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La nonviolenza e' in cammino. 800
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 800
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 5 Jan 2005 00:16:35 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 800 del 5 gennaio 2005 Sommario di questo numero: 1. Elie Wiesel: Quelle vittime innocenti 2. Angela Dogliotti Marasso: Due chiare consapevolezze 3. Angela Giuffrida: La violenza delle donne 4. Rocco Altieri: Un conflitto irrisolvibile? (parte prima) 5. Elena Buccoliero: Mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche'... 6. Massimiliano Pilati: Mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche'... 7. La rivista di Aldo Capitini e Pietro Pinna 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. RIFLESSIONE. ELIE WIESEL: QUELLE VITTIME INNOCENTI [Dal sito del quotidiano "La repubblica" (www.repubblica.it) riprendiamo questo articolo di Elie Wiesel, pubblicato il 30 dicembre 2004. Elie Wiesel, nato nel 1928 a Sighet in Transilvania, venne deportato ad Auschwitz e Buchenwald. Dopo la guerra e' stato giornalista, scrittore, testimone impegnato per i diritti umani, premio Nobel per la pace. Tra le opere di Elie Wiesel si vedano in particolare i due volumi delle memorie Tutti i fiumi vanno al mare, Bompiani, Milano 1996; ... E il mare non si riempie mai, Bompiani, Milano 1998, 2003. Tra i suoi molti libri e' indispensabile leggere innanzitutto almeno La notte, Giuntina, Firenze 1980. Segnaliamo anche almeno il colloquio tra Jorge Semprun ed Elie Wiesel, Tacere e' impossibile, Guanda, Parma 1996] Quelle foto di bambini a brandelli, vittime innocenti e indifese di una natura crudele e scatenata le guardo perfino nel mio sonno agitato, e so che non dovrei guardarle troppo. Sono morti, ed e' indecente e pericoloso guardarli troppo. Se almeno si potesse, con lo sguardo, fare qualcosa per loro; se, per miracolo, si potesse far loro il dono di un giorno di vita, di un'ora di tenerezza, o almeno piangere con loro e per loro, dire loro parole di malinconia e consolazione. Ma non si puo'. Non si puo' fare piu' niente per questi bambini dal volto cosi' calmo, cosi' sconvolgente, rifiutati dalla vita, rigettati da un mare infuriato e da un cielo impietoso. Certo, abbiamo il diritto di porci delle domande. Avremmo potuto, con i mezzi scientifici appropriati, evitare la catastrofe con i suoi oltre centomila morti? Il mondo dei ricchi ha dato prova di iniziative di generosita' sufficienti verso le povere famiglie d'Asia, aiutando i loro governanti a installare il meccanismo adeguato per dare l'allarme in tempo? Ogni corpo muto di bambino ci interpella attraverso la domanda che incarna. E questo vale per ogni bambino che ha portato con se', nella morte, il suo futuro, ogni piccolo essere a cui sono stati rubati anni di gioia e felicita'. Una societa' e' sempre definita e giudicata dal suo atteggiamento verso i bambini. Che dire della nostra? Di fronte a una tragedia umana dalle dimensioni quasi bibliche, davanti a una tale incommensurabile ingiustizia si cerca invano la forza per esprimere il lutto e il dolore con parole. Posso soltanto guardare, ancora e ancora, le immagini insostenibili di quei bambini sventurati, abbandonati nei villaggi devastati, sparsi sulla sabbia. Feriti, sfigurati, esangui, domandano molto poco: essere riconosciuti da un genitore, un fratello, una sorella o un amico amati, per trovare la pace nella terra. Io so, tutti noi lo sappiamo, che morendo cosi' piccoli, cosi' giovani, cosi' fragili, la loro fine prematura diventa, a questo livello, una sorta di protesta: quando un bambino muore, sempre e dovunque, tutti noi, in qualche modo, ne siamo, poco o molto, responsabili. Che dire, allora, di centomila bambini di cui ci restano solamente delle immagini? E Dio, in tutto questo? 2. RIFLESSIONE. ANGELA DOGLIOTTI MARASSO: DUE CHIARE CONSAPEVOLEZZE [Ringraziamo Angela Dogliotti Marasso (per contatti: maradoglio at libero.it) per questo intervento. Angela Dogliotti Marasso, rappresentante autorevolissima del Movimento Internazionale della Riconciliazione e del Movimento Nonviolento, svolge attivita' di ricerca e formazione presso il Centro studi "Sereno Regis" di Torino e fa parte della Commissione di educazione alla pace dell'International peace research association; studiosa e testimone, educatrice e formatrice, e' una delle figure piu' nitide della nonviolenza in Italia. Tra le sue opere segnaliamo particolarmente Aggressivita' e violenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino; il saggio su Domenico Sereno Regis, in AA. VV., Le periferie della memoria, Anppia - Movimento Nonviolento, Torino - Verona 1999; e il recente volume in collaborazione con Maria Chiara Tropea, La mia storia, la tua storia, il nostro futuro, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2003] Gli interventi raccolti ne "La domenica della nonviolenza" del 2 gennaio mi hanno stimolato diverse riflessioni. Provo ad esprimerne alcune. Mi pare che da tutti gli interventi emergano due chiare consapevolezze, che mi sembrano molto importanti come patrimonio comune. * La prima riguarda la fine dell'illusione circa l'estraneita' femminile rispetto alla violenza e anche rispetto alla guerra, come non solo le Lynndie England o Sabrina Barman, ma anche le tante aspiranti "soldate" mettono in evidenza, rivelando tutti i limiti di quella che Lidia Menapace chiama l'"emancipazione imitativa", che omologa e assimila le donne "al peggio della storia maschile" (Dominijanni). Non riprendo dunque questo aspetto, ampiamente trattato da diversi interventi con varie sfumature, ma vorrei sottolineare un punto. Ida Dominijanni, a proposito della terribile immagine di Lynndie con il prigioniero iracheno al guinzaglio, scrive che essa parla "di un immaginario post-femminista sul femminismo, che trasfigura quello che e' stato e resta un movimento di liberta' dalla fissita' dei ruoli sessuali in una competizione per il potere e per la sopraffazione, in un gioco di rivalsa dell'ex-sesso debole sull'ex-sesso forte...". E' l'esito estremo di questo processo di "emancipazione imitativa", certamente, ma anche uno degli effetti di una interiorizzazione di quello che Pat Patfoort ha identificato come il "modello Maggiore-minore", una modalita' di relazione che sta alla radice della violenza culturale (la piu' profonda e radicata delle forme di violenza), perche' ne perpetua e alimenta il ciclo. In questo quadro, infatti, chi