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La domenica della nonviolenza. 10
- Subject: La domenica della nonviolenza. 10
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 27 Feb 2005 12:04:12 +0100
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 10 del 27 febbraio 2005 In questo numero: 1. Elena Loewenthal: Dare voce ai ricordi, testimoniare la storia 2. Massimo Ammaniti ricorda Franca Ongaro Basaglia 3. Giovanni Berlinguer ricorda Franca Ongaro Basaglia 4. Luigi Cancrini ricorda Franca Ongaro Basaglia 5. Mario Colucci ricorda Franca Ongaro Basaglia 6. Paolo Tranchina ricorda Franca Ongaro Basaglia 7. Marco Bertotto e Gabriele Eminente ricordano Peter Benenson 8. Edoardo Boncinelli ricorda Aldo Carotenuto 9. Edi Rabini ricorda Renzo Imbeni 10. Alessandro Portelli ricorda Agostino Lombardo 11. Rossana Rossanda ricorda Titina Maselli 12. Umberto Galimberti ricorda Carlo Tullio-Altan 13. Suvendrini Kakuchi: La "modestia" che uccide 1. MEMORIA. ELENA LOEWENTHAL: DARE VOCE AI RICORDI, TESTIMONIARE LA STORIA [Dal sito del quotidiano "La stampa" abbiamo ripreso questo articolo di Elena Loewenthal del 25 gennaio 2003. Su Elena Loewenthal cfr. la notizia in "La nonviolenza e' in cammino" n. 834] Non sempre i ricordi hanno voce. Capita che il silenzio evochi non meno del suono: sulla collina dello Yad Va-Shem - il memoriale della Shoah a Gerusalemme - ad esempio, tutto tace fuorche' i nomi dei bambini sterminati, scanditi dal buio. La voce dei ricordi e' invece l'ideale sottotitolo alla giornata della memoria che si celebrera' lunedi' prossimo nel nostro paese, segnata da una gran quantita' di manifestazioni, eventi, e soprattutto libri. L'elenco e' lungo, fitto e variegato: non resta che offrire ai lettori una scelta, inevitabilmente arbitraria e riduttiva. A incominciare da un libro che racchiude tutto il senso di questa giornata: C'era una volta la guerra, a cura di Sonia Brunetti e Fabio Levi (Zamorani - pp. 189, euro 15) e' il frutto di un incontro. Quello fra i bambini della scuola ebraica di Torino e nonni e nonne venuti in classe a raccontare. E' un libro di storia, corredato di immagini e ampia documentazione, ma soprattutto un libro di vita, di domande e risposte, di emozioni condivise nel racconto. Accanto a questo libro, possiamo disporre altri ricordi scritti di quegli anni: Elio Salmon, Diario di un ebreo fiorentino - 1943-1944 (a cura di Alessandro Vivanti e con una prefazione di Michele Sarfatti, La Giuntina, pp. 385, euro 13). E anche: Al di la' del ponte: le peripezie a lieto fine di una bambina ebrea fuggita alla Shoah, di Regina Zimet-Levy, con una prefazione di Liliana Picciotto (Garzanti, pp. 243, euro 12). Non c'e' ritorno a casa e' la memoria di "vite stravolte dalle leggi razziali" ispirate dal desiderio di rivisitare la propria esperienza, "adesso che la mia vita volge all'epilogo": sono parole dell'autore, Davide Schiffer, nel vol. 61 della "Rivista dell'Istituto Storico della Resistenza e della Societa' Contemporanea in Provincia di Cuneo" (www.cuneo.net/istituto-resistenza). Bernat Rosner e Frederic Tubach sono rispettivamente un ebreo internato ad Auschwitz quando aveva dodici anni e un suo coetaneo tedesco, avviato dal padre alla carriera nel partito nazista: ora si parlano fra le pagine di Amici nonostante la Storia, appena pubblicato da Feltrinelli (pp. 181, euro 13,50). Storie di vite ma anche di luoghi, come in L'orizzonte chiuso. L'internamento ebraico a Castelnuovo di Garfagnana. 1941-1943 di Silvia Angelini, Oscar Guidi e Paola Lemmi (Maria Pacini Fazzi, Lucca - tel. 0583/440188, pp. 173, euro 20). Documento sconcertante sono invece i 120 minuti tratti dalle 350 ore di filmato originale delle udienze al processo Eichmann a Gerusalemme: li ha preparati il regista israeliano Eyal Sivan, e sono in libreria per i tipi Einaudi, insieme al libro che correda il documentario: Rony Brauman e Eyal Sivan, Elogio della disobbedienza. A proposito di "uno specialista", Adolf Eichmann (libro con videocassetta, euro 19,50). Infine, due volumi di riferimento generale: un agile manuale storico, Shoah di Bruno Segre (nella ristampa per Net - Il Saggiatore, pp. 181, euro 7). E Olocausto del giornalista Guido Knopp (Corbaccio, pp. 377, euro 20): perche' "L'olocausto non puo' essere addebitato come colpa a noi tedeschi nati dopo la guerra. Pero' ricadono su di noi la responsabilita' e il dovere del ricordo. Responsabilita' significa anche saper guardare in faccia sino in fondo la propria storia". 2. MAESTRE. MASSIMO AMMANITI RICORDA FRANCA ONGARO BASAGLIA [Dal quotidiano" La Repubblica" del 15 gennaio 2005. Su Massimo Ammaniti cfr. la notizia biobibliografica nel sito www.unirsm.sm. Su Franca Ongaro Basaglia cfr. la notizia in "La nonviolenza e' in cammino" n. 843] La notizia della scomparsa di Franca Ongaro Basaglia non puo' non riportare alla mente la stagione gloriosa in cui si lottava contro la violenza delle istituzioni manicomiali, iniziata nel nostro paese alla fine degli anni Sessanta, ma che rappresenta ancora oggi un modello di riferimento. Franca Basaglia e' stata la memoria appassionata di quel movimento politico e culturale che riprendendo le parole di denuncia di Primo Levi in Se questo e' un uomo, sulla condizione di degradazione umana nei lager nazisti, punto' l'indice sullo stato dei malati mentali rinchiusi nei manicomi, privati dei diritti piu' elementari e mortificati nella loro identita' personale. Ma non e' stata solo la testimone attenta del lungo percorso che prese l'avvio dall'ospedale psichiatrico di Gorizia, diretto dal marito Franco Basaglia, per poi investire non solo gli operatori psichiatrici ma la stessa opinione pubblica, che aveva rimosso la vergogna della condizione dei malati mentali. E' stata una protagonista tra le piu' lucide del movimento antipsichiatrico, come si puo' leggere nel libro ormai storico, L'istituzione negata, a cui avevano contribuito anche gli psichiatri che si erano riuniti attorno alla figura di Franco Basaglia, leader indiscusso. A questo gruppo che poi avrebbe avuto una forte influenza sul movimento degli studenti e su tutta la sinistra, Franca Basaglia apporto' gli studi della sociologia americana, ad esempio quelli di Goffman e Merton, che avevano indagato i processi di emarginazione sociale e di etichettamento che colpivano in primo luogo i malati mentali. Questa prospettiva veniva a coniugarsi con la cultura europea storico-antropologica di Foucault e con la fenomenologia tedesca. Mentre il movimento antipsichiatrico si e' sempre piu' radicato nel mondo dell'assistenza psichiatrica che ha profondamente trasformato, Franca Basaglia ha continuato la sua battaglia a favore delle donne e delle persone meno garantite avvicinandosi alla politica istituzionale. Quello che ci manchera', e che purtroppo i piu' giovani non hanno potuto apprezzare, e' la sua passione umana e la sua lucidita' concettuale con cui ha continuato a combattere per i diritti umani delle persone piu' sacrificate e piu' in difficolta'. 