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La nonviolenza e' in cammino. 816
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 816
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 21 Jan 2005 00:14:30 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 816 del 21 gennaio 2005 Sommario di questo numero: 1. Bruno Segre: Per non dimenticare la Shoah (parte undicesima) 2. Enzo Sanfilippo: Conflittualita' nonviolenta 3. Letture: Luisa Bruno, Carla Galetto, Doranna Lupi, Nel segno di Rut 4. Letture: Mariri' Martinengo, Le trovatore 5. La "Carta" del Movimento Nonviolento 6. Per saperne di piu' 1. MEMORIA. BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE LA SHOAH (PARTE UNDICESIMA) [Ringraziamo di cuore Bruno Segre (per contatti: bsegre at yahoo.it) per averci permesso di riprodurre sul nostro foglio ampi stralci dal suo utilissimo libro Shoah, Il Saggiatore, Milano 2003, la cui lettura vivamente raccomandiamo. Riportando alcuni passi di esso abbiamo omesso tutte le note, ricchissime di informazioni e preziose di riflessioni, per le quali ovviamente rinviamo chi legge al testo integrale edito a stampa. Bruno Segre, storico e saggista, e' nato a Lucerna nel 1930, si e' occupato di sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell'ambito del Movimento Comunita' fondato da Adriano Olivetti; ha fatto parte del Consiglio del "Centro di documentazione ebraica contemporanea" di Milano; dal 1991 presiede l'Associazione italiana "Amici di Neve' Shalom / Wahat al-Salam"; dirige la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica "Keshet" (e-mail: segreteria at keshet.it, sito: www.keshet.it). Tra le opere di Bruno Segre: Gli Ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore, Milano 1998, 2003] Varianti di antisemitismo: l'Italia di Salo' e la Francia di Vichy Nel mondo occidentale, dopo la fine della seconda guerra mondiale il lavoro degli storici del genocidio ebraico si svolse per circa quindici anni in un quadro di relativa solitudine. Si trattava di un lavoro difficile, di raccolta e vaglio critico delle testimonianze dei sopravvissuti (vittime e carnefici), di reperimento di archivi spesso inaccessibili, nonche' di scavo paziente in archivi spesso difficilmente reperibili. Un risveglio dell'attenzione e dell'interesse del grande pubblico si registro' soltanto nel 1961, all'epoca del processo Eichmann. La scarsa informazione sin allora disponibile facilito' la diffusione del cosiddetto "negazionismo", il cui primo manifestarsi risale appunto agli anni cinquanta. Quando negli anni settanta Willy Brandt, in veste di cancelliere della Repubblica federale tedesca, ando' a inginocchiarsi davanti alle rovine del ghetto di Varsavia, quel gesto simbolico colpi' notevolmente l'opinione pubblica mondiale, innescando in Germania un significativo conflitto generazionale tra i figli e i padri ex nazisti, e incoraggiando gli storici a scandagliare in profondita' l'universo complesso del Terzo Reich hitleriano. Poco dopo la meta' degli anni ottanta lo storico canadese Michael R. Marrus faceva notare che il campo della ricerca sulla Shoah si presentava ormai troppo esteso perche' una persona potesse pretendere di dominarlo da sola. A quell'epoca, erano gia' circa duemila le opere a stampa piu' importanti che un'ideale selezione bibliografica avrebbe potuto annoverare. Ora, varcato l'ingresso nel XXI secolo, abbiamo la possibilita' di accedere a una memorialistica ricchissima, che dello sterminio esplora gli aspetti e i momenti piu' diversi. A prescindere dalle opere di fantasia e propaganda, che pure vi sono, dai numerosi, piu' o meno triviali prodotti filmici e televisivi riproposti a getto continuo o da una certa sottoletteratura che esibisce forme davvero immonde di sollecitazione al consumo del sadico, in ogni paese abbonda sulla Shoah una produzione storiografica che, spesso, e' frutto di un'elevatissima professionalita'. Romanzieri e cineasti vi hanno dedicato lavori importanti, ne' si possono passare sotto silenzio le molte e assai impegnate opere di riflessione metafisica, religiosa e teologica con le quali studiosi e pensatori di varia estrazione hanno voluto affrontare questo tema. Se e' lecito istituire confronti su questo terreno, si ha oggi l'impressione che nella Germania riunificata circolino molte piu' notizie criticamente vagliate circa la memoria del nazismo di quante non ne circolino in Italia sulla memoria del fascismo o in Francia sulle memorie del regime di Vichy e delle rispettive politiche antiebraiche. * L'Italia La societa' italiana ha acquisito molto tardi e con enorme riluttanza la coscienza delle responsabilita' del regime fascista nella persecuzione antisemita e della sua corresponsabilita' persino nella "soluzione finale". Nel nostro paese resiste ostinatamente il mito dell'Italia fascista "salvatrice di ebrei". E del resto, la vulgata degli "italiani brava gente" appare accolta anche da alcuni studiosi stranieri, quale per esempio Meir Michaelis, docente di storia all'Universita' ebraica di Gerusalemme, che nel suo saggio su Mussolini e la questione ebraica propone una sostanziale subalternita' della politica razziale italiana rispetto alla variante del nazismo tedesco. Non vi e' alcun dubbio che la responsabilita' generale della Shoah ricada sul regime di Hitler. Detto cio', e date per scontate la mancanza di fanatismo antisemita nella tradizione politico-culturale italiana, nonche' l'assenza di finalita' di annientamento fisico nella tradizione dell'antigiudaismo italiano (d'impronta essenzialmente cattolica), resta il fatto che la Shoah ebbe luogo anche in Italia. E' vero che la persecuzione raggiunse il culmine solo durante l'occupazione tedesca (a partire dall'autunno del 1943), allorche' le forze d'invasione braccarono gli ebrei italiani e quelli stranieri che risiedevano nel nostro paese, deportandone in Germania varie migliaia. Ma le deportazioni furono in larga misura propiziate dall'attiva collaborazione delle milizie della Repubblica di Salo'. E soprattutto, la decisione di trasformare il Regno d'Italia in uno Stato ufficialmente antisemita maturo' ed ebbe luogo in una fase storica precedente, in coincidenza con l'adozione delle leggi razziali autonomamente imposte nel 1938 da Mussolini a una popolazione