e' stato vittima puo' a sua volta diventare carnefice, se introietta il modello di relazione basato sul dominio e sulla difesa violenta, e non riesce a trovare una strada alternativa per "difendersi senza attaccare" (v. Pat Patfoort, Se defendre sans attaquer, Boeckens, 2004, gia' citato sul n. 797 de "La nonviolenza e' in cammino"). * La seconda riguarda la necessita' di trovare e praticare, appunto, una alternativa, che freni la "regressione antropologica" e apra la strada verso una civilta' "altra". Questa strada, a me pare, e' gia' stata tracciata: e' quella della nonviolenza che, come scrive Lidia "non uccide ne' forza ma cambia tutto: il mondo, le relazioni, le coscienze". E che, ponendo in stretta relazione mezzi e fini, mette definitivamente in discussione che un mezzo malvagio sia (legittimo e) idoneo a raggiungere uno scopo positivo, ovvero che si possa utilizzare la guerra per ottenere la pace, la tortura per combattere il terrorismo ecc. Chi ha percorso questa strada in modo piu' consapevole e pieno e' stato forse il Mahatma Gandhi, ma nella vita quotidiana, cosi' come negli scritti e nelle parole di molte donne che hanno lasciato traccia di se' o che sono rimaste sconosciute, ci sono infiniti esempi, spunti e riflessioni in questa direzione. Cercare, portare alla luce, far emergere questo patrimonio di nonviolenza presente nella cultura e nell'esperienza di tante donne per farlo diventare una nuova cultura comune potrebbe essere un lavoro utile per provare ad uscire dalla logica del dominio e per fare quel salto antropologico che appare sempre piu' necessario per il futuro di tutti. E', questa, una direzione che mi pare gia' fortemente presente nel lavoro di tante studiose femministe in diversi ambiti, soprattutto nell'ultimo decennio. Ed e' quello che stiamo cercando di fare anche a Torino, con un gruppo di donne del Centro studi "Sereno Regis", della Casa delle donne, delle Donne in nero, tentando di elaborare un percorso che recuperi e valorizzi parte di questo patrimonio di nonviolenza al femminile, per divulgarlo e farlo conoscere il piu' possibile. 3. RIFLESSIONE. AGELA GIUFFRIDA: LA VIOLENZA DELLE DONNE [Ringraziamo Angela Giuffrida (per contatti: frida43 at inwind.it) per questo intervento. Angela Giuffrida e' docente di filosofia ed acuta saggista; tra le sue pubblicazioni: Il corpo pensa, Prospettiva edizioni, Roma 2002] Intendo dare il mio contributo al dibattito sulla violenza al femminile a cui "La nonviolenza e' in cammino" ha dato tanto spazio. A me pare che lo stupore suscitato nella pubblica opinione dai fatti di Abu Ghraib e, in generale, da tutti gli episodi di violenza di cui sono protagoniste le donne, testimoni ampiamente e da solo la diffusa estraneita' del genere femminile alle violenze a cui assistiamo quotidianamente, sia di persona che attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Credo che nessuno possa ragionevolmente mettere in dubbio la veridicita' dell'assunto di Ida Dominijanni secondo cui "per una che tortura, ce ne sono milioni che lavorano ogni giorno e dappertutto, a ovest e a est, per aprire il presente a un salto di civilta'"; inoltre studi recenti hanno dimostrato che "non si conosce al mondo societa' umana nella quale il numero di atti di violenza letale compiuti dalle donne si avvicini anche solo lontanamente al numero di atti di violenza compiuti dagli uomini" (Daly e Wilson). * Ma, obietta Giancarla Codrignani, "dai tempi delle tragedie greche fino a Freud e' apparso chiaro che le donne non sono prive di aggressivita' e possono trascendere a violenze efferate", mentre Ida Dominijanni sostiene che di avvenimenti analoghi a quelli di Abu Ghraib "la storia e' sinistramente lastricata dalle kapo' in giu'". Ora, essendo la drammaturgia greca un parto della mente maschile, non puo' essere seriamente considerata una testimonianza affidabile dell'essere e dell'agire delle donne, come non lo e' l'inconscio femminile descritto da Freud (la teoria dell'invidia del pene ne e' la riprova, dato che deriva dalla proiezione sulla bambina di sentimenti di invidia per la potenza del sesso femminile, profondamente radicati nella psiche degli uomini). Ne' e' possibile sostenere ragionevolmente che la storia sia "lastricata" di donne aguzzine, dato che possiamo nominarle agevolmente, mentre e' impossibile nominare la serie infinita di uomini che commettono atrocita', in pubblico come in privato, anche perche' l'efferatezza maschile governa il mondo. Sono maschili, infatti, le categorie che da millenni strutturano ad ogni livello e in ogni parte sistemi sociali in cui la vita non conta nulla e la sua cura e' cosa insignificante e servile. Stando cosi' le cose, la domanda che dovremmo porci non e' come mai alcune aderiscano all'ordine simbolico dei padri, in cui vivono immerse dalla nascita alla morte, ma come mai la quotidianita' della stragrande maggioranza delle donne nel mondo sia senza ombra di dubbio razionale e civile. * Lidia Menapace constata che "negli anni del primo femminismo l'idea che le donne siano pacifiche e buone per 'natura' o per 'maternita'' fu rifiutata, e del resto non e' vera". Giancarla Codrignani rincara la dose: "Tranne chi pensa che la differenza uomo/donna sia fondata biologicamente o addirittura ontologicamente, non dovrebbe essere possibile continuare con la storia che 'le donne sono piu' buone' e avvalersi dell'angelismo femminile per ricreare i presupposti della segregazione. Non siamo piu' buone, siamo 'diverse'". E Ida Dominijanni: "La differenza fra i sessi non e' un dato: e' un progetto". Ma se non si radica nella natura, da dove deriva l'inclinazione femminile a riconoscere l'altro e a prendersene cura? Da dove trae origine il progetto della differenza "che rema contro la tendenza globale... a omologare, parificare, assimilare le donne al peggio della storia maschile, dei suoi miti e dei suoi riti"? Il concetto aristotelico della fissita' delle specie, costituite una volta per tutte, non e' mai stato superato dal sistema di pensiero dominante, nonostante l'evoluzionismo darwiniano, cosi', associato all'indebita assolutizzazione ed entizzazione del bene e del male, da' origine all'idea di una natura buona in se' o in se' cattiva. Ma se e' giusto criticare l'idea peregrina di una natura buona o cattiva in se', non e' altrettanto corretto ritenere che con lo sviluppo della mente la natura non abbia nulla a che fare. * Dice Lidia Menapace: "Una donna pu' essere qualsiasi cosa e