3. MAESTRE. GIOVANNI BERLINGUER RICORDA FRANCA ONGARO BASAGLIA [Dal quotidiano "Liberazione" del 15 gennaio 2005. Su Giovanni Berlinguer cfr. la notizia in "La nonviolenza e' in cammino" n. 656] Franca Ongaro Basaglia e' stata tra i protagonisti, apportandovi il fresco contributo della sua passione e della sua preparazione filosofica e sociologica, di una delle esperienze culturali piu' originali vissute in Italia (e poi trasferite in varie forme verso paesi vicini e lontani): il rinnovamento profondo della teoria e della prassi psichiatrica. Conobbi lei e Franco intorno al 1968, quando mi recai a Gorizia per capire meglio come era stato trasformato il manicomio, abbattendo le sbarre e i cancelli e liberando i ricoverati da quegli involucri coercitivi che producevano sofferenze e ostacolavano perfino il riconoscimento delle patologie. L'avvicinamento a questa esperienza, che suscitava anche a sinistra dubbi e perplessita', fu reso piu' facile dall'immediata cordialita' dei rapporti: nacque cosi' una stretta amicizia che duro' a lungo, che oltrepasso' la tragedia della scomparsa prematura di Franco, e che si consolido' in tante attivita' comuni e nell'esperienza vissuta insieme al Senato (1984-1982): lei nella sinistra indipendente, io nel Pci, impegnati con lo stesso entusiasmo. Questa lunga comunanza rende piu' profondo il dolore per la sua scomparsa, il cordoglio per il lutto degli straordinari figli e nipoti, la sensazione di un vuoto non colmabile, anche se so che l'eredita' culturale e' in molte e ottime mani. Questa eredita' comprende una forte coerenza morale e una notevole capacita' di spaziare, partendo dall'esperienza vissuta, verso le molte connessioni dell'esperienza psichiatrica e delle "istituzioni negate". Attraversando questi percorsi, Franca e' giunta nei lavori comuni scritti con Franco, e poi purtroppo senza di lui, a proiettare le sue riflessioni verso l'insieme delle istituzioni repressive, verso i "crimini di pace", verso la medicina e il diritto, verso la bioetica. Una produzione di saggi e di libri ampia e differenziata, accompagnata da un costante lavoro di aggregazione, di iniziative culturali e di lotte politico-sociali che hanno meritato ampi riconoscimenti. Il piu' ufficiale e' consistito nella laurea honoris causa in scienze politiche, che le e' stata conferita dall'Universita' degli studi di Sassari nell'anno 2001. Il piu' importante e' pero' la gratitudine di tutti coloro che l'hanno conosciuta, e di quelli la cui vita e' divenuta migliore grazie a quel che lei ha fatto per i suoi simili. 4. MAESTRE. LUIGI CANCRINI RICORDA FRANCA ONGARO BASAGLIA [Dal quotidiano "Il messaggero" del 15 gennaio 2005. Su Luigi Cancrini cfr. la notizia ne "La domenica della nonviolenza" n. 9] Il rapporto che ha unito i destini di Franca Ongaro e di Franco Basaglia era un rapporto fondato su un grande amore e su una grande, reciproca ammirazione. La "pratica" antipsichiatrica di Franco e dei suoi allievi e colleghi si basava sulla generosita' e sulla intuizione ma aveva dietro le spalle lo spessore e il rigore delle idee cui si dedicava soprattutto Franca. Scrittura dei testi e dei manifesti programmatici, ragionamenti sulle cause sociali e politiche dell'esclusione, riflessioni sul significato culturale del cambiamento da mettere in atto venivano soprattutto da lei, all'interno di una collaborazione di cui tutti e due avvertivano nello stesso modo, con la stessa forza, la necessita' e la ricchezza. Sicche' e' difficile per chi li ha conosciuti, per chi li ha visti lavorare insieme, per chi li ha sentiti discutere (l'ironia affettuosa e sempre un po' sfuggente dai contrasti di lui, la serieta' facilmente polemica ma coerente e sempre impegnata di lei), pensare alla riforma e al movimento di idee che l'ha preceduta, accompagnata e seguita come al prodotto dell'attivita' intellettuale di uno solo dei due. La legge Basaglia, per chi ha vissuto con loro quel tempo straordinario, e' una legge che riguarda tutti e due, Franco e sua moglie Franca. Tutto era cominciato a Gorizia, all'inizio degli anni '60. Nominato direttore di un ospedale psichiatrico che sorgeva sul confine dell'allora Jugoslavia Franco Basaglia si era trasferito la' con sua moglie lasciando l'universita' di Padova. L'incontro con i degenti dell'ospedale, un gruppo estremamente disomogeneo di persone con gravi problemi psichiatrici, di portatori di handicap e di emarginati di vario genere provenienti da una parte e dall'altra di una linea di frontiera recente e incerta dal punto di vista delle eredita' culturali, rese immediatamente evidente a tutti e due l'assurdita' di una situazione in cui a venir tutelati non erano i poveretti rinchiusi nell'ospedale ma quelli che ne erano fuori: l'assurdita' di una situazione, voglio dire, in cui nulla si faceva, all'interno di un ospedale psichiatrico, che fosse orientato su finalita' terapeutiche o riabilitative. L'indignazione che scatto' nel giovane medico e nella sociologa che era la sua compagna di vita e di lavoro segna con molta forza i loro primi scritti, le loro prime scelte. Attorniati da un gruppo di colleghi appassionati ed entusiasti, Franco e Franca cominciarono a trasformare l'ospedale in una comunita' terapeutica alla Maxwell Jones. Proponendo, nella assemblea di reparto, la possibilita', data tendenzialmente ad ogni utente, di raccontare la sua storia. Di smettere l'abito del malato ripresentandosi come persona. Dando luogo allo sviluppo di una esperienza straordinaria di cui "L'istituzione negata", il libro manifesto del 1968, fornisce ancora oggi una testimonianza di straordinaria ricchezza umana e scientifica. Il passaggio successivo, legato soprattutto alla spinta di Franca, fu la scelta del tipo di sbocco da dare alla esperienza sviluppata dentro l'ospedale. Uno sbocco che non riguardo' in prima battuta gli ambienti scientifici piu' tradizionali ma la societa' civile nel suo complesso. All'interno di un ragionamento che spiegava anche i danni psichiatrici piu' gravi come una conseguenza dell'internamento e dell'esclusione, la battaglia da portare avanti per rinnovare la psichiatria fu sentita e presentata all'esterno come una battaglia di significato immediatamente politico. Centrata da subito sull'abbattimento fisico di un muro ma rappresentata, da subito, come una battaglia simbolica per il riconoscimento del diritto di tutti gli esclusi. Il resto e' storia piu' difficile e piu' malinconica. La legge era appena entrata in vigore quando Franco mori'. Da allora quello che e' andato avanti e' lo smantellamento progressivo degli ospedali, lo spostamento degli interventi psichiatrici sul territorio, il tentativo di offrire per la prima volta una tutela vera al malato e alla sua famiglia sostituendo il concetto di bisogno a quello di pericolosita'. Con una carenza grave di rispetto per molti dei vecchi e dei nuovi utenti psichiatrici, pero', perche' quella che resto' debolissima fu la capacita' di governare la riforma: programmando in modo efficace su tutto il territorio nazionale la nascita di quelle strutture