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[comunicati_lilliput] IL DRAMMA DELL'IRAQ, TRA GUERRA E DEBITO



Proposte di riflessione e azione politiche e culturali - Numero 2 febbraio 2004

Il Tavolo Campagne, nell'ambito del percorso di riflessione politica
intrapreso tra le organizzazioni che lo compongono, ha elaborato il
seguente documento di approfondimento sulla situazione irakena.
(è possibile richiedere il documento in formato pdf)

Per contatti
Marco Bindi: wymarco42@supereva.it - 338/1628796
Cristiano Lucchi: agenzia@metamorfosi.info - 055/601790 - 339/6675294

Cordiali saluti e buona lettura

Il Tavolo Campagne

Il Tavolo Campagne è costituito da: Sdebitarsi | CTM-Altromercato |
Nigrizia | Campagna per la Riforma della Banca Mondiale | Manitese | AIFO |
Pax Christi | Beati i costruttori di pace | Rete Radié Resch | WWF-Italia |
Associazione Botteghe del Mondo | Bilanci di Giustizia | Innovazioni e Reti
per lo Sviluppo/Ired Nord


SERIE / Proposte di riflessione e azione politiche e culturali - Numero 2
febbraio 2004
a cura del Tavolo Campagne

IL DRAMMA DELL'IRAQ, TRA GUERRA E DEBITO

"Quando Saddam giustiziava qualcuno aveva l'abitudine di farsi ripagare dai
familiari della vittima il costo dei proiettili usati. E' esattamente
quello che stanno chiedendo oggi all'Iraq i paesi creditori che hanno
finanziato Saddam".

Mohammed Kamil, giovane iracheno interpellato da Jubilee Iraq


Il Tavolo Campagne si è sempre espresso contro le guerre e le minacce di
interventi armati ed ha espresso con chiarezza la sua opposizione totale
alle guerre contro l'Afghanistan e l'Iraq. All'interno della Rete Lilliput
tutte le organizzazioni presenti nel Tavolo hanno aderito a campagne e
iniziative contro le guerre e soprattutto hanno partecipato alla
mobilitazione mondiale del 15 febbraio 2003.
Oggi che le peggiori previsioni espresse dal movimento internazionale si
stanno rivelando molto più accurate e mature delle analisi delle potenze
militari presenti in Iraq, nonché completamente errate anche
nell'identificare la presenza di armi di distruzione di massa in Iraq,
rinnoviamo il nostro impegno a chiedere il ritiro delle forze occupanti e
l'accelerazione del passaggio dei poteri ad un governo nazionale
democraticamente eletto dal popolo iracheno senza indebite inteferenze
internazionali.

Ma non possiamo esimerci dal richiamare l'attenzione delle organizzazioni
internazionali, dei governi coinvolti e interessati e di tutte le
organizzazioni del movimento contro la guerra su un ulteriore flagello che
si sta preparando in questi mesi e che infliggerà un colpo terribile alle
speranze di democrazia, libertà e giustizia della popolazione irachena: la
trasformazione in debito estero del futuro governo iracheno dei vecchi
debiti accumulati tramite l'acquisto di armi, il pagamento dei danni di
guerra, nonché il finanziamento della ricostruzione post-bellica.


Iraq: il paese più indebitato al mondo

L'Iraq soffre un debito finanziario "odioso" enorme accumulato da Saddam a
danno del popolo iracheno ed a vantaggio dei produttori di armi e delle
grandi imprese occidentali, che sarà utilizzato dalle potenze occidentali
per condizionare il nuovo Iraq. Allo stesso tempo nessuno parla del
parimenti enorme credito ecologico e sociale del popolo iracheno dovuto ai
governi e alle popolazioni dei paesi occidentali verso cui per decenni il
petrolio iracheno è stato esportato a danno delle condizioni sociali e
ambientali in cui sono vissuti gli iracheni, spesso privi anche
dell'accesso a risorse energetiche essenziali.