solo la coltivazione della coscienza e della soggettivita', la costruzione e trasmissione di una cultura critica comune, puo' essere un argine, una difesa, una speranza". La coscienza, pero', non e' un assoluto, e' sempre coscienza di qualcosa; rimanda percio' all'esperienza e ad un corpo che puo' esperire, quindi ad un corpo biologico. Tuttavia l'organismo e' praticamente assente nel pensiero filosofico e, cosa ancor piu' strana, lo e' anche nella biologia (lo stesso Darwin attribuisce in definitiva all'ambiente e non agli organismi il merito di operare la selezione naturale) e nelle neuroscienze. L'innaturale oblio di cio' che noi veramente siamo, cioe' organismi viventi e senzienti, e del fatto palese che dobbiamo proprio all'appartenenza al mondo della natura vivente la possibilita' di pensare (non si sono mai viste entita' incorporee o macchine ragionare per virtu' propria), e' dovuta alla dicotomia corpo-mente e alla inferiorizzazione del corpo. Quest'ultimo viene percepito, insieme alla dimensione affettiva, come un'inutile zavorra che impedisce la realizzazione degli alti valori prodotti autonomamente da una ragione, di cui non si sa la provenienza, ne' che cosa sia esattamente e da dove tragga il suo humus. Il dualismo natura-cultura esprime in modo autoevidente tale scissione e spiega la tensione maschile verso un sopramondo, quello dello spirito, senza nessi e radici nel mondo organismico. Essendo la spiritualita' il portato dell'esperienza del corpo biologico, il disprezzo per la natura e per le attivita' volte a sostenere la vita, ha significato il taglio della linfa vitale capace di fornire il nutrimento adeguato all'evoluzione razionale della mente. Questo e' il motivo per cui gli uomini non riescono in alcun modo a portare i nobili ideali, ai quali dicono di ispirarsi, dalla teoria alla pratica della vita quotidiana. * Dovendo superare la relegazione della donna nel mondo opaco ed ottuso della natura, il femminismo ha finito in genere per inseguire il pensiero maschile, negando il valore conoscitivo delle straordinarie esperienze che le donne fanno nel mondo. Siccome le donne hanno comunque continuato a protrarre la vita e a sostenerla, pena l'estinzione della specie, hanno conservato il loro approccio cognitivo al reale che, in sintonia con l'esperienza del corpo, e' contenitivo e costruttivo. La veridicita' di queste affermazioni e' stata clamorosamente confermata dalle ricerche condotte in tutto il mondo da neuroscienziati, per lo piu' maschi, che hanno constatato il superiore sviluppo, equilibrio e plasticita' dell'encefalo femminile. La diversita' delle donne, altrimenti inspiegabile, dipende da un diverso sguardo sul mondo, ampio e connettivo, capace di sopportare la complessita' del reale, e tale sguardo si radica nell'esperienza del loro corpo biologico. D'altronde anche lo sguardo maschile, focalizzato su un singolo dato e sull'opposizione, ha la stessa origine. La natura c'entra nel senso che, strutturando i corpi in un certo modo, permette a donne e uomini di fare esperienze diverse che determinano un differente punto di vista sul mondo; ma essa non ha imprigionato i viventi nell'ambito di un determinismo cosi' rigido come gli uomini lo immaginano, ha assicurato, invece, agli organismi la plasticita' che consente agli stessi di evolversi per sopravvivere. Lo sviluppo della mente umana e' dovuto a questa speciale qualita' dei viventi che caratterizza il loro divenire. In conclusione, gli uomini non sono stati condannati da una natura matrigna alla cecita' permanente su se stessi e sul mondo, ma possono allargare il loro orizzonte conoscitivo se riconosceranno di essere i figli delle donne che, in qualita' di madri, hanno sviluppato un sapere altro, piu' vasto e comprensivo, capace di permettere la sopravvivenza della specie, ora come allora. Dal canto loro le donne potranno recuperare consapevolmente il loro punto di vista sul mondo ed uscire dalle mille trappole del pensiero maschile, solo se riconosceranno il valore della corporeita'. Se invece continueranno a sostenere un sistema di pensiero contrario alla vita, indirettamente attraverso la semplice permanenza al suo interno, o direttamente come le aguzzine di Abu Ghraib, un inesorabile destino di morte ci attende, dato che il rifiuto del corpo vivente e della dimensione affettiva equivale semplicemente e tout court al rifiuto della vita stessa. 4. RIFLESSIONE. ROCCO ALTIERI: UN CONFLITTO IRRISOLVIBILE? (PARTE PRIMA) [Ringraziamo Rocco Altieri (per contatti: roccoaltieri at interfree.it) per averci messo a disposizione questo suo saggio apparso nel vol. 5 del giugno 2004 dei "Quaderni Satyagraha" da lui diretti, volume monografico dedicato al tema "Nonviolenza per Gerusalemme". Rocco Altieri e' nato a Monteleone di Puglia, studi di sociologia, lettere moderne e scienze religiose presso l'Universita' di Napoli, promotore degli studi sulla pace e la trasformazione nonviolenta dei conflitti presso l'Universita' di Pisa, docente di Teoria e prassi della nonviolenza all'Universita' di Pisa, dirige la rivista "Quaderni satyagraha". Tra le opere di Rocco Altieri segnaliamo particolarmente La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998. Per abbonarsi ai "Quaderni Satyagraha" (per contatti: tel. 050542573, e-mail: roccoaltieri at interfree.it, sito: pdpace.interfree.it): abbonamento annuale 30 euro da versare sul ccp 19254531, intestato a Centro Gandhi, via S. Cecilia 30, 56127 Pisa, specificando nella causale "Abbonamento Satyagraha". Abbiamo omesso le note che accompagnavano il saggio, puntuali e preziose, per le quali rinviamo tout court alla rivista. Come e' ovvio, su un tema cosi' delicato vi sono interpretazioni e opinioni molto diverse e fin contrapposte. Crediamo che ragionarne pacatamente, nel rispetto della sensibilita' di ogni persona, sia un modo per sostenere quanti tra gli israeliani e tra i palestinesi si stanno impegnando per il dialogo, la pace, la giustizia, la verita', la solidarieta', la convivenza] Il conflitto israelo-palestinese dura da piu' di un secolo e ha provocato centinaia di migliaia di vittime, immani distruzioni e lo sperpero folle di risorse che avrebbero potuto in realta' beneficiare i due popoli. L'aver deciso di approntare un numero monografico sul complesso e difficile conflitto che insanguina la Terra Santa e' stato, per il progetto editoriale dei "Quaderni Satyagraha", una sfida temeraria e, forse, prematura. Ma non era possibile, proponendosi