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La nonviolenza e' in cammino. 818
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 818
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 23 Jan 2005 00:11:48 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 818 del 23 gennaio 2005 Sommario di questo numero: 1. Juliette Terzieff: Anna, una giornalista 2. Bruno Segre: Per non dimenticare la Shoah (parte tredicesima) 3. Giorgio Montagnoli: Il Centro interdipartimentale di ricerca sulle scienze per la pace dell'Universita' di Pisa 4. La "Carta" del Movimento Nonviolento 5. Per saperne di piu' 1. PROFILI. JULIETTE TERZIEFF: ANNA, UNA GIORNALISTA [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione questo articolo di Juliette Terzieff, corrispondente per "WeNews". Anna Zarkova e' una cronista che e' stata aggredita con l'acido, sei anni fa, per aver investigato su organizzazioni criminali che si occupavano di prostituzione forzata e traffico di donne in Bulgaria] "Anche adesso mi e' difficile parlarne. Avevo ricevuto minacce telefoniche, ma neppure nei miei incubi peggiori avrei potuto immaginare il dolore che sarebbe stato inflitto a me ed alla mia famiglia". Per Anna Zarkova, 46 anni, che pure e' abituata a scavare a fondo nei suoi reportage, raccontare la storia dell'aggressione subita non e' facile. "Voglio dimenticare", aggiunge, accarezzandosi lievemente il viso, ora quasi privo di cicatrici dopo sei interventi chirurgici, "Ma neppure questo e' facile". Nonostante il desiderio di lasciarsi l'aggressione alle spalle, Zarkova ha passato gli ultimi sei anni a convincere le sue connazionali e i suoi colleghi giornalisti a fare pressione perche' i crimini vengano perseguiti, perche' le donne abbiano eguaglianza di diritti, e perche' il paese si adegui alle norme democratiche. Ed ha continuato a lavorare come capocronista per il quotidiano "Trud", e ad occuparsi di prostituzione e traffico di donne. * Zarkova parla regolarmente alle convention, nelle universita' e sui media dell'importanza di contrastare le attivita' criminali. Dice che il suo messaggio e' diretto in particolar modo alle donne, che stanno diventando sempre di piu' vittime della violenza domestica e della prostituzione forzata, e che hanno un tasso di disoccupazione doppio rispetto agli uomini bulgari. Dopo l'emersione della Bulgaria dall'ombra dell'Unione Sovietica, nel 1991, Zarkova (che precedentemente scriveva di affari e di moda) comincio' a concentrarsi sul lato oscuro del passaggio del suo paese all'economia di mercato. Dalla violenza poliziesca alla corruzione dei pubblici ufficiali, dal crimine organizzato al traffico di esseri umani, la penna di Anna Zarkova colpiva al cuore la sua nazione, sollecitando i cittadini a lottare per le riforme e per la trasparenza. Politici ed affaristi corrotti infiltrarono l'economia bulgara nel tentativo di trarre vantaggio dai primi turbolenti anni di transizione. Nella seconda meta' degli anni '90 i bulgari, con una disoccupazione al 30%, inflazione crescente e diminuito potere d'acquisto, avevano totalmente perso fiducia nelle istituzioni (le quali, in democrazia, sarebbero disegnate per servire il popolo). I puntuali articoli di Anna Zarkova contribuirono a creare quell'opinione pubblica che spinse le autorita' a rompere con i gruppi criminali locali. Durante tutti gli anni '90, i reportage di Zarkova condussero alla rimozione di una dozzina di ufficiali di polizia colpevoli di brutalita', estorsione e corruzione. * "E' una persona dalle forti emozioni, capace di empatia, che vive letteralmente il proprio lavoro", dice di lei il collega giornalista Tsvetan Gemishev, "Ogni storia che racconta mostra il suo impegno personale rispetto all'istanza di cui si tratta, il desiderio di renderla il piu' 'giusta' possibile, ed e' questo che la rende cosi' popolare presso i lettori. Ha guadagnato la loro fiducia, e la loro ammirazione". Chi invece temeva il potere del suo lavoro passo' all'attacco. Mentre Anna Zarkova aspettava l'autobus per recarsi al lavoro, nel maggio del 1998, un uomo usci' dalla folla dei pendolari e le lancio' addosso acido solforico. "Ricordo solo che gridavo e gridavo dal dolore". E' tutto quello che Anna ricorda dell'aggressione. Al pronto soccorso, i medici che si occuparono di lei le predissero che avrebbe passato la vita sfigurata e cieca da un occhio. I titoli cubitali dei giornali e le migliaia di lettere e telefonate di sostegno non potevano lenire del tutto il dolore di Anna. Dopo numerosi viaggi all'estero per le cure e gli interventi chirurgici, torno' finalmente al lavoro, ma alla condizione di essere trasferita al settore culturale. "La Bulgaria piangeva per lei, con lei e per se stessa", racconta l'attivista sociale Elena Petrova, "L'aggressione a Zarkova era il simbolo finale, la certezza che tutto stava andando male". Due uomini vennero arrestati come probabili autori dell'aggressione, ed entrambi vennero rilasciati dopo un processo ambiguo in cui un testimone venne accusato di essere l'autore del fatto, e poi rilasciato quando un altro testimone ritratto' la propria deposizione. Il padre di uno degli imputati era uno degli ufficiali rimossi per le sue azioni corrotte dopo che i reportage di Zarkova le avevano svelate. "Il pubblico ministero mi disse che non aveva senso continuare l'azione legale, e dopo aver osservato i tribunali per dieci anni so bene che sarebbe molto difficile veder mutare la sentenza", cosi' Anna spiega la sua decisione di lasciar cadere il caso. Il figlio dell'ex ufficiale di polizia, Petyo Petkov, nel frattempo fu arrestato di nuovo ed accusato di un'aggressione simile che aveva pero' avuto come risultato la morte della vittima. Nonostante la deposizione di tre testimoni, e' stato assolto. Nel vedere come l'ingiustizia cresceva attorno a lei, l'intrinseco bisogno di giustizia di Anna Zarkova non ha resistito: quattro anni fa e' ritornata alla cronaca nera. * "Non era semplice uscire dalla forma mentis di essere un'handicappata, mezza cieca, sfregiata e inetta, ma io sono testarda", dice Zarkova, "Ora semplicemente non ho tempo per avere paura: ho troppo lavoro da fare". Il suo ritorno al lavoro, dicono molti dei suoi ammiratori, sarebbe stato sufficiente: il suo ritorno alle investigazioni criminali, all'esplorazione di un mondo di malaffare che e' quasi ufficializzato, dicono, e' pura ispirazione. "Non sono tante le persone che riescono a superare una prova del genere e a riprendere la posizione che avevano prima", dice Gemishev, "Avere una tale determinazione, la forza di