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In Kossovo le cose strane sono normali
6/8/2004
In Kossovo le cose strane sono normali; in questi giorni, per esempio, la
corrente elettrica c’e’ solo poche ore al giorno; uno dei tanti prodigi della
democrazia occidentale importata con le bombe nel 1999. Qui a Gorazdevac,
enclave serba difesa da soldati italiani e rumeni, che molte volte hanno le
idee poco chiare, il tempo scorre lento e annoiato. I lavori nei campi, che un
tempo scandivano la vita contadina, sono molto limitati, andare troppo lontani
puo’ essere pericoloso specialmente dopo il 13 agosto dell’anno scorso quando
due ragazzi del paese, Ivan e Panto, sono stati uccisi e cinque feriti mentre
facevano il bagno al fiume. La gente vive in una doppia prigione: quella creata
dalla situazione, ossia fuori da qui e’ pericoloso essere serbi e quella creata
da quelli che ti guardano storto se cerchi di contattare uno dall’altra parte.
Gli albanesi poco distanti vivono anche loro in prigione, una prigione un po’
piu’ grande dove i confini del Kossovo diventano sempre piu’ impraticabili, da
poco tempo nemmeno piu’ la Bosnia i Herzegovina fa passare i kossovari muniti
di passaporto UNMIK con stampigliato sopra il simbolo delle Nazioni Unite.
Un’altra prigione per gli albanesi e’ quella che li fa passare per Gorazdevac e
far finta di non conoscere vecchi amici per paura che altri albanesi li vedano
e li possano accusare di “famigliarizzare con il nemico”. Tutte queste prigioni
constringono le amicizie a racchiudersi dietro un alone di segretezza. M., per
esempio, passa attraverso vie secondarie e poco vigilate per andare a trovare
il suo amico D. dentro l’enclave. P. mi manda in avan scoperta a vedere se il
suo vecchio amico albanese, che da poco e’ tornato dalla Norvegia, e’ disposto
ad andarlo a trovare per un caffe’. C’e’ anche chi per vedere la sorella, che
ha sposato un albanese cinquant’anni fa e che abita a soli due chilometri, e’
costretto a mobilitare una scorta armata sperando che i parenti albanesi della
sorella le permettano di vederla. In mezzo a q¿In quel giorno E. stava cercando
di sopravvivere alla calura estiva, il suo spirito era ottimista e il suo orto
curato. Due raffiche falciano due ragazzi al fiume altri cinque sono feriti.
Nel villaggio c’e’ subito molta confusione e lui nella foga carica uno dei
sopravissuti in macchina per portarlo all’ospedale. La sua macchina ha la targa
serba, non c’e’ tempo da perdere, si parte con lui ci sono due parenti del
ferito. La confusione e la tensione sono alte, uno dice vai a destra l’altro a
sinistra, lui va destra pensando di andare verso l’ospedale militare che pero’
da poco e’ stato trasferito.
La strada passa in mezzo al mercato, all’andata fila tutto liscio, ma poi si
deve tornare indietro perche’ l’ospedale non c’e’. La scorta si perde e dun
tratto la macchina brontola e si spegne: la benzina e’ finita. La gente si
accalca attorno alla macchina e forse qualcuno comincia a prenderla a calci. La
folla e’ tanta e i poliziotti che sono poco distante non riescono a controllare
la situazione. Qualche cosa rompre i vetri della macchina, E. riceve un pugno
in faccia e, ad un tratto, arriva un sasso. La reazione istintiva e’ quella di
proteggere la testa cosi’ il sasso ferisce il braccio. E. dice che a quel punto
ha pensato di essere finito e che tutte le sue forze erano concentrate nella
sopravvivenza. Ma poi ad un tratto arriva una colonna militare che e’ diretta
proprio a Gorazdevac, ci sono anche due ambulanze. Vedono la folla e intuiscono
che qualcosa sta succedendo. Alla vista dei soldati la folla si disperde, E
grida: “Please Help me! Please Help me!”
La folla si dirada ulteriormente i soldati si avvicinano, E. e gli altri della
macchina si riparano sui mezzi militari. Lui si ritrova sull’ambulanza con il
ragazzo ferito. Anche lui e’ lacero e ha un braccio sanguinante. All’ospedale
per E. la situazione e’ umiliante. Alcune persone lo guardano storto quasi
fosse un criminale, i suoi vestiti sono macchiati di sangue.
I giorni seguenti sono i giorni della sofferenza, tutto il villaggio e’ in
lutto. E. viene convocato dalla polizia per i fatti avvenuti sulla strada del
mercato ma a quanto pare qualcuno lo ha denunciato e si trova dun tratto a
passare da vittima ad accusato. Per la prima volta in vita sua E. viene
interrogato, fotografato e schedato. Chiede un avvocato ma la procedura non lo
consente. La sera stessa scappa in Serbia per paura di essere arrestato. In
Serbia chiede aiuto al governo perche’ i suoi diritti vengano difesi presso le
massime sfere dell’amministrazione UNMIK. Poco o nulla si muove e cosi i giorni
diventano mesi. Arriva novembre e la cosa non si e’ ancora sbloccata. La sua
famiglia e’ in Kossovo lui in Serbia, separati da un accusa che E. considera
infamante. A novembre E. ha la festa della casa, il santo protettore della sua
famiglia, qui questa ricorrenza e’ molto importante, mancano pochi giorni alla
data e le cose non accennano a cambiare. Nel cuore della notte E. ha un attacco
d’ansia, non riesce a respirare, ha la tacchicardia, ha paura di morire e corre
al pronto soccorso. Bussa alla porta e con un filo di voce spiega la sua storia
all’infermiere di turno. Un calmante sistema la situazione per il momento.
Ancora un po’ di esitazione ma poi l’indomani mattina E. decide che deve
tornare dalla sua famiglia costi quel che costi. Proprio quel giorno c’e’ il
convoglio scortato, con la sua macchina si accoda e torna a Gorazdevac.
Quest’anno il suo orto non e’ curato e E. non e’ piu’ ottimista come un anno
fa. La polizia non lo ha piu’ cercato, lui continua a sognare la Slovenia e a
vivere a Gorazdevac. Dopo il racconto e dopo il caffe’ E. mi guarda e dice che
pero’ non ha perso del tutto la speranza nelle persone e quindi nemmeno negli
albanesi, un pizzico di speranza c’e’ ancora.
Questa cosa e’ strana e straordinaria ma forse per E. e’ normale. Qui a
Gorazdevac domani si celebra l’anniversario religioso a un anno dall’uccisione
di Ivan e Panto il 13 agosto 2003, sara’ un giorno strano ma a suo modo normale.
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