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La nonviolenza e' in cammino. 886
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 886
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 1 Apr 2005 00:16:14 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 886 del primo aprile 2005 Sommario di questo numero: 1. Appello per la promozione in tutta Italia di comitati in difesa della Costituzione 2. Enrico Peyretti: Rispetto per la vita 3. Laura Lilli: Una testimonianza 4. Francesca Borrelli ricorda Susan Sontag 5. Liliana Moro presenta "Anna Maria Ortese o dell'indipendenza poetica" di Gabriella Fiori 6. Maria Antonietta Saracino: parole sul mare della diaspora 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. APPELLI. APPELLO PER LA PROMOZIONE IN TUTTA ITALIA DI COMITATI IN DIFESA DELLA COSTITUZIONE [Dal sito www.domenicogallo.it riprendiamo il seguente appello del 24 ottobre 2004. Da allora ad oggi, come e' noto, il tentativo golpista e' passato anche - in prima lettura - al Senato. Con piu' urgenza si pone quindi per tutte e tutti il dovere morale e civile di impegnarsi per impedire la demolizione della Costituzione repubblicana, per difendere lo stato di diritto e la democrazia] Dopo un lungo attacco al diritto, alla giustizia e alla liberta' d'informazione una maggioranza estranea alla storia, alla cultura ed ai valori della Resistenza, sta per portare a termine l'attacco finale alla Costituzione italiana. Il disegno di riforma della seconda parte della Costituzione gia' approvato alla Camera dalla coalizione di governo [ora anche al Senato, in prima lettura - ndr -], e' un progetto eversivo che - ove attuato - portera' alla demolizione delle strutture del pluralismo, della eguaglianza, della liberta' e della partecipazione, che costituiscono gli assi portanti dell'intero edificio costituzionale. I diritti e le liberta' solennemente sanciti dalla prima parte della Costituzione hanno ricevuto solidita' e saldezza con gli istituti attraverso i quali e' stata organizzata la rappresentanza e sono stati distribuiti, bilanciati e divisi i poteri. Spogliati di tali istituti, attraverso la demolizione dell'architettura della parte seconda della Costituzione, i diritti e le liberta' appassiscono, cessano di essere garantiti a tutti e perdono il vincolo dell'inviolabilita'. La Costituzione e' la casa comune che ha consentito al popolo italiano negli ultimi cinquant'anni di affrontare le tempeste della storia, salvaguardando, nell'essenziale, la pace, la liberta', i diritti fondamentali degli individui e quelli delle comunita'. Essa ha contribuito a formare l'identita' nazionale, per cui oggi non e' possibile pensare al popolo italiano separato dai suoi istituti di liberta', dal grande pluralismo dei corpi sociali, dalla distribuzione dei poteri, dalla partecipazione popolare, dalla passione per il bene pubblico. La riforma della Costituzione colpisce l'identita' stessa del popolo italiano come comunita' politica, distruggendo quell'ordinamento attraverso il quale si sostanzia la democrazia e si garantisce il rispetto della dignita' umana alle generazioni future. In questo modo, demolendo le istituzioni della democrazia, si disfa l'Italia, trasformando il popolo italiano in un aggregato di individui in perenne competizione tra loro. La riforma proposta sovverte gli stessi cardini dello Stato di diritto. Essa attenta all'unita' nazionale; compromette l'universalita' e l'eguaglianza dei diritti istituzionalizzando il divario tra regioni e comuni poveri e regioni e comuni ricchi; istituisce, con un Premier dotato di tutti i poteri compreso quello di sciogliere a suo piacimento la Camera, un governo personale, un re elettivo, estraneo ai principi del costituzionalismo moderno; delegittima e disarma il Parlamento; spoglia delle sue responsabilita' di garanzia il Presidente della Repubblica; e infirma le funzioni degli altri organi dello Stato, a cominciare dalla Corte Costituzionale. Se la riforma dovesse passare, il frutto della Resistenza sarebbe cancellato ed il suo patrimonio disperso per sempre. Lo scontro politico che si articolera' attraverso il referendum e' l'ultima occasione per salvare i beni pubblici che i costituenti hanno donato al popolo italiano, facendo tesoro delle dure lezioni della storia. Come tale esso e' cruciale per il destino del nostro Paese, com'e' stata la Resistenza. Oggi, come allora, e' necessario ritrovare lo stesso spirito, la stessa coscienza di un dovere civile da adempiere: sconfiggere attraverso il referendum il progetto di demolizione della Costituzione, per ricostruire il primato della convivenza civile orientata al perseguimento del bene comune, fondamento morale senza il quale non puo' vivere una democrazia. Chiediamo che, prima ancora che questo progetto sia trasformato in legge, si organizzi la mobilitazione popolare e si costruiscano, in ogni comune, in ogni quartiere, in ogni caseggiato i "Comitati per il no nel referendum costituzionale". Primi firmatari: Luigi Ferrajoli, Domenico Gallo, Raniero La Valle, Gianni Ferrara, Antonia Sani, Umberto Allegretti, Giulietto Chiesa, Lidia Menapace, Gianni Palombarini, Fabio Marcelli, Ambretta Rampelli, Pasquale Colella, Livio Pepino, Aldo Tortorella, Giovanni Franzoni, e molte e molti altri ancora... 2. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: RISPETTO PER LA VITA [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo intervento (cosi' presentato dall'autore: "Questi sono appunti del 16 febbraio 2005, lasciati decantare a lungo; le ultime modifiche e aggiunte sono del 30 marzo"). Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recentissima edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario] Ospedale ginecologico. Donne giovani, partorienti, donne di mezza eta' o anziane, per tumori o altre malattie. Anche alcune ragazzine, accompagnate dalla madre. Non ci vuol molto a indovinare che almeno alcune sono qui per la ivg, l'interruzione volontaria della gravidanza. Un problema morale mai chiuso. Io votai nel referendum per mantenere in vigore la legge sull'aborto, ma non vorrei proprio che si parlasse ne' di vite "piu' importanti" di altre (come a volte si sente), ne' di diritti e progressi civili, ne' di scomuniche e condanne sommarie. Sento l'orribile peso sul cuore della guerra-come-sistema a servizio del dominio-come-sistema. E sento anche il peso sul cuore dell'abortismo leggero (c'e', temo proprio), che non sente neppure un dubbio morale, o lo accantona sveltamente. Sugli embrioni gia' in via di sviluppo, sento pure il problema, e soffro dei discorsi leggeri, che li trattano con sufficienza come robette biologiche, semplici appendici del corpo materno, da maneggiare a piacere (naturalmente a fin di bene! Per il desiderio di avere un figlio; e anche per la fama dei medici avventurosi). Altro discorso sarebbe se sapessimo con certezza - ma lo sappiamo davvero? - che nei primi giorni - e per quanti giorni? - quello e' solo materiale biologico in cui non e' davvero ancora cominciato il processo di formazione di un individuo umano. Se invece il processo e' cominciato, io so che ogni vita, la mia di vecchio, come quella di chiunque, come quella di un embrione e di un feto, e' sempre soltanto un inizio, una promessa, una possibilita'. Siamo tutti incompiuti. Questa e' la caratteristica piu' certa della natura umana, aperta e indefinita. Io non sono di piu', ne' piu' "importante", di un feto che sara' un uomo nato, dalle potenzialita' indefinibili. Se lui non ha diritto alla vita non l'ho neppure io. Sua madre non e' "piu' importante" di lui. Puo' essere necessaria ad altri figli nati, puo' avere un dovere di vivere, ma non ha un diritto superiore. So che per la Corte Costituzionale (sentenza citata in un recente documento di giuriste contro la discussa legge sulla fecondazione assistita, su "l'Unita'" del 10 febbraio) "non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi e' gia' persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare". Ebbene, io non riesco a condividere questo giudizio tagliente su chi e' persona e chi non lo e': un neonato di dieci giorni e' gia' persona? E' ancora persona un folle totale di cinquant'anni? E' ancora persona un vecchio in coma? Si', sono tutti persone. Oppure lo siamo solo noi che ne possiamo discutere? Stabilire il momento del parto come costitutivo iniziale dell'essere persona e conferimento della dignita' di persona, non e' proprio quel biologismo e fisicismo che viene rimproverato a chi riconosce valore personale aurorale, ma vero valore, al feto e all'embrione? Il feto (almeno il feto) gia' sente piacere e dolore, e partecipa, attraverso la madre, alle presenze umane, positive o negative, o soffre le assenze, attorno a se'. Se non avessimo vissuto con un sentire umano quel periodo, il nostro inconscio non avrebbe quei sedimenti profondi che oggi la psicanalisi scopre e riconosce in noi persone. Il senso comune e la legge (artt. 407-413 del codice penale) condannano l'offesa e vilipendio del cadavere, che non e' piu' persona soggetto di diritti. Perche'? Perche' in esso, che pure va disfacendosi, c'e' l'ombra e l'orma, la memoria e l'immagine della persona. Basta questo per conservargli una sorta di inviolabilita'. Non bastera' per l'essere umano che sta nascendo? Il dramma e' nelle situazioni di scelte tragiche: una sola tavola per due naufraghi. Ho votato a suo tempo per la non punibilita' dell'aborto assistito perche' comprendo e rispetto il dramma della donna implicata. Se fa morire il figlio per impossibilita' o per leggerezza egoistica, lo sa solo lei e Dio, non giudichiamo noi. Pero' fa morire. Non e' assolutamente un suo diritto, ma una sua tragedia, in cui ha bisogno e diritto all'aiuto e comprensione e rispetto. Non si tratta di infliggere rimorsi, ma di capire il valore in gioco, che e' il valore di tutti noi. Guerra, fame, aborto, tecnobiologie spregiudicate: si tratta sempre di uccidere, o abbandonare alla morte, o trattare come cosa morta, o non vedere che si affaccia una vita umana. Uccidere (anche dominare e minacciare, che sono come uccidere, perche' riducono la persona a cosa) e' il massimo male, la de-creazione. Tutte le altre violenze, anche l'offesa verbale, sono gradazioni dell'uccidere. Dunque, tutto uguale? No. Perche' sentiamo la guerra come l'orrore maggiore? Tanto che ci accusano di essere contrari alla guerra e non all'aborto, oppure piu' alla guerra che all'aborto. La guerra e' morte strumento di altra morte: uccidere alcuni per dominare tutti. E' piu' morte della morte. E' morte aggiunta, artificiale. E non per la follia di un miserabile odio personale, non per disperata necessita', ma come mezzo freddamente voluto e calcolato e scientificamente programmato di un crimine chiamato politica, mentre distrugge la polis umana; oppure come rassegnazione stupidamente disperata, ignorante, incapace di pensare altro che la violenza davanti alla violenza. I peggiori nemici storici dell'umanita', piu' dei criminali di strada, sono i governanti, i militari, gli scienziati, gli armaioli, che si sono compiaciuti o rassegnati alla normalita', funzionalita', professionalita', della guerra. La legittima difesa con le armi e' scusabile. Ma non lo e' piu' quando politica e cultura invece di cercarla accanitamente, scartano sistematicamente la via d'uscita dalla triste vergognosa fallimentare necessita' di uccidere per non morire. Ed anzi glorificano una vittoria armata, che e' sempre una sconfitta umana. Questo voglio dirlo anche per la Resistenza antifascista e antinazista. Ora che siamo nel sessantesimo anniversario e' giusto ricordare con gratitudine chi lotto' e mori' per difenderci da quella enorme violenza, ma e' altrettanto necessario sapere che la nostra coscienza e' progredita, ha nuove luci e nuovi doveri, come diceva gia' nel 1952, appena sette anni dopo il 1945, Primo Mazzolari: "Se facessimo la Resistenza come l'abbiamo fatta ieri, con l'animo di oggi, saremmo in peccato". "Molti, invece di considerarla un crimine, perche' facendo la guerra si uccide, la tengono come una disgrazia, per il fatto che in guerra si puo' essere uccisi" (Tu non uccidere, nona edizione, San Paolo 2002, pp. 81 e 31). Buona parte della Resistenza fu non armata. Questa e' la piu' gloriosa. L'altra e' motivo di sollievo, ma deve conservare l'umiliazione di aver dovuto usare le armi, strumenti mai gloriosi. Anche l'aborto e' uccidere. Ma, salvo casi mostruosi, o leggerezze teorizzate, e' per salvare una vita che non sa come diversamente