sopravvivere, per me e' eroismo. Io non credo che avrei avuto lo stesso coraggio". Zarkova ha usato il precedente dell'aggressione come combustibile per la sua campagna contro il crimine, per coalizzare le donne bulgare contro il traffico di esseri umani, di cui il paese balcanico e' transito, sorgente e destinazione. "Il settore piu' proficuo del mercato criminale ora e' la droga, ma il piu' diffuso e' il traffico di esseri umani, e il commercio della carne umana", racconta Zarkova, "Tutti e tre hanno per bersaglio gli individui meno protetti dalla societa', i piu' vulnerabili: donne, ragazzi e bambini. Donne, ragazzi e bambini sono coloro che hanno piu' bisogno del nostro aiuto". Zarkova ha scritto moltissimo su queste tematiche, compreso il servizio su "Vanko 1", il rapper bulgaro che l'anno scorso e' stato giudicato colpevole di aver forzato donne alla prostituzione e di aver commerciato in corpi umani. Vanko 1 ha ricevuto una sentenza a 12 anni di carcere e una multa di 75.000 dollari: e' la prima condanna, in Bulgaria, di un trafficante di esseri umani. "Qualcuno pensera' che continuare questo lavoro sia folle, e forse lo e'", prosegue Zarkova, "Ma ergersi per la verita' e' anche un dovere, ed io chiedo a tutti gli uomini e le donne del mio paese di non mollare mai sulla verita'". Con la Bulgaria che chiede di entrare nell'Unione Europea nel 2007, i reportage sul crimine vengono visti in nuova luce nel paese. "Il bisogno di giornalismo onesto e' piu' forte che mai", dice Zarkova, "E sembra che la speranza nel futuro cominci a brillare". La sua determinazione ne ha fatto un'icona fra le giornaliste e le donne in genere. Cosi' commenta Maria Georgieva, studentessa universitaria di giornalismo a Sofia: "Che una donna sola abbia osato alzare la testa, lottare, e continui a farlo dopo un agguato cosi' orribile, ecco, e' questo che ci da' speranza. E' questo che ci spinge avanti". 2. MEMORIA. BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE LA SHOAH (PARTE TREDICESIMA) [Ringraziamo di cuore Bruno Segre (per contatti: bsegre at yahoo.it) per averci permesso di riprodurre sul nostro foglio ampi stralci dal suo utilissimo libro Shoah, Il Saggiatore, Milano 2003, la cui lettura vivamente raccomandiamo. Riportando alcuni passi di esso abbiamo omesso tutte le note, ricchissime di informazioni e preziose di riflessioni, per le quali ovviamente rinviamo chi legge al testo integrale edito a stampa. Bruno Segre, storico e saggista, e' nato a Lucerna nel 1930, si e' occupato di sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell'ambito del Movimento Comunita' fondato da Adriano Olivetti; ha fatto parte del Consiglio del "Centro di documentazione ebraica contemporanea" di Milano; dal 1991 presiede l'Associazione italiana "Amici di Neve' Shalom / Wahat al-Salam"; dirige la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica "Keshet" (e-mail: segreteria at keshet.it, sito: www.keshet.it). Tra le opere di Bruno Segre: Gli Ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore, Milano 1998, 2003] Omissione di soccorso. Gli "spettatori" come Ponzio Pilato Quando, nell'analizzare i vari aspetti della Shoah, l'attenzione degli storici si sposta dalle gesta dei carnefici alle reazioni delle vittime e ai comportamenti degli "spettatori" (le varie Chiese cristiane, la Santa Sede, gli Alleati, gli Stati neutrali), il discorso storiografico cambia inequivocabilente registro. Nel considerare il ruolo degli "spettatori", infatti, gli storici devono tenere conto soprattutto di vicende che non ebbero luogo: atti non compiuti, interventi non operati, appelli non uditi o mai pronunciati. Si tratta di vicende che agli occhi degli studiosi si presentano, per cosi' dire, in negativo: il mancato asilo agli ebrei da parte di questo o quello Stato neutrale, la diffusa "omissione di soccorso", l'inspiegabile inerzia di grandi organizzazioni internazionali (come la Croce Rossa), il rifiuto delle aviazioni alleate di bombardare gli accessi ai campi di sterminio, le insufficienze o carenze di solidarieta' all'interno delle comunita' ebraiche, la quasi universale incomprensione della qualita' e delle dimensioni del massacro che andava compiendosi in Europa, e cosi' via. Ed e' praticamente inevitabile che, alla luce degli esiti catastrofici delle politiche di sterminio messe in atto, gli storici siano indotti a valutare tali vicende di inerzia o di indifferenza aderendo pregiudizialmente o al partito degli accusatori o a quello degli apologeti. Come rammenta Michael R. Marrus, "c'e' un forte pericolo che lo storico applichi ai suoi oggetti di studio i criteri, i sistemi di valori e il punto di vista del presente, invece di quelli che appartenevano al periodo trattato". Ma, soprattutto, lo storico rischia di ricostruire gli eventi, o i "mancati eventi", sulla base di qualche ingegnoso teorema dietrologico o di supposizioni di comodo, confezionando ex post discorsi che obbediscono a un orientamento politico spesso non confessato, anche se ben riconoscibile. * Decisamente diverso e' il caso di chi, vivendo gli eventi della Shoah in prima persona e trovandosi nel contempo a "scrivere storia", considerava il proprio stesso fare storiografia un'operazione investita di chiare valenze etico-politiche. In questo senso l'esempio probabilmente piu' illustre e' quello dello storico ebreo Emmanuel Ringelblum (militante nella sinistra sionista), che la Gestapo fucilo' il 7 marzo 1944 insieme con la moglie, il figlio dodicenne e altri trentacinque ebrei che avevano cercato di nascondersi in una cantina tra le rovine del ghetto di Varsavia. Ringelblum animo' tra il 1940 e il 1943 un'articolata iniziativa clandestina di ricerca e raccolta multidisciplinare di materiale documentario (condotta con l'appellativo in codice di Oneg Shabbat, "le delizie del Sabato") destinata a costituire a futura memoria un "archivio" delle sofferenze, delle speranze, delle miserie, dell'agonia insomma, degli abitanti del ghetto di Varsavia e delle altre comunita' ebraiche polacche durante quel triennio infernale. Nella primavera del 1943, poco prima della completa distruzione d'ogni sorta di presenza ebraica in Polonia, il gruppo degli intellettuali attivi nell'operazione Oneg Shabbat nascose il materiale d'archivio e gli Appunti dal ghetto di Varsavia di Ringelblum in una ventina di bidoni di latta sigillati, che vennero seppelliti sotto le macerie del ghetto. Ritrovato dopo la fine della guerra, questo materiale rappresenta, nel quadro della storiografia della Shoah, la piu' remota documentazione disponibile che sia stata