che, almeno in parte, non ne condivideva la stolida violenza: una violenza volta dapprima a colpire gli ebrei nei loro diritti, non gia' a stroncarne le vite. * Il fascismo arrivo' con fatica, ma metodicamente, a darsi i capisaldi concettuali del proprio antisemitismo. Gia' nel maggio 1933 (quattro mesi dopo l'ascesa di Hitler al potere), il capo squadrista Roberto Farinacci (1892-1945), esponente della componente piu' aggressiva del fascismo, aveva scritto su "Il regime fascista" un articolo nel quale caldeggiava l'introduzione in Italia di un numerus clausus ufficioso degli ebrei. E poco meno di un anno piu' tardi, nel marzo 1934, quando venne arrestato a Torino un gruppo di sedici antifascisti di "Giustizia e liberta'" (quattordici dei quali erano ebrei), il quotidiano romano "Il Tevere", notoriamente molto vicino al duce, aveva rincarato la dose attribuendo alla "razza ebraica" "il meglio dell'antifascismo passato e presente: da Treves a Modigliani, da Rosselli a Morgari". Dato che la "sovversione ebraica" veniva imputata con insistenza sempre maggiore all'emergere del sionismo, e poiche' questa iniziale campagna della stampa fascista andava ascrivendo la "dubbia lealta' patriottica" degli ebrei al potere dell'"internazionale ebraica", alla "doppia fedelta'" e via accusando, gli ebrei piu' ansiosi di dimostrare il proprio zelo verso il regime si affrettarono a offrire un aperto sostegno al fascismo, anche in polemica con i propri correligionari, in particolare con la piccola pattuglia dei sionisti, della quale il piu' strenuo alfiere era Dante Lattes. Cosi', nel maggio 1934, nacque a Torino "La Nostra Bandiera", organo settimanale diretto da Ettore Ovazza, un ebreo convinto antisionista, che aveva aderito al fascismo sin dal 1920 (finira' catturato in Valle d'Aosta e ucciso dai tedeschi nell'ottobre 1943). Ad ogni modo, l'adozione ufficiale di una politica antiebraica su basi razziali si ebbe soltanto tra la fine del 1937 e il 1938, in seguito al progressivo avvicinamento di Mussolini alla Germania hitleriana. Al razzismo antisemita dei fascisti italiani, uno dei primi tasselli "teorici" fu fornito da un vecchio e bolso poligrafo gia' di fede cattolica e nazionalista, e passato poi armi e bagagli nelle file fasciste: Paolo Orano (1875-1945), rettore dell'Universita' di Perugia. Alla penna di costui si dovette un pamphlet intitolato Gli ebrei in Italia che, quando vide la luce in prima edizione nell'aprile 1937, suscito' una notevole eco nei giornali, non solo italiani, e apri' la strada - non a caso, come vedremo - alla futura politica fascista nei confronti degli ebrei. Il libello di Orano, nel quale si ritrovano tutti gli stereotipi comuni alla giudeofobia tradizionale (gli ebrei che vogliono prevalere con l'oro, gli ebrei razzisti, gli ebrei traghettatori delle mode intellettuali degenerate, e cosi' via), assumeva come suo primo bersaglio polemico la presunta "attivita' sionistica di gran parte degli ebrei cittadini italiani", "l'esaltazione degli ebrei ebraizzanti e sionisti per i loro apostoli, le loro tradizioni, la loro razza, il loro sogno, oggi impresa decisiva, di restaurare lo Stato palestiniano". Secondo l'autore, nel dare una mano al sionismo l'Italia avrebbe dato una mano, in realta', all'espansionismo britannico e avrebbe preso posizione, a scapito dei propri interessi, contro gli arabi; senza dire poi dei diritti cristiani sui Luoghi Santi: "Essa [la Palestina] e' la Terra Sacra perche' vi nacque il Redentore che illumino' dall'interno la coscienza latina", sentenziava Orano. E poco oltre aggiungeva: "Croce e Fascio sono legati dal piu' intimo spirito e si trovano oggi di fronte un'Inghilterra ebraizzante ed un ebraismo britannizzante". Sistemati cosi' i sionisti, Orano si dava poi a esortare gli ebrei italiani ad astenersi da manifestazioni di "separatismo", proponendo loro un futuro di totale assimilazione, quasi nei termini di una resa senza condizioni: "L'ebraismo di razza e sionistico ha la sua specifica esclusiva visione in un orgoglio di genti, come tante altre genti, vinte disperse che non hanno piu' ragion di vita e di sviluppo che in quella delle patrie territoriali e nazionali". Ma ecco l'autore cambiare improvvisamente registro per rivolgere i suoi strali anche contro gli ebrei fascisti, e persino contro quell'Ettore Ovazza che proprio due anni prima, nel suo libro Sionismo bifronte, aveva preso le massime distanze possibili da Dante Lattes e dal movimento sionista. Anche per la penna di Ovazza - "che io considero, scriveva Orano, l'israelita italiano di piu' franca parola, il piu' sinceramente convinto della gravita' del problema ebraico anche per l'Italia" - "ritorna la nota del 'popolo eletto', missionario, e l'irresistibile senso dell'origine privilegiata..., la nota insomma del rabbino Dante A. Lattes". Il pamphlet di Orano si chiudeva infine con le seguenti parole, criptiche ma cariche di minaccia: "E' il problema che deve essere abolito. L'Italia fascista non ne vuole. Il dire di piu' sarebbe superfluo". Diretta per la prima volta esplicitamente contro gli ebrei italiani, e non piu' contro le astrazioni chiamate "Internazionale ebraica", "alta finanza ebraica", o "cricca giudaico-massonica", la prosa vacua e aberrante di Paolo Orano ebbe la singolare fortuna di fornire al momento giusto, al regime di Mussolini, quella copertura ideologica di cui aveva bisogno. A cavallo tra il 1937 e il 1938, infatti, il governo fascista, impelagato irrimediabilmente nella guerra civile spagnola e costretto, all'interno dell'Asse Roma-Berlino, a una partnership sempre piu' vincolante, andava cercando ormai affannosamente il modo di disfarsi di tutti gli ebrei: non soltanto degli "infidi ebrei italiani", cioe' degli antifascisti (che sarebbero stati eliminati comunque), ma anche dei "leali italiani ebrei", considerati fino allora elementi utilissimi. Troviamo gia' qui l'argomentare duplice, per cosi' dire a tenaglia, di ogni razzismo che si rispetti. Gli ebrei sono pericolosi in quanto costituiscono una minoranza inassimilabile. Ma la loro pericolosita' non e' minore quando facciano di tutto per omologarsi o mimetizzarsi, com'era il caso, per l'appunto, degli ebrei fascisti. "Il Popolo d'Italia" di Mussolini, che recensi' il libro di Orano in