salvarsi. Una sola tavola per due naufraghi. Se c'e' un'altra tavola, dobbiamo offrirgliela. Ognuno puo' donare la propria vita, ma nessuno puo' esigerlo. La legge sull'aborto doveva aiutare le donne fino, al limite ideale, prevenendo e abolendo ogni necessita' di abortire. Su "il foglio" [il prestigioso "mensile di alcuni cristiani torinesi" che da trentacinque anni e' una delle vopci piu' nitide della riflessione morale e dell'impegno civile in Italia - ndr -] scrivemmo allora: "La legge sull'aborto e' contro l'aborto". Ma questo aspetto primario della legge e' abortito. Mi si dice che oggi si praticano aborti anche fino al sesto mese, facendoli passare per terapeutici. L'aborto da tragica necessita' e' diventato un metodo anticoncezionale? Non discuto la legge in vigore, ma il senso morale della societa' riguardo all'aborto. Su questo, nel rispetto della sensibilita' e dell'esperienza delle donne, abbiamo, donne e uomini, lo stesso compito di riflessione e formazione. Se la decisione della donna di abortire e' sincera o no, questo e' il suo mistero insondabile, non giudicabile. Piu' che di autodeterminazione (poiche' non decide solo di se') io parlerei, appunto, di ingiudicabilita'. La guerra e' uccidere per stabilire il potere anti-vita, mortale, divinita' capovolta, idolo massimo. Percio' faccio differenza tra aborto e guerra (avevo gia' provato a scriverne nel libro La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998, pp. 28-32). Perche' la chiesa gerarchica ha condannato (per lo piu'; ma non il vescovo Tonino Bello, per esempio) l'aborto non come la guerra, ma piu' della guerra? C'e' di mezzo il sesso, nell'aborto. Una gerarchia madre-matrigna e diffidente non tollera volentieri la liberta', di corpo e di coscienza, dei figli e delle figlie. La guerra sembra, anche quando e' totalmente crimine, protezione contro il male e sua distruzione apocalittica. Esattamente cosi' sta facendo Bush. E la parte senza fede della chiesa ci cade. Ma anche noi siamo chiesa, e non vogliamo caderci. Non possiamo assolvere aborto e manipolazione della vita senza sacro rispetto. Non possiamo perdonare la guerra e condannare l'aborto: Bush (maschera simbolo di tutto il sistema di dominio mortale) oggi e' il piu' grande abortista del mondo. Regola giusta e': comprensione per il debole, giudizio severo sul forte. 3. RIFLESSIONE. LAURA LILLI: UNA TESTIMONIANZA [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo questo articolo di Laura Lilli apparso sul quotidiano "La Repubblica" dell'11 febbraio 2005. Laura Lilli, giornalista e saggista, vive e lavora a Roma, dove e' nata nel 1937; ha compiuto parte dei suoi studi in Inghilterra e in America, specializzandosi in Studi Americani allo Smith College e alla Yale University; militante femminista dai primi anni Settanta, ha partecipato alla fondazione delle riviste "Quarto mondo" e "Compagna"; i suoi articoli sono apparsi negli anni Sessanta sul "Mondo" di Mario Pannunzio, e piu' recentemente sulla "Stampa", su "Panorama", e sul "Corriere della sera"; fa parte della redazione culturale della "Repubblica" fin dalla nascita del giornale. Ha scritto libri di poesie in italiano e in inglese; ha pubblicato racconti su numerose riviste letterarie, da "Il caffe'" negli anni Sessanta a "Tuttestorie" negli anni Novanta; e' autrice di raccolte di interviste e di saggi sulla stampa femminile e sulla condizione della donna giornalista nella grande stampa. Tra le opere di Laura Lilli: Ortiche e margherite. Tra le pieghe dell'intervista, Essedue, 1987; Voci dall'alfabeto. Interviste con Sciascia, Moravia, Eco nei decenni Settanta e Ottanta, minimum fax, 1995; Dolce per le formiche - Sweet to ants, Empiria e Florida, 1996; Otto quarti d'ora. Catchlines, Empiria e Florida, 2001; Passioni & parole. Incontri e interviste, La Tartaruga, 2001] Ho letto su queste pagine l'intervista ad Anna Bravo a proposito del suo saggio sull'aborto e sul femminismo, Noi e la violenza. Trent'anni per pensarci (uscito sulla rivista "Genesis") e le conseguenti interviste a Dacia Maraini e a Luciana Castellina. I vari interventi - a cui vorrei aggiungere questa mia testimonianza - riguardano anche la legge 194 sull'aborto, approvata in Parlamento il 18 maggio 1978, e ribadita il 17 maggio 1981 da un referendum popolare nel quale ha votato il 79,4% degli elettori (percentuale altissima). A favore della cancellazione della legge si e' espresso solo l'11,6%, mentre per il suo mantenimento la maggioranza e' stata traboccante: l'88,4% dei votanti. Viviamo in un paese democratico, dunque il discorso sembrava chiuso una volta per tutte. Ma tira un forte vento revisionista, e non siamo piu' certi nemmeno della Costituzione. Figuriamoci se possiamo sentirci al sicuro a proposito di una legge che sgancia le donne dalla sudditanza sessuale all'uomo, come bene ha chiarito Dacia Maraini. Non tutte le donne devono abortire. Solo quelle che lo decidono. A queste il legislatore e lo Stato hanno il dovere di assicurare la stessa totale liberta' di movimento, anche sessuale, che garantiscono ai cittadini maschi... Ora, io ho l'impressione che nei precedenti interventi un tema sia stato lasciato in ombra, ed e' su questo che vorrei intervenire, avendo partecipato in prima persona ad entrambe le campagne a favore dell'aborto: quella del '78 e quella dell'81. L'ho fatto - ed e' questo il punto - pur essendo, io personalmente, contraria all'aborto. Sia perche' sono credente pur non frequentando la chiesa cattolica (e' la Chiesa che respinge le donne col mio tipo di opinioni e curriculum vitae), sia perche', a mio avviso, non occorrono ne' fede ne' scienza ma solo un po' di senso comune per ammettere che un essere umano - cosi' come un gatto o un coniglio - una volta concepito e' concepito. C'e' solo da aspettare che maturi fino alla nascita. Non ci vuol molto, mi sembra, per convenire con Anna Bravo sul fatto che anche il feto e' una vittima. E tuttavia, dicevo, io mi sono impegnata nelle due campagne. Perche' l'ho fatto? Perche' non credo che una mia opinione personale, senza dubbio condivisa da molte altre donne ma non da tutte, possa, in un regime liberale, essere trasformata in legge e resa obbligatoria. Le donne, come gli uomini, devono avere liberta' di scelta. La