intermedie che Franco e i suoi erano riusciti a mettere in piedi a Trieste. I risultati di questa debolezza di governo della riforma sono diventati, successivamente, motivi di critica dei principi cui essa si era ispirata. Utilizzando la difficolta' di quelli che non erano stati assistiti in modo sufficiente, i sostenitori della vecchia psichiatria hanno rapidamente dimenticato il valore delle conquiste che erano state fatte in termini di rispetto del diverso e delle sue esigenze. Il fatto che la rivoluzione istituzionale non sia stata seguita in modo coerente e sistematico da quella rivoluzione della cultura dell'universita' e dei servizi che avrebbero potuto e dovuto assicurarne la realizzazione ha gravemente ostacolato, ancora, il cammino della riforma. Facilitando quel tipo di proposte sulla psichiatria sostanzialmente basate su un ritorno al passato che sono state il cruccio piu' pesante, il dolore piu' vivo negli ultimi anni della vita di Franca. Partirei da qui, da questo ragionamento, per ricordarla nel giorno in cui ci ha lasciato. Una persona come lei, una persona dotata del suo coraggio e della sua coerenza va ricordata, secondo me, soprattutto con l'impegno a portare avanti le idee in cui lei ha creduto, a cui ha dedicato la sua vita. Portandoci nel cuore pero', quelli di noi che hanno avuto la fortuna di conoscerla, anche la dolcezza del sorriso malinconico che segnalava, ogni volta che parlava delle cose che si dovevano fare, la consapevolezza profonda delle difficolta' che si sarebbero incontrate. La democrazia, una democrazia capace di riguardare davvero tutti, mi sembra di sentirla dire, si costruisce con un lavoro duro. Che puo' andare avanti per piu' di una generazione. Cui ognuno di noi puo' dare solo un piccolo contributo. 5. MAESTRE. MARIO COLUCCI RICORDA FRANCA ONGARO BASAGLIA [Dal quotidiano "Il piccolo" del 15 gennaio 2005. Mario Colucci e' psichiatra presso il dipartimento di salute mentale di Trieste e curatore e coautore di fondamentali lavori su Franco Basaglia] Il vuoto che Franca Ongaro Basaglia lascia nella politica, nella cultura, nella stessa intelligenza della nostra epoca e' cosi' profondo, che risulta impossibile descrivere la sua vicenda di vita e di pensiero, ricordandola solo attraverso quel sodalizio affettivo e intellettuale - pure straordinario - con il marito Franco Basaglia. Tanto instancabile e onesta e' stata la sua ricerca personale e la sua azione su quella frontiera incerta della tutela dei diritti dei soggetti deboli, che merita oggi di essere ricordata come una delle persone che hanno piu' contribuito a un'intera epoca di conquiste sociali del nostro paese. Nata nel 1928 a Venezia, attratta inizialmente da tutt'altra vocazione (letteraria) rispetto a quella passione civile e di ricerca che la infiammera' per tutta la vita, ha saputo creare un suo stile coerente di riflessione teorica e di pratica politica che ne hanno fatto un punto di riferimento non soltanto per coloro che avevano a cuore la trasformazione delle istituzioni psichiatriche. Certo, questa e' stata la scena del suo massimo impegno. Ma non l'unica. Anzi, se avesse potuto scegliere il tema attraverso il quale presentare la sua ricerca e il suo ingaggio politico, avrebbe forse optato per la storia della lotta di liberazione della donna, "come esempio del primo uso della natura, della diversita' biologica in termini di disuguaglianza e di potere", come ebbe a dire durante la cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in scienze politiche conferitale nel 2001 dall'Universita' di Sassari. Su questo tema di lavoro - la subordinazione della donna al di la' di qualsiasi condizione o lotta di classe - aveva concentrato la sua attenzione gia' a partire dagli anni sessanta con interventi su riviste e con importanti saggi fino alla stesura della voce Donna per l'Enciclopedia Einaudi e al fondamentale testo Una voce. Riflessioni sulla donna, del 1982. Tuttavia, proprio in quell'occasione accademica, aveva ammesso di non potersi staccare cosi' facilmente dall'ambito di ricerca della psichiatria, o meglio della salute mentale, tanto complesso e ricco ne era stato il suo coinvolgimento: l'esperienza di trasformazione del manicomio di Gorizia e di Trieste, la militanza nei movimenti di contestazione psichiatrica, gli innumerevoli libri scritti a quattro mani con Franco Basaglia (fra tutti i celeberrimi L'istituzione negata, Morire di classe, Crimini di pace), la partecipazione attiva alla vita politica con due legislature da senatrice nel gruppo della sinistra indipendente. L'ambito della psichiatria funzionava perfettamente e indiscutibilmente da "esempio di tutti i processi culturali, politici e sociali che coinvolgono l'individuo e il suo diritto/dovere di cittadinanza". Diritto/dovere di cittadinanza: rileggendo la sua lectio doctoralis si coglie tutta la profondita' di quella barra fra cio' che ci sembra giusto tutelare parlando di cittadinanza (il diritto) e cio' che ci sembra insolito evocare (il dovere). Franca Ongaro Basaglia aveva lavorato incessantemente sulla difesa del diritto a essere cittadini, sin da quando di questo diritto era "assurdo" parlare per alcuni individui, come negli anni sessanta per gli internati dei manicomi italiani. La feroce logica dell'espropriazione dei corpi nell'universo concentrazionario dell'istituzione totale non era stata che una prima fase rudimentale di un processo di invalidazione dell'individuo sofferente, poi perpetuata da logiche piu' sottili e occulte. Era contro queste logiche che Franca Ongaro Basaglia aveva mobilitato il suo impegno parlamentare all'indomani della promulgazione della legge 180 e della morte del marito: perche' non bastava aver fatto approvare la norma, bisognava rendere effettiva la sua applicazione (e' stata lei che per la prima volta nel 1987 ha presentato un disegno di legge di attuazione della 180, poi servito da traccia per il primo Progetto Obiettivo Salute Mentale del 1989); perche' non bastava riconoscere l'universalita' dei diritti delle persone, se per quei diritti non fosse stato promosso un dovere sociale e politico di farli valere per tutti e ad ogni condizione. Non si trattava in definitiva solo di umanizzare l'assistenza ai soggetti deboli e svantaggiati, piuttosto di rivendicare a gran voce una trasformazione concreta di quelle discipline, di quei corpi professionali, che quei diritti avevano il dovere di tutelare e di promuovere. Non solo ascoltare i bisogni, ma verificare se questi stessi bisogni fossero alla base di un'impresa scientifica e di un'azione politica. Su questa vigilanza Franca Ongaro Basaglia ha insistito fino alla fine: sulla necessita' che qualsiasi modello scientifico o tecnologico non si alimenti soltanto del mito del suo progresso, perdendo di vista le disuguaglianze che tende a produrre e occultare. Una medicina che sia troppo medica, incapace di far vivere la malattia come parte della vita e non come oggetto estraneo da eliminare, o peggio ancora da nascondere, non ha diritto di cittadinanza: e' questa fermezza alla base del suo libro piu' interessante Salute/malattia. Le parole della medicina. Possiamo immaginare, negli ultimi mesi di sofferenza per il male che la stava consumando, la stessa fermezza di fronte alle istituzioni che tentavano di impadronirsene. "Con questo non intendo sottovalutare l'importanza della tecnologia medica", aveva scritto, "sono una persona che ha dovuto ricorrere a piu' riprese all'aiuto indispensabile della medicina e del servizio pubblico. Ma credo di essere qui, in questo momento, anche grazie agli spazi di liberta', di decisione che mi sono stati consentiti e che ho salvaguardato, alla protezione non invasiva di cui sono stata circondata, alla caparbieta' - che mi e' congeniale - di non delegare la mia vita, la mia malattia, il mio corpo ad altri". E' cosi' che ci piace ricordarla, le sue parole serene e i suoi occhi azzurri. E dirle addio. 