di trattare di nonviolenza, non misurarsi con la drammatica attualita' di una contesa lacerante che nel Vicino Oriente ha raggiunto in questi mesi i picchi di un'escalation inaudita di violenza, in un vortice drammatico di attacchi e di contro-attacchi, di "attentati suicidi" e di "esecuzioni mirate", con l'inasprirsi dell'occupazione militare israeliana, fatta di punizioni collettive nei confronti della popolazione palestinese, di bulldozer che radono al suolo le abitazioni e sradicano gli uliveti, fino a concepire la costruzione di un muro che divide i territori e le popolazioni. Di fronte a tali scenari, nel senso comune la nonviolenza appare annichilita e la pace un sogno irraggiungibile. La guerra che infuria in Medio Oriente sembrerebbe dar ragione ai tanti teorici del "realismo" che affermano come la politica sia sottomessa alla logica del piu' forte, rinnovando le parole senza speranza che Bernanos scrisse negli anni della guerra civile in Spagna: "Dicono le voci: 'Sciagura ai popoli! Siano maledetti gli infermi! La terra sara' posseduta dai forti. Coloro che piangono sono deboli. E non saranno mai consolati. Chi ha solo fame e sete di giustizia va a pescare la luna e a pascolare il vento'". Una tale visione di un pessimismo storico "anti-evangelico" sconcerta, ma non puo' indurre alla rassegnazione o alla disperazione. Come ha ammonito, col peso della sua autorita' morale, Giovanni Paolo II: "Nessuno puo' abbandonarsi alla tentazione dello scoramento o della ritorsione: il rispetto della vita, la solidarieta' internazionale, l'osservanza della legge devono prevalere sull'odio e sulla violenza. (...) In realta', non di muri ha bisogno la Terra Santa, ma di ponti! Senza riconciliazione degli animi non ci puo' essere pace". * La violenza come peccato originale In realta', i conflitti diventano ostinati e irrisolvibili proprio a causa del ricorso alla violenza come strumento per imporre soluzioni unilaterali. La violenza che si protrae da decenni nella regione storica della Palestina mostra in tutta evidenza gli effetti nefasti della sua azione e la sua totale inefficacia rispetto agli obiettivi che vorrebbe conseguire: sicurezza, giustizia, pace, liberta'. A causa della guerra, invece, le fratture sociali si fanno sempre piu' profonde e ingestibili, minacciando i bisogni umani fondamentali, quelli dell'identita' e della sicurezza, innanzitutto. C'e' un peccato di origine che spiega la violenza irriducibile che pervade oggi la quotidianita' della gente che vive in Palestina. Esso va individuato nel modo in cui si ando' a fondare il nuovo Stato, facendo ricorso alla scontro e alla violenza, piuttosto che a un soluzione concordata con gli arabi nell'ambito delle Nazioni Unite, come chiedevano alcune voci ebraiche della nonviolenza, Judah L. Magnes, Martin Buber, Hannah Arendt, Albert Einstein, Erich Fromm che come autentici, moderni profeti misero in guardia il popolo di Israele dal cadere nella tentazione della violenza, facendosi appoggiare dalle potenze imperialistiche del tempo, cosi' determinando per il nascente Stato un futuro di guerra permanente. Questi grandi intellettuali ebrei, fautori di una scelta nonviolenta, si impegnarono senza sosta per favorire l'amicizia arabo-ebraica e considerarono una sciagura l'imposizione di una soluzione nazionale unilaterale, sostenendo la proposta alternativa di una federazione per i due popoli, perche', come scriveva Hannah Arendt "la presenza degli arabi in Palestina era, tra tutte, la sola realta' stabile, una realta' che nessuna decisione avrebbe potuto modificare - con l'eccezione, forse, della decisione di uno Stato totalitario, attuata in virtu' della sua fama di forza spietata". Cosi' la Arendt ammoniva gli ebrei nel maggio 1948, al momento della dichiarazione unilaterale di fondazione dello Stato di Israele: "L'idea di una cooperazione arabo-ebraica, benche' non si sia mai realizzata a nessun livello e appaia oggi piu' lontana che mai, non e' una fantasticheria irrealistica, ma una fondata constatazione del fatto che senza di essa l'intera impresa ebraica in Palestina e' destinata a fallire. Ebrei e arabi potrebbero essere indotti dalle circostanze a mostrare al mondo che tra i due popoli non esistono differenze che non possano essere superate. In effetti, la realizzazione di un tale modus vivendi potrebbe alla fine venir presa a modello per neutralizzare le pericolose tendenze di popoli un tempo oppressi: escludersi dal resto del mondo ed elaborare complessi di superiorita' nazionalistici. Molte opportunita' di fondare un'amicizia arabo-ebraica sono gia' state sprecate, ma nessuno di questi insuccessi puo' cambiare il fatto fondamentale che l'esistenza degli ebrei, in Palestina, dipende da quell'amicizia". * Le correnti nonviolente del Sionismo Il successo del sogno nazionalistico di Herzl, concretizzatosi con la nascita dello Stato di Israele, ha oggi oscurato completamente il ricordo di quelle tendenze anti-sciovinistiche e nonviolente che furono elementi ben presenti nella nascita e nello sviluppo del movimento sionista internazionale: lo spirito di tolleranza e di apertura, la ricerca della verita', l'impegno per la giustizia. Hannah Arendt ci racconta delle due correnti, una culturale, l'altra sociale, di questo sionismo nonviolento, che furono estremamente originali e creative, ma che oggi sono state rimosse e dimenticate a causa dell'imperio assoluto della violenza. La prima va individuata nel progetto culturale che porto' alla nascita dell'Universita' Ebraica e che deve molto alla straordinaria personalita' di Ahad Haam, contemporaneo di Herzl e attivissimo nel sostegno al movimento sionista mondiale. Gia' nei suoi primi scritti, risalenti agli anni novanta del XIX secolo, Haam affermava il rispetto per la popolazione araba e l'impegno a mantenere con questa relazioni di pace. Il suo progetto mirava a fare della Palestina il faro culturale che avrebbe illuminato gli ebrei di tutto il mondo, attraverso l'istituzione di un centro di alti studi universitari, che sarebbe stato un elemento piu' importante per la rinascita ebraica della creazione di uno Stato, come invece propugnavano i seguaci di Herzl, anche al prezzo di una guerra con gli arabi. L'opzione culturale di Ahad Haam richiama alla mente l'antica leggenda di Rabban Johanan ben Zakkaj, il dotto ebreo che, uscito nascostamente da Gerusalemme assediata, va incontro all'imperatore romano e gli chiede di concedergli di fondare una scuola nella