rischio di gravidanza. Ancora oggi la percentuale di donne arruolate negli
studi clinici e' molto bassa, e si riduce a zero nelle fasi della ricerca in
cui si cercano i dosaggi dei farmaci, con il risultato che noi donne
assumiamo dosi e tipi di farmaci che non corrispondono alle nostre reali
esigenze, rischiando di intossicarci.
*
Quando abbiamo potuto studiare la storia dei fatti e delle idee della
"civilta'" occidentale con uno sguardo non neutro ma attento alle
differenze, abbiamo imparato come le donne che in questa civilta' hanno
vissuto e generato siano state oggetto di cio' che e' stato fatto, detto,
immaginato, realizzato sui loro corpi, piu' di quanto abbiano mai potuto o
voluto essere soggetto. La trama di questa storia e' il luogo delle nostre
radici, la sua ricostruzione e osservazione contribuisce ad una
consapevolezza che ci porta a protestare per come oggi e ancora il corpo
femminile e' il luogo in cui si esprime un potere rispetto a cui non abbiamo
autonomia. Protestiamo, ma ancora una volta vediamo che non c'e' un nemico
univoco e determinato contro cui scagliarci.
Osserviamo che la sollecitazione al consumo su scala multimediale oggi si
esercita soprattutto sulla seduzione e sull'erotismo veicolati da un corpo
desiderabile ad ogni costo, i cui caratteri sono resi omogenei e determinati
da un immaginario che non ci piace. In questo le donne sono sempre piu' in
compagnia degli uomini, che stanno guadagnando terreno nella rincorsa ai
canoni necessari alla vendita della propria "forza di seduzione".
La norma rispetto all'immagine che si deve dare di se' e' ferrea anche se si
manifesta come possibilita' di scelta (una merce diversa per ogni target).
E' luogo di controllo il corpo di "chi ha preferito diventare egli stesso
una merce, piuttosto che subirne semplicemente la tirannia", fondendo in un
unico movimento il consumo di prodotti per il corpo e consumo del proprio
corpo come prodotto da vendere sul mercato. Nel gioco della seduzione
avremmo infinite possibilita' di espressione, ma constatiamo che le donne
oggi si accontentano perlopiu' di stare entro i codici dell'immaginario
stereotipato di un corpo femminile eternamente giovane, riprodotto
ossessivamente nella pubblicita'. Le veline e i lifting trasmessi in diretta
sono parte della sua fenomenologia piu' evidente.
Osserviamo che un corpo adattato ai canoni della bellezza, e' un corpo reso
produttivo. Ci chiediamo un poco sgomente: un corpo reso adatto ai canoni
della maternita', e' un corpo reso produttivo?
*
Seguendo il filo srotolato a partire dal corpo, mi trovo ad incrociarne
altri che, lasciati sciolti nella trama del testo, voglio ora allacciare a
questa domanda.
Uno di quei fili e' il ruolo materno nella famiglia ed il ruolo della
famiglia nella divisione sociale del lavoro, e si stringe al nodo della
famiglia per come e' definita nella legge 40/2000.
Seguendolo fino in fondo, il discorso si potrebbe allargare a comprendere
l'analisi e la critica delle politiche del governo in materia di welfare. Mi
limito ad osservare che lo stesso governo con una mano sottrae risorse ai
servizi che sostengono le donne nel lavoro di cura per figli piccoli o
genitori anziani. Con l'altra mano, quella che dovrebbe garantire la tutela
dell'embrione, si aggrappa ad un modello di famiglia fortemente in crisi, in
tempi di erosione dei redditi e nel disfacimento di quelle relazioni di
solidarieta' tra generazioni femminili che garantivano la collaborazione di
nonne, zie, sorelle.
Se la quantita' del totale di lavoro non pagato delle donne supera quella
del totale di lavoro pagato, significa che qualche domanda sul rapporto tra
i sessi nel contesto familiare forse dobbiamo ancora porcela.
Dopo averli messi al mondo, una figlia o un figlio vanno anche cresciuti,
giorno per giorno e per molti anni. Entro quale famiglia e in quali
rapporti? Se curare un bambino e' un'esperienza che fa crescere e
arricchisce la donna da molti punti di vista, perche' privare gli uomini di
questa stessa possibilita'? Perche' non condividere con loro questa emozione
e questa responsabilita' del curare e del riprodurre quotidianamente la
vita? Perche' non tentare di dare forma ad altri contesti rispetto a quelli
che ora, oltretutto, scricchiolano?