6. MAESTRE. PAOLO TRANCHINA RICORDA FRANCA ONGARO BASAGLIA [Dal sito www.retesociale.it riprendiamo la seguente testimonianza. Su Paolo Tranchina cfr. la notizia in "La domenica della nonviolenza" n. 9] Franca e' stata una protagonista intelligente, acuta, intransigente, dei processi di rinnovamento della salute mentale nel nostro paese, che ha sempre sostenuto con forza e passione, sia a livello culturale, che politico. I suoi scritti si distinguono per una particolare dialettica, sciolta ma rigorosa, che affronta i diversi temi con acutezza e logica stringente, ponendo sempre al centro l'uomo, la donna nel loro diritto a non essere strumentalizzati, umiliati, fatti oggetto di saperi e pratiche istituzionali che non controllano e che li disumanizzano. Nel suo lavoro teorico l'ideologia occupa un posto ovviamente di primo piano, sia per quanto riguarda la medicina che la psichiatria nel loro intersecarsi nella definizione e gestione della salute e della malattia. Nel processo di definizione dei loro saperi queste scienze si sono staccate via via dalla globalita' di un corpo immerso nel suo ambiente, un corpo che e' natura e cultura al tempo stesso, un corpo globale, per farne un corpo separato, un oggetto avariato da riparare. La malattia si e' cosi' separata violentemente dalla salute diventando un corpo estraneo, rendendo impossibile un riconoscimento autentico sia della salute che della malattia, e degli inscindibili legami che le iscrivono in sensi condivisi. Oltre che L'istituzione negata, Franca Ongaro Basaglia, in collaborazione con Franco Basaglia, ha pubblicato La maggiornza deviante, dove si riflette sul problema del controllo sociale e, in collaborazione con altri, Crimini di pace. Personalmente ritengo che il suo libro Salute/malattia. Le parole della medicina, che raccoglie interventi apparsi nella Enciclopedia Einaudi, sia uno dei testi piu' ricchi e profondi prodotti dal movimento della nuova psichiatria italiana. Anche se alcune parti sono frutto di collaborazione sia con Franco Basaglia che con Giorgio Bignami, l'impronta di Franca si manifesta forte e inconfondibile. Amo talmente questo libro che l'ho portato come testo sia alla clinica psichiatrica dell'Universita' di Verona, sia come momento di studio e riflessione nel lavoro culturale di equipe psichiatriche territoriali, come quella di Orzinuovi, in provincia di Brescia. Dallo specifico della malattia mentale e dei processi di esclusione che caratterizzano le pratiche manicomiali, la riflessione investe aspetti fondamentali della vita e della morte. Scrive Franca nella sua prefazione a Salute/malattia: "Quando la salute come progetto prende il posto della vita, e' la vita stessa a svuotarsi di significato, di fronte a un'astrazione da perseguire e da raggiungere. E quando la morte viene messa tra parentesi per poter lottare contro una malattia che non e' piu' automaticamente morte, e' ancora la vita a cambiare di significato. L'individuazione della malattia crea l'illusione che la morte non esista o che si possa rinviarla indefinitivamente, affidandola al medico. Tutto appare dominabile e rimediabile: sopportare dolore e sofferenza diventa inutile e privo di significato se c'e' qualcosa in grado di eliminarli. Alla fine di una serie di rinvii capita anche di morire, ma non si tratta piu' dell'incontro dell'uomo con la morte e con la propria finitudine, ma di un'operazione tecnica mal riuscita che lascia sul letto un cadavere: l'esperienza della morte, diventata il limite della medicina di fronte alla malattia". Solo processi di rappropriazione della propria salute come della propria malattia possono contrastare questi tragitti, valorizzando la soggettivita contro ogni espropriazione, oggettivazione. "Il valore dell'uomo, sano o malato che sia, va oltre il valore della salute e della sua malattia che, come ogni altra contraddizione umana, puo' essere usata come occasione di appropriazione o di alienazione di se', quindi come strumento di liberazione o di dominio... Se il valore e' l'uomo, la malattia non puo' servire come occasione per eliminarlo, ma diventa occasione di una riappropriazione del corpo, delle esperienze della vita; cosi' come la salute non puo' rappresentare la 'norma', se la condizione dell'uomo e' di essere contemporanemente sano e malato". Anche a nome di Psichiatria Democratica della Toscana esprimiamo tutta la nostra vcinanza ai familiari. 7. MEMORIA. MARCO BERTOTTO E GABRIELE EMINENTE RICORDANO PETER BENENSON [Marco Bertotto e Gabriele Eminente sono impegnati nella sezione italiana di Amnesty International (per contatti: e-mail: info at amnesty.it, sito: www.amnesty.it); di Amnesty International Peter Benenson e' stato il fondatore] Cari amici, con estrema tristezza, vi comunichiamo che Peter Benenson e' spirato ieri sera, all'eta' di 83 anni, nell'ospedale Jonh Radcliffe di Oxford. Peter e' stato il fondatore e l'ispiratore di Amnesty International. Nel maggio 1961, informato dell'arresto di due giovani che in un caffe' di Lisbona avevano brindato alla liberta' delle colonie portoghesi, pubblico' su un settimanale di Londra un articolo intitolato "I prigionieri dimenticati". Era un appello per un campagna di 12 mesi dedicata alla liberazione di tutti i prigionieri per motivi di opinione: l'adesione entusiasta di migliaia di persone convinse Peter a trasformare quella campagna in cio' che sarebbe divenuto il piu' importante movimento globale per i diritti umani. Nei primi anni di vita di Amnesty International, Peter assicuro' all'organizzazione il sostegno finanziario per muovere i primi passi, prese parte ad alcune missioni di ricerca, si occupo' in prima persona di tutte quelle incombenze necessarie a far crescere in dimensioni ed importanza la sua "creatura". L'intera sua vita e' stata dedicata a combattere l'ingiustizia nel mondo. Peter credeva nel potere delle persone comuni di provocare straordinari cambiamenti: creando Amnesty International ha dato a ciascuno di noi l'opportunita' di fare la differenza. Ad una cerimonia pubblica per il venticinquesimo compleanno di Amnesty International, Peter accese la candela con il filo spinato e recito' quello che ricorderemo come il suo testamento spirituale: "Questa candela non brucia per noi, ma per tutte quelle persone che non siamo riuscite a salvare dalla prigione, che sono state uccise, torturate, rapite, scomparse. Per loro brucia la candela di Amnesty International". La famiglia Benenson ha deciso di svolgere una cerimonia privata per soli parenti. Amnesty International terra' nei prossimi giorni una cerimonia pubblica per ricordare il suo fondatore. A nome della sezione italiana, ci uniremo al dolore della famiglia e di quanti, amici e colleghi, avevano avuto l'onore di conoscere Peter e di condividere con lui l'impegno per i diritti umani. 