citta' di Jamnia (Jabneh), dove poter continuare l'insegnamento della Torah. Dal disastro della caduta di Gerusalemme del 70 d. C., con la distruzione del Tempio, Israele riusci' in realta' a salvare il suo bene piu' prezioso: la tradizione del suo Libro sacro. Questa antica leggenda riportava, secondo Tolstoj, l'ebraismo alla sua piu' profonda essenza religiosa, perche' non e' la terra ad essere sua patria, ma il libro. La seconda corrente e' quella sociale che produsse l'esperimento degli insediamenti collettivi, i kibbutzim, in cui, secondo le idee rivoluzionarie provenienti dalla Russia, si sarebbe dovuta realizzare una nuova forma di proprieta', di vita sociale, di cooperative di lavoratori, senza piu' alcuno sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Questi pionieri si alimentavano dell'aspirazione populista e tolstoiana alla coltivazione della terra e a una rinnovata vita comunitaria. Vivevano del mito che la loro sarebbe stata l'unica impresa di colonizzazione senza spargimento di sangue, perche' il proposito non era quello di cacciare gli arabi, ma di coinvolgerli in un progetto comune di sviluppo rurale che doveva avere come obiettivo, dopo un millenario processo di sfruttamento e desertificazione, il ridare fertilita' a quella terra storicamente tanto amata, trasformandola in un giardino, un nuovo Eden, ospitale per tutti, nessuno escluso. Le due "utopie", la culturale e la sociale, che mossero i pionieri ebrei verso la alyia (la salita) in Palestina, furono gravemente tradite dagli svolgimenti violenti che hanno accompagnato la nascita e l'esistenza dello Stato di Israele. * La sconfitta dell'opzione nonviolenta La corrente nonviolenta del sionismo trovo' un ulteriore eccezionale impulso culturale e politico nella figura di Judah Magnes, nato a San Francisco nel 1856 e trasferitosi successivamente in Palestina, dove nel 1925 fondo' l'Universita' ebraica di Gerusalemme, diventandone per molti anni il rettore. Per piu' di trent'anni il professor Magnes si dedico' indefessamente all'opera di dialogo e di pacificazione tra ebrei e arabi, guadagnandosi in breve l'appellativo di "Gandhi ebreo". Allo scopo di promuovere la cooperazione arabo-ebraica diede vita nel 1925 all'associazione B'rith Shalom (Patto di Pace), e, con gli stessi intenti, nel '42 fondo' il partito Ikhud ( Unita'). La sua lucidita' politica lo porto' a prevedere subito gli effetti nefasti delle strategie allora prevalenti nel sionismo mondiale, e lo indusse a prendere posizioni coraggiose nel denunciare la miopia di certe scelte. A differenza della gran maggioranza degli ebrei che salutarono con entusiasmo la Dichiarazione di Balfour del 1917, il primo riconoscimento internazionale delle aspirazioni del popolo ebraico ad avere un focolare nazionale in Palestina, Magnes critico' duramente e ripetutamente una tale presa di posizione politica, che ritenne errata, tale da indurre gli ebrei sulla strada sbagliata dell'alleanza con l'imperialismo britannico e di ostilita' verso gli arabi. Magnes riteneva che, in realta', gli Inglesi non avessero alcun diritto di promettere la Palestina a chicchessia e che agli ebrei non conveniva legarsi all'imperialismo, che voleva strumentalizzare gli ebrei per acquisire una posizione influente in un punto nevralgico del Medio Oriente. Uno Stato, nato con l'appoggio dell'imperialismo britannico e americano, avrebbe costretto gli ebrei a vivere l'incubo di una guerra infinita con i vicini arabi. In alternativa Magnes propose la fondazione in una Palestina autonoma, con uno Statuto bi-nazionale, dove ne' agli arabi, ne' agli ebrei sarebbe stata concessa una condizione di minoranza, avendo tutti riconosciuti una cittadinanza con uguali diritti. Gli scontri violenti che scoppiarono nel '29, la rivolta araba dell'aprile 1936, le ripetute violenze dal '37 fino all'estate del 1939, misero in serie difficolta' l'opera di riconciliazione propugnata da Magnes. Ma nonostante il montare della violenza, la visione di Magnes per uno Stato bi-nazionale raccolse l'appoggio di intellettuali prestigiosi, tra gli altri Martin Buber, Ernest Simon, Hannah Arendt, David Riesman, Erich Fromm, Albert Einstein, che insieme dettero vita a una Lega per l'incontro e la cooperazione tra Ebrei ed Arabi. L'11 novembre del 1946 la Lega firmo' un accordo con Falastin el iedida' (la nuova Palestina) un'associazione di arabi guidata da Fawzi El-Hussein, che dopo aver aderito al movimento nazionalista arabo, si era persuaso che l'unica soluzione al problema palestinese fosse una sincera cooperazione con gli Ebrei, dando vita a uno Stato bi-nazionale indipendente, parte di una federazione piu' ampia di popoli medio-orientali. "Una volta, amava ricordare Fawzi El-Hussein, Ebrei ed Arabi vivevano in amicizia ed in cooperazione. Vi erano Arabi ed Ebrei che erano stati allattati dalla stessa nutrice". Percio' i due popoli, gli Ebrei e gli Arabi, potevano ritornare a vivere in pace e ad avversare uniti le politiche imperialistiche delle grandi potenze che volevano fomentare la divisione, riproducendo nel Medio Oriente una situazione balcanica. Ma a causa di queste sue posizioni di coraggiosa apertura, Fawzi El-Hussein fu assassinato da terroristi arabi il 23 novembre del 1946. La violenza terroristica cerca sempre di affermarsi, colpendo indistintamente i sostenitori del dialogo. Il canovaccio di chi vuole la guerra e la radicalizzazione dello scontro vede di fatto alleati i violenti dei due schieramenti nel proposito comune di liberarsi innanzitutto dell'intralcio che i fautori della nonviolenza frappongono alla realizzazione dei piani di divisione e di guerra. Pur profondamente avviliti per il crescere della violenza, che decimava gli interlocutori interessati alla cooperazione arabo-ebraica, in vista dell'approssimarsi di una sistemazione geopolitica del Medio Oriente Magnes e Riesman prepararono ugualmente una risoluzione da sottoporre alle Nazioni Unite che scongiurasse la spartizione e bloccasse l'ascesa al potere dei terroristi. Si chiedeva un'amministrazione fiduciaria dei territori della Palestina da parte dell'Onu per preparare la transizione, riconoscendo all'Ikhud (il movimento nonviolento di Magnes) un ruolo di mediazione. Ma il conte Bernadotte, inviato come rappresentante dell'Onu in Palestina e principale interlocutore del gruppo di Magnes, venne assassinato a Gerusalemme dai terroristi ebrei della banda Stern, il 17 settembre del 1948, perpetrando un atto criminale che colpiva