Alcune di noi stanno tentando di condividere un progetto di vita in comune
con altre persone uscendo dai ruoli della famiglia patriarcale, scegliendo
un'appartenenza rispetto al senso delle azioni quotidiane, attraverso cui
praticare un'alternativa alla parcellizzazione e al consumo coatto.
*
A questo tema si allaccia l'altro dei fili lasciati in sospeso, quello della
maternita' dal punto di vista del desiderio. Osserviamo il percorso di una
donna che pur di generare un figlio e' disposta a sottoporsi alla trafila
della fecondazione artificiale, Che comporta trattamenti ormonali molto
invasivi, a spendere soldi, energie, impegno. Ci chiediamo perche'. Da dove
viene questo desiderio e quali pressioni esterne si scaricano su di esso?
Quando sondiamo in questo senso, la razionalita' cede il passo ad emozioni e
rappresentazioni di cui e' molto difficile cogliere le sfumature. Sul
tracciato incerto che con-fonde cio' che appartiene alla natura e cio' che
appartiene alla cultura, alcuni elementi ci hanno colpito facendoci
riflettere. Ad esempio, ci accorgiamo che ogni limite del nostro corpo e'
immediatamente assunto come patologico e reso oggetto di cure mediche e
farmacologiche; anche la difficolta' di procreare potrebbe ricadere in
questo aspetto? Crediamo di si'.
Quello che ci preoccupa e' il contesto entro cui la difficolta' di procreare
trova soluzione. La percezione del proprio limite e' condizionata da un
immaginario per il quale basta pagare per accedere alla soddisfazione
immediata di un desiderio, e ciascun desiderio e' a sua volta pesantemente
condizionato dall'immaginario nel quale siamo immerse/i.
Fra i molti esempi possibili, scelgo una storia americana, quella
dell'ormone umano della crescita modificato geneticamente. Somministrandolo,
si ottiene l'aumento di statura dei bambini affetti da nanismo; fu
brevettato da multinazionali del farmaco che ottennero condizioni di vendita
privilegiate per il fatto di avere investito in una "malattia" rara come il
nanismo. Ma e' poi accaduto che il farmaco sia stato somministrato anche
alle persone semplicemente un poco basse e non affette da nanismo; e siccome
l'altezza e' associata a forza, prestanza e successo, molti adolescenti che
non potevano avere questi ormoni attraverso prescrizione medica hanno
iniziato a procurarseli al mercato nero.
La percezione del proprio limite, ma anche di quel che e' sano o no, quel
che e' normale o no: sono elementi che appartengono alle contraddizioni
dell'umano, rispetto ai quali ogni tempo riformula le sue risposte.
*
La domanda sulla maternita' ci fa fermare e riflettere proprio per
l'interazione fra desiderio e contesto, per la tensione tra aspettative e
identita', per il ruolo determinante della tecnologia nell'interazione tra
questi elementi. Non ci scivola addosso, e finche' non saremo in grado di
intersecare questa domanda con l'obiezione alla legge in vigore sulla
fecondazione assistita, saremo piu' facilmente strumentalizzabili.
Cio' che del desiderio ci piace e nello stesso tempo ci fa paura, e' che
esso puo' farci traballare, trascinarci oltre e altrove rispetto al
controllo che possiamo esercitare sulle sue conseguenze. L'evento della
maternita' si connette al controllo in modo duplice e ambivalente: da un
lato introduce un elemento di totale imprevedibilita' (fuori controllo)
nella nostra vita; da un altro lato ci incanala in un ruolo e in un ordine
di priorita' (sotto controllo).
Le donne hanno procreato, anche in condizione di estrema poverta' e disagio.
Ma appena hanno avuto un poco di autonomia rispetto alla propria fertilita',
hanno smesso di far figli "come conigli" per tutto l'arco della vita,
dall'adolescenza alla menopausa. Ora possiamo non solo scegliere di fare
meno figli, ma anche di non farne del tutto. In astratto, potremmo avere la
liberta' di scegliere che fare del nostro desiderio. Stringiamo il campo e
ci focalizziamo sull'elemento del desiderio, ingigantendolo e facendo
scomparire il contorno. Pero' le aspettative dell'ambiente, i modelli
femminili di riferimento, il percorso di un'identita' che procede per
tentativi, tutto contribuisce a confondere questa presunta liberta'. La
scelta costituisce sempre un elemento di complicazione, la consapevolezza
nella scelta aumenta la complessita' degli elementi attraverso i quali si
sceglie.