quale non puo' prescindere da un uso del proprio corpo libero e indipendente dalla riproduzione, esattamente come avviene per gli uomini... Se poi ne seguono gravidanze indesiderate, deve spettare alle donne, appunto, il decidere cosa fare: anche qui basta il senso comune per constatare che l'intera faccenda si svolge appunto nel loro corpo. Di cui, in Italia, fino a tempi recentissimi, le donne non sono mai state padrone: non solo per via della Chiesa ma anche per le leggi e il comune sentire. E' evidente che liberta' di fare qualcosa non significa "obbligo" di farla: anzi, e' precisamente il contrario. Cosi', se una donna non vuole abortire, legge o non legge, non abortisce. Ma se poi vuole, non rischiera' piu' la morte sul tavolo di cucina di qualche mammana, armata di prezzemolo e ferri da calza. Per poi alzarsi sanguinante e appesantita dal solito inconfessabile senso di colpa (antica arma per sottometterle). Le donne, anche quelle che abortiscono o hanno abortito, non sono mai state "abortiste", parola usata con spregio ma a vanvera dai cosiddetti difensori della vita. L'aborto e' troppo doloroso e drammatico perche' qualunque donna possa essere a suo favore in astratto. Dal 1981 la conoscenza dei contraccettivi si e' diffusa. Molte statistiche dicono che fra le italiane acculturate l'aborto e' di fatto scomparso. E' rimasto soprattutto fra le immigrate dai paesi dell'Est. Inoltre, oggi in Italia, si puo' anonimamente partorire in ospedale e andarsene, lasciando il figlio da dare in adozione. Ma si sarebbe arrivati a questo senza certe dure ed amare battaglie femministe? 4. MEMORIA. FRANCESCA BORRELLI RICORDA SUSAN SONTAG [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo questo articolo apparso sul quotidiano "Il manifesto" del 29 dicembre 2004. Francesca Borrelli si e' laureata in lettere moderne con indirizzo in critica letteraria, con tesi sulle Strutture concettuali e iconiche nell'opera di Carlo Emilio Gadda; dall'87 redattrice culturale del quotidiano "Il manifesto", di cui ha diretto, nella precedente veste grafica, il supplemento libri. Attualmente e' inviata per la sezione cultura; ha collaborato a diverse riviste letterarie con recensioni e interviste; nel secondo semestre del 1997 ha tenuto diversi seminari nelle universita' statunitensi di Yale, Berkely, Browne, Harvard; ha pubblicato molti saggi, ed ha tra l'altro curato i volumi di AA. VV., Un tocco di classico, Sellerio, Palermo, 1987; e AA. VV., Pensare l'inconscio. La rivoluzione psicoanalitica tra ermeneutica e scienza, Manifestolibri, Roma 2001. Susan Sontag e' stata una prestigiosa intellettuale femminista e pacifista americana, nata a New York nel 1933, deceduta sul finire del 2004; acutissima interprete e critica dei costumi e dei linguaggi, fortemente impegnata per i diritti civili e la dignita' umana; tra i molti suoi libri segnaliamo alcuni suoi stupendi saggi, come quelli raccolti in Contro l'interpretazione e Stili di volonta' radicale, presso Mondadori; e Malattia come metafora, presso Einaudi; tra i suoi lavori piu' recenti segnaliamo particolarmente il notevole Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003] Dall'arte alla politica una passione oltre ogni resa. Scrittrice, regista teatrale e cinematografica, saggista esplosiva, Susan Sontag restera' nella storia del pensiero critico come una icona malgre' soi. E' morta a New York ieri mattina, aveva 71 anni, diciassette libri pubblicati dai maggiori editori del mondo. Recentemente era riapprodata al romanzo, dopo gli esordi degli anni '60, ma il suo ultimo lavoro tornava alla fotografia per indagare la storica alleanza tra l'obiettivo e le immagini di guerra * Il tempo non le bastava mai, rubacchiava ore al sonno per avanzare nella nottata quel tanto che le serviva a vedere anche tre film di seguito, o per seguire sin nei camerini le compagnie teatrali che conquistavano i suoi molti entusiasmi, e delle arti figurative nessuna la lasciava indifferente: Susan Sontag era una esplosione di vitalita', anche il male piu' ostinato, nel ripresentarsi a lei del tutto privo di clemenza, ha dovuto recedere piu' volte, finchi l'ha vinta, ieri, e la notizia sembra ora una sorta di affronto: la sua sopravvivenza era stata messa in dubbio piu' volte, il trapianto di midollo sublto mesi fa era stato solo l'ultima tappa di un dolore che lei aveva preferito indagare negli altri, chiedendosi a chi corrisponda quel "noi" che pronunciamo un po' sovrappensiero quando stiamo di fronte a chi soffre, credendo di capire. E' stato detto di lei che era "la donna piu' intelligente d'America" e lei rideva vagamente indignata; dopo l'11 settembre l'hanno associata ai peggiori nemici della bandiera, e lei quasi se ne vantava. Incontrarla riservava quel genere di sorprese al quale non si corre il rischio di fare l'abitudine: era dotata di un temperamento invidiabile, tra le sue qualita' manifeste c'era una speciale generosita', l'insofferenza per ogni deriva conformista, un misto di rigore e di vivacita' intellettuale tradotti nella capacita' di coltivare interessi eterogenei senza indulgere a scorciatoie impressioniste. E quella irriducibile vitalita' che ha infierito sulla sua resistenza, non guadagnandola a alcuna forma di resa. La ciocca bianca che attraversava come una fiammata i suoi capelli corvini era da tempo scomparsa, ma restera' per sempre legata alla sua immagine, che la sinistra radicale ha convertito in una icona fin dalla meta' degli anni '60, quando in Contro l'interpretazione esordi' alla critica contestando l'analisi contenutistica applicata a ogni forma di testo artistico. Poi, gli scritti militanti di Stili di volonta' radicale, e il reportage sul Vietnam, Viaggio a Hanoi, fecero viaggiare per il resto del mondo il suo giudizio sull'aggressivita' della politica americana. L'esercizio della finzione narrativa l'aveva gia' piu' volte tentata, ma da quella sponda le sarebbe venuto un successo tardivo. A consegnare sempre maggiore autorevolezza al suo nome erano piuttosto saggi come quelli contenuti in Sulla fotografia, che aprirono sul finire degli anni '70 il capitolo di una passione alla quale e' tornata poco piu' di due anni fa, quando le immagini di guerra le hanno dettato osservazioni raccolte in un