al cuore il progetto di una soluzione concordata secondo la proposta di una federazione arabo-ebraica. La mattina del 27 ottobre '48 moriva anche Judah Magnes, un ulteriore evento luttuoso che indeboliva in modo irreparabile il lavoro per il dialogo e la cooperazione arabo-ebraica. Scrisse in quei giorni Hannah Arendt: "La morte di Magnes e' una vera tragedia in questo momento. Non c'e' nessuno che possegga la sua autorita' morale. Inoltre non so vedere nessuno che viva realmente nel mondo ebraico, e che abbia una qualche preminenza in istituzioni ebraiche, che possa avere il coraggio di alzare la voce contro tutto quello che oggi sta accadendo". Con la morte di Magnes il partito dell'Unita' perse forza. Nasceva una fondazione col suo nome e con l'obiettivo di proseguirne il cammino, ma la Arendt, che fu tra i fondatori, rifiuto' di diventarne presidente, come molti avrebbero voluto, avendo ormai capito che in quel momento non c'erano piu' gli spazi per una azione politica diretta che influenzasse la politica di Israele. Preferi', cosi', stabilirsi negli Usa. Sugli uomini di cultura, che avrebbero potuto guidare in modo illuminato la nascita di una entita' federale israeliano-palestinese, prevalsero i violenti e i terroristi. Costoro nell'ebbrezza della vittoria, nella smisurata presunzione di essere eroi cha avevano vinto "in pochi contro molti" una impossibile guerra di indipendenza, non si rendevano conto che in quel modo, seguendo la politica del "fatto compiuto", riservavano in realta' agli ebrei che avevano trovato in Palestina un rifugio dalle persecuzioni naziste, un nuovo destino di paura e di violenza, una guerra quotidiana permanente con i vicini arabi, non certo quella serenita' e quella felicita' che avevano sognato. La violenza fu il peccato di origine che accompagno' la nascita di Israele e che condizionera' tutti gli avvenimenti successivi. In un certo senso la fondazione violenta del nuovo Stato segno' la morte del sogno nonviolento di una "patria ebraica" . * La catastrofe dei profughi Ogni volta che si affacciavano segnali di riavvicinamento un nuovo atto di violenza spingeva le parti verso la rottura e la polarizzazione violenta delle posizioni. Sordi alle voci che invitavano allo spirito di intesa, i terroristi precipitarono ebrei e arabi verso la guerra. Gli scontri aperti si acuirono con la dichiarazione unilaterale di indipendenza di Israele nel maggio '48 e cessarono nel '49 con la piu' grave tragedia che il conflitto armato abbia lasciato in eredita' alle generazioni successive: il 75% della popolazione palestinese fu costretta dalla guerra a lasciare i propri luoghi di origine e ad iniziare una lunga odissea come profughi, il cui punto di approdo e' ancor oggi lontano dall'essere visto. Qualunque sia la spiegazione del loro esodo, una conseguenza della propaganda araba delle atrocita' compiute, o le reali atrocita' o una mescolanza di entrambe, il dato di fatto e' che da quel momento si e' alzato il muro del rifiuto israeliano a riammettere i profughi nella loro terra d'origine. Sulla tragedia dei profughi cosi' scrisse, poco prima della morte, Judah L. Magnes in una lettera al direttore di "Commentary": "E' una disgrazia che le stesse persone che potrebbero addurre la tragedia dei profughi ebrei come principale argomento a favore dell'immigrazione di massa in Palestina, siano ora disposte, per quanto si sa, a favorire la creazione di un'ulteriore categoria di profughi in Terra Santa". La cosiddetta "Legge della proprieta' assente", approvata dal parlamento israeliano nel maggio 1950, porto' immediatamente all'esproprio del 70% delle proprieta' arabe. Contemporaneamente la "Legge del Ritorno" del 1950 e la "Legge della Cittadinanza" del 1952 diedero a qualsiasi ebreo, proveniente da qualsiasi parte del mondo, il diritto di immigrazione in Israele, acquistandone automaticamente la cittadinanza. Mentre veniva sancito solennemente il diritto al ritorno degli ebrei, il diritto al ritorno per i profughi palestinesi e i loro discendenti, riconosciuto universalmente dal diritto umanitario internazionale, veniva negato. E' la disperazione reale dei campi profughi palestinesi, provocata da anni di miseria, umiliazioni, maltrattamenti, a spingere i giovani kamikaze nell'emulare Sansone, l'eroe biblico che, ridotto in prigione dai Filistei, decise: "Che io muoia insieme ai Filistei" (Giudici 17, 4). La questione dei profughi va posta al primo posto dell'agenda delle trattative di pace e non puo' essere barattata con qualche fittizia concessione di autonomia amministrativa in Cisgiordania e Gaza. Qualsiasi autentico processo di pace, se vuole portare frutti effettivi e duraturi, non puo' prescindere dal riconoscere e dal riparare alle sofferenze passate e presenti dei profughi palestinesi, ponendo cosi' le basi per un futuro diverso di condivisione e di riconciliazione. * Diritti di cittadinanza per tutti, nessuno escluso Come osserva Kemmerling, sociologo contemporaneo dell'Universita' ebraica di Gerusalemme: "I diritti degli ebrei in Israele sono tuttora definiti in termini personali e collettivi, mentre i diritti degli arabi sono riconosciuti solo in termini personali. Cioe', essi mancano dei diritti di accesso ai beni comuni della collettivita' come la terra, l'acqua, i simboli collettivi, feste, anniversari, commemorazioni. Questa differenziazione tra diritti privati e diritti collettivi e' rischiosa e fa di Israele una "etnocrazia" piuttosto che una societa' "ebraica e democratica" come proclama di essere". L'accesso alla terra in Israele e' regolato dallo Stato, che conserva il controllo e la proprieta' di gran parte delle terre insieme al Jewish National Found (Jnf). Si e' costituita la Israel Lands Administration (Ila), un organismo governativo dominato dal Jewish National Found (Jnf) che controlla il 94% delle terre e mira, come sua politica principale, alla "giudeizzazione" delle aree dove sono ancora maggioritarie le popolazioni arabe. Di fronte alle tante pretese di legittimare su basi bibliche la volonta' di appropriazione esclusiva delle risorse della terra bisogna sempre ricordare l'ammonimento che La terra e' di Dio (Levitico, 25, 23). Gli usi civici sulle terre comuni che i villaggi arabi esercitavano da generazioni, sia durante l'impero ottomano che sotto il mandato britannico, vengono oggi negati. Le richieste dei fellah, i contadini palestinesi, di ottenere in fitto le terre coltivabili vengono accantonate a vantaggio delle