termini entusiastici, fece capire a tutti - ebrei e non ebrei - che era giunto il momento, in Italia, di combattere gli ebrei in quanto tali, compresi i fascisti della prima ora come Ettore Ovazza. Di qui, l'atto riconoscibile di nascita del razzismo italiano di regime. * Sostenuta da pseudo-ideologi della portata di Paolo Orano, Telesio Interlandi (1894-1965) e Giovanni Preziosi (1881-1945), la politica di discriminazione antisemita del fascismo venne inaugurata il 14 luglio 1938 con la pubblicazione del "Manifesto degli scienziati razzisti", scritto di pugno dal duce con la collaborazione di Guido Landra (un giovane assistente di antropologia, 1913-1980), e fatto avallare dalla firma di qualche scienziato compiacente: fra gli "autori", il senatore professor Nicola Pende (1880-1970), direttore dell'Istituto di Patologia medica dell'Universita" di Roma. In dieci sintetiche proposizioni, il documento affermava che le razze umane esistono, che ce ne sono di grandi e di piccole, che si tratta di un concetto puramente "biologico", che gli italiani sono ariani puri, che gli ebrei non appartengono alla razza italiana, che ormai e' tempo che gli italiani "si proclamino francamente razzisti"; e concludeva dichiarando che "i caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in nessun modo", e che i matrimoni misti erano ammissibili "solo nell'ambito delle razze europee, nel qual caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo". "La svolta del 1938", osserva Michele Sarfatti, "fu voluta da Benito Mussolini. Cio' discende con tranquilla evidenza dal fatto che egli era il dittatore del paese e che la decisione di varare la persecuzione costituiva un evento politico di grande rilevanza. A tutto questo va aggiunto che non sono state identificate tracce di imposizioni hitleriane al riguardo". Ma anche il passaggio, nell'autunno del 1943, "dalla fase della persecuzione dei diritti alla fase della persecuzione delle vite (...) ricadde sotto la piena responsabilita' di Mussolini, nonostante la sua maggiore debolezza nel paese, nel fascismo, nel rapporto con Hitler". Queste osservazioni, cui Sarfatti offre il sostegno di un'analisi minuziosa di tutta la documentazione reperita, consentono di mettere da parte i dubbi, piu' volte avanzati da alcuni studiosi, circa le presunte imposizioni che il dittatore italiano avrebbe subito dall'esterno. * Ma soprattutto mettono in luce la natura ideologica e l'ambiguita' di certi sviluppi anche recenti della storiografia revisionista in Italia: una storiografia che appare preoccupata, in particolare, di offrire contributi al cosiddetto "sdoganamento" del fascismo e della sua eredita' politico-culturale. E per fare cio', oltre a ridimensionare l'immagine della Resistenza e a cercare di dimostrare come ormai "superato" il concetto di antifascismo (considerato insidioso in quanto includente la componente comunista), presenta retrospettivamente il fascismo italiano come "accettabile", anche in quanto alieno da cadute nel razzismo e nell'antisemitismo. Un celebre studioso, Renzo De Felice (1929-1996), al quale va riconosciuto in ogni caso il merito di avere offerto i frutti di una ricerca monumentale e molto documentata sulla vita e le politiche di Mussolini, dedico' gli ultimi anni della sua vita a una tenace battaglia per abbandonare il cosiddetto "paradigma antifascista" e proporre un'implicita riabilitazione di Mussolini. "So che il fascismo italiano e' al riparo dall'accusa di genocidio, e' fuori dal cono d'ombra dell'Olocausto. Per molti aspetti, il fascismo italiano e' stato 'migliore' di quello francese o di quello olandese", ebbe a dichiarare De Felice nel corso di un'intervista, invero poco felice, rilasciata a Giuliano Ferrara per il "Corriere della Sera" del 27 dicembre 1987. Quell'intervista, che fece scalpore, fu seguita da autorevoli interventi che affermavano la necessita' di superare l'ideologia antifascista, compromessa con lo stalinismo. In questo stesso solco revisionista si collocano i tentativi non rari di restituire dignita' a figure segnalatesi, all'epoca della dittatura mussoliniana, per l'abilita' con cui seppero attraversare l'esperienza fascista all'insegna dell'ambiguita'. E' il caso, per citare l'esempio piu' illustre, di Giuseppe Bottai (1895-1959): un gerarca particolarmente potente, che gia' durante l'infausto ventennio era in fama di uomo sagace e spregiudicato. Fascista della vigilia (fondo' nel 1919 il primo fascio mussoliniano a Roma), ideologo delle "Corporazioni", riusci' a restare in sella molto a lungo, sino alla fatale notte del 25 luglio 1943 quando, assieme agli altri principali seguaci di Mussolini, contribui' a estromettere il dittatore dal potere. E in tutti quegli anni seppe coniugare un cursus honorum brillantissimo entro il partito e il governo con la capacita' di offrire (compatibilmente con il clima chiuso e provinciale della cultura italiana dell'epoca) spazi di espressione apparentemente libera agli sfoghi delle frange meno conformiste, se non frondiste, dell'intelligenza fascista che incominciavano a mostrarsi insofferenti dell'inganno sociale e intellettuale del regime. Troppo ambizioso e titubante per trarre qualche conclusione dalle proprie inquietudini, Bottai rimase un personaggio ambiguo che, pur amando atteggiarsi a difensore dei diritti dell'intelligenza, continuava su un altro versante a predicare la disciplina e la devozione al regime. Tant'e' che fu proprio questo "eretico prudente" ad anticipare di un mese la legislazione antisemita italiana firmando nell'agosto 1938, in veste di ministro dell'Educazione nazionale, le circolari che inibivano il conferimento a ebrei di supplenze nelle scuole elementari e medie, vietavano l'adozione di libri di testo di "autori di razza ebraica" ed escludevano gli studenti ebrei stranieri dalle universita' e dalle scuole del Regno. Con una punta particolare di cinismo, l'11 agosto 1938 Bottai annotava nel suo diario: "... Della questione ebraica m'e' avvenuto, tra amici, di gittar la' questo scherzo. 