8. MEMORIA. EDOARDO BONCINELLI RICORDA ALDO CAROTENUTO [Dal "Corriere della Sera" del 15 febbraio 2005. Edoardo Boncinelli e' direttore del Laboratorio di biologia molecolare dello sviluppo al S. Raffaele di Milano. Su Aldo Carotenuto cfr. il sito www.aldocarotenuto.it] E' morto domenica notte al Policlinico "Agostino Gemelli" di Roma lo psicoanalista Aldo Carotenuto. Nato a Napoli 72 anni fa, studioso di formazione junghiana, Carotenuto era docente di Psicologia della personalita' all'Universita' di Roma. Con Aldo Carotenuto e' scomparsa una delle voci piu' originali del nostro panorama culturale, espressione di un'inesausta e quasi inesauribile voglia di "frugare" nelle pieghe della nostra psiche e di esplorare come tutto questo si rifletta sulla nostra societa' e i suoi disagi. Psicoanalista di formazione junghiana ma di vasti, vastissimi, interessi non ha tralasciato di commentare negli ultimi trent'anni quasi nessuna notizia di costume del nostro tempo... Di origine napoletana, laureato in filosofia, si era formato professionalmente negli Stati Uniti ed aveva poi esercitato la professione privata prima a Napoli e poi a Roma. Lettore instancabile di ogni tipo di libri e desideroso di informarsi su ogni tipo di sapere, aveva smesso presto di accontentarsi di esercitare la libera professione. Non gli bastava. Si era prodigato nell'insegnamento presso la Facolta' di Psicologia dell'Universita' di Roma, fin quasi dalla sua istituzione; teneva una rubrica fissa di commenti quasi giornalieri su un certo numero di quotidiani e riviste; organizzava convegni e dibattiti sulla psicologia del profondo. E soprattutto scriveva libri. Libri indimenticabili, pieni di dottrina - la dottrina della psicologia analitica junghiana ovviamente - ma anche di una finissima penetrazione psicologica e di una grande sensibilita' umana. Frutto di una scrittura tersa ed efficace, si leggono come romanzi. D'altra parte che cos'e' un romanzo se non una storia ben raccontata? Che importanza puo' avere se la storia e' di fantasia o e' una storia vera, basata come in questo caso su una rielaborazione personale di innumerevoli casi clinici? I suoi sono "romanzi veri" e come tali sono avidamente letti ed amati. Non solo di casi clinici, piu' o meno rivisitati, ha scritto Aldo. Si e' occupato anche della storia del pensiero psicoanalitico, con attingimenti a volte originali. Nel suo libro Diario di una segreta simmetria ha parlato ad esempio per la prima volta del controverso rapporto fra Sabina Spielrein e Jung, il suo "dottore", che e' stato poi l'oggetto del bel film di Roberto Faenza Prendimi l'anima. La Spielrein, che doveva in seguito diventare psicoanalista essa stessa prima di fare una tragica fine, si trovo' al centro di una vicenda umana molto coinvolgente nella quale venivano a sbiadirsi i confini tra il rapporto paziente-analista e quello tra giovane donna e giovane, stimato professionista. Questo non e' che un esempio dei temi coraggiosi e scabrosi che Carotenuto non si stancava mai di affrontare. E questa era proprio la sua grande forza. Al di la' di cio' che ha lasciato scritto, e non e' poco, Aldo era una persona con la quale si poteva parlare di tutto. Aveva la tempra di un esploratore. La sua Africa nera, la sua foresta vergine, era la psiche, degli uomini e delle donne come singoli, nonche' quella dei gruppi che costoro vanno di volta in volta formando. Non disdegnava di portare con se' la bussola delle conoscenze psicoanalitiche, ma per il resto era assolutamente aperto. Ci ho discusso, e anche litigato, per anni, ma in lui non ho mai percepito un' ombra di disonesta' intellettuale o di acquiescenza a schemi interpretativi preordinati. Cercava sempre di penetrare le cose dell'anima in maniera intellettualmente valida ma secondo la loro propria natura di eventi irripetibili che affondano al contempo le radici in un passato senza tempo poiche', per dirla con Montaigne, "ciascuno reca in se' la forma intera della condizione umana". 9. MEMORIA. EDI RABINI RICORDA RENZO IMBENI [Ringraziamo Edi Rabini (per contatti: edorabin at tin.it) per questo ricordo di Renzo Imbeni. Edi Rabini, che e' stato grande amico e stretto collaboratore di Alex Langer, e' impegnato nella Fondazione Alexander Langer (per contatti: e-mail: langer.foundation at tin.it, sito: www.alexanderlanger.org). Su Renzo Imbeni cfr. la notizia in "La nonviolenza e' in cammino" n. 750] Ci siamo ieri mescolati alle molte persone che hanno voluto rendere un triste omaggio a Renzo Imbeni nella sua Bologna. Accanto ai lati piu' noti della sua intensa e prestigiosa attivita' pubblica, vogliamo ricordare una parte forse minore, ma per noi di grandissimo significato. Renzo Imbeni e' stato infatti uno dei piu' convinti promotori, dal 1996, dell'istituzione di un premio internazionale dedicato alla memoria di Alexander Langer, che era stato suo collega al Parlamento Europeo. Ed e' stato dal 1999 presidente del Comitato Scientifico e di Garanzia della Fondazione, incaricato di assegnare ogni anno il Premio stesso. Dobbiamo anche alla sua sapienza e alle sua perspicacia politica, se il premio e' andato da allora a persone e associazioni forse poco conosciute, ma testimoni rilevanti di alcune delle domande cruciali che questo secolo trascorso ci ha lasciato in eredita': l'algerina Khalida Messaoudi Toumi, le ruandesi Jacqueline Mukansonera e Yolande Mukagasana, i coniugi cinesi Ding Zilin e Jiang Peikun, la kosovara Vjosa Dobruna e la serba Natasa Kandic, l'israeliano Dan Bar-On e il palestinese Sami Adwan, l'ambientalista ecuadoregna Esperanza Martinez, la memoria dell'operaio di Porto Marghera Gabriele Bortolozzo, la fondazione polacca Pogranicze di Sejny. Proprio alcuni giorni prima della sua morte, Graziella Monti la sua collaboratrice (che di lui sapeva trasmettere analoga gentilezza, condivisione, passione), ci ha fatto avere il suo parere decisivo per l'assegnazione del premio internazionale 2005 che verra' tra breve annunciato. Per avere lui presente, avevamo scelto proprio Bologna come sede degli incontri del Comitato scientifico. Renzo ci deve essere. E lui non aveva quasi mai mancato di regalarci una parte anche breve del suo prezioso tempo o di prendere parte - tra un impegno e l'altro - alle nostre manifestazioni a Bolzano e Citta' di Castello. Ci lascia dunque un vero amico caro, che ci ha incoraggiato e accompagnato fin dai