libro dal titolo eloquente: Davanti al dolore degli altri. * Dalla saggistica al romanzo Di un diverso dolore, piu' privato, e anzi fatto oggetto di una sorta di condanna sociale, ha parlato in Malattia come metafora, dove il riflesso dell'esperienza personale taglia di una luce sinistra i luoghi comuni che la cultura dell'efficienza e del successo riservano a chi non gode di buona salute. Solo negli anni '90 la vocazione al romanzo, parzialmente mortificata nella stagione dell'impegno militante, era tornata a occupare il primo piano della scrittura di Susan Sontag, senza tuttavia distoglierla fino in fondo dalla sua inclinazione a misurarsi sul terreno delle contingenze reali. Ci incontrammo, una prima volta, nel novembre del 2000: la Mondadori aveva appena fatto uscire In America, l'ultimo suo romanzo portato a compimento, un intreccio tessuto intorno al personaggio della grande attrice polacca della fine del XIX secolo, Helena Modrzejewska, consegnata alla finzione con il nome di Maryna Zalezowska. In quel libro aveva riversato l'ideale di un personaggio femminile trainante, coltivato nell'intelligenza, rivoluzionario nello spirito, deliziosamente egocentrico. E le aveva regalato gli ideali utopici di Fourier, grazie ai quali Maryna aveva riunito intorno a se' l'accolita degli amici piu' cari, trascinandoli in un progetto da realizzarsi nell'emigrazione. Al culmine della sua carriera l'attrice se n'era dunque andata, prima in un arcaico villaggio di montagna, nel sud della Polonia, poi in California dove il palcoscenico coincideva con il gran teatro del nuovo mondo. Tra quelle pagine, la proverbiale intelligenza di Susan Sontag aveva restituito a una sorta di verginita' il panorama seducente, persino emozionante, di un'America infinite volte descritta, catturata nei suoi luoghi e nei suoi momenti piu' suggestivi da decenni di cinema, di fotografia, di documentari: un'America alla quale tornava nella finzione, dopo le grandi distanze ideali guadagnate dal dissenso politico che l'aveva allontanata dalle imprese dei numerosi presidenti da lei avversati: Bush era solo l'ultimo. Susan Sontag era fiera del suo recente personaggio romanzesco, ne parlava volentieri, ma riservava ancora piu' energie alle contingenze reali, su qualunque geografia fossero disposte: aveva dedicato In America "agli amici di Sarajevo", che era stata a visitare piu' volte. Andava e veniva con i ricordi traversando le latitudini dei molti luoghi ai quali era approdata, i suoi pensieri correvano lungo gli anni affiancando nella memoria i molti amici incontrati. Raccontava del tempo in cui studiava per il suo dottorato in filosofia a Harvard, allora viveva a Cambridge con suo marito Philip Rieff e con loro ando' a stare Herbert Marcuse: "una persona straordinaria, a quei tempi - erano gli anni '50 - non era ancora molto noto, ma per me era gia' una presenza magica nella nostra casa. Passavamo ore a discutere, era ironico, un grande entusiasta, amava moltissimo la letteratura, adorava Goethe. Come tanti della sua generazione - ricordo che anche Hannah Arendt era cosi' - non coltivava gusti alla moda. Al tempo, non avrei immaginato che Marcuse sarebbe diventato una figura di rilievo mondiale e non lo supponeva nemmeno lui. Una volta mi chiese di chiamare Francoforte: allora, fare una telefonata da una cosi' grande distanza era tutt'altro che comune. Ma il fatto e' - mi disse - che oggi e' il compleanno di Teddy. Parlava di Adorno. Finalmente gli telefono', fu una scena curiosissima, mi stupii di vedere quanto fosse nervoso. Stava li' irrigidito come davanti a un maestro, era interessante sentirlo parlare, vedere con quanta deferenza si rivolgeva ad Adorno. Teneva il telefono con una mano e con la testa annuiva, annuiva, annuiva...". Senza compiacimento Susan Sontag ripercorreva i miti di un secolo ormai tramontato e di cui sarebbe entrata, suo malgrado, a fare parte. Non so come la ricorderanno in America, ora che nessuno potra' piu' temere la sua voce; certo e' che subito dopo l'attentato al World Trade Center di New York furono pochi coloro che dimostrarono di apprezzare il suo editoriale, pubblicato sul "New York Times", in cui si appellava alla "consapevolezza storica" dell'America, alla sua coscienza politica tutt'altro che immune da responsabilita' nell'avere indotto una cosi' grave ritorsione dell'integralismo islamico. In quei giorni, la partecipazione al dolore di una citta' molto amata si alternava all'indignazione per lo sfoggio di un patriottismo dal quale nessuno sembrava volersi esimere: Susan Sontag venne additata alla pubblica riprovazione, tutti i media si affollarono intorno a lei, iscrivendola al registro degli ospiti sgraditi. Da Farrar Straus e Giroux era uscita pochi giorni prima la sua ultima raccolta di saggi titolata Where the stress falls (Dove cade l'accento), ma l'attualita' esigeva, in quelle settimane, che ogni altra questione arretrasse di fronte all'attacco all'Afghanistan che si andava preparando, prima dell'invasione dell'Iraq. Cosi', Susan Sontag acconsenti' a rispondere a qualche domanda, le sue erano parole ancora fresche di emozione, non le fu difficile farsi profeta e prevedere che "a soffrire le conseguenze di una risposta bellica su larga scala da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati non saranno i terroristi, ma altri civili innocenti - in Afghanistan, in Iraq e altrove". "E queste morti - disse ancora in una intervista, che sarebbe poi stata pubblicata su queste pagine - non faranno che accendere l'odio seminato dal fondamentalismo islamico piu' radicale, tanto nei confronti degli Stati Uniti che, piu' in generale, del laico occidente". Ma aveva accenti cupi anche per l'altro fronte, la demagogia non ha mai inquinato la sua lucidita' politica. Cosi' - diceva - "la riparazione delle ingiustizie subite non e' lo scopo di questi terroristi, sebbene le loro rimostranze siano legittime. L'attacco e' contro il nostro mondo moderno, di cui ci e' stata mostrata la profonda vulnerabilita'; e' alla cultura che rende possibile l'emancipazione delle donne, e, si', anche il capitalismo". L'anno seguente Susan Sontag lo avrebbe passato a riflettere sulla predilezione che la fotografia ha avuto per le immagini di guerra: ne venne fuori