'Il problema degli ebrei esiste anche in Italia, ma in piccole proporzioni. Si poteva risolverlo con dei piccoli atti amministrativi, insomma perche' sparare un cannone per uccidere un uccellino, anche se si tratta di un uccellino circonciso?'". Ebbene, in diverse occasioni Giuseppe Bottai e' stato fatto oggetto di strumentali conati di riabilitazione. Esemplare e', a tale riguardo, la biografia dal titolo e dal taglio assolutorio, Bottai. Un fascista critico (1976) dedicatagli da Giordano Bruno Guerri: un lavoro che, nell'esaltare il "romanticismo epico" di Bottai e nell'offrirsi quale contributo a una rilettura "piu' serena" della sua azione nel contesto dell'Italia fascista, si muove in termini sempre brillanti, ma sostanzialmente carenti di impegno critico, verso il proscioglimento di Bottai dalle sue pesanti responsabilita'. * La Francia Quanto alla Francia, il giudizio storico circa il ruolo attivo che il regime di Vichy ebbe a svolgere nella "soluzione finale" ha potuto farsi largo soltanto con grande fatica. Nel 1969 il regista Marcel Ophuls realizzo' a Clermont-Ferrand Le chagrin et la pitie', un film sull'occupazione tedesca e i suoi strascichi, che fino al 1981 le autorita' francesi tennero, per cosi' dire, all'indice. Anche in seguito la sua programmazione incontro' seri ostacoli. A dispetto della retorica del dopoguerra, la pellicola chiariva come la polizia di Vichy avesse diligentemente collaborato con i nazisti nell'organizzare le retate e la deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio, e mostrava come gran parte dei francesi continuasse, quasi trent'anni piu' tardi, a ricordare con un misto di indulgenza e ammirazione il maresciallo Petain (il vegliardo che governo' la Francia durante l'occupazione tedesca). Ma ancora all'inizio degli anni novanta, un'inchiesta rivelava che circa il 40 per cento dei francesi conservava un'anima petainista, ossia aveva una buona opinione dello statista-militare che, alla Liberazione (tre decenni dopo la sua mitica difesa di Verdun), aveva subito la condanna alla pena capitale "per intelligenza con il nemico", per poi essere graziato. Il regime di Vichy, di cui Petain fu il capo e di cui rimane il simbolo, ha costituito a lungo un'ossessione per i francesi. In una prima fase, dopo il 1945, il dibattito era coperto da quella che molti storici hanno chiamato l''illusione': il magico effetto illusionistico di cui fu artefice il generale Charles de Gaulle (1890-1970), il quale seppe costruire una memoria patriottica della Resistenza come immagine collettiva della societa' francese durante la guerra, creando e diffondendo l'impressione che tra il 1940 e il 1944 (gli anni dell'occupazione tedesca) il paese si identificasse con la "Francia Libera" (il suo governo in esilio a Londra), e non gia' con lo Stato francese del vecchio maresciallo di Vichy. Questa "mistificazione", non priva di nobilta' e rivelatasi, alla Liberazione, ricca di intelligenza politica (sia sul piano interno, in quanto riusci' a imprimere vigore alla ripresa democratica, sia sul piano internazionale, in quanto consenti' alla Francia di presentarsi al mondo come potenza vittoriosa e di cancellare l'onta della collaborazione con i tedeschi), e' stata via via smantellata dagli studiosi, che in molti casi sono riusciti a restituire a Vichy la sua reale dimensione storica. Ma naturalmente, il confronto con la verita' che con tanta fatica e' venuta emergendo non ha cessato di creare lacerazioni nella coscienza nazionale. * Cosi', tra memoria zoppa e volonta' d'oblio, la Francia ha continuato a moltiplicare, sul passato di Vichy, atti mancati e passi falsi. Per esempio, risulto' per molto tempo "rimossa" la realta' dei numerosi campi d'internamento che durante l'occupazione vennero allestiti su suolo francese: un fenomeno la cui ampiezza rimase praticamente sconosciuta, almeno fino alla pubblicazione delle indagini sistematiche condotte a questo riguardo da Anne Grynberg. Silenzi amministrativi, occultamenti, rimozioni sono stati, nel corso degli anni, gli elementi rivelatori di un senso di colpa che la societa' francese ha a lungo coltivato, cercando di celarlo a se stessa. Sulle tombe di uomini politici della Francia prebellica, che erano stati trucidati dalla milizia di Vichy nell'estate del 1944 - come Jean Zay, accusato di avere avviato alla sovversione la gioventu' francese nella sua qualita' di ministro dell'Educazione del Fronte popolare, e Georges Mandel, il ministro piu' vigorosamente contrario all'armistizio nel giugno 1940 -, vennero dapprima poste delle targhe che descrivevano tali personaggi come vittime dei "nemici della Francia" o della "barbarie nazista". Dovevano passare ben quarant'anni prima che quelle iscrizioni venissero opportunamente corrette. Non meno degno di menzione e' il tentativo di cancellare le tracce di una vergogna nazionale chiamata Pithiviers. In questa cittadina del centro della Francia, non lungi da Orleans, venne eretto nel 1957 un monumento "A' nos deportes morts pour la France". E anche qui occorreva attendere sino al 1992 perche' la municipalita' decidesse di sostituire la placca precedente con una targa nuova, il cui testo recita: "Alla memoria dei 2.300 bambini ebrei internati nel campo di Pithiviers dal 19 luglio al 6 settembre 1942, prima che venissero deportati e assassinati ad Auschwitz". Per risvegliare le memorie sopite ci volle un libro del giornalista Eric Conan, nel quale si dimostrava che non furono i nazisti bensi' la gendarmeria francese agli ordini di Rene' Bosquet (ex segretario di Stato alla polizia di Vichy tra l'aprile 1942 e il dicembre 1943, ucciso da un presunto pazzo l'8 giugno 1993), a organizzare la reclusione in condizioni disumane di migliaia di bambini che, separati selvaggiamente dai loro genitori, furono poi deportati ad Auschwitz e condannati a morire. Non meno straordinaria e' la vicenda della schedatura degli ebrei eseguita dalla prefettura di Parigi a partire dall'ottobre 1940: decine di migliaia di nomi recanti la menzione "ebreo", con le date d'arresto, i numeri di convoglio e le date d'arrivo alla destinazione finale. Depositate a guerra terminata nell'archivio del ministero degli "Anciens combattants", queste schede servirono a indennizzare le vittime di guerra e gli aventi diritto. Ma all'inizio degli anni settanta le cose mostrarono di complicarsi. Un numero sempre piu' largo di storici e di ricercatori si stava interessando a questa documentazione. Cosi' dapprima, nel 1972, ne venne vietato l'uso da parte di "terzi e associazioni" e poi, un anno piu' tardi, essa spari' addirittura dai repertori dell'archivio. Seguirono quasi vent'anni di un "silenzio amministrativo" che riesce fin troppo ovvio attribuire a una pervicace volonta' di occultamento. Per riportare alla luce quelle schede, nel 1991, fu necessaria una vigorosa campagna di stampa condotta dal quotidiano parigino "Le Monde" e dall'avvocato Serge Klarsfeld, noto per la sua caccia ai criminali nazisti e ai collaborazionisti di Vichy e autore dell'opera piu' esauriente sulla deportazione degli ebrei dalla Francia. * Lo storico Harry Rousso ha ricostruito con grande penetrazione la difficolta' dei francesi di misurarsi con l'imbarazzante eredita' di un regime fascista che, alleato al Terzo Reich, resse per quattro anni le sorti del paese. Secondo Rousso, la memoria di Vichy riemerse in maniera traumatica solo nei primi anni settanta, a mano a mano che nella societa' francese la visione gaullista della Resistenza andava perdendo vigore. A quel punto il retaggio di Vichy divento' rapidamente materia di disputa e di conflitto politico, punteggiato dal crescere delle varie espressioni francesi del revisionismo storico e segnato, con riferimento alla Shoah, dalla ripresa di un vero e proprio negazionismo: un orientamento che si diffuse anche in ambienti universitari, con Robert Faurisson, dalla meta' degli anni settanta e rilanciato in anni successivi dall'ormai vecchio Roger Garaudy. Tardivo e discontinuo, il risveglio della memoria riaccese forti passioni, particolarmente in occasione dei processi che, con l'accusa di crimini contro l'umanita', portarono alla sbarra noti gerarchi nazisti e collaborazionisti francesi come Rene' Bousquet, poc'anzi citato, Klaus Barbie (Obersturmfuehrer della Gestapo a Lione, morto all'ergastolo nel 1994), Paul Touvier (ex capo della milizia petainista a Lione, morto di cancro il 14 luglio 1996 in carcere a 81 anni) e il gia' ricordato Maurice Papon (ex segretario generale della prefettura di Bordeaux). La vicenda di Paul Touvier costituisce un caso che getta luce sui rapporti particolari che le istituzioni repubblicane continuarono per oltre mezzo secolo a intrattenere con importanti settori della Chiesa di Francia al fine di coprire aspetti inconfessabili del passato del regime di Vichy. La giustizia transalpina non si mostro' mai solerte nel ricercare Touvier quando questo criminale entro' nella clandestinita', alla fine della guerra. Il presidente Georges Pompidou (1891-1974) addirittura gli concesse la grazia. Soltanto la perseveranza degli scampati, dei figli delle vittime, rese possibile la riapertura del caso da parte della Magistratura. Nel 1989, infatti, Touvier venne arrestato a Nizza, in un convento nel quale aveva trovato protezione. E certo, l'iniziativa pur coraggiosa del cardinale Decourtray, arcivescovo di Lione, d'istituire una commissione di storici con l'incarico di elucidare il rapporto tra Touvier e la Chiesa, non fu sufficiente a far dimenticare il sostegno morale - molto tardivamente sconfessato - che quest'ultima accordo' al regime di Vichy. Nel periodico riaprirsi di una piaga nazionale mai completamente cicatrizzata, l'aspetto che si rivelo' piu' arduo da smascherare fu la sistematica amnesia in virtu' della quale la Francia postbellica e la sua classe politica tennero ben chiusi nei loro armadi gli scheletri delle corresponsabilita' francesi nei crimini nazisti. E proprio ai vari processi va ascritto il merito di avere dato luogo a importanti passi avanti nella scomoda ricerca della verita' su Vichy, in quanto misero in luce, per esempio, che piu' o meno tutti i primi ministri di de Gaulle, da Michel Debre' a Georges Pompidou a Maurice Couve de Murville, avevano avuto un qualche ruolo nel regime di Petain. E proprio quei processi consentirono di capire che in Francia la pluridecennale amnesia collettiva era stata in larga misura incentivata dalle reticenze di ben quattro presidenti della Repubblica (de Gaulle, Pompidou, Giscard d'Estaing e Mitterrand), nessuno dei quali oso' mai ammettere che Vichy non costitui' una "parentesi", bensi' rappresento' la continuita' stessa dello Stato francese. * Per il popolo transalpino, e soprattutto per il popolo della sinistra, furono particolarmente sconvolgenti le rivelazioni circa l'impegno di Francois Mitterrand (1916-1996) nella Vichy degli anni 1940-42. L'uomo destinato a "rifondare" il partito socialista francese e a diventare, come leader della sinistra unita, il primo presidente socialista della Quinta Repubblica aveva infatti cominciato la carriera politica nella destra nazionalista fedele al maresciallo Petain per poi collegarsi, alla fine del 1943, alla resistenza antitedesca animata da de Gaulle. La verita' circa l'itinerario politico complesso, a tratti torbido, di una personalita' cui i francesi affidarono per ben due volte il mandato presidenziale, nel 1981 e nel 1988, venne presentata nel 1994 dal giornalista Pierre Pean in una monumentale biografia in cui si ricostruiva appunto la giovinezza di Mitterrand in una versione fin'allora inedita e approvata dallo stesso anziano presidente. Fra i vari aspetti, che il libro rivela, della giovanile adesione di Mitterrand al regime petainista, quelli che suscitarono particolare sconcerto furono i legami d'amicizia stretti e mantenuti vivi per molti anni con noti collaborazionisti che durante l'occupazione nazista furono coinvolti, tra l'altro, nella deportazione degli ebrei. Colpi' soprattutto il caso di Rene' Bousquet, del quale Mitterrand rimase sempre amico anche quando contro di lui si stava istruendo un processo per delitti contro l'umanita', per le sue responsabilita' nell'organizzazione della retata del Velodromo d'inverno, a Parigi (1942): una delle pagine piu' nere della storia del fascismo francese di quegli anni. Circostanze come questa consentono di percepire con chiarezza quanto importanti siano stati i freni che per tanto tempo hanno impedito alla societa' civile e al mondo politico francesi di riconoscersi attraversati da una profonda vena di antisemitismo. Paradossalmente, il primo esponente delle istituzioni che si dimostro' sufficientemente libero per riportare la Francia sui sentieri accidentati della verita' fu il presidente Jacques Chirac (un