imprese ebraiche. La stessa politica viene realizzata per l'accesso alla casa. Nonostante l'incremento demografico della popolazione palestinese e il crescente processo di urbanizzazione, non c'e' stato un corrispondente aumento nell'offerta di alloggi. I palestinesi sono discriminati dal mercato delle case, in quanto si limita l'acquisto ai soli ebrei, privilegiando i veterani di guerra o chi ha prestato servizio militare, e questo fatto di per se' esclude gli arabi. I palestinesi sono altresi' esclusi dai sussidi per l'acquisto delle abitazioni o dai programmi governativi di miglioramento delle abitazioni e delle infrastrutture. I sussidi e le agevolazioni per gli affitti che favoriscono le giovani coppie, gli anziani e i nuovi immigrati (che da soli ottengono il 74% dei sussidi), ancora una volta escludono le famiglie palestinesi. Uno degli aspetti piu' iniqui e odiosi, anche se meno noti, della politica statale israeliana e' quello verso i beduini del Naqab (una popolazione semi-nomade di circa 120.000 persone), ai quali si rifiuta il riconoscimento dei loro villaggi agricoli, fatti di povere capanne di legno e di ricoveri di animali, privandoli cosi' di ogni tipo di supporto pubblico per il miglioramento delle abitazioni, e per l'accesso ai servizi essenziali (acqua, elettricita', strade), avendo programmato di ricollocarli in sette nuovi insediamenti urbani, negando in questo modo il loro sistema di vita, stravolgendo la loro struttura di societa' di contadini e allevatori. Contemporaneamente, avendo lo Stato il controllo della terra, esercitando il potere di darla in affitto (leasing policy), si cerca di restringerne l'accesso alle comunita' beduine a favore di un uso commerciale e di uno sfruttamento piu' lucrativo delle terre. Anche per l'acqua, risorsa particolarmente scarsa e preziosa in una regione assediata dalla desertificazione, diventa questione cruciale nel conflitto il controllo delle sorgenti del Golan e del bacino del fiume Giordano. I conflitti per l'acqua nascono innanzitutto intorno alla sua destinazione tra usi domestici, agricoli e industriali. E nella ripartizione dei consumi appare eclatante la discriminazione nei confronti della popolazione araba e palestinese. La scarsita' delle risorse e' un concetto relativo, funzionale sia al modello di sviluppo che si realizza, sia alla densita' della popolazione. Nelle analisi del conflitto nel Vicino Oriente poca attenzione si e' prestata finora alle questioni relative ai modelli di sviluppo, preferendo le chiavi interpretative della geo-politica e della religione. In Palestina lo scontro di civilta' non riguarda le religioni, bensi' il conflitto e' tra modernita' e tradizione, tra citta' e campagna, tra modelli di sviluppo diversi, tra un modello industriale di agricoltura e uno arcaico basato sul lavoro umano e sugli animali. La jeep versus l'asino, il bulldozer versus gli alberi di ulivo potrebbero essere alcune immagini di questo conflitto paradigmatico. Modernita' e tradizione sembrano faglie tettoniche che, movendosi da Nord e da Sud, nelle profondita' del Vicino Oriente si urtano, provocando terremoti devastanti. * Una religione civile della sicurezza Il trauma della persecuzione subita nei secoli, la catastrofe finale della Shoah hanno fatto del tema della sicurezza il punto nevralgico della ideologia e della politica di Israele. Questa paura di fondo ha alimentato negli anni una concezione della sicurezza nei termini della difesa militare del territorio, giustificando le politiche di riarmo e la stessa deterrenza nucleare. Il tema della sicurezza costituisce tuttora l'elemento unificante del consenso nazionale di una societa' per altri aspetti profondamente divisa. Tutti i problemi vengono vissuti come una sfida alla propria identita' e alla propria sicurezza esistenziale, e a causa di cio' Ernest Simon faceva notare gia' nel '48 come gli ebrei di Palestina rischiavano di degenerare in una di quelle piccole tribu' di guerrieri simili a Sparta. La violenza viene proposta e sostenuta in quanto sembrerebbe avere una sua efficacia risolutiva, perche' Israele, come parte piu' forte nel conflitto asimmetrico con i palestinesi, appare in grado di imporre la sua volonta' di potenza, creando situazioni irreversibili, come e' accaduto dopo la guerra del 1948 e del 1967, allargando il controllo del territorio fin verso i tradizionali "confini biblici". I governi di Israele, facendosi forti della propria potenza militare e dell'appoggio degli Usa, pretendono di praticare la politica del "fatto compiuto", ignorando la presenza dell'altro. Ma i leader politici come falsi profeti creano solo effimere illusioni, perche' una tale infausta politica perpetua soltanto una guerra senza fine. L'Intifada sta rendendo insostenibili i costi dell'occupazione, spingendo l'economia verso il collasso. La rivolta palestinese dimostra che avere il controllo militare dei territori non significa avere il controllo della popolazione e, come gia' lo statista inglese E. Burke aveva considerato a proposito delle colonie americane dell'Inghilterra, non si puo' governare a lungo col ricorso alla violenza. Ma la paura indotta dagli attentati terroristici dei kamikaze ha rinnovato tuttora il consenso della maggioranza della popolazione israeliana alle politiche repressive del governo e al progetto di costruzione del muro, con l'illusione di trovare cosi' una soluzione definitiva alla propria sicurezza. Si e' diffusa tra la gente comune una prevalente cultura militaristica che pervade tutta la societa', creando una specie di civilian militarism, secondo l'espressione coniata dal sociologo A. Vagts. Secondo Kimmerling benche' la societa' israeliana non sia propriamente un modello pretoriano piu' di qualsiasi altro paese democratico, nella cultura di settori considerevoli della sua popolazione e della leadership politica, sia di destra che di sinistra, prevale una mentalita' di tipo militare nell'affrontare problemi che non sono militari, giustificando cosi' il ricorso eccessivo alla forza e nutrendo l'aspettativa che anche in politica i militari possano risolvere i problemi della gente. E soprattutto si presume di poter imporre la pace con gli strumenti della guerra. Una guerra e un conflitto entrati a far parte della routine quotidiana della vita della gente offuscano la distinzione tra pace e guerra, plasmano le istituzioni economiche e politiche, condizionano in modo pesante la formazione dell'identita' di Israele e tutta la