L'ambivalenza qui sta nel fatto che da un lato abbiamo piu' strumenti
razionali per decidere, ma l'oggetto della decisione ha a che fare
soprattutto con la nostra sfera affettiva. E' come se non avessimo il
linguaggio adeguato a raccontare. Come se cercassimo di misurare con il
metro l'impalpabile materia del sogno, o di controllare cio' che per sua
natura sfugge al controllo.
D'altro lato la scelta non e' cosi' libera come ci vogliono far credere. Le
generazioni di donne che ci hanno preceduto si sono poste il problema di
come controllare la propria fertilita'. Oggi abbiamo il problema di quale
posto assegnarle, in un tempo di vita sempre piu' condizionato dalla
precarieta' delle condizioni di sussistenza. In particolare, la precarieta'
lavorativa e' un deterrente notevole rispetto al desiderio materno.
Confrontandoci, ci siamo rese conto che il nostro futuro e' compresso in un
presente continuo, una transizione costante. La piattaforma temporale su cui
cerchiamo di stare in equilibrio non ci permette di progettare oltre l'arco
di un semestre; il terreno economico e' pieno di buchi e fratture: oggi
guadagni, domani chissa'; un evento pratico di alto valore simbolico nei
passaggi della vita, qual e' la sicurezza di una casa entro cui vivere
autonomamente (la tana, il luogo delle proprie radici), e' rinviato a data
da destinarsi, forse mai. Si erodono i pochi margini di benessere creati dal
lavoro dei nostri genitori.
*
Osservando questo scenario mobile, le figure si scompongono e ricompongono
come al caleidoscopio. Dopo secoli, il libero arbitrio si e' introdotto
nella sfera procreativa, introducendo spiragli di liberta' ma anche la
difficolta' della scelta. Pare che la svolta pericolosa stia nell'alchimia
di questo elemento di liberta' che si mescola con le forze del mercato,
svolta che rischia di ricondurre il desiderio nel recinto delle scelte
obbligate.
Pare che la lotta per i diritti fatta nel secolo scorso non sia stata
accompagnata da una revisione profonda dei rapporti tra i sessi, che in
questa direzione ci sia ancora parecchia strada da fare, per donne e uomini.
Crediamo che questa complessita' sia la sfida per chi oggi vuole tentare di
cambiare se stessa e il mondo. Rispetto ad essa vogliamo essere attive e non
passive, per esistere ed agire nel mondo in modo consapevole.
Ringrazio le donne e gli uomini che hanno reso possibile questo intervento.

3. RIFLESSIONE. ANNA MARIA CRISPINO: CON RAGIONE E SENTIMENTO
[Dal sito www.donnealtri.it riprendiamo il seguente articolo, apparso
nell'ultimo fascicolo della rivista "Leggendaria".
Anna Maria Crispino e' nata a Napoli, ma vive e lavora a Roma; giornalista,
si occupa prevalentemente di questioni internazionali; ha ideato la rivista
"Leggendaria - Libri, letture, linguaggi" che dirige dal 1987; e' tra le
socie fondatrici - e attualmente presidente - della Societa' Italiana delle
Letterate.
Giuliana Sgrena, giornalista, intellettuale e militante femminista e
pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane
dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande
importanza (tra cui: a cura di, La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma
1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei
taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma
2004); e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante
la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad
e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo.
Nicola Calipari, nato a Reggio Calabria, laureato in giurisprudenza, con una
straordinaria e prestigiosa esperienza nelle forze dell'ordine con ruoli di
grande responsabilita' nella lotta contro il crimine, da due anni
funzionario del Sismi, e' l'eroe che ha salvato la vita a Giuliana Sgrena,
come gia' prima alle due Simone; e' stato ucciso il 4 marzo a Baghdad]

"I sentimenti non sono dettagli": questa frase continua a girarmi in mente,
nei momenti anche piu' inaspettati. Di tante parole che sono state scritte e
dette sul rapimento di Giuliana Sgrena, durante le quattro settimane del suo
sequestro, nelle ore concitate della sua liberazione, oscurate subito dopo
dalla notizia della sparatoria contro l'auto che la stava portando in salvo
sulla strada tra Baghdad e l'aeroporto, dalla morte di Nicola Calipari e dal
ferimento della stessa Giuliana, e nei giorni successivi, quando "Il
manifesto" ha continuato a pubblicare lettere e messaggi, questa frase
scritta da un gruppo di donne dell'Udi di Napoli in una lettera a Giuliana
("Il manifesto" del 18 marzo 2005) mi ha dato il senso di quanto ancora ci
sia da elaborare, pensare, di questa vicenda e di come labbiamo vissuta.