messa a punto con approccio e intenti di tipo scientifico. Non v'e' aspetto saliente della vita del ghetto che Ringelblum non abbia registrato nei suoi Appunti. Gran parte del materiale da lui raccolto gli veniva da fonti esterne: amici politici, naturalmente, ma soprattutto profughi con i quali aveva modo di parlare durante il suo lavoro quotidiano, membri dei comitati di caseggiato, uomini dell'inviso Judenrat (il Consiglio ebraico), e persino gli universalmente odiati agenti della polizia ebraica. Pur senza dissimulare i propri sentimenti, Ringelblum si sforzava di scrivere nel modo piu' obiettivo: "tutta la verita' (...) per quanto amara (...), le nostre fotografie sono genuine, non ritoccate". Il tono che egli si imponeva era di "calma epica: la calma del cimitero". La sua visuale, amplissima, cercava di cogliere anche cio' che avveniva nel resto della Polonia: l'insorgere, il diffondersi e lo spegnersi del tifo; i diversi metodi di accattonaggio, dei bambini e degli adulti; le varie forme di contrabbando "sopra il Muro", tra il ghetto e "l'Altra Parte"; i comportamenti dei soldati tedeschi ricoverati negli ospedali situati nel ghetto; l'atteggiamento degli esattori delle tasse. Di contro agli infiniti esempi di coraggio, di socialita', di immensa solidarieta' dei quali Ringelblum offre la testimonianza (come l'eroico sacrificio del dottor Janusz Korczak, immolatosi con i duecento orfani affidati alle sue cure), vi sono negli Appunti molte pagine dedicate a una tematica quanto mai dolorosa, quella del collaborazionismo e della corruzione degli Judenraete e della polizia ebraica: fenomeni che contribuirono a rendere ancora piu' miserabile, se possibile, l'esistenza dei morituri del ghetto. "Gli ebrei delatori e servi della Gestapo" annotava Ringelblum nel maggio 1942 "si stanno dando da fare per trovarsi un alibi. Cercano in ogni modo di avere l'aria di persone di buon cuore, o di dimostrare, almeno, che sono veri ebrei, ebrei autentici, ebrei che pensano all'interesse comune". E ancora: "Gli agenti [della polizia ebraica] si sono distinti per la loro corruzione e immoralita'. Il vertice della perfidia, tuttavia, lo hanno raggiunto durante il trasferimento. Non hanno pronunciato una sola parola di protesta contro il disgustoso incarico di condurre i loro fratelli al macello. A questo lavoro lercio gli uomini della polizia erano psicologicamente preparati e l'hanno eseguito a puntino. (...) Da dove hanno tratto gli ebrei tanta violenza omicida? Quando mai, nella nostra storia, abbiamo prodotto tante centinaia di assassini, di uomini capaci di rapire i bimbi per la strada per caricarli sui carri e trascinarli alla Umschlagplatz? (...) Non c'e' ebreo di Varsavia, non c'e' donna o bambino che non possano citare atti di crudelta' inumana e di violenza da parte degli uomini della polizia ebraica. Sono atti che i sopravvissuti non dimenticheranno mai, atti che bisogna punire e saranno puniti". Il 26 giugno 1942, Ringelblum scriveva: "Oggi e' stato un gran giorno per gli Oneg Shabbat. Stamattina, la radio inglese ha dato annuncio, in una trasmissione, della sorte che stanno subendo gli ebrei di Polonia. (...) Erano mesi che pativamo perche' il mondo era cieco e sordo alla nostra tragedia senza pari. (...) Ma adesso pare che finalmente i nostri interventi abbiano raggiunto lo scopo. (...) Oggi c'e' stata una trasmissione in cui si e' fatto il punto della situazione: si e' parlato di 700.000 ebrei uccisi in Polonia. (...) Il gruppo degli Oneg Shabbat ha assolto un grande compito storico. (...) Abbiamo inferto al nemico un fiero colpo. Abbiamo smascherato il suo disegno satanico di annientare la collettivita' ebraica di Polonia, un disegno che egli voleva attuare nel massimo silenzio. (...) E se l'Inghilterra manterra' la parola, ricorrendo ai formidabili bombardamenti a tappeto che ha minacciato, allora, forse, saremo salvi...". A Varsavia dunque, alla fine di giugno del 1942, gli ebrei "sapevano" che gli Alleati anglo-americani "sapevano". Non v'e' dubbio che per i prigionieri del ghetto tale consapevolezza costituisse un appiglio, sia pure tenue, cui aggrapparsi: tant'e' che nelle frasi di Ringelblum che ho ora riferito si accennava ancora a qualche vaga probabilita' di salvezza, era avvertibile insomma un barlume di residua speranza. Ma proprio di li' a tre settimane i nazisti diedero inizio alla cosiddetta "grande azione", nel corso della quale trasferirono 310.000 ebrei da Varsavia alle camere a gas di Treblinka. E nei settantun giorni in cui la "grande azione" si consumo', non venne messo in campo dagli Alleati alcun intervento sicuramente dissuasivo. A Londra il governo non si commosse. Contro i tedeschi non vi furono attacchi tali da infliggere loro alcun "fiero colpo". * In effetti, nessuna delle grandi potenze impegnate a combattere militarmente la Germania hitleriana riusci' a emergere dalla vicenda della Shoah con le mani pulite. Gli Alleati occidentali, i cui servizi di informazione non mancavano di trarre vantaggio dalle storie di morte che, con tetra regolarita', trapelavano dall'Europa sotto occupazione nazista, non fecero nulla per aiutare in pratica le vittime; addirittura, in piu' d'un caso, negarono agli ebrei ogni via di scampo. Pio XII, e' vero, tacque in pubblico ma diede, in modo coperto, un indiretto contributo a salvare la vita di qualche migliaio di ebrei consentendo che conventi, monasteri e parrocchie li ospitassero nell'ora di maggiore pericolo. Winston Churchill (1874-1965) e Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) si espressero ampiamente in pubblico, ma la loro politica consistette nell'abbandonare gli ebrei al loro destino. In sede storica e' stato ormai dimostrato inequivocabilmente come le informazioni circa i massacri degli ebrei in Polonia e nell'Unione Sovietica giungessero in Inghilterra fin dall'inizio del 1942. Pubblicate dapprima da organi della stampa ebraica di Londra (come il "Jewish Chronicle" e la "Zionist Review"), queste notizie venivano riprese quasi subito anche dai giornali statunitensi e di altri paesi. In Europa circolavano in quei mesi informazioni il cui significato difficilmente poteva essere frainteso dai servizi segreti degli Alleati o dai responsabili della Croce Rossa internazionale. Una lettera datata 27 luglio 1942, indirizzata da Gisi Fleischmann del Consiglio ebraico di Bratislava al dottor Adolf Silberschein, direttore a Ginevra del ReliCo (il Comitato di soccorso del Congresso ebraico mondiale), informava che 60.000 ebrei slovacchi, comprendenti vecchi, donne incinte, bambini e