gaullista!) che nel luglio 1995, durante una cerimonia di commemorazione delle deportazioni di ebrei ai tempi di Vichy, ammise le responsabilita' della Repubblica nel genocidio e riconobbe "il debito inestinguibile del popolo francese verso gli ebrei". "Ci sono dunque voluti piu' di cinquant'anni", commentava il quotidiano "Le Monde" del 18 luglio 1995, "perche' una verita' impressa nella memoria di decine di migliaia di francesi sia finalmente detta e riconosciuta dal primo di loro". Cosi', proprio nell'estremo scorcio del XX secolo e' sembrata prevalere in Francia una certa volonta' di recuperare aspetti poco frequentati della storia nazionale, se e' vero, come hanno rivelato nel 1997 alcuni sondaggi d'opinione, che 70 giovani su 100 si dichiaravano intenzionati a conoscere quel "passato che non passa", e se persino la Chiesa di Francia, 57 anni dopo la promulgazione delle leggi antisemite di Vichy (1940), si decise finalmente ad ammettere che il proprio silenzio sui misfatti del regime collaborazionista, sulla persecuzione e lo sterminio degli ebrei "fu un errore". 2. LIBRI. ENZO SANFILIPPO: CONFLITTUALITA' NONVIOLENTA [Ringraziamo Enzo Sanfilippo (per contatti: v.sanfi at virgilio.it) per averci messo a disposizione questa sua recensione del libro di Andrea Cozzo, Conflittualita' nonviolenta, Mimesis, Milano 2004, apparsa sul bimestrale "Qualevita" n. 109 del dicembre 2004. Riportiamo di seguito una breve notizia biografica di Enzo Sanfilippo scritta per noi nel 2003 dallo stesso autore: "Sono nato a Palermo 45 anni fa. Sono sposato e padre di due figli, Manfredi di 18 anni e Riccardo di 15. Sono stato scout e capo scout fino all'eta' di 30 anni. Ho svolto il servizio civile in un Centro di quartiere della mia citta'. Ho frequentato l'Universita' di Trento dove mi sono laureato in sociologia. Ho perfezionato i miei studi a Bologna in sociologia sanitaria. Dal 1989 lavoro nella sanita' pubblica, nei servizi di salute mentale dove mi sono occupato finora di sistemi informativi e inclusione sociale di soggetti con disagio psichico. Chiusa l'attivita' con gli scout, con mia moglie Maria abbiamo cercato di impegnarci nell'area della nonviolenza. Abbiamo fatto parte per diversi anni del Movimento Internazionale della Riconciliazione (Mir) per poi approdare al movimento dell'Arca di Lanza del Vasto al quale aderiamo come alleati dal 1996. Dallo stesso anno facciamo parte di un gruppo di famiglie palermitane ("Famiglie in cammino") con il quale facciamo esperienze di condivisione spirituale e sociale. Frequentiamo il Centro di cultura Rishi di Palermo dove pratichiamo lo yoga. Con gli altri tre alleati dell'Arca siciliani (Tito e Nella Cacciola e Liliana Tedesco) abbiamo organizzato diversi campi su vari aspetti dell'insegnamento dell'Arca (canto, danza, yoga, lavoro manuale, ecumenismo) presso un monastero a Brucoli (Sr) dove Tito e Nella hanno abitato per cinque anni. Quest'anno abbiamo acquistato una casa in campagna presso Belpasso (Ct) dove Tito e Nella andranno ad abitare e a lavorare: la' assieme a loro e a vari amici speriamo di riprendere le attivita' di approfondimento e di lavoro sulla pace, la nonviolenza, l'insegnamento dell'Arca". Andrea Cozzo (per contatti: acozzo at unipa.it) e' docente universitario di cultura greca, studioso e amico della nonviolenza, promotore dell'attivita' didattica e di ricerca su pace e nonviolenza nell'ateneo palermitano, tiene da anni seminari e laboratori sulla gestione nonviolenta dei conflitti, ha pubblicato molti articoli sulle riviste dei movimenti nonviolenti, fa parte del comitato scientifico dei prestigiosi "Quaderni Satyagraha". Tra le sue opere recenti: Se fossimo come la terra. Nietzsche e la saggezza della complessita', Annali della Facolta' di Lettere e filosofia di Palermo. Studi e ricerche, Palermo 1995; Dialoghi attraverso i Greci. Idee per lo studio dei classici in una societa' piu' libera, Gelka, Palermo 1997; (a cura di), Guerra, cultura e nonviolenza, "Seminario Nonviolenza", Palermo 1999; Manuale di lotta nonviolenta al potere del sapere (per studenti e docenti delle facoltà di lettere e filosofia), "Seminario Nonviolenza", Palermo 2000; Tra comunita' e violenza. Conoscenza, logos e razionalita' nella Grecia antica, Carocci, Roma 2001; Saggio sul saggio scientifico per le facolta' umanistiche. Ovvero caratteristiche di un genere letterario accademico (in cinque movimenti), "Seminario Nonviolenza", Palermo 2001; Filosofia e comunicazione. Musicalita' della filosofia antica, in V. Ando', A. Cozzo (a cura di), Pensare all'antica. A chi servono i filosofi?, Carocci, Roma 2002, pp. 87-99; Sapere e potere presso i moderni e presso i Greci antichi. Una ricerca per lo studio come se servisse a qualcosa, Carocci, Roma 2002; Lottare contro la riforma del sistema scolastico-universitario. Contro che cosa, di preciso? E soprattutto per che cosa?, in V. Ando' (a cura di), Saperi bocciati. Riforma dell'istruzione, discipline e senso degli studi, Carocci, Roma 2002, pp. 37-50; Scienza, conoscenza e istruzione in Lanza del Vasto, in "Quaderni Satyagraha", n. 2, 2002, pp. 155-168; Dopo l'11 settembre, la nonviolenza, in "Segno" n. 232, febbraio 2002, pp. 21-28; Conflittualita' nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa, Edizioni Mimesis, Milano 2004. Per richiedere il libro alla casa editrice: Mimesis, alzaia nav. pavese 34, 20136 Milano, tel. 0289403935, cell. 3474254976, e-mail: mimesised at tiscali.it, sito: www.mimesisedizioni.it "Qualevita", bimestrale di riflessione e informazione nonviolenta, e' una delle migliori riviste dell'area nonviolenta. L'abbonamento annuo e' di 13 euro, da versare sul ccp 10750677, intestato a Qualevita, via Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq). Per contattare la redazione: via Buonconsiglio 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), tel. 0864460006, e-mail: qualevita3 at tele2.it, sito: www.peacelink.it/users/qualevita] Sono contento di presentare ai lettori di "Qualevita" il libro di Andrea Cozzo, Conflittualita' nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa (Edizioni Mimesis, Milano 2004, pp. 336, euro 18). Andrea Cozzo e' un ricercatre di lingua e letteratura greca presso l'Universita' di Palermo dove da tre anni conduce anche, presso la