Mi ha fatto tornare in mente anche un piccolo libro prezioso, purtroppo
introvabile di Marie Depusse' (Dio e' nei dettagli, a cura di Maria Teresa
Carbone) in cui, raccontando di un'esperienza fuori dell'ordinario di lavoro
con persone sofferenti per problemi psichici, la differenza sta nel "modo"
della relazione e nella capacita' di tenere insieme sentimenti e pratiche. E
di sentimenti vorrei provare a parlare, sapendo che e' terreno scivoloso, a
rischio, ma che non si tratta di quel territorio dell'irrazionale e
dell'incontrollato che secondo la vulgata corrente dovrebbe essere tenuto
sotto controllo dalla mente lucida e vigile.
Se una deriva sentimentalistica puo' sfociare nella peggiore retorica,
ebbene nella vicenda che ha coinvolto Giuliana Sgrena questo non e'
avvenuto. Mi riferisco ovviamente alle persone che piu' le vogliono bene.
Degli altri, in questa sede, non voglio parlare per non lasciare spazio alla
volgarita'. Mai retorici il suo compagno Pier Scolari, i suoi genitori e il
fratello, i compagni e le compagne del "Manifesto", le donne e le
giornaliste sue amiche e colleghe che hanno presidiato per un mese la Casa
Internazionale delle Donne a Roma, e tanti altre e altri nel resto d'Italia,
persino le centinaia di migliaia di persone che hanno sfilato per lei - "una
di noi" anche per coloro che non la conoscono di persona - in un memorabile
sabato (il 19 febbraio) a Roma, hanno dimostrato che i sentimenti non sono
dettagli, ma il motore potente di una politica alta.
Quando un evento ci colpisce direttamente, e' facile che il giudizio possa
oscurarsi. Ma la richiesta della sua liberazione non si e' mai disgiunta
dalla condanna della guerra, non ne ha appannato le ragioni, non si e'
trasformata in ostilita' o odio per gli iracheni; la felicita' per la sua
salvezza non ha impedito l'espressione sincera di dolore per la morte di un
uomo che non era "uno di noi" ma certo una persona degna.
"Una persona straordinaria", l'ha definito Giuliana, che pure e' stata con
lui solo meno di un'ora. Non c'e' retorica in queste sue parole: mi ha
rassicurata quando ero terrorizzata e mi ha salvato due volte, spiega in
molte interviste successive. I sentimenti hanno dunque acuito invece che
intorbidire la capacita' del giudicare, e dell'agire di conseguenza.
Politica, appunto. La nostra, vorrei dire. Quella politica che ha imparato
ad ascoltare anche quello che l'esperienza emotiva e' in grado di dirci, e
di metterlo in gioco.
*
Io lavoro in un'agenzia di stampa. Nel dipartimento esteri. E' dunque
capitato che quel 4 di febbraio, era un venerdi', avessimo tra i primi la
notizia dai network internazionali. Una giornalista italiana era stata
rapita. Era Giuliana. Un'agenzia di stampa e' una fabbrica di notizie:
fornisce la "materia prima" a giornali, radio, Tv. I "lanci" si susseguono a
ritmo vertiginoso, li scrivi, e dopo qualche minuto qualcuno li legge in Tv
o li flashano sui siti, e tu ti trovi in una specie di vortice impazzito, di
parole che rimbalzano, in corsa contro il tempo, che non e' il "tempo reale"
di cio' che accade, come spesso si dice, ma quello dei fatti che diventano
notizie. Una telefonata al "Manifesto" conferma l'accaduto: resto attaccata
al collegamento satellitare con Baghdad, altri chiamano insistentemente quel
numero di cellulare del "contatto" in Iraq che deve restare segreto. Una
ridda di voci da confermare, smentire, lanciare in rete con tutta la cautela
del caso, ma senza perdere tempo.