Subito dopo la capitolazione del regime di Saddam, si è aperto un ampio
dibattito internazionale sulle stime del debito estero iracheno prodotto da
quasi 25 anni di dittatura, dal momento che questo paese non ha riportato
al Club di Parigi dei principali creditori occidentali ed al Fondo
monetario internazionale regolarmente le cifre del proprio debito
consolidato, come sono tenuti a fare tutti i paesi in via di sviluppo.
Inoltre, non sono stati ancora nemmeno trovati i documenti dei crediti
arrivati in Iraq archiviati nel Ministero delle Finanze a Baghdad, che
potrebbero anche essere andati perduti nel caos del dopoguerra.

Jubilee Iraq è giunta ad una valutazione dei debiti complessivi dell'Iraq
tra i 95 e i 153 miliardi di dollari. Queste cifre escludono gli indennizzi
per danni prodotti dalla prima guerra del Golfo, che dovrebbero raggiungere
la cifra di circa 50 miliardi di dollari. Il Fondo Monetario Internazionale
dichiara che i debiti dell'Iraq ad oggi ammontano a 120-130 miliardi di
dollari, ai quali dovrebbero aggiungersi circa 55 miliardi di dollari di
compensazioni dei danni di guerra. La stima più precisa sembra essere
quella del Center for Strategic and International Studies che nell'aprile
2003 stimava il debito iracheno in 127 miliardi di dollari, di cui 47 di
soli interessi. L'esposizione verso i paesi del Golfo ammonterebbe a 55
miliardi di dollari (con i quali l'Iraq aveva rinegoziato debiti per circa
30 miliardi nel 2002), la Francia vanta crediti tra i 4 e gli 8 miliardi,
gli altri paesi del Club di Parigi esclusa la Russia, crediti per circa 15
miliardi. Altri 4,8 miliardi sono richiesti da banche commerciali e 26,1
miliardi da una galassia di creditori minori, tra cui paesi dell'Europa
centro-orientale, di cui circa 10 miliardi di competenza del governo russo.
Altre pendenze, che potrebbero riguardare alcune decine di miliardi di
dollari, sarebbero collegate a contratti non rispettati con imprese
internazionali, molte delle quali russe, soprattutto nel campo dell'energia
e delle telecomunicazioni.

Per quanto riguarda l'Italia, l'esposizione verso l'Iraq è pari come minimo
a 1,346 miliardi di Euro, controllati dalla SACE, l'assicuratore pubblico
che ha indennizzato con i soldi degli ignari contribuenti italiani
operazioni di imprese e banche italiane che hanno operato in Iraq dopo aver
stipulato una polizza assicurativa contro i rischi politici e commerciali
con il governo italiano. Il quale governo, ad indennizzo effettuato come
prevedibile a causa del mancato pagamento dei contratti da parte della
controparte irachena, ha prelevato il credito privato delle imprese verso
il governo iracheno, trasformandolo in un credito pubblico di tutti i
cittadini italiani verso Saddam. Allo stesso tempo, imprese e governo
italiano hanno presentato richieste di indennizzo per danni di guerra nel
1991 pari a 3,44 miliardi di Euro. Tra le principali imprese e banche che
hanno operato in Iraq negli anni '80 e '90 spiccano la Banca Nazionale del
Lavoro, invischiata nello scandalo Atlanta e del super-cannone per Saddam,
la cui produzione era iniziata nei cantieri di Genova, la Fincantieri,
l'ENI e l'Ansaldo.

Per la Exotix, società di brokeraggio esperta di debiti, il 60% del debito
in essere è probabilmente dovuto a finanziamenti connessi con l'acquisto di
armamenti e comprendono prestiti, spesso a tasso quasi di mercati, concessi
dai governi occidentali membri del Club di Parigi, tra cui l'Italia. Il
resto comprende in gran parte prestiti per l'acquisto di prodotti
commerciali.