facolta' di lettere e filosofia il laboratorio di Teoria e pratica della nonviolenza, un insegnamento riconosciuto ufficialmente dall'ateneo palermitano. Mancava in lingua italiana un libro che presentasse il pensiero nonviolento in maniera cosi' esauriente. Conflittualita' nonviolenta e' un libro che parte dalle intuizioni, dal pensiero e dall'esperienza concreta di Gandhi e altri maestri: Capitini, Lanza del Vasto, Galtung, Danilo Dolci: tutte persone che hanno fatto uso della parola "nonviolenza", nella consapevolezza tuttavia di non avere inventato altro che un termine, dal momento che il significato, la realta' profonda alla quale essa rimanda e' da una parte, nella storia, "antica come le montagne", dall'altra, direi nuova come un avvento, una sorpresa alla quale dobbiamo ancora dare un nome. In riferimento alla sua "storicita'" e' interessante riscontrare i segni della sua presenza in tutte le sapienze del mondo, nelle religioni, nelle filosofie antiche, ma anche in tutto cio' che e' stato scritto e fatto dopo Gandhi, nel solco di cio' che lui aveva a sua volta ricomposto attingendo in primo luogo alla tradizione induista, ma anche a quella cristiana e islamica e alla cultura europea con cui entro' in contatto nel periodo degli studi di giurisprudenza in Inghilterra e con altri contatti come l'amicizia e la corrispondenza con Tolstoj. E qui il lavoro di Cozzo penso sia stato piu' arduo dal momento che il termine e' stato spesso abusato, prima ancora di comprenderne il significato, prima ancora di assumerlo nel nostro vocabolario nell'accezione sua propria: ad esempio, non ne da' una definizione soddisfacente Tullio De Mauro nel grande dizionario italiano dell'uso della Utet. Dico quindi che il primo e il secondo capitolo del libro sono a mio avviso i piu' importanti proprio perche' sono quelli che definiscono i concetti di forza, conflitto, violenza, nonviolenza, facendoci penetrare anche un modo particolare di conoscere. * Ed ecco che la riflessione si apre sempre piu' verso quella che e' la vera portata del discorso sviluppato nel testo, la nonviolenza come nuovo approccio alla realta', come nuova logica, come nuovo modo di relazione con noi stessi, con gli altri e con le cose, anche con cio' che e' stato e con cio' che non e' ancora: la nonviolenza come nuovo paradigma teorico-pratico. Non stiamo quindi parlando di una tecnica (che possiamo pure derivare) ne' di un modello di societa', ne' di una struttura sociale che pure ne potra' nascere. Nonviolenza, dice Cozzo a p. 11, e' "un modo di pensare capace di ristrutturare tutti i campi della vita pratica". E mentre tutto cio' sembrerebbe allontanarci dal nostro quotidiano, ecco che per avere cognizione di come funziona il mondo (e di come puo' cambiare) non ho che da risolvere il conflitto col mio vicino di casa... perche' e' in tutti i conflitti che la nonviolenza puo' svelarsi. Da qui la giusta sottolineatura dell'equivalenza tra conflitto e diversita': il conflitto non e' qualcosa di negativo (Gandhi diceva che il conflitto e' un dono): cio' che e' negativo e' la sua gestione violenta. La violenza danneggia qualcuno, il conflitto di per se' e' neutro, e' segno della differenza non ancora connotata negativamente ed espressione di un bisogno e di una energia che si contrappongono ad un altro bisogno ed energia con cui interferiscono e si bloccano reciprocamente. Questo nuovo approccio alla conoscenza e alla relazione sostituisce nella nostra cultura quello dialettico che si muove per negazione e soppressione, ma anche quello evolutivo che rimanda a un programma che va svolgendosi, ma che, in quanto programma, sara' leggibile solo con delle categorie gia' fissate. Un conflitto gestito in maniera violenta avra' un vincitore e un vinto, cosi' come una teoria scientifica sara' necessariamente alternativa a un'altra. La nonviolenza sostituisce le spiegazioni monocausali e unilineari sostituendole con approcci sistemici e complessi. Cosi non e' detto che un problema, un conflitto, abbia una sola causa che lo determina e che tale causa non possa essere contemporaneamente analizzata come determinata a sua volta. La nonviolenza invita cosi' a reimpostare i problemi piuttosto che a risolverli nella forma in cui si sono presentati. Il conflitto e' il luogo principe della vita perche' parte da un rifiuto della realta': io non voglio piu' questa persona che mi sta accanto, che mi limita, che mi aggredisce, che mi fa antipatia, non voglio questo governo o questa economia, questo lavoro o questa famiglia o questa televisione, ma fintantoche' non avro' preso consapevolezza dei rapporti anche vitali che mi legano a questa persona, a questo governo, a questa economia, a questo lavoro, a questa famiglia o a questa televisione e mi contrapporro' in anti-tesi ad essi mi muovero' come se il mio cervello o il mio fegato dessero dei comandi per distruggere un altro mio organo malato. Capitini, allargando questa acquisizione a tutto il creato, dice - in maniera poetica - che solo del fiore che non raccolgo potro' dire "e' mio". La realta' quindi si trasforma in primo luogo perche' noi trasformiamo il modo di concepirla. Tutto cio' rimanda ad una logica sistemica. Condivido l'uso del termine sistema adottato da Cozzo; "sistema" come insieme di parti interdipendenti che comprende anche noi che lo definiamo. Preferisco il termine "sistema" a quello di "struttura" usato da tanti autori nonviolenti. Certo, il termine struttura e' un termine piu' forte poiche' tende a rintracciare i fondamenti organizzativi sottesi ad ogni realta' (chimica, biologica, sociale, ecc.), ma esso e' un concetto troppo usato in sociologia (e' forse strano che a dirlo sia un sociologo) e ci potrebbe far credere che la scoperta di una struttura sociale, equivalga alla scoperta della "struttura" dell'umanita': ma la sociologia e' un sottosistema del sistema sociale, che a sua volta e' uno dei modi di concepire la realta'. * Siamo di fronte a uno dei tanti rompicapo logici presenti nel libro di Cozzo dal quale non possiamo uscire se non con un atto di fede o come diceva Capitini di "persuasione". Questo e' l'atto di fede da cui partiamo (uso il noi confessando qui di avere sempre piu' scoperto una affinita' spirituale con Andrea): - che tutti gli uomini siano una cosa