Poi mi si chiede di scrivere di lei: chi e' Giuliana Sgrena? Mi fermo, le
mani sulla tastiera del computer, il cuore stretto dall'emozione, lo sguardo
che mi si appanna e mi manda lo schermo fuori fuoco. Stacco il contatto con
le "fonti": ora la fonte sono io. Come posso dire chi e' Giuliana Sgrena in
50 righe? Qualche collega servizievole mi stampa da internet scarne
biografie, risvolti di copertine dei libri che ha pubblicato. Ma non mi
servono: io la conosco.
Lei e' quella che per prima mi ha convinta che l'Islam va compreso,
studiato, guardato con attenzione nelle sue diversita'. Che l'islamismo
fanatico e armato non e' un residuo del passato, il prodotto
dell'arretratezza di un mondo con il quale noi europei meridionali siamo
stati in strettissimo rapporto per secoli, bensi' la risposta di una parte
di quel mondo, qui e ora, alla piega che ha preso la post-modernita'
globalizzata. Una risposta fatta anche di paura e rabbia, sentimenti
fortissimi.
Lei e' quella che mi ha spiegato che cosa e' stata quella colata di violenza
che negli anni Novanta ha sommerso l'Algeria e l'Afghanistan dei Taleban,
raccontando spesso delle donne e facendole parlare. Mi ha raccontato anche
la Kabul del dopo-guerra e, in un capitolo di Alla scuola dei Taleban, lei,
cosi' discreta e controllata, ha descritto la sua paura di donna occidentale
in un albergo pieno di spettri. E poi l'Iraq di Saddam Hussein e quello
sotto occupazione: cosi' che dopo una giornata passata a scrivere magari
proprio di Iraq e della sequenza implacabile degli attentati e degli
attacchi, leggere i suoi articoli il giorno dopo mi ha aiutato in questi
anni a mettere le cose in prospettiva, perche' io lavoro da un luogo
virtuale con molte connessioni ma lei era li'. Perche' mi fidavo del suo
sguardo, delle connessioni concrete che operava, del quadro che ogni giorno
si componeva nei suoi articoli, ritrovando senso - spesso un senso tragico -
nello sgomento della guerra al di la' del puro elenco dei massacri e delle
dichiarazioni ufficiali che mi erano passati tra le mani per farle diventare
notizie.
E mi viene in mente una telefonata fatta alla redazione di "Liberation"
qualche settimana prima, dopo il rapimento di Florence Aubenas - che e'
ancora ostaggio dei suoi rapitori. Il presidente francese, Jacques Chirac,
aveva affermato che i giornalisti non dovevano piu' andare in Iraq, ma a
"Liberation", pur pieni di dolore e preoccupazione per Florence, avevano
ribadito: se i giornalisti non restano in Iraq, avremo solo le veline del
Pentagono e i video dei terroristi e quel Paese sara' cieco. Mi aveva
colpito, quella parola: un Paese "cieco", noi stessi ciechi, non piu' capaci
di vedere, sapere, quello che accade. Privati dunque della possibilita' di
comprendere, e giudicare.
Nonostante il rapimento di Florence, Giuliana poco dopo e' a Baghdad,
perche' non si puo' rinunciare ad esserci. Anche se quando sei li' - come in
ogni altro teatro di guerra - magari vedi solo "dettagli". Perche' li
cerchi, se sei una giornalista come lei. E lei, quella mattina del rapimento
era andata proprio a verificare quello che i portavoce delle forze
d'occupazione si erano impegnati per settimane a presentare come un
dettaglio: che fine avevano fatto e cosa avevano da raccontare i profughi
civili di Falluja, la citta' che qualche settimana prima l'aviazione
americana aveva bombardato per distruggere "le forze anti-irachene" (cosi',
a proposito di veline, i comandi militari Usa definiscono gli iracheni,
resistenti, insorti o terroristi, senza distinzione).
Una storia che quasi certamente ne' io da Roma, ne' altri giornalisti chiusi
negli alberghi di Baghdad, avremmo trovato nelle fonti "ufficiali" e che
dunque non avrei, non avremmo capito, se Giuliana non l'avesse raccontata.
Sarei stata "cieca" rispetto ad uno degli episodi forse centrali della
vicenda irachena, di cui avevo potuto sapere la dinamica solo dal punto di
vista dei comandi americani.