primi passi con la sua grande esperienza ed umanita'. Renzo Imbeni ci manchera'. Nel ricordarlo con affetto vogliamo dare un segno di amicizia e di partecipazione alle sue Rita e Valentina e alle molte persone che gli hanno voluto e gli vorranno bene. Edi Rabini, per la Fondazione Alexander Langer 10. MEMORIA. ALESSANDRO PORTELLI RICORDA AGOSTINO LOMBARDO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 gennaio 2005. Su Alessandro Portelli cfr. la notizia in "La nonviolenza e' in cammino" n. 844. Agostino Lombardo nacque a Messina nel 1927, docente universitario di letteratura inglese e americana, saggista, traduttore, e' stato tra i piu' autorevoli studiosi di Shakespeare] Agostino Lombardo, uno dei piu' grandi studiosi italiani di letteratura inglese, magistrale traduttore e critico shakespeariano, fondatore degli studi americani nell'universita' italiana, e' morto domenica scorsa a Roma. Dell'anglista e del filologo shakespeariano dovranno parlare altri. Io voglio raccontare il mio Agostino Lombardo, con cui ho condiviso le passioni americane. Perche' dobbiamo soprattutto a lui se gli studi americani in Italia hanno una prevalente impronta democratica e di sinistra, e se abbiamo imparato a essere critici anche feroci dell'America senza diventare mai banalmente antiamericani. Correva l'anno 1970. Io uscivo di soppiatto dall'ufficio dove allora lavoravo per andare all'universita' e sentire le lezioni di Agostino Lombardo - i racconti di Hawthorne, Moby Dick, il romanzo inglese del dopoguerra, la lettura del Macbeth... Un giorno, come allora accadeva, entrarono in classe dei compagni, annunciarono un'altra tragedia in Vietnam e chiesero molto civilmente di interrompere le lezioni. Molto civilmente, Agostino Lombardo rispose che il suo modo di rispondere a quegli orrori era di fare con serieta' e impegno il proprio lavoro. Fummo in due ad alzarci e uscire lo stesso dall'aula. Ma capii subito che aveva ragione anche lui, e me l'ha confermato nei trenta e piu' anni in cui e' stato maestro, qualche volta antagonista, sempre punto di riferimento per me, e per generazioni intere dell'anglistica e dell'americanistica piu' vivaci. Non ho conosciuto mai nessuno che come Agostino Lombardo avesse il senso delle istituzioni e dell'universita' come servizio, un servizio per la societa' nel suo complesso e per gli studenti nell'immediato. Per questo, insegnare - lavorare - era un atto politico, una testimonianza per una societa' piu' responsabile, piu' seria - una democrazia fondata sul lavoro. Per questo, chiedergli di interrompere la lezione era ai suoi occhi la stessa cosa che chiedergli di smettere di fare politica, di smettere di esistere (e per questo e' stato uno dei pochi professori che ascoltarono il '68 e - senza demagogie, con qualche turbamento - lo accettarono). Cosi', anche se ha continuato fino alla fine a venire all'universita', a insegnare e a tradurre, tuttavia la pensione, la fine della sua vita istituzionale di lavoro, e' stata una privazione forse insopportabile. Questo senso quasi di missione si vedeva nella passione didattica, nel modo in cui riusciva a trasmettere, a noi che l'ascoltavamo, il suo amore per Joyce o Melville - tanto piu' che era sorretto da un'idea alta, certo tradizionale ma solidissima, della cultura, della letteratura, del teatro come spazi di liberta' e di critica. Questo approccio lo riversava soprattutto nello studio della letteratura americana, che fu il primo a insegnare in Italia all'universita'. Sosteneva che tutta la cultura letteraria americana e' cultura critica, di opposizione; e per questo insisteva sul fatto che piu' di quella inglese la letteratura americana andava letta nei suoi rapporti con la storia, con la societa', con le culture popolari, le culture di minoranza. Io la vedevo un po' piu' complicata; ma e' grazie a questa sua convinzione che dentro la "letteratura" e' stato possibile farci rientrare - all'inizio degli anni '70, quando non andava di moda - Woody Guthrie e il blues. L'avevo conosciuto nel 1970, dopo un viaggio in America alla ricerca del Black Power, da cui mi ero portato dietro un carico, magari un sovraccarico, di certezze contestative e "correttezze politiche". Agostino Lombardo di queste cose non si occupava, ma mi diede subito ascolto e spazio; e fu lui a organizzare tra il 1969 e il 1970, per la prima volta nella nostra universita', un memorabile seminario biennale sulla letteratura afroamericana, in cui chiamo' tutti, docenti e studenti, a confrontarsi con quell'esperienza, a leggere quei testi. Non si allontano' mai dai suoi interessi fondanti - i classici, Shakespeare, quello che abbiamo cominciato a chiamare il "canone" - e da un suo approccio critico sospettoso verso le novita' teoriche e metodologiche e le superficiali interdisciplinarita'. Ma apriva porte, creava spazi, ascoltava voracemente. Fu tra i primi a accogliere le letterature postcoloniali come terreno di ricerca e di insegnamento. Non se ne occupava direttamente, tuttavia sapeva riconoscere subito, anche in questi ambiti, la qualita' letteraria, e distingueva i grandi anche prima che fossero riconosciuti ufficialmente. Non pretendeva, come tanti baroni della sua generazione, che i suoi allievi fossero suoi cloni; la nostra diversita' era la sua ricchezza; la sua solidita' era il nostro polo nord, a cui facevamo riferimento anche per prenderne le distanze, e ci dava la misura della strada percorsa. Un giorno gli feci vedere un articolo su Woody Guthrie che avevo scritto sul "Manifesto", e lui mi disse, scherzando solo un po', che non gli stava bene perche' di Woody Guthrie si sarebbe dovuto parlare sull'"Unita'". Io gli dissi, ma come, se il primo a parlarne in Italia sono stato io, e io sono del "Manifesto" (allora gruppo politico)? E lui: si', ma in quale dipartimento lo hai fatto? Insomma: la pluralita' di ricerche, di passioni, di approcci che nei suoi anni migliori ha vissuto nel dipartimento che lui ha fondato si deve al fatto che lui poi riassumeva tutto, un po' baronalmente e un po' paternamente, e non separava la sua passione universitaria dalla sua passione politica di comunista liberale. Penso a quel giorno che aveva accettato di far tenere un incontro con un certo poeta canadese che lui non conosceva e si ritrovo' l'aula 1 di lettere piena come un uovo, perche' lo sconosciuto poeta canadese si chiamava Leonard Cohen e si era portato dietro la chitarra e gli studenti che lo conoscevano meglio di lui erano eccitatissimi, e lui contentissimo come se l'avesse saputo fin dall'inizio (pero' quando invito' Allen Ginsberg sapeva bene quello che faceva). Per tutto questo, Agostino Lombardo e' stato ancora piu' decisivo come insegnante che come critico. Un tempo, queste figure le chiamavano "maestro". Era un intellettuale pubblico, animato da una grande voglia di comunicare, che aveva impresso alla sua vita due indirizzi fondamentali: il teatro e la traduzione. Era capace di far parlare i testi, renderli vivi, renderli accessibili (quando finalmente si decise a fare i conti con