sola; - che l'umanita' sia una grande famiglia (tema gandhiano al quale Andrea Cozzo mi e' sembrato particolarmente legato); - che esiste un'anima universale che tutti ci collega; - che le relazioni che legano gli uomini gli uni agli altri non siano le relazioni sociali, culturali, politiche, economiche, etniche, ma siano relazioni piu' profonde che mai riusciremo a toccare con mano, a vedere con gli occhi o a spiegarci con il solo pensiero: esse sono conoscibili con il cuore. Questo e' quello che Capitini chiama "aggiunta religiosa". "La religione e' farsi vicino infinitamente ai drammi delle persone, interiorizzare. Essa e' spontanea aggiunta, e' un darsi dal di dentro e percio' libero incremento e pura offerta, non sostituzione violenta che io voglio fare all'infinita capacita' di decidere delle coscienze... Che la religione consista in una libera aggiunta vuol dire che senza il 'di piu'' che l'atteggiamento religioso apporta alla lotta contro il mondo, il mondo e' destinato a restare quello che e' sempre stato" (Aldo Capitini, Vita religiosa, citato da Norberto Bobbio nella prefazione a Aldo Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze 1969). Cozzo e' pienamente in sintonia con questo sguardo anche se ripropone una questione terminologica: "Riuscire a vedere tutto cio' - dice a p. 152 del suo libro - significa avere acquistato uno sguardo veramente universale, in cui la spiritualita' - che Capitini chiama religiosita', ma senza che sia necessario seguirlo nel suo linguaggio di credente - avvolge ogni cosa". E' vero che l'accezione del termine "religione" usata da Capitini e' piu' vicina a cio' che noi comunemente definiamo "spiritualita'". Ma resterebbe, con il semplice uso di questo termine, la necessita' di ricostruire un significato piu' operativo e meno contemplativo, meno individuale e piu' collettivo, piu' "corale" per usare ancora un termine capitiniano, di quella coralita' a cui tutti possono prender parte: credenti e non credenti, persuasi e perplessi della nonviolenza come ebbe e definirsi Norberto Bobbio. La "non-credenza" e' cosa diversa dall'ateismo (professato da Cozzo); la "non credenza" non costituisce infatti l'identita' di coloro che non si riconoscono in alcuna tradizione religiosa: i cattolici hanno definito con un unico termine negativo di "non credenti" tutte le persone che appartengono a questo universo, finendo spesso per convincere persone profondamente persuase di molte cose di essere dei "non credenti". Penso per esempio che l'unita' del genere umano della quale Cozzo fa fede sia una "credenza" della quale sia piu' difficile "persuadersi" che quella dell'esistenza di un Dio, lontano e separato dall'umanita', per quanto buono e amorevole. * Tornando al libro io penso che Cozzo sia riuscito quindi a ricostruire il solco degli antichi maestri, (le principali persuasioni della nonviolenza) e da questo solco a gettare ponti e collegamenti sia con riflessioni teoriche in vari ambiti disciplinari (dalla filosofia di Levinas alla psicologia sistemica di Gregory Bateson, dall'epistemologia di Edgar Morin, all'interculturalita' di Raimon Panikkar, per citare solo alcuni esempi), sia con pratiche sociali sviluppate in vari contesti umani (dalle varie esperienze di resistenza e azione nonviolenta gia' storicamente documentate, alle costruzione di nuovi patti dopo conflitti laceranti come quello del Sudafrica, alla mediazione penale, agli interventi civili in zone di conflitto, alle tecniche di comunicazione, al contenuto dei programmi d'insegnamento, al commercio e alle nuove forme di finanza etica, alla costruzione di forme istituzionali di difesa nonviolenta). Queste applicazioni sono tutte illustrate nel terzo e nel quarto capitolo con riferimenti puntuali nella bibliografia ampia ed esaustiva comprendente anche i siti internet in cui reperire utili informazioni. * C'e' infine un'ultima considerazione con la quale mi sono trovato in accordo con Cozzo ed e' quella di non accettare un abbinamento ormai sempre piu' frequente in programmi di formazione sia nelle scuole che nell'area delle associazioni di volontariato: spesso infatti leggiamo di "educazione alla legalita' e alla nonviolenza". La nonviolenza si pone, si dice oggi nella Comunita' dell'Arca, come legame tra la giustizia e l'amore. Un legame piu' complesso, attivo, profondo, creativo della mera legalita'. Cio' significa che la nonviolenza si pone proprio come un legame alternativo tra questi due poli (che potremmo con altra terminologia individuare nella "tutela dei diritti individuali" e nella "solidarieta'"). Cio' non vuol dire che la legge non possa in assoluto svolgere un ruolo regolativo all'interno della societa', ma che essa e' del tutto insufficiente perche' si pone su quel terreno di equidistanza e imparzialita' che, dice bene Cozzo, la nonviolenza sostituisce con l'idea di equi-vicinanza e compartecipazione che una terza parte deve assumere con le parti in conflitto. 3. LETTURE. LUISA BRUNO, CARLA GALETTO, DORANNA LUPI: NEL SEGNO DI RUT Luisa Bruno, Carla Galetto, Doranna Lupi, Nel segno di Rut. Percorsi teologici di donne della cdb di Pinerolo, Quaderni di Viottoli - Comunita' cristiana di base, Pinerolo (To) 2000, pp. 72, s.i.p. (ma consiglieremmo di invare comunque un contributo per le spese di stampa e di spedizione). Uno studio a piu' voci di grande acutezza che offre anche una utilissima panoramica sulle teologie femministe cristiane nel mondo; un libro che vivamente raccomandiamo. Per richieste: tel. 0121322339 o anche 0121500820, e-mail: viottoli.cdb at tiscalinet.it e anche info at viottoli.it, sito: web.tiscalinet.it/viottoli, e anche www.viottoli.it. 4. LETTURE. MARIRI' MARTINENGO: LE TROVATORE Mariri' Martinengo, Le trovatore. Poetesse dell'amor cortese, Quaderni di Via Dogana - Libreria delle donne, Milano 1996, pp. 160, lire 22.000. Una appassionante antologia delle poetesse provenzali del XII e XIII secolo, con testo originale a fronte e utile apparato introduttivo, documentario, bibliografico. Per richieste: e-mail: info at libreriadelledonne.it, sito: www.libreriadelledonne.it 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 816 del 21 gennaio 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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