lattanti, erano stati deportati nel Governatorato generale e nella parte orientale dell'Alta Slesia, cioe' ad Auschwitz. A cura di Silberschein, questo messaggio venne subito trasmesso alla Croce Rossa internazionale. Il 20 agosto il "New York Times", citando il quotidiano francese "Paris Soir" del giorno innanzi, segnalava che gli ebrei di Francia stavano per essere deportati nella Slesia polacca. Un rapporto inviato a Londra dalla Lega socialista ebraica polacca nel maggio 1942 riferiva per la prima volta che gli ebrei del distretto di Lodz venivano uccisi con i gas all'interno di un tipo di "autoveicolo speciale" presso il villaggio di Chelmno, in Polonia. Il periodico newyorkese "Jewish Frontier", riprendendo la notizia nel novembre 1942 con una descrizione piu' particolareggiata dell'eccidio di Chelmno, offriva precise informazioni circa le camere a gas mobili montate su autocarri. A seguito di queste notizie, i quotidiani ebraici di Palestina del 23 novembre uscirono listati a lutto. Secondo Yehuda Bauer, "non vi possono essere dubbi circa il fatto che chiunque leggesse i giornali, ascoltasse la radio o leggesse i resoconti quotidiani della "Jewish Telegraphic Agency" potesse disporre di tutte le informazioni sugli ebrei europei necessarie per capire che era in corso un omicidio di massa". Cosi', finalmente consapevoli che la "soluzione finale" era una pesantissima realta', undici governi dell'alleanza antitedesca, affiancati anche dal Comitato nazionale francese facente capo al generale de Gaulle, emanarono il 17 dicembre 1942 una dichiarazione (pubblicata contemporaneamente a Washington, Londra e Mosca) che condannava la "bestiale politica di sterminio" delle "persone di razza ebraica", "eseguita a sangue freddo" dalle autorita' tedesche, e annunciava che i responsabili non sfuggiranno "alla sanzione". Tale dichiarazione era in gran parte frutto delle informazioni ricevute dalla Croce Rossa internazionale a Ginevra, il cui vicepresidente, Carl J. Burckhardt, in un colloquio con il diplomatico americano Paul C. Squire (7 novembre 1942), aveva ufficialmente dichiarato che i nazisti stavano effettivamente uccidendo gli ebrei. Ma ancora piu' importante fu il rapporto fatto uscire dalla Polonia dal corriere clandestino polacco Jan Karski, sul quale riferiro' piu' avanti. * Dopo lunghe ricerche condotte negli archivi del Dipartimento di Stato di Washington, David S. Wyman giunse alla conclusione che l'"intelligence" statunitense era perfettamente informata dello sterminio sistematico degli ebrei europei fin dal novembre 1942. Ma nell'aprile del 1943, durante un convegno di funzionari britannici e americani, si decise ufficialmente di non fare nulla per fermare la Shoah e vennero scartati tutti i piani per mettere in salvo gli ebrei. Il Foreign Office e il Dipartimento di Stato temevano entrambi che il Terzo Reich fosse disposto a fermare le camere a gas, a svuotare i campi di concentramento e a lasciare che centinaia di migliaia (se non milioni) di superstiti ebrei emigrassero in Occidente, verso la liberta'. Non piu' tardi del 1943, il Foreign Office "rivelo' in via confidenziale" al Dipartimento di Stato il suo timore che, se si fossero esercitate troppe pressioni sulla Germania per liberare gli ebrei, sarebbe potuta succedere proprio una cosa del genere. E del resto il presidente Roosevelt, che pure era straordinariamente popolare presso la comunita' ebraica americana ma non era disposto a correre rischi per gli ebrei d'Europa, si astenne per ben tredici mesi dall'assumere alcuna concreta iniziativa atta a salvarli. Quando venne finalmente istituita un'agenzia per i rifugiati di guerra, con lo scopo di mettere in salvo gli ebrei e le altre vittime del nazismo, quest'organismo non pote' avvalersi di alcun serio appoggio da parte dell'amministrazione di Washington, ne' sul piano operativo ne' su quello finanziario. I fondi per il suo funzionamento vennero messi a disposizione per il 90 per cento da associazioni ebraiche. Durante i tre anni e mezzo di guerra contro la Germania, i profughi ebrei ammessi negli Usa furono solo 21.000: un numero che non superava il 10 per cento delle gia' misere "quote nazionali" autorizzate. Nel 1944, quando non potevano esservi piu' dubbi circa l'annientamento sistematico degli ebrei europei, il ministero americano della Guerra ignoro' diversi appelli che chiedevano con disperazione che si bombardassero le camere a gas dei campi di sterminio, nonche' le linee ferroviarie lungo le quali centinaia di migliaia di persone erano portate a morire. Il pretesto che veniva addotto, secondo i documenti ufficiali dell'aviazione Usa, era che missioni di quel tipo avrebbero indebolito il sostegno aereo da assicurare ad altre operazioni gia' programmate. Oltre a cio', si affermava che l'aviazione americana non disponesse di basi adatte per consentire agli aerei di raggiungere quegli obiettivi. Tutto cio' non era vero, giacche' dal maggio 1944 la quindicesima squadriglia dell'aviazione Usa, di stanza nell'Italia meridionale, era perfettamente in grado di bombardare Auschwitz e gli altri campi: tant'e' che questi aerei riuscirono a colpire obiettivi militari a ottanta chilometri dai campi, spingendosi per ben due volte a soli otto chilometri dalle camere a gas. Secondo Wyman il presidente Roosevelt, chiamato a fare i conti - all'indomani della grande depressione dei primi anni trenta - con l'isolazionismo e la profonda ostilita' degli americani nei confronti dell'immigrazione, paventava che un'ondata di profughi potesse mettere a repentaglio il consenso di cui godeva. Di qui la sua indifferenza nei confronti degli ebrei europei, sulla cui sorte era perfettamente informato: un'indifferenza che, a giudizio di Wyman, costitui' il piu' grave errore della sua presidenza. Nella sua ricerca, Wyman chiama in causa la stessa comunita' ebraica americana: una collettivita' di ben cinque milioni di persone (di cui quasi la meta' concentrata a New York), che di fronte alla tragedia degli ebrei d'Europa si rivelo' sostanzialmente incapace di esercitare sul governo di Washington una pressione politica efficace. Divisi al proprio interno fra le diverse etnie, timorosi che un'eccessiva pressione su Roosevelt potesse dare luogo a reazioni improntate ad antisemitismo, gli ebrei americani non riuscirono a mettere in atto una mobilitazione vincente per il salvataggio dei correligionari europei, anche perche' gli sforzi in tale direzione trovarono un parziale ostacolo "interno" nella componente sionista, la quale, piu' compatta e organizzata delle altre, naturalmente