lo strutturalismo e i suoi dintorni, scrisse un memorabile saggio intitolato Il testo e la sua performance). Il grande progetto a cui ha lavorato fino all'ultimo, naturalmente, era la traduzione integrale di Shakespeare. Un giorno, non molto tempo fa, andai nel suo studio e gli dissi: guarda che tutto quello che ci hai insegnato era sbagliato. E lui, senza scomporsi - si scomponeva di rado: spiegami. Tu ci hai insegnato - gli dissi - che i grandi classici americani, Hawthorne, Melville, erano pieni di momenti di grande teatro (il palco della gogna nella Lettera scarlatta, il cassero della nave in Moby Dick) perche', in assenza del teatro nell'America puritana, la teatralita' veniva assunta dal romanzo. Invece, ho scoperto che questi libri sono pieni di teatro perche' i loro autori stavano a teatro dalla mattina alla sera: non c'era un grande teatro letterario, non c'era uno Shakespeare d'America (e neanche uno Sheridan, se e' per questo), ma c'era una scena teatrale vivacissima (magari con Amleto mischiato a macchiette e avanspettacolo) e loro ne facevano parte e inevitabilmente la riversavano nella loro prosa. Gli raccontai che la prima strage operaia d'America, a New York nel 1852, era avvenuta a seguito di uno scontro su due diverse messe in scena di Macbeth. Un "barone" vero si sarebbe offeso; io sapevo che a lui si poteva parlare anche cosi'. E fu contento lo stesso, perche' comunque, per altra via, si confermava la sostanza della sua ipotesi: la centralita' del teatro, e la centralita' di Shakespeare. In un modo o nell'altro, Macbeth era davvero questione di vita e di morte. 11. MEMORIA. ROSSANA ROSSANDA RICORDA TITINA MASELLI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 23 febbraio 2005. Su Rossana Rossanda cfr. la notizia in "La nonviolenza e' in cammino" n. 848. Titina Maselli, nata nel 1924 e spentasi pochi giorni fa, e' stata un'ammirata pittrice e scenografa] Si e' spenta ieri notte Titina Maselli, nel sonno, ci dice Citto, molto amato fratello di una molto amata sorella. Quietamente, non scomposta, proprio come avrebbe voluto lei, bellissima donna, che temeva il passare del tempo. Mentre era rimasta la geniale ragazza di sempre, i grandi occhi neri interrogativi, il caschetto di capelli come di Jais, (prendeva molto in giro Mara Chiaretti e me perche' biancone) il profilo acuto e il volto intento e mobile da bell'uccello inquieto. Che molti hanno ritratto, anche lei stessa impaurita di perdersi, bisognosa come tutti di essere confermata. Di conferme ne aveva avute molte, credo, ma mai abbastanza. Ne' a Roma ne' a Parigi dove ha vissuto fino a poco tempo fa in una delle curiose stanze della Ruche, sorta di alveare inventato da un magnate per gli artisti, dove dipingeva e cucinava e invitava a mangiare gli amici, le grandi tele delle scenografie appoggiate o arrotolate al muro. Scene che diventavano non sfondi ma interpretazione dell'opera, le opere "difficili" di Heiner e Mueller o di Thomas Bernhard o Buechner. Parigi era stata comunque piu' attenta a lei che non sia stata Roma, siamo un paese sciatto. Una volta mi chiesero lei e il regista che preferiva, Bernard Sobel, di dire alcune parole in scena al finale, credo, di "Madre coraggio" e mi sono trovata ad arretrare presa dallo spavento, non tanto del teatro o peggio di Maria Casares, quanto da lei Titina delle cui scene non avrei saputo avere il tono profondo e definitivo. Fin da quando avevo visto per la prima volta una sua abbastanza copiosa personale nel 1982 o 1983, mi aveva affascinato quella sua pittura asseverativa, capace di cogliere un movimento del nostro mondo e fissarlo nei suoi verdi elettrici, o rossi profondi o grandi neri non come un frammento ma come un significato. Ammesso che esista un modo femminile di dipingere, non era certo il suo, cosi' conchiuso, forte, privo di lezio, una scheggia del dolore della ragione. Avevo veduto qualche volta le grandi citta' di notte come lei me le mostrava, mai il football, mai i fili elettrici sul cielo, mai le foglie - e' pittura corposa, densa, lavorata, senza pentimenti, come un pensiero rappreso. Qualcuno mi disse che non usava piu', che era datata e me ne sono sinceramente rallegrata. Non giocava, Titina. Viveva a Parigi e a Roma e credo a New York come devono avere vissuto i pittori degli anni '20 in piu' con quella speranza che restava a una comunista fin dal dopoguerra e che portava dentro, trasformata in stupefazione e collera per il presente. Discorremmo a lungo, credo proprio un anno fa, assieme a Tabucchi. Non si conoscevano i due iracondi e si trovarono benissimo. Era gia' malata ma sempre in cerca di se' e per questo senza eta'. La morte l'ha presa adesso, prima che si potesse dire di lei che era una vecchia signora, affievolita e chiusa dal passare del tempo. Cara Titina, anche tu. Il mio paesaggio cambia, ogni anno qualcuno se ne va, figure di quel Novecento irrequieto e scintillante, oggi maledetto dai piu' che non ne sanno niente e non hanno avuto la fortuna di incontrarne, oltre il buio, le luci. 12. MEMORIA. UMBERTO GALIMBERTI RICORDA CARLO TULLIO-ALTAN [Dal quotidiano "La Repubblica" del 16 febbraio 2005. Su Umberto Galimberti cfr. la notizia biobibliografica nel sito http://venus.unive.it. Carlo Tullio-Altan e' stato uno dei piu' illustri antropologi italiani] Dopo Ernesto De Martino, Carlo Tullio-Altan, scomparso ieri a 89 anni, e' stato il piu' grande antropologo italiano nel duplice senso: di significativo esponente di quella disciplina, l'antropologia culturale, cosi' poco coltivata in Italia, e di spietato indagatore dell'antropologia degli italiani caratterizzata da "arretratezza socioculturale, clientelismo, populismo, trasformismo e ribellismo" come recita il sottotitolo di un suo importante libro, La nostra Italia, edito nel 1986 da Feltrinelli. Il suo Manuale di antropologia culturale, che Valentino Bompiani nel 1975 gli chiese di scrivere per introdurre in Italia una scienza che Ernesto De Martino aveva sondato sul campo, e' ancora oggi l'unico grande testo che espone la storia e il metodo di questo sapere, che francesi e inglesi praticavano dalla fine del Settecento, con una letteratura ricca e copiosa, da cui le scienze psicologiche e le scienze sociali trassero spunto per rinnovare a loro volta i loro metodi di studio, superando quel vizio, non ancora estinto, dell'eurocentrismo, ora migrato oltreatlantico. Ma la grandezza di Carlo Tullio-Altan non sta tanto in questo suo pionierismo, quanto nel fatto che le sue ricerche antropologiche erano guidate da profonde conoscenze filosofiche che facevano riferimento allo strumentalismo deweyano, al materialismo storico, alla fenomenologia, all'esistenzialismo, al neopositivismo, allo strutturalismo, al funzionalismo, perche' Tullio-Altan aveva capito che l'uomo e' una realta' troppo complessa per essere inquadrata e compresa in una sola idea. Quando ci incontrammo nel 1984, e poi negli anni successivi, discutemmo a lungo su una questione che allora sembrava accademica e astratta, e oggi appare in tutta la sua drammatica concretezza. Nel relazionarci agli altri, che percepiamo diversi da noi, per intendersi non basta parlare inglese, ma bisogna capire la simbolica sottesa alla loro cultura, a partire dalla quale diventano comprensibili idee, significati e comportamenti che altrimenti, come quelli dei folli, ci apparirebbero alieni. Frutto di quelle discussioni fu un suo splendido libro Soggetto, simbolo e valore. Per un'ermeneutica antropologica, edito da Feltrinelli nel 1992. Rileggerlo e riproporlo oggi sarebbe di grande attualita' e ci farebbe capire che tante guerre esplodono perche' guardiamo gli altri a partire dalla nostra cultura (che naturalmente riteniamo superiore) senza la minima cura di capire come sono fatti i popoli diversi da noi, e a partire da quale simbolica promuovono i loro comportamenti. Questa ricerca, anticipatoria per i problemi che sarebbero esplosi in futuro, prosegui' con Ethnos e civilta'. Identita' etniche e valori democratici (Feltrinelli, 1995) in cui, pur considerando la democrazia il miglior sistema finora inventato per garantire l'umana convivenza, Carlo Tullio-Altan avvertiva che non puo' essere "esportata" senza tener conto delle identita' etniche in cui e' il deposito millenario delle culture diverse dalla nostra. Qualche anno prima, nel 1989, con Populismo e trasformismo, individuava i rischi che, se non corretti, avrebbero trattenuto l'Italia a quel livello pre-politico, dove non si confrontano le idee, ma solo gli interessi. Carlo Tullio-Altan chiuse la sua ricerca tre anni fa con Le grandi religioni a confronto (Feltrinelli, 2002) dove richiamava l'attenzione sul fatto che la globalizzazione non avrebbe solo messo a stretto contatto i popoli di tutto il mondo in un felice interscambio di comunicazioni, intese commerciali, circolazioni di idee, ma avrebbe anche generato quei conflitti religiosi, duri da stemperare, perche' nella religione si radica la simbolica profonda dell'identita' dei popoli. Se in occasione della sua morte riprendessimo tra le mani i suoi libri e riflettessimo sulle sue idee, spesso profetiche e anticipatrici, renderemmo a Carlo Tullio-Altan il migliore degli omaggi. 13. RIFLESSIONE. SUVENDRINI KAKUCHI: LA "MODESTIA" CHE UCCIDE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione questo articolo di Suvendrini Kakuchi. Suvendrini Kakuchi, corrispondente di "WeNews", e' una giornalista originaria dello Sri Lanka che vive a Tokio; e' stata presente nelle aree colpite dallo tsunami nel sud, e nei villaggi della costa del nord est in mano ai ribelli, dal 24 gennaio al 5 febbraio 2005] Tangalla, Sri Lanka. Nel giro di pochi attimi, Supini Jayaweera, di 17 anni, ed i suoi tre fratelli piu' giovani sono diventati orfani quando lo tsunami ha spazzato via la loro piccola casa e i loro genitori il 26 dicembre dello scorso anno, in questo villaggio di pescatori sulla costa sud dello Sri Lanka. "L'esperienza del terrore rimarra' nella mia vita per sempre", dice la timida ragazza, che ora, come la tradizione impone, deve assumere il ruolo di genitore per i due fratelli e la sorellina di 8 anni. La parte piu' dura della storia di Supini e' la morte di sua madre. Ancora oggi la fanciulla soffoca nelle lacrime, mentre ricorda come sua madre, trentaseenne, scomparve. "L'acqua venne con forza enorme, muovendosi come un mostro affamato, attraverso la sabbia e nella casa. Mia madre strappo' la camicia di dosso ad uno dei miei fratelli perche' potesse nuotare lontano, ma lei non lo segui'. Era troppo modesta per togliersi gli abiti e fuggire". Sebbene statistiche ufficiali non siano ancora disponibili, le organizzazioni umanitarie presenti in Sri Lanka stimano che donne e bimbi siano stati la maggioranza dei morti nel disastro dello tsunami. Numerose perdite sono legate ai ruoli ed agli stili di genere, come i sari che impacciano i corpi, l'estrema pudicizia, e l'impegno totalizzante nei confronti di mariti e figli: questo ha indebolito le possibilita' di salvarsi per le donne. * "La tradizione restringe il ruolo delle donne a mogli e madri, racconta Nimalka Fernando, a una bambina si insegna, da quando nasce, ad essere pudica e devota al marito ed ai bambini". Nimalka Fernando e' un'avvocata, leader dell'Alleanza delle donne per la pace e la democrazia, un'organizzazione con base a Colombo, che e' nata nel 2000 per sostenere la rappresentanza femminile in un paese in cui le donne hanno solo il 4% dei seggi in parlamento. Da quando e' accaduto lo tsunami, Nimalka sta raccogliendo storie nei villaggi, storie che troppo spesso narrano di donne che sono morte per aver messo la modestia al di sopra della propria sopravvivenza. Gli uomini si sono arrampicati sugli alberi, le donne hanno temuto che facendolo si strappassero loro le vesti, ovvero hanno temuto di esporre se stesse in un modo che avrebbe rotto una forte proibizione culturale. Nimalka, che da anni lavora con le donne rurali, dice che la maggior parte delle donne dei villaggi sono annegate a causa dei sari che indossavano, che le impacciavano nella corsa e si appesantivano d'acqua. Saganka Perera, docente di sociologia all'Universita' di Colombo, sostiene che: "Poche donne rurali sanno nuotare: non viene loro insegnato, in nome della modestia. Persino quando fanno il bagno, usualmente ai pozzi, lo fanno coperte da lunghi abiti". "Io sono stata l'ultima a salire sul tetto della casa, quando gia' l'acqua mi arrivava alla vita, e mi trascinava verso il basso, aggiunge Mala Silva, insegnante nel villaggio di Tangalla, Mi sono salvata solo perche' mio marito e la mia figlia maggiore mi tenevano stretta per le mani, e non mi hanno lasciata andare in quei terribili momenti". Le donne sono state trovate morte con i loro bimbi fra le braccia; molte erano imprigionate dai lunghi capelli impigliati in qualche maceria. I capelli lunghi, spiega Nimalka, sono un'altra caratteristica tradizionale, un aspetto prezioso della bellezza femminile. * "Le donne subiscono restrizioni a causa di numerosi fattori sociali ed economici. Questa e' la ragione per cui moltissime sono morte", sostiene Daya Dadallage, presidente della Ruhunu Rural Women's Organization, un'associazione di donne rurali presente nel sud del paese. Dadallage, che organizza seminari di formazione per aiutare le donne piu' povere a trovare lavoro, ha lanciato programmi simili per le persone che hanno perso i mezzi di sussistenza durante lo tsunami. Dice che la parte piu' importante del suo lavoro, in questo momento, e' offrire sostegno psicologico alle donne che ora vengono stigmatizzate per essere sopravvissute. Alcune sono accusate di aver perduto i bambini, o addirittura di aver portato sfortuna e causato esse stesse il disastro. "Una giovane donna incinta si e' suicidata al campo profughi, racconta Dadallage, perche' il marito continuava ad aggredirla rispetto alla morte dei loro due figli. Si sentiva troppo colpevole per continuare a vivere". ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 10 del 27 febbraio 2005
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