Ho scritto le mie 50 righe. Poi sono partita per gli Stati Uniti. Seguendo
da la' quel poco che la stampa americana dava sul rapimento: il video,
soprattutto, che le tv hanno mandato in onda ossessivamente. Ma spesso in
quei giorni ho pensato - stupendomi di me stessa, perche' non ricordavo che
mi fosse mai accaduto prima - che la dis-locazione, il fatto che fossi la' e
non in Italia, mi faceva provare una strana sensazione: ero felice di essere
italiana, europea. Perche' "noi" siamo capaci di preoccuparci e mobilitarci
per una singola persona, per una sola vita.
Il "New York Times" riporta ogni giorno nelle pagine interne sulla politica
internazionale un minuscolo riquadro con i nomi dei soldati morti in Iraq.
Solo un francobollo in un mare di piombo, senza commenti. Leggevo quei
nomi - unici dettagli, grado ed eta' - erano tutti di giovani, uomini e
donne. E pensavo a quei corpi che tornano in silenzio, quasi in segreto,
consegnati alle famiglie con una lettera di condoglianze che il segretario
alla difesa Donald Rumsfeld non si prende neanche la briga di firmare
personalmente. Pensavo a quelle cerimonie funebri, mi scorrevano nella testa
immagini come quelle che abbiamo visto in tanti film, le salve di fucile e
la bandiera a stelle e strisce perfettamente ripiegata in un triangolo che
un soldato consegna alla madre o alla moglie di un ragazzo (o una ragazza)
morto laggiu'. Ma lontano dagli occhi delle telecamere, perche' il lutto non
puo' essere esibito, altrimenti "il pubblico" potrebbe turbarsi e farsi
magari delle domande sulla guerra di Bush per sconfiggere il tiranno ed
esportare la democrazia e rendere piu' sicura l'America.
Noi invece i nostri morti li piangiamo pubblicamente. I nostri sequestrati
cerchiamo di salvarli, ad ogni costo. Torno in Italia e Giuliana e' ancora
in ostaggio dei suoi sequestratori. E ancora una volta sono in redazione
quando arriva la notizia della sua liberazione. Lei e' viva, e' salva. Sono,
siamo pazzi di gioia, si prepara una lunga notte di lavoro. Ancora una volta
si cerca il "contatto" in Iraq, ma il telefono squilla a lungo, a vuoto.
Comincia a circolare la voce che c'e' stata una sparatoria. All'inizio
pensiamo che Giuliana non sia stata consegnata dai rapitori, ma che ci sia
stato un blitz, un'azione di forza. Ma i conti non tornano: i contatti si
fanno frenetici. Sono gli americani che hanno sparato, ci sono dei feriti,
uno e' grave, no, c'e' un morto. Ed e' Calipari. E Giuliana e' ferita, ma
non e' grave. Calipari: i colleghi del dipartimento lo conoscono da quando
era alla Questura di Roma, sono stravolti. Qualcuno deve scrivere chi e'
Nicola Calipari e degli ultimi contatti "segreti" avuti con lui. Non io, che
lavoro connessa a Baghdad, e riferisco della prima incredibile versione dei
fatti da fonti Usa: la macchina andava veloce ad un posto di blocco, non si
e' fermata, abbiamo sparato per avvertimento... E' venerdi' notte, e ho la
nausea.
*
Due giorni dopo, Walter Veltroni scrive uno dei pezzi a mio avviso piu'
belli su Nicola Calipari, una testimonianza personale e politica (su
"l'Unita'" del 6 marzo 2005): "... ho sotto gli occhi un appunto sul periodo
in cui, tra il 2001 e il 2002, Nicola Calipari ha lavorato come dirigente
dell'Ufficio Immigrazione della Questura, a stretto contatto con il Comune
di Roma. Lo leggo e rileggo, con un po' di commozione, inseguendo qualche
ricordo e il filo di una storia che sento vicina alla mia, alla nostra, a
quella di queste citta'. L'impegno del "progetto Roxanne" per strappare alla
schiavitu' le donne comprate e vendute alla prostituzione; le fatiche e le
soddisfazioni della concertazione con le comunita' straniere: incontri,
trattative, e alla fine soluzioni accettate da tutti; il piano per
l'accoglienza dei richiedenti asilo... Quando accade una vicenda terribile e
irreparabile come la morte violenta di un uomo e' questo che si cerca: il
filo della sua storia, una sostanza che ci renda l'idea del suo sacrificio
se non accettabile, meno dura. Il filo di Nicola e' quello di un uomo
sobrio, discreto, solido, con le sue idee e le sue passioni, ma lontano
dall'idea di farne un credo da sbandierare. Un onesto servitore dello Stato,
si sarebbe detto un tempo (e forse e' il tempo che si torni a dire), fedele
alle istituzioni e anche a se stesso, alla propria coerenza, fino al
sacrificio della propria vita in un atto di eroismo che e' stato il supremo,
definitivo compimento di un dovere che non contiene in se' neppure una bava
di retorica. E' l'immagine di un'Italia che c'e', anche se ci capita
raramente di accorgercene. Un'Italia che non grida, che non cerca i
riflettori, non insegue televisori e indici di gradimento, che non litiga
per litigare e non stupisce per stupire, che non involgarisce e riserva le
sue indignazioni a quel tanto che c'e', nel mondo, da meritare
l'indignazione: una prostituta bambina sul ciglio di una strada, per
esempio; la sofferenza di un povero cristo scappato dalla fame o dalla
tortura; una donna sequestrata dai terroristi in un paese lontano; le
ingiustizie vere, quelle che versano sul mondo la morte e il dolore.