un saggio - tutt'ora l'ultimo lavoro pubblicato in italiano - titolato Davanti al dolore degli altri, che riprendeva un interesse inaugurato circa trent'anni prima. Di tutte le arti che hanno catturato l'attenzione di Susan Sontag, la fotografia e' rimasta nei decenni quella verso cui ha mantenuto una affezione piu' costante; probabilmente per la seduzione esercitata dal suo carattere di leggibilita' universale, per l'intrinseca democraticita' del suo valore testimoniale, che valica le frontiere stabilite dalle lingue e dai background culturali. * Sotto il segno della storia Solo apparentemente, pero', il nuovo libro riprendeva gli scritti comparsi in Sulla fotografia. L'argomento di attualita' era diventato, infatti, uno soltanto: la storica alleanza tra due messe a fuoco, quella dell'obiettivo e quella delle armi. La contemplazione di una immagine ci trasforma in voyeur - osserva Susan Sontag tra quelle pagine - quando ritrae violenze e orrori della guerra ci muove a compassione; ma si sa che le nostre emozioni sono instabili, dunque non possiamo farvi affidamento. Soprattutto perche' "non si dovrebbbe mai dare un 'noi' per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri". Ne parlammo l'estate del 2003, quando venne per l'ultima volta a Roma a presentare il suo libro: "Siamo cresciuti accumulando archivi di immagini mentali - spiego' -, immagini che in alcuni casi ci portano a ricordare diversamente da quanto non faremmo se avessimo soltanto accesso a informazioni non visive. La memoria non e' fatta soltanto di cio' che accettiamo di ricordare; talvolta per rendere possibile una riconciliazione bisogna anche accordarsi sulla necessita' di dimenticare. Con l'andare del tempo, il mio interesse per la fotografia ha acquisito una valenza piu' politica. Invecchiando mi sono fatta piu' furba, ho cominciato a interrogarmi sulla differenza che passa tra 'noi', che dalla nostra postazione protetta e economicamente agiata ci permettiamo di cambiare canale di fronte alla vista di un telegiornale, e, per esempio, gli spettatori di Al Jazeera. Non credo che loro condividano il disincanto di Baudrillard per il quale oggi esisterebbero soltanto realta' simulate. Mi domando come sia possibile essere cosi' scollati dalla realta', vivere cosi' poco presenti a se stessi e alla storia". Era questa una tra le motivazioni piu' forti che hanno mantenuta Susan Sontag in vita, oltre il limite piu' volte indicato dalla malattia: tenersi stretta a tutto cio' che lascia un segno sui nostri giorni, definire quel segno e interpretarlo, non permettere che i fatti della quotidianita' ci scivolino addosso, disporre lo sguardo a catturare tutto cio' che si offre sulla scena del mondo, si tratti di guerre, calamita' naturali o smaglianti fratture artistiche. Non distrarsi era, molto piu' che un imperativo, una disposizione naturale; una attitudine coltivata nel grande dispendio di energie che Susan Sontag ha elargito fino ai suoi ultimi giorni. E nei suoi pensieri, prima o poi, si ripresentava sempre la frase di Henry James che teneva stretta come un talismano, la frase in cui diceva di non avere mai un'ultima parola. 5. LIBRI. LILIANA MORO PRESENTA "ANNA MARIA ORTESE O DELL'INDIPENDENZA POETICA" DI GABRIELLA FIORI [Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo questa presentazione del bel libro di Gabriella Fiori, Anna Maria Ortese o dell'indipendenza poetica, Bollati Boringhieri, Torino 2002. Liliana Moro (per contatti: mor.li at libero.it), insegnante di italiano e storia, fa parte della Societa' Italiana delle Storiche e collabora con la Libera Universita' delle Donne come docente. Si occupa di storia dell'istruzione e di storia della scienza e collabora con la rivista "Il paese delle donne". Opere di Liliana Moro: AA. VV., Profumi di donne, Cuen, 1997; con Sara Sesti, Donne di scienza. 55 biografie dall'antichita' al duemila, Pristem - Universita' Bocconi, seconda edizione 2002. E' una delle webmaster del sito dell'Universita' delle donne, e cura in particolare le rubriche Storia, Guerra, Pensiamoci e l'Agenda. Gabriella Fiori e' nata e vive a Firenze; finissima saggista, insegnante e traduttrice, acuta studiosa del pensiero di Simone Weil e di Maria Zambrano. Tra le opere di Gabriella Fiori: Simone Weil. Biografia di un pensiero, Garzanti, Milano 1981, 1997; Simone Weil, una donna assoluta, La Tartaruga, Milano 1991; Anna Maria Ortese o dell'indipendenza poetica, Bollati Boringhieri, Torino 2002. Anna Maria Ortese (Roma 1914 - Rapallo 1998), giornalista e narratrice, e' una delle maggiori e piu' originali scrittrici italiane del Novecento. Opere su Anna Maria Ortese: per un avvio cfr. Monica Farnetti, Anna Maria Ortese, Bruno Mondadori, Milano 1998] Scrittura originalissima, questa di Gabriella Fiori, che attraversa il testo di Anna Maria Ortese in modo dichiaratamente appassionato, proponendone una lettura coinvolta e partecipe, di piu', una "intimita' con le sue pagine... che, maturando in letture e riletture, lentamente, attraverso sintonie di ascolto interiore, e' divenuto ideale di partecipazione a una scrittura-essenza di donna artista che incarna in poetica il suo pensiero morale, radicato nella sua metafisica". Il risultato di questo approccio e' una scrittura che intreccia in modo quasi indissolubile le parole dell'una e dell'altra, cosi' che non lo si potrebbe definire un lavoro di critica letteraria, benche' anche di questo si tratti e anzi sia condotto con raro rigore filologico. In effetti viene costruita poco a poco la biografia, esterna e intima, della scrittrice e ricostruita la sua poetica, ma anche la sua originalissima visione del mondo, una metafisica, appunto. Questo metodo, questo corpo a corpo con l'opera della Ortese non impedisce a Fiori di operare anche un distacco e di parlarne dal centro di se' studiosa e "lettrice reale", il che "Significa essere un soggetto-donna che si fa interlocutrice del soggetto-donna scrittrice, nel contatto fra due cammini femminili d'anima". Per questa via giunge a definire Anna Maria Ortese "maestra di liberta' interiore" e ad accostarla a Simone Weil, a Etty Hillesum (e alla ben piu' sconosciuta Zenta Maurina) motivando cose' la sua scelta: "Dal fiume sotterraneo della sapienza femminile nel tempo, ho