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Quando migravamo noi: Rosa Cavalleri torna a Cuggiono, 120 anni dopo



Quando migravamo noi: Rosa Cavalleri torna a Cuggiono, 120 anni dopo

di Daniele Barbieri

"Ecco che cosa ho imparato in America: a non aver paura". Sono le ultime
parole di "Rosa, vita di un’emigrante italiana" che un anno fa è stato
tradotto in italiano (ed è già alla terza ristampa, pur circolando in un
ambito locale) a 33 anni dalla sua pubblicazione negli Usa; dove da tempo è
considerato "un classico nella letteratura storica dell’immigrazione e del
movimento femminile" come spiega Rudolph Vecoli nella prefazione.

Raccolte subito dopo la prima guerra mondiale, le memorie aspettarono
dunque 50 anni per essere conosciute (la trascrizione di Marie Hall Ets
venne scoperta per caso da Vecoli) negli Stati Uniti. Un misto di tempo,
ricerca e di casualità sta dietro questa prima edizione italiana che arriva
grazie alla traduzione collettiva realizzata da 29 cittadini – in
prevalenza giovani donne – di Cuggiono all’interno "di un percorso della
memoria contro l’oblio, affinché la comprensione del passato, di quando a
emigrare eravamo noi, ci aiuti a capire il presente" come spiega Oreste
Magni (a nome dell’Eco-istituto della valle del Ticino) all’inizio del
libro che si conclude con "grazie di cuore a te Rosa, da parte di tutti noi
per ciò che ancora oggi, a distanza di tanto tempo, ci stai dicendo. Grazie
Rosa, bentornata a casa".

Proprio dalla piccola Cuggiono era infatti partita nel 1884 Rosa Cavalleri
(1866-1943). Il suo racconto inizia con il torno "ovvero un tamburo che
ruotava, con uno sportello nel mezzo" dove a Milano le donne "troppo povere
per mantenere il figlio" lasciavano il bambino. La prima parte del libro
(17 capitoli su 29) è una vivida descrizione della Lombardia, allora
poverissima anche se fra le regioni d’Italia più progredite. Cuggiono era
zona contadina ma anche di setifici. "Ai miei tempi" (espressione cara a
Rosa e infatti torna di frequente) "non avevano una sirena e neppure ore
fisse per andare al lavoro, perciò lavoravamo fino a quando si poteva
vedere". Fra bachi e filatoio ("la seta era un lavoro da donne e da
ragazze"), brevi soggiorni in convento e passione per il teatro, anche Rosa
– a 14 anni – diventa oggetto di sguardi maschili (in un’epoca nella quale
"alle ragazze non era permesso parlare con i ragazzi"). E viene costretta a
sposarsi con Santino anche se il suo cuore batte per un altro. "Non furono
né le botte né la fame" a convincerla ma "il timore di Dio".

Alcuni mesi dopo il matrimonio "arrivò a Cuggiono un agente dei grandi
proprietari di miniere del Missouri in cerca di nuovi operai" e Santino
decide di partire. "Mi sentii sollevata al pensiero che non l’avrei più
rivisto. L’America era così lontana" commenta Rosa Cavalleri che ha già
avuto occasione di essere picchiata dal marito. E invece "quando il mio
Francesco aveva imparato a camminare e incominciava a dire qualche parola"
arrivano dall’America 4 amici di Santino. "Quegli uomini che lavorano nelle
miniere di ferro del Missouri hanno bisogno di donne che facciano da
mangiare e che puliscano la casa". Un ordine al quale Rosa dovrà obbedire
perché "per quanto quell’uomo sia cattivo è sempre tuo marito (…)
disubbidirgli sarebbe un grave peccato contro Dio".

Inizia il lungo viaggio. E finalmente "L’America. Ecco davanti a noi il
paese dove chiunque poteva trovare un lavoro, dove i salari erano così alti
che era quasi impossibile soffrire la fame, dove gli uomini erano liberi e
uguali e dove persino un povero poteva avere un pezzo di terra tutto per
sé". Così pensa Rosa all’arrivo ma basterà arrivare alle baracche dei
minatori ("non c’erano né alberi né erba, solo qualche baracca fatta di
assi e binari del treno") per lasciare "tutti noi, nuovi arrivati, senza
parole: in verità ci eravamo immaginati un posto molto diverso, un posto
dove saremmo diventati milionari".