Un'Italia che c'e'. Nella compostezza, nella serieta', nel rispetto di se' e
degli altri, di tanti che lavorano nelle istituzioni, di tanti uomini e
donne della forze dell'ordine che mettono per il bene di tutti a repentaglio
la propria vita, e non in astratto ma concretamente, correndo a salvare chi
e' in difficolta' e magari non sparando per primi a un posto di blocco,
perche' davanti ad una pistola c'e' comunque una vita. Nell'esperienza dei
ragazzi (sono tanti, tantissimi, molto di piu' di quanto normalmente si
pensi) che vanno a fare i volontari nei paesi piu' disgraziati e lontani o
in quella triste periferia dell'anima del mondo ricco che vive nella
poverta' e nel degrado sotto le nostre case. Nella forza d'animo dei
familiari degli, oramai tanti, italiani che sono stati rapiti in Iraq:
l'ostinazione nell'ottimismo dei genitori, dei fratelli e delle sorelle di
Stefio, Agliana e Cupertino, il dolore composto dei familiari di Quattrocchi
e poi di Baldoni, la serenita' dei genitori di Simona Torretta e Simona
Pari, la tristezza che, alla notizia della morte dell'uomo che le aveva
salvato la figlia, e' calata sul volto da patriarca di Franco Sgrena...".
*
A Roma, sul muro dell'antico convento di via della Lungara che e' diventato
la Casa Internazionale delle Donne, per quattro settimane hanno sventolato
le gigantografie di Giuliana Sgrena e Florence Aubenas con una scritta
identica: "Liberatela". Ora quella di Florence e' rimasta uguale -
aspettiamo la sua liberazione e siamo straziate da come l'abbiamo vista
nell'unico video che i rapitori hanno mandato nel mondo - quella di Giuliana
ha la scritta: "Bentornata".
Le donne che frequentano la Casa - e sono moltissime - conoscono
personalmente Giuliana, sempre disposta a incontri e dibattiti sui temi che
le stanno a cuore - non credo qualcuna abbia mai incontrato di persona
Florence. Ma e' lo stesso: sono tutt'e due comprese in quel "noi" della
comunita' delle donne, un pronome plurale denso di significato, fatto di un
impasto sedimentato nel tempo e nelle/dalle pratiche delle nostre relazioni,
quelle dirette ma anche quelle mediate dalla parola scritta.
Quel senso di similitudine che non cancella il riconoscimento dell'altra, la
bellezza che vi scorgiamo, affetto e ammirazione, ascolto e attenzione alla
parola e ai gesti, nella vicinanza e nella lontananza. Un "noi" che spesso
confina/sconfina in altre dimensioni dell'identita' collettiva - la
professione o le possibili scelte di campo "miste" ma anche la poesia, lo
yoga o l'essere vegetariane o magari l'appartenenza alla comunita' lesbica o
quella piu' indistinta delle
etero-che-pero'-le-donne-sono-tanto-piu'-interessanti - ma che e', per
molte, il nostro modo di stare al mondo, il luogo formidabile da cui, e
attraverso il quale, guardare e sentire e capire cio' che accade e dargli
senso e misura. Con ragione e sentimento.

4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

5. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 911 del 26 aprile 2005

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