tratto solo quei tre nomi, perche' sono di tre sue contemporanee che, come lei, hanno attraversato il buio piu' fondo dell'epoca, restando, come lei, fedeli a se stesse. Pagando in vario modo e misura lo scotto della disapprovazione irritata, dei riconoscimenti tardivi e dell'oblio". Una motivazione che getta luce sulla loro produzione e sulla loro vicenda di vita, ma anche sui percorsi e sulle scelte di molte donne nella storia, cosi' come sui meccanismi di costruzione della memoria collettiva e della tradizione che escludono il libero pensiero femminile e dimenticano le scrittrici che l'hanno coltivato. La lettura di questo denso libricino offre una gradevole, anche se non facile, navigazione nelle personalissime pagine della Ortese facendoci incontrare illuminanti osservazioni sull'amore o sulla guerra e perle di questo tipo: "Tutta la vita l'ho passata a chiedermi: perche' esiste la crudelta'? Il principio della crudelta' non e' infatti tanto nella necessita' di sopravvivere, quanto nel credere che questo sopravvivere sia tutto, e quindi decidere di rendere questo lampo (la vita individuale) il piu' piacevole possibile. Cio' comporta uno strappo e una lacerazione intensiva nel tessuto della vita che ci circonda. La crudelta' ha inizio qui. Ma alla base di questa crudelta', a guardar bene, non c'e' che una perdita di destino, un abbassamento di orizzonte", un dimenticare i legami tra creature di cui e' costituita la vita. La visione del mondo che Anna Maria Ortese raggiunse contemplava una stretta connessione tra i destini di tutti e di tutto. Da qui l'importanza della sensibilita' alle manifestazioni della vita e la centralita' dell'espressione, che non e' un moto individuale ma risponde a una vera e propria esigenza morale. Ortese considerava "'l'Espressivita' scritta come una parte dell'essere intero, parte che non si puo' salvare da sola, ma deve salvarsi con l'essere tutto'. La sorgente della scrittura e' l'adesione persuasa alla sorgente della vita". Un'attivita' fortemente collegata all'essere donna e per nulla facile perche' se "tutto si esprime, cioe' tutto e' vivente pensiero" occorre fare silenzio, calarsi nell'intensita' e guardare alla fragilita'. "Cosi' da percepire 'quegli indefiniti lamenti che trascorrono nel cielo dell'essere' come un suggerire che la bellezza e la malinconia delle cose sono 'quasi riflessi o risultati di una realta' che non vediamo ancora, come un continente disperso e difficilmente rintracciabile'". Difficilmente rintracciabile proprio come la gentile e feconda concezione della vita che Anna Maria Ortese scrittrice di visione propone alla lettura di chi voglia seguire il percorso di ricerca a cui ci introduce Gabriella Fiori. 6. LIBRI. MARIA ANTONIETTA SARACINO: PAROLE SUL MARE DELLA DIASPORA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 marzo 2005. Maria Antonietta Saracino, anglista, insegna all'Universita' di Roma "La Sapienza"; si occupa di letterature anglofone di Africa, Caraibi, India e di multiculturalismo. Ha curato numerosi testi, tra cui Altri lati del mondo (Roma, 1994), ha tradotto e curato testi di Bessie Head (Sudafrica), Miriam Makeba (Sudafrica), la narrativa africana di Doris Lessing e Joseph Conrad, testi di Edward Said, di poeti africani contemporanei, di Aphra Behn; ha curato Africapoesia, all'interno del festival Romapoesia del 1999; ha pubblicato saggi sulle principali aree delle letterature post-coloniali anglofone, collabora regolarmente con le pagine culturali de "Il manifesto" e con i programmi culturali di Radio3] Multiculturalismo, con i suoi numerosi correlati - interculturalismo, multietnicita', etnia, ma anche immigrazione, migrazione, per non citare che i piu' frequentemente utilizzati, quasi come sinonimi -, e' un termine spesso abusato, tanto vari sono oggi i contesti in cui, a largo raggio, lo si vede adoperato. Originariamente nato con l'intento di valorizzare le differenze culturali (a partire da una situazione che nel volgere di pochi anni, a seguito delle diverse massicce ondate di flussi immigratori, si e' profondamente trasformata, scoprendosi del tutto priva di un lessico che tale cambiamento sapesse accogliere e definire), in un tempo altrettanto breve ha finito per rappresentare una sorta di contenitore indifferenziato di tutti quegli elementi che nel campo dell'incontro tra culture non si sapeva come classificare. Oppure, peggio ancora, ha finito per identificare "la risposta liberale che riconosce le culture e le identita' altrui per mantenersene al centro, lasciando queste altre culture in posizione di subalternita', e cosi' evitando qualsiasi interrogazione della propria agenda politica", come scrive Iain Chambers in una nota conclusiva al volume di saggi La nuova Shahrazad. Donne e multiculturalismo (Liguori, pp. 436, euro 26). Un testo che, viceversa, di questo termine fa asse portante quanto significativo di un complesso e diversificato reticolo di situazioni, tutte attinenti - e in questo consiste la peculiarita' del testo - all'universo femminile. Esito del lungo lavoro di ricerca di un gruppo di docenti e dottorande dell'Universita' di Napoli, l'Orientale, il volume - curato da Lidia Curti con la collaborazione di Silvana Carotenuto, Anna De Meo e Sara Marinelli - riconsegna il concetto di multiculturalismo all'ambito che piu' correttamente dovrebbe appartenergli: a uno spazio in cui l'identita' di ciascuno si interroga e si mette in gioco, aprendosi alle differenze - storiche, religiose, culturali - e ai linguaggi che lo segnano. Linguaggi letterari, saggistici, iconici, ma anche legati alla musica e alle arti visive; al suono inteso come voce che narra, che racconta, in un sovrapporsi e alternarsi di lingue, di storie, di luoghi lontani e narrative personali, come nel saggio che chiude il volume, Quadrifonia di voci migranti, di Sara Marinelli, al quale si accompagnano quattro vere e proprie installazioni sonore, qui trascritte e raccontate nel loro farsi, ma di fatto realizzate e fruibili come parte del progetto di ricerca. Parola scritta che ripercorre sentieri di altre scritture, di altre narrative, dunque, ma anche parola trasformata in suono, ritratta e fissata nelle strade di Napoli, dove in un contesto gia' storicamente ricco di incroci tra