sua cultura politica, generando appunto una forma di mentalita' militare. Inoltre, la guerra, la sua preparazione, uno stato di occupazione permanente dei territori palestinesi, l'instabilita' politica spingono settori crescenti della popolazione a sostenere esplicitamente soluzioni forti, che minacciano il regime parlamentare. Il bisogno di sicurezza induce a idolatrare lo Stato e il suo esercito. Ma il ricorso alla ragione di Stato per giustificare ogni crimine, introduce a quella che in ebraico si chiama Mamlachtiut (il culto idolatrico dello Stato). Affidarsi, poi, per la propria sicurezza agli eserciti e alla bomba atomica, invece che a Dio, e' la peggiore di tutte le idolatrie. (Continua) 5. STRUMENTI. ELENA BUCCOLIERO: MI ABBONO AD "AZIONE NONVIOLENTA" PERCHE'... [Ringraziamo Elena Buccoliero (per contatti: e.buccoliero at comune.fe.it) per questo intervento. Elena Buccoliero (Ferrara 1970) collabora ad "Azione nonviolenta" ed e' parte del comitato di coordinamento del Movimento Nonviolento. Lavora per Promeco, un ufficio del Comune e dell'azienda Usl di Ferrara dove si occupa di adolescenti con particolare attenzione al bullismo e al consumo di sostanze, e con iniziative rivolte sia ai ragazzi, sia agli adulti. A Ferrara, insieme ad altri amici, organizza e promuove la Scuola della nonviolenza. Sara' pubblicato questo mese presso l'editore Franco Angeli di Milano un suo libro sul fenomeno del bullismo] Nella mia ridotta consuetudine al rapporto con i media, e dunque nella mia poca informazione (questa e' un'ammissione, non un vanto), "Azione nonviolenta" e' uno strumento informativo di cui mi fido, che leggo ogni mese interamente o quasi, su cui talvolta scrivo. La rivista mi e' stata presentata da persone per le quali ho affetto e stima, ed altre, attraverso di essa, ho imparato a conoscere. Questo legame con le persone e', per me, un motivo di "fedelta'" alla rivista sicuramente importante. Attraverso di essa come attraverso gli incontri e' nato il mio interesse per la nonviolenza e da li', dopo alcuni anni, l'adesione al Movimento Nonviolento. Negli interventi dei lettori che mi hanno preceduto si sono ricordati piu' volte i quarant'anni di "Azione nonviolenta". Vorrei che fossero percepiti come una ricchezza, non come un peso. Gli anni, in se', non giustificherebbero la spesa: se una rivista non parla ai lettori, anche con molta storia dietro, non ci sono ragioni per abbonarsi. "Azione nonviolenta", pero', gli anni li porta in modo gagliardo. E' piu' vecchia di me e io mi ci trovo bene. Sentire di essere nel solco di altre esperienze e' un richiamo continuo ed emozionante, testimoni di nonviolenza che, da Aldo Capitini e Pietro Pinna in poi - e oggi con Mao Valpiana ed altri -, oltre a dare un'impronta decisiva alla rivista, hanno trasformato la loro vita in "esperimenti con la verita'", nella normalita' di ogni giorno e pagandone personalmente il prezzo. Sara' per questo che ogni anno, da diversi anni, mentre rinnovo l'abbonamento ne regalo altri, diversi, ad amici e amiche per i quali credo che "Azione nonviolenta" possa rappresentare un incontro felice, una scoperta, una conferma, una fonte di informazioni e di strumenti utili per conoscere, per agire e per crescere. C'e' un rischio, nella durata. E' che, abituati a fidare sull'esistenza della rivista, si pensi di non dover far niente per il suo funzionamento, come se tutto fosse scontato. "Azione nonviolenta" e' "un piccolo miracolo" che si ripete da quarant'anni per il sacrificio personale e continuo di alcune persone, e puo' continuare a rinnovarsi - cioe' migliorare in forma e contenuti e naturalmente, prima ancora, continuare ad esserci - solo se continueremo a desiderarne la presenza e a intrattenere con le sue pagine un rapporto vivo, ognuno come vuole e puo', cominciando dall'abbonarsi e dal farla conoscere ad altri. Personalmente - e' il mio modo - su "Azione nonviolenta" qualche volta scrivo e invito a scrivere perche' la rivista, per come io la conosco, e' un crocevia accogliente che richiede nuove "aggiunte", un covo nel quale e' facile trovare spazio, soprattutto quando il nostro scrivere e' un mettersi al servizio degli altri e non un compiacersi di se'. 6. STRUMENTI. MASSIMILIANO PILATI: MI ABBONO AD "AZIONE NONVIOLENTA" PERCHE'... [Ringraziamo Massimiliano Pilati (per contatti: massi.pilati at lillinet.org) per questo intervento. Massimiliano Pilati fa parte del comitato di coordinamento del Movimento Nonviolento; e' impegnato nel nodo trentino della Rete di Lilliput e nel gruppo di lavoro tematico "nonviolenza e conflitti" della Rete di Lilliput; fa parte del coordinamento nazionale della campagna "Pace da tutti i balconi"] Leggo, sostengo e diffondo "Azione nonviolenta" per bisogno. Avverto, infatti, un profondo bisogno di confronto, di imparare, di "ascoltare e parlare". Sono umano e quindi mi capita di provare sentimenti di odio, di rancore, di voglia di sopraffazione nei confronti dei miei simili, soprattutto verso chi compie ingiustizie. "Azione nonviolenta" mi aiuta non a sopprimere o a negare questi miei sentimenti, ma a cercare altre vie, altre strade dove incanalarli, strade difficili, ma giuste. "Azione nonviolenta" fa esplodere queste mie contraddizioni e mi aiuta a conviverci, a superarle, a crescere. "Azione nonviolenta" non mi da' risposte, ma mi insinua dubbi e mi aiuta a trovarmele da me le risposte, magari sbagliando, ma mi sprona a provarci. "Azione nonviolenta" e', infine, una valida compagna di viaggio verso il "varco attuale della storia", cosi' lontano, cosi' vicino. 7. STRUMENTI. LA RIVISTA DI ALDO CAPITINI E PIETRO PINNA "Azione nonviolenta" e' la rivista mensile del Movimento Nonviolento fondata da Aldo Capitini nel 1964, e costituisce un punto di riferimento per tutte le persone amiche della nonviolenza. La sede della redazione e' in via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org; l'abbonamento annuo e' di 29 euro da versare sul conto corrente postale n. 10250363, oppure tramite bonifico bancario o assegno al conto corrente bancario n. 18745455 presso BancoPosta, succursale 7, agenzia di Piazza Bacanal, Verona, ABI 07601, CAB 11700, intestato ad "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona, specificando nella causale: abbonamento ad "Azione nonviolenta". 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 800 del 5 gennaio 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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