Se si sommano tutte le stime dei debiti in essere (incluse le riparazioni
per i danni di guerra) secondo Jubilee si perviene a una cifra intorno ai
200 miliardi di dollari. Il reddito nazionale dell'Iraq nel 2000 (quindi
prima dell'ultima guerra) era di circa 32 miliardi di dollari ed il valore
delle sue esportazioni pari a 15 miliardi di dollari nel 2002, di cui 10 da
risorse petrolifere. Secondo la Banca mondiale il reddito nazionale
dell'Iraq nel 2003 è stato invece soltanto di circa 12-16 miliardi di
dollari, a fronte di un'entrata petrolifera di soli 2 miliardi di dollari.
E' evidente che l'Iraq è di gran lunga il paese più indebitato del mondo
con un debito pari a circa 13-17 volte il suo prodotto interno lordo!
Inoltre, è sempre un paese che ha urgente necessità di aiuti di emergenza
e di interventi di ricostruzione, per i quali le stime variano tra i 100 ed
i 600 miliardi di dollari.


La storia del debito iracheno: i danni inflitti dall'embargo e dalle
compensazioni di guerra

Quando Saddam Hussein finì di consolidare il suo controllo sull'Iraq nel
luglio del 1979, il paese disponeva di riserve per 36 milioni di dollari e
non aveva debiti esteri a lungo termine. Nel settembre del 1980 iniziò la
guerra contro l'Iran, durata 8 anni e costata un milione di morti.
A causa della rivoluzione islamica sviluppatasi in Iran, sia i paesi
occidentali che quelli socialisti, come pure alcuni paesi arabi, sostennero
l'Iraq perché non potevano accettare l'emergere di uno stato non allineato
con i loro interessi nell'area. L'acquisizione di prestiti dall'estero rese
possibile una rilevante spesa militare, mai prima verificatasi, producendo
un permanente squilibrio nella bilancia commerciale del paese, acuito
dall'importazione diretta di numerose merci ed in particolare di sistemi di
arma direttamente dall'occidente. Tra il 1981 ed il 1985, ad esempio, i
redditi derivanti dalle vendite di petrolio ammontavano a 48,4 miliardi di
dollari, mentre la spesa militare era due volte e mezza più grande, in
quanto superava i 120 miliardi di dollari. Alla fine della guerra nel 1988,
quindi, la Export-Import Bank degli Stati Uniti calcolò che l'Iraq era
debitore di circa 27 miliardi di dollari verso i paesi occidentali e di 50
miliardi verso i paesi del Golfo.   

Quando l'Iraq riemerse dalla guerra con l'Iran e cercò di ricostruire la
sua economia, dovette fronteggiare una grave crisi finanziaria, dovuta al
basso prezzo internazionale del petrolio e agli oneri complessivi di
restituzione dei crediti che ammontavano a 3 miliardi di dollari l'anno.
Ciò portò alla richiesta di nuovi prestiti e ad un ulteriore aumento del
debito nei confronti dei paesi occidentali oltre i 50 miliardi di dollari.
Il ruolo oscuro giocato dal Kuwait in sostegno alla politica americana di
controllo al ribasso del prezzo del petrolio ed il rifiuto del piccolo
paese confinante di ridurre il debito iracheno concedendo nuove risorse
fresche, portò Saddam alla scelta sciagurata di invadere il paese
nell'agosto del 1990. L'embargo commerciale e finanziario imposto dall'ONU
sull'Iraq fintantoché non avrebbe lasciato il Kuwait e poi la prima guerra
del golfo nel 1991 che ne seguì non soltanto devastarono l'Iraq
ambientalmente e socialmente mettendo a rischio la capacità di
sopravvivenza del popolo iracheno, ma aumentarono ulteriormente il peso del
debito estero.

Liberato il Kuwait, il Consiglio di Sicurezza avrebbe dovuto revocare o