culture, vengono filmate e ascoltate narrazioni di donne provenienti dalla Croazia, dall'Albania, dalla Romania, da El Salvador, dalla Cina e dalla Somalia: racconti della tradizione orale e storie personali di testimoni del multiculturalismo di oggi; ma anche racconti in forma di disegno, di tessitura, di lessico cinematografico e digitale; ossia in molti tra i tanti linguaggi dei quali le donne, in ogni cultura ma soprattutto, ancora oggi, in quelle che provengono dall'Africa, dall'India, dall'arcipelago caraibico, da tempo immemore si servono per dare forma comunicativa al loro stare nel mondo. * Narratrici per eccellenza, testimoni per vocazione, le donne fanno del raccontare, della parola, il loro legame privilegiato con il mondo, anche se non sempre senza dolore, come nel recente passato, che ha consegnato alla storia lunghi periodi bui, di protratta violenza, la cui ricostruzione, affidata per l'appunto alla parola, e' potuta accadere a prezzo di un dolore al limite dell'incontenibile. Come nella ricostruzione dei crimini dell'apartheid nei due anni e mezzo in cui si e' quotidianamente riunito il Truth and Reconciliation Commitee - il Tribunale per la Verita' e la Riconciliazione voluto da Nelson Mandela all'indomani della sua uscita di prigione e affidato al vescovo Desmond Tutu - del quale parla in questo volume il saggio di Jane Wilkinson, prendendo spunto dalle raccolte di testimonianze di autrici che in forma diversa, dalla poesia alla saggistica, hanno fermato sulla carta la difficolta' del dire, del trasformare in parola un dolore che - proprio perche' costretto ad essere ri-raccontato - ogni volta viene rivissuto di nuovo, fino a non riuscire piu' a esprimersi, autocondannandosi al silenzio; perche' "ci sono storie che non vogliono essere narrate./Se ne vanno, portandosi valige/tenute insieme da uno spago grigio./Guarda le loro schiene ricurve che scompaiono/.../storie che rifiutano di essere danzate o mimate", come scrive la poetessa afrikaner Ingrid De Kok. Ma nei trentuno interventi che compongono questo corposo volume, non mancano i riferimenti a figure femminili del multiculturalismo entrate nell'immaginario comune attraverso la grande letteratura, come la Cleopatra di cui parla il saggio di Silvana Carotenuto - figura che la tradizione teatrale ci ha ripetutamente consegnato a una fisionomia fissata nel tempo - che qui appare invece in una veste diversa nel romanzo Luna Crescente - della scrittrice irachena-americana Diana Abu-Jaber. O i corpi femminili discinti e velati, sormontati da volti congelati in un silenzio senza fine, delle Donne d'Algeri nei loro appartamenti, di Delacroix, poi ripresi e animati dai racconti dall'omonimo titolo della algerina Assia Djebar negli anni Ottanta, come ricorda in apertura di volume Lidia Curti in Corpi prigionieri, anime in movimento. Figure di nomadi, viaggiatrici, esuli, espatriate o emigranti, divise tra lingue diverse e culture contrastanti, prigioniere e libere al tempo stesso: il volume le segue, queste figure di tempi e luoghi lontani, nelle strade della Londra multiculturale di oggi, raccontata dalla giovane anglo-caraibica Zadie Smith nel romanzo Denti bianchi, caso letterario in Inghilterra nel 2000 e molto letto anche in Italia, del quale scrive Rossella Ciocca; o nel vibrare del ritmo dei versi di Derek Walcott, caraibico, poeta e premio Nobel per la letteratura, che alla poesia viene iniziato, bambino, da due donne, tra cui sua madre, che gli recita versi della tradizione poetica inglese e americana: ritmi che lui stesso "creolizzera'" piu' avanti intrecciandoli al ricordo del patois e alla terza rima dantesca, come scrive Marie-Helene Laforest, caraibica lei stessa. * Perche' la lingua di chi e' stato colonizzato e' una lingua complessa, stratificata, fatta di passaggi diversi, di scelte, di mutamenti di rotta che molto hanno a che fare con la conquista della identita'. La lingua del colonizzato e' lingua della diaspora, riflesso di intersezione di storie e memorie. Nei Caraibi e' lingua che racchiude le voci del mare, "il mare che e' madre, e che conserva le vestigia della deportazione degli schiavi africani e del genocidio degli arauachi, il mare che ha segnato il passaggio degli asiatici, indiani e cinesi, di mediorientali, libanesi e siriani, al mondo caraibico", per usare ancora le parole di Laforest. Ma nel mare del multiculturalismo si rintracciano storie a noi piu' vicine e non sempre poetiche, come il riferimento a Shahrazad, nel titolo, farebbe pensare, come la Storia di Anta, senegalese di Caserta, di Anna De Meo e Rosanna Canzano. Storia emblematica di vicende assai piu' frequenti di quanto immaginiamo, in una realta' sociale che va sempre piu' popolandosi di soggetti plurilingui, e che anche quando riconosce e accetta le differenze culturali, non sempre riesce a valorizzarle o integrarle. Cosi' il saggio - frutto di molte ore di ricerca sul campo, racconta la storia di Anta, bambina di sette anni, nata a Caserta da genitori immigrati senegalesi, portatrice di un plurilinguismo in virtu' del quale i suoi mondi - quello della famiglia e degli affetti, da un lato, e quello della socializzazione e della scuola dall'altro - parlano idiomi diversi, che la bambina non riesce a conciliare, tra i quali non e' in grado di operare i passaggi che l'interazione con la comunita' scolastica le richiede per essere all'altezza degli altri bambini. Cosi' ben presto Anta viene definita come una "portatrice di handicap psico-cognitivo" dalla scuola, che le affianca un insegnante di sostegno che si sforza appunto di "sostenere", nel senso di "normalizzare", le competenze linguistiche e cognitive della bambina, senza vedere la situazione culturale generale della piccola, il rapporto con la famiglia e quello del nucleo familiare con il tessuto sociale in cui vive. Un contributo importante, che traducendo in esempi di vita reale l'esperienza multiculturale, ci indica in quale grande misura la parola parlata, il racconto, possa oggi piu' che mai rappresentare un ponte tra culture diverse ma fra loro vicine. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 886 del primo aprile 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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