Non è cambiato Santino: beve e picchia. Ma per fortuna di Rosa ci sono
altre persone che le insegnano anche cose nuove. Per esempio la fiamma che
esce dal terreno ("a Cuggiono la gente si spaventava e il prete andava a
benedire la zona infestata") è un gas, non deve averne pura. "In due o tre
anni avevo imparato l’inglese meglio di chiunque altro al campo minerario".
Così è una nuova Rosa, più sicura di sé, che torna in Italia a prendere il
primogenito, sino ad allora rimasto alla nonna, e a spiegare, se capita, di
quella fiamma misteriosa.

Al ritorno negli Usa, la svolta nella vita di Rosa Cavalleri: il marito le
chiede di gestire con lui un bordello (parola che lei neppure usa nel
racconto). Rifiuta: "non puoi vendermi al diavolo". Fugge, aiutata dal
toscano Gionin, "un brav’uomo molto religioso" che la indirizza a Chicago
dai suoi cugini.

Più tardi Santino otterrà il divorzio. "Gionin e io andammo al tribunale e
ci sposammo". Ma se un prete minaccia l’inferno ai divorziati ecco Gionin
impaurito lasciare Rosa; fortuna che un altro prete poi gli dice "il
peccato era lasciarmi sola con i bambini".

E poi figli, lavori, fortune, disgrazie, dolori… Dopo molte altre vicende,
finisce a lavare e far pulizie nella "casa d’accoglienza dei Commons": qui
Rosa diventerà vecchia, troverà il gusto di raccontare storie anche in
pubblico (anzi verrà incoraggiata a farlo persino a tenere corsi per gli
insegnanti), per caso incontrerà la giovane assistente sociale Marie Hall
Ets che raccoglierà le sue memorie.

Forte e coraggiosa (forse più di altre) Rosa seppe nell’obbligo di migrare
trovare le ragioni per emanciparsi. Non del tutto emancipata certo. Per
alcuni versi restò figlia del suo tempo. A esempio rimase con i suoi
pregiudizi: "i toscani non sono buoni come i lombardi, ma non sono così
cattivi come i siciliani" racconta citando il (probabilmente immaginato da
lei o comunque deformato nel ricordo) "risultato dell’indagine condotta dal
governo italiano". E restò attaccata alle sue ferree convinzioni – o
superstizioni come direbbe qualcuno – religiose, con la Madonna che almeno
3 volte interviene direttamente per aiutarla. "Ai miei tempi, in Italia,
succedevano più miracoli che adesso in America perché gli americani non
hanno fede e nemmeno una religione solida". Ma quest’America con poca fede
(e cattivi medici secondo Rosa) è quella che l’ha aiutata a vincere la
paura. E l’ultima pagina del libro racconta il sogno di tornare a Cuggiono
e a Cannobio per dire alla suora arrogante: "Perché hai mandato via quella
povera ragazza che era così gentile con te?". Parole che Rosa Cavalleri
potrebbe dire perché "non oserebbero farmi del male adesso che arrivo
dall’America. Dopo tutto è per questo che amo così tanto l’America. Ecco
cosa ho imparato in America: a non aver paura".

Colpita dalla biografia di Rosa Cavalleri ma anche dalla forza con la quale
raccontava e analizzava gli eventi, Marie Hall Ets (1895-1984) iniziò a
trascrivere subito dopo la prima guerra mondiale tutto ciò che usciva dalla
bocca dell’emigrante italiana. Come ricordava Rudolph Vecoli "fra il 1876 e
il 1926 più di 16 milioni e mezzo di italiani lasciarono il Regno. Di
questi, circa 9 milioni andarono nelle Americhe" eppure di loro pochissimo
si sa: certo perché erano per lo più analfabeti ma anche perché ben pochi
si sono preoccupati di raccogliere le loro storie. Queste memorie di Rosa
Cavalleri sono una positiva eccezione: intanto per il particolare valore
storico e letterario ("memoria vivida e talento affabulatorio" osserva
Vecoli) poi perché i già pochi testi che ci sono arrivati sono quasi tutti
maschili. Ed è una fortuna che lei nella casa d’accoglienza dei Commons
abbia perfezionato l’inglese. "Ma non ho mai imparato a scriverlo. Sono
sempre andata alle lezioni ma ero così stanca e assonnata, dopo aver pulito
e lavato tutto il giorno che mi addormentavo quando loro iniziavano a
scrivere".

Marie Hall Ets

Rosa, vita di un’emigrante italiana

Prefazione di Rudolph J. Vecoli; note introduttive di Helen Barolini

pagg 262, senza indicazione di prezzo

edito da Ecoistituto della valle del Ticino (02 974075,
<mailto:ecoistituto.ticino at libero.it>ecoistituto.ticino at libero.it )

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