tendeva a considerare prioritario l'impegno per la creazione dello Stato ebraico in Palestina. * Negli anni cruciali della Shoah vi furono, in Palestina e altrove, gruppi ebraici che si diedero da fare per scoprire se all'interno delle politiche naziste di assassinio di massa non vi fosse qualche sorta di discontinuita', qualche crepa o anche solo qualche smagliatura, penetrando nella quale si potesse bloccare la macchina omicida, favorire l'emigrazione di ebrei dai territori sotto controllo dei nazisti e in tal modo salvare vite, poche o tante, persino mediante il ricorso alla corruzione dei carnefici. Vite umane in cambio di soldi, insomma. Gia' nel 1933, qualche mese dopo l'ascesa di Hitler al potere, diversi alti dirigenti sionisti si erano recati a Berlino per negoziare con i nazisti l'immigrazione in Palestina degli ebrei tedeschi e il trasferimento dei loro beni. A quell'epoca, tuttavia, l'accordo sulla haavarah (in ebraico "trasferimento") - cosi' chiamato anche nei documenti nazisti - era il frutto della complementarita' fra gli interessi del governo nazista e quelli del movimento sionista: il primo voleva cacciare gli ebrei dalla Germania, il secondo voleva accoglierli in Palestina. Non va pero' neppure taciuto il fatto che i desideri dei sionisti non coincidevano inizialmente con le aspirazioni degli ebrei tedeschi, la maggior parte dei quali avrebbe preferito, in quei primi anni, restare nel proprio paese. Questo tipo d'operazione diede frutti piu' tardi, soprattutto nel periodo 1938-1939. Sullo sfondo infatti della crescente tendenza degli inglesi a limitare, e persino ad arrestare, l'immigrazione ebraica in Palestina, fra singoli ebrei rappresentanti di organizzazioni sioniste, o soltanto di se stessi, ed esponenti nazisti quali Adolf Eichmann vi furono negoziati intesi a incrementare l'esodo di ebrei dalla Germania e dall'Austria e la loro immigrazione in Palestina. Per contro, a partire dall'invasione della Polonia, nel settembre 1939, sino al 1942 inoltrato - ossia durante il periodo del massimo predominio tedesco -, questa "compravendita di ebrei" (ma si trattava, in realta', della "collaborazione" tra un persecutore e gli esponenti di gruppi di vittime che tentavano con qualsiasi mezzo di sfuggire a una trappola mortale) incontro' ostacoli vieppiu' seri, giacche' da parte delle principali istituzioni naziste l'interesse ad avviare negoziati con ebrei si rivelava sempre piu' tenue. Le trattative, e' vero, non furono mai interrotte completamente, dato che il capo delle SS Heinrich Himmler intendeva servirsene per tenere aperto uno spiraglio a eventuali negoziati di pace separata con gli Alleati occidentali. Tuttavia, la politica del nazismo verso gli ebrei era ormai passata dall'espulsione coatta alla strategia dello sterminio, cosicche' molti fra i tentativi di salvataggio - in particolare quelli a favore delle comunita' ebraiche in Slovacchia e in Ungheria - andarono incontro a penosi fallimenti. In questa materia singolarmente delicata e controversa affonda la sua sonda - con acutezza ma anche con molto equilibrio - Yehuda Bauer, docente di storia all'universita' di Gerusalemme e direttore della ricerca allo Yad Vashem (il museo della Shoah in Israele). Al termine di un'indagine lunga e approfondita, costui ha pubblicato una monografia che, attingendo a fonti mai prima consultate, riesce a riannodare in modo magistrale i fili di una vicenda complicatissima di "patti con il diavolo" e di oscuri intrighi diplomatici. Lo scenario entro cui si muove la storia che Bauer ricostruisce e' popolato da una folla di personaggi per la maggior parte ambigui che pero', pure tra una congerie di imbrogli, ricatti, furti e tradimenti, ebbero talvolta il merito di mettere in salvo qualche migliaio di vite umane. * Proprio nell'autunno del 1942, durante il quale i nazisti riuscirono a massacrare oltre un milione di ebrei, da Varsavia giunse prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti Jan Kozielewski, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Jan Karski, un membro dell'Ufficio di informazione e propaganda (Bip) dell'Esercito dell'interno (Ak), principale organizzazione della Resistenza polacca. Quest'emissario venne ricevuto a Londra da varie personalita', fra cui il ministro degli Esteri Anthony Eden (1897-1977). Oltre Atlantico incontra' il presidente Roosevelt. Fra i compiti affidatigli v'era anche la denuncia presso le autorita' alleate dello sterminio in atto degli ebrei polacchi. Prima di iniziare l'avventuroso viaggio che doveva condurlo in Inghilterra, Karski riusci' a visitare il ghetto di Varsavia e il campo di sterminio di Belzec, dove si rese conto di persona di cio' che stava accadendo. "Mi recai nel ghetto due volte" raccontera' 45 anni piu' tardi. "Vidi scene spaventose, e non solo di terribile fame e miseria. Fui anche testimone delle 'cacce all'uomo', con i ragazzi della 'Hitlerjugend' che sparavano addosso alla folla che fuggiva terrorizzata. Sono scene che ricordero' per tutta la vita, mi sono rimaste davanti agli occhi per molti anni dopo la guerra". Karski ebbe un drammatico colloquio anche con esponenti delle due maggiori organizzazioni politiche degli ebrei polacchi (il Bund e i sionisti). Costoro lo informarono che nel ghetto di Varsavia i giovani stavano progettando e preparandosi a dare vita a una rivolta. E inoltre lo invitarono a farsi portavoce, presso i governi dei paesi alleati, di una richiesta di misure eccezionali, quali: iniziative tese a informare la popolazione tedesca mediante la radio, il lancio di volantini e cosi' via, circa i delitti perpetrati dal governo nazista contro gli ebrei; un appello ufficiale al popolo tedesco perche' facesse pressione sul proprio governo per bloccare lo sterminio (e se cio' non fosse avvenuto, la responsabilita' delle stragi sarebbe ricaduta sull'intero popolo tedesco); una dichiarazione pubblica e ufficiale volta a informare la popolazione tedesca che, qualora lo sterminio non fosse stato fermato, i governi alleati avrebbero bombardato determinati obiettivi in Germania, attribuendo a tali bombardamenti il valore di atti di rappresaglia per i crimini commessi contro gli ebrei. Della sua visita al Lager di Belzec, Karski rammentava che gli ebrei vi venivano sterminati "con l'uso dei gas di scappamento dei motori smontati dai carri armati sovietici. Era un metodo assai poco efficace; i motori si surriscaldavano e il processo di uccisione durava molto a lungo. Accadeva che non si fosse ancora finito di liquidare un trasporto, che arrivava gia' quello successivo; in tal caso lo si rispediva a Sobibor, dove la macchina della morte funzionava molto meglio". Nel rievocare i numerosi colloqui politici che ebbe a Londra, Karski ricordava che gli interlocutori gli avevano posto molte domande, nessuna delle quali, peraltro, concerneva in qualche modo la sorte degli ebrei. Soltanto Lord Selbourne, responsabile dei contatti con i movimenti di Resistenza nell'Europa occupata dai tedeschi, "mi dimostro' maggiore interesse. Mi disse tuttavia, molto francamente, che le misure eccezionali richieste dagli ebrei polacchi non erano realizzabili, poiche' l'obiettivo fondamentale degli Alleati era vincere la guerra. Tutto cio' che non aveva un significato strettamente militare doveva essere considerato come una 'side issue', una faccenda marginale". W. D. Rubinstein riprende a oltre mezzo secolo di distanza il medesimo punto di vista che Lord Selbourne aveva espresso, parlando con Jan Karski, nei mesi a cavallo tra i 1942 e il 1943. Rubinstein presenta la politica degli Alleati, e in particolare quella della Gran Bretagna a fronte dell'eccidio degli ebrei d'Europa, in termini decisamente apologetici. Per porre un termine alla follia della Shoah, si domanda quest'autore, che altro avrebbero potuto davvero fare i britannici se non concentrare ogni proprio sforzo nell'abbattere il regime hitleriano con le armi? Rubinstein ritiene che, a partire dal 1933, la comunita' ebraica inglese abbia fatto tutto il possibile per allertare e mobilitare l'opinione pubblica britannica contro i nazisti e per sottrarre allo sterminio, mediante una politica accorta, cospicue masse di ebrei che rischiavano il massacro. E' vero che, dopo lo scoppio della guerra, la maggior parte delle comunita' ebraiche d'Europa si trovo' chiusa in una morsa letale, ma su un totale di 525.000 ebrei tedeschi, circa 350.000 riuscirono a salvarsi prima che i nazisti bloccassero (nel maggio 1941) l'emigrazione; e di questi profughi dalla Germania (nonche' dai territori ex austriaci ed ex cecoslovacchi), 56.000 trovarono rifugio in Gran Bretagna, e poco piu' di 70.000 riuscirono in qualche modo a raggiungere la Palestina. Rubinstein ricorda correttamente che, proprio a seguito di vigorose pressioni del governo di Londra, la Spagna franchista (un paese che, almeno sulla carta, si considerava alleato di Hitler e Mussolini) consenti' a oltre 35.000 ebrei, che da ogni parte d'Europa fuggivano verso occidente, di attraversare il proprio territorio; ma su un altro versante l'autore sembra sottovalutare i pesantissimi riflessi che, sugli esiti della Shoah, ebbero le drastiche limitazioni imposte dagli inglesi all'immigrazione ebraica verso la Palestina: quella Palestina che, dopo la prima guerra mondiale, la Societa' delle Nazioni aveva affidato in mandato alla Gran Bretagna e che, alla fine degli anni trenta, molti ebrei consideravano ormai come l'ultimo rifugio possibile. E' vero che il "Libro bianco" sulla Palestina del maggio 1939, con il quale gli inglesi imponevano severe restrizioni all'immigrazione degli ebrei, fu dettato al governo di Londra dall'esigenza di mantenere la calma nel sovreccitato mondo arabo alla vigilia di una guerra a tutto campo contro i nazisti. Ma non v'e' dubbio che, nel contesto globale dell'impegno bellico degli inglesi, e anche degli americani, il salvataggio e l'accoglienza degli ebrei europei non ebbero mai la dignita' di obiettivi prioritari. Per tutta la durata del conflitto, inglesi e americani dimostrarono una grande perizia nel rimandare qualsiasi serio tentativo di soccorso. E cosi' la sorte degli ebrei venne sistematicamente sacrificata sull'altare di esigenze strategiche considerate piu' importanti. * In conclusione, ritengo che vada riconosciuto a Yehuda Bauer il merito di avere chiarito, con parole pacate ma graffianti, la natura della trappola entro cui rimasero mortalmente schiacciati, durante la seconda guerra mondiale, gli ebrei d'Europa. Nell'epilogo del suo magistrale Ebrei in vendita? troviamo il seguente passaggio: "Gli Alleati non capirono veramente mai la politica antiebraica dei nazisti. (...) Pensavano che l'antisemitismo nazista fosse uno strumento per conquistare il potere e mantenerlo: non si resero conto che, per loro, esso non era un mezzo, bensi' uno scopo. Si creo' cosi' uno squilibrio: i nazisti vedevano negli ebrei i propri principali nemici, quelli che stavano dietro a tutti gli altri e li controllavano; gli Alleati non compresero, e forse non potevano comprendere, che quella demonizzazione, puramente illusoria, che trasformava una minoranza impotente e indifesa in una minaccia globale, era presa sul serio. Per loro gli ebrei erano solo una seccatura, e per gli inglesi una minaccia ai propri interessi nazionali in Palestina e Medio Oriente. La storia si prese la sua vendetta: gli inglesi non persero solo la Palestina, ma tutto l'Impero". 3. ESPERIENZE. GIORGIO MONTAGNOLI: IL CENTRO INTERDIPARTIMENTALE DI RICERCA SULLE SCIENZE PER LA PACE DELL'UNIVERSITA' DI PISA [Ringraziamo Giorgio Montagnoli (per contatti: montagno at vet.unipi.it) per averci messo a disposizione questa scheda di presentazione del Centro interdipartimentale di ricerca sulle scienze per la pace (in sigla: Cisp) dell'Universita' di Pisa. Giorgio Montagnoli (Genova, 23 giugno 1937), chimico e docente fuori ruolo di chimica e biochimica alla facolta' di Medicina veterinaria dell'Universita' di Pisa, e' aderente al Cisp, Centro interdipartimentale di ricerca sulle scienze per la pace della stessa universita', e garante di due insegnamenti ai due corsi di laurea in Scienze per la pace (nel corso di laurea triennale Scienze molecolari della vita, e nella specialistica Controllo delle armi chimiche e biologiche); e' autore di pubblicazioni e testi scientifici sul tema del "Riconoscimento molecolare" (ad esempio: Molecular Models of Photoresponsiveness, G. Montagnoli and B. F. Erlanger editors, Plenum Press, New York 1983), ma anche di divulgazione, in particolare sulle armi chimiche e biologiche, e infine di testi letterari indirizzati alla pace: Tre raccolte per regalo, Lucca libri, Lucca 1998, e A lato delle favole e nei sogni, Titivillus, S. Miniato 2003] Il Cisp, Centro interdipartimentale di ricerca sulle scienze per la pace dell'Universita' di Pisa, e' nato nel 1998 (D. R. n.01/1772 del 12 novembre 1998), con obiettivi di: - promuovere e coordinare studi e ricerche connessi ai problemi della pace; - promuovere iniziative di ricerca e di sperimentazione didattica, con particolare riferimento alla formazione dei formatori nell'ambito dell'educazione alla pace; - favorire e coordinare a livello locale, nazionale ed internazionale, lo scambio di informazioni e iniziative atte a promuovere collaborazioni interdisciplinari nel predetto ambito culturale, attivando gli opportuni strumenti organizzativi; - promuovere convenzioni ed accordi di collaborazione con Enti pubblici e privati, italiani e stranieri, per la realizzazione delle finalita' suddette. Attualmente al Cisp aderiscono sette dipartimenti universitari, ed afferiscono circa cinquanta docenti di nove diverse facolta'. In questi primi anni di attivita', il Cisp ha realizzato diverse iniziative, alcune delle quali di rilievo non solamente locale, diventando una realta' ben consolidata ed uno dei modi attraverso cui si realizza la presenza del nostro ateneo nel territorio. Fra le attivita' si possono ricordare, per la loro rilevanza e visibilita': - L'organizzazione di seminari, conferenze, incontri di studio e dibattiti, molti dei quali dedicati al tema del servizio civile considerato sia nella prospettiva nazionale, ospitando esperti nazionali e rappresentanti di enti di servizio civile, sia dal punto di vista delle esperienze straniere, ospitando esperti da tutta Europa appartenenti alla rete Avso (Association of voluntary service organizations), Israele (in rappresentanza del Carmel Institute for Social Studies), Stati Uniti aderendo alla rete del Global Service Institute di St. Louis, Missouri. - L'apertura di contatti o collaborazioni internazionali, sia con atenei di diverse nazioni, come la Spagna (Universita' di Granada) e gli Stati Uniti (G. Washington University in St. Louis) che con enti dell'Onu quali l'Unicef, l'Ipa (International Peace Academy, Nazioni Unite, New York) e l'Unicri (Istituto Internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sulla criminalita' e la giustizia, Torino). Il Cisp ospita al momento due studiosi stranieri per un periodo di un anno (J. F. Ballinger, Canada; J. Washington, Usa) e altri ne ha ospitati per periodi piu' brevi, provenienti anche da zone particolarmente "calde" come l'area israelo-palestinese. - Il progetto di servizio civile "Studi per la pace" giunto alla sua seconda edizione, con il quale l'Ufficio nazionale per il servizio civile assegna dieci volontari in servizio civile presso il Cisp a supporto dell'attivita' progettuale, di ricerca e di segreteria didattica. Nell'ambito di tale progetto vengono riconosciuti fino a 10 crediti universitari a chi svolga il servizio civile conformemente alle modalita' amministrative ed operative previste dal vigente ordinamento di facolta'. In questo quadro, il Cisp ha aderito al Cesc-project, un coordinamento di livello nazionale di enti che svolgono progetti di servizio civile. Inoltre, grazie ad un'apposita convenzione con l'Ufficio nazionale per il servizio civile, quattro obiettori di coscienza sono assegnati al Cisp. - La promozione e il sostegno del Corso di laurea interfacolta' in Scienze per la pace. Si tratta di un corso della Classe 35 ("Scienze sociali per la cooperazione, lo sviluppo e la pace"), frequentato da circa 65 studenti/anno, provenienti da tutta Italia. Il corso si e' finora avvalso di circa 30 docenti di 8 facolta' dell'Universita' di Pisa, di 4 docenti di altre Universita', di una decina di collaboratori esterni ed ha organizzato successivamente un Corso di laurea specialistico nella classe 88S. Il Corso di laurea in Scienze per la pace sta anche progettando sia una collaborazione specifica con alcuni dottorati di ricerca dell'Universita' di Pisa che l'istituzione di un dottorato di ricerca in Scienze per la pace, al fine di permettere agli studenti la possibilita' di sviluppare i propri interessi e la propria preparazione e di creare sinergie fra didattica e ricerca. Il Corso di laurea in Scienze per la pace ha partecipato al processo di valutazione CampusOne-like, e, per quanto ancora in una fase iniziale della propria vita, e dotato di limitatissime risorse, ha ottenuto un giudizio favorevole da parte dei valutatori. - La proposta e realizzazione, insieme al Corso di laurea in Scienze per la pace, del modulo professionalizzante in mediazione e conciliazione, finanziato dalle Regione Toscana gia' per due anni accademici consecutivi. Il modulo e' stato molto richiesto dagli studenti del Corso di laurea e si sta rivelando un'ulteriore occasione di presenza sul territorio dell'ateneo pisano, oltre ad aprire importanti contesti di sbocco professionale per gli studenti. Anche a questo proposito, sono state stipulate numerose convenzioni per il tirocinio con enti ed istituzioni (principalmente della nostra regione, ma non solo), spesso determinanti per l'attuazione di iniziative di Enti esterni particolarmente significative, come ad esempio l'apertura nel Comune di Cascina di un ufficio di Mediazione di conflitti al quale stanno lavorando, gia' come tirocinanti, tre studenti del Corso di laurea e del Modulo. - La costituzione della biblioteca del Cisp. Pur inizialmente motivata come supporto a studenti e docenti del Corso di laurea in Scienze per la pace e a ricerche e progetti del Cisp, il suo inserimento nel catalogo Aleph di Ateneo consente la sua piena disponibilita' per lo meno a tutto l'ateneo. - La realizzazione, congiuntamente con il Gruppo pisano Jaegerstaetter per la nonviolenza ed il Comune di Stazzema, dell'annuale scuola estiva "La memoria e la pace" nel Parco della pace a S. Anna di Stazzema. Alcuni esempi significativi: nel 2001, centrata sul conflitto israelo-palestinese, la scuola ha avuto 30 partecipanti (10 israeliani, 10 palestinesi e 10 italiani) ed e' stata realizzata in collaborazione con una universita' israeliana ed una ong palestinese; nel 2003 ha avuto come tema la societa' civile africana, con la partecipazione di esponenti di ong africane; nel 2004 il tema e' stato: "Quelli che non sparano: resistenza attiva e disobbedienza alla guerra". - La costituzione, congiuntamente con il Comune di Pisa, di uno Sportello per i diritti umani, con sede fornita dal Comune (in via S. Zeno 17, tel. 0508312148). Il Centro ha realizzato numerose iniziative sul territorio, fra cui iniziative con la Casa circondariale di Pisa (anche con workshop interni al carcere), interventi nelle scuole e diversi seminari aperti alla cittadinanza. - La collaborazione con la Provincia di Pisa per la costituzione di un "Centro di documentazione sulla globalizzazione"; il Centro e' stato approvato dagli organi direttivi delle due parti, e l'avvio delle attivita' e' previsto entro breve tempo, con finanziamento iniziale in massima parte erogato dalla Provincia e con sede fornita dalla Provincia stessa; anche in questo caso, la sede e' in grado di ospitare anche altre attivita' del Cisp, in aggiunta a quella fornita dal Comune di Pisa per lo Sportello Diritti umani. - Il varo di un progetto pluriennale per promuovere e coordinare attivita' transdisciplinari di studio, ricerca e formazione sul tema "Accettabilita' sociale della geotermia", come progetto pilota, strettamente collegato alle realta' istituzionali, economiche, produttive, sociali e culturali, sia nazionali che sovranazionali, volto sia a metodologie e tecniche di mediazione e conciliazione dei conflitti tra societa' civile e imprese produttive, che a strumenti di sostegno alla cooperazione internazionale per lo sviluppo anche tecnologico dei popoli, nella giustizia e nella pace. - La realizzazione di una ricerca, concertata con ricercatori di altre Universita' e di gruppi di base, sulla "Difesa civile non armata e nonviolenta"; nell'ambito di essa e' operativo un "Osservatorio sulle guerre e i sistemi d'arma". - L'iniziativa di costituire, insieme agli altri atenei toscani, un "Centro interuniversitario di ricerca per la pace, l'analisi e la mediazione dei conflitti". Questo Centro si troverebbe nella posizione di naturale interlocutore accademico dell'iniziativa con cui la Regione Toscana sta procedendo a costituire una fondazione sullo stesso tema; anche indipendentemente da quella fondazione, esso appare destinato ad un ruolo e rilievo di ambito nazionale, e ha gia' avuto dichiarazioni di interesse da parte di altri enti accademici. La partecipazione dell'ateneo di Pisa a simili iniziative interateneo e' resa naturale dal precoce impegno del Cisp nel settore. - Altre iniziative stanno per concretarsi, spesso col coinvolgimento di amministrazioni, enti pubblici, aziende o cooperative private. * Attività di stampa Il Cisp cura due collane di volumi di informazione, una per la ricerca e una per la didattica, sito: http://pace.unipi.it/pubblicazioni/collana La serie completa dei volumi, tutti nella prima delle due collane e pubblicati dalla Plus - Pisa University Press, comprende: 1. Pierluigi Consorti, L'avventura senza ritorno. Pace e guerra fra diritto internazionale e magistero pontificio (II edizione), 10 euro. Partendo dalla distinzione fra "intervento umanitario", "assistenza umanitaria" e "ingerenza umanitaria", i temi della "guerra per i diritti umani" e della "guerra contro il terrorismo" sono studiati nella loro evoluzione parallela fra dibattito giuridico e magistero pontificio. I concetti sono esemplificati nelle Guerre del Golfo, i conflitti dei Balcani e la crisi del Kosovo, la strage dei cattolici in Timor est. 2. Pierluigi Consorti (a cura di), Senza armi per la pace. Profili e prospettive del "nuovo" servizio civile, 10 euro. Il volume affronta il tema della costruzione della pace con mezzi pacifici. Il servizio civile rappresenta infatti un impegno costante contro le ingiustizie, e promuove forme di partecipazione e responsabilita' in grado di prevenire, e talvolta risolvere, conflitti sociali. Sono raccolte testimonianze di esperti e rappresentanti di enti a vario titolo coinvolti nella delicata fase di passaggio dal servizio civile degli obiettori di coscienza al servizio civile volontario (ad esempio da Amnesty International ad Emergency, dalla Comunita' di Sant'Egidio a Medici senza frontiere); l'impegno e' di disegnare gli attuali profili e individuare le prospettive future. 3. Tiziano Telleschi (a cura di), Per una cultura del conflitto e della convivenza: itinerari di pace dalla scuola al mondo, 12 euro. Il volume raccoglie i lavori di un seminario biennale sull'idea di pace, particolare, in quanto sviluppato per un uditorio interattivo a tre voci della scuola media inferiore: insegnanti, studenti e famiglie. Sono trattati concetti significativi come armonia e conflitto, essere per se' e essere per gli altri, aggressivita' e altruismo, ascolto e comunicazione, concorrenza e competizione, fiducia, contratto sociale, democrazia deliberativa, local governance, appartenenza di gruppo, appartenenza sociale, elite relazionali e altri ancora, con un approccio transdisciplinare alle problematiche del conflitto e della convivenza nell'esperienza scolastica e quotidiana. 4. Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, 15 euro. Un libro innovativo sullo sviluppo teorico della nonviolenza. Per l'autore, il vero dibattito sulla nonviolenza puo' aprirsi solo con una disputa filosofica, che permetta di confutare a fondo l'ideologia che considera la violenza necessaria e legittima. Solo superando l'ortodosso "impiego ragionevole della violenza" potremo superare e combattere la violenza degli estremismi, che oggi appaiono come il male maggiore. Attraverso un accurato chiarimento dei concetti, e un serrato confronto logico con i filosofi che sentono e pensano secondo la morte, l'autore indica vie positive alternative all'ideologia della guerra. 5. Paolo S. Nicosia, Damiano Marinelli, Alessandro Bruni (a cura di), Mediazione e conciliazione. Ambiti applicativi e modalita' di svolgimento di una nuova professione, 10 euro. Il testo offre spunti per definire una figura molto antica nella prassi umana, e che oggi sta diventando una vera e propria professione, quella del mediatore di controversie o conciliatore. Le diverse applicazioni di tale ambito professionale, dal sociale alla scuola, dalle relazioni commerciali ai rapporti di lavoro, dalla famiglia alle relazioni internazionali, con specifiche analisi di conflitti, sono offerte con un approccio sperimentale. Alcuni casi sono trattati dettagliatamente come esempi, e risultano dallo studio e dal lavoro di studenti del Corso di laurea in Scienze per la pace, anche attraverso esperienze di tirocinio presso enti che collaborano con il Cisp. Il Cisp cura anche la stampa della collana di Quaderni per la ricerca e la didattica, per la rapida diffusione di risultati di ricercatori del Cisp, senza pretese di uno sviluppo a livello di un libro. E' uscito il primo numero: Tiziano Telleschi, Educazione permanente alla pace - Democrazia e Local Governance. Il Cisp inoltre collabora con il Centro Gandhi Associazione per la Nonviolenza Onlus alla pubblicazione della rivista semestrale "Quaderni Satyagraha: il metodo nonviolento per trascendere i conflitti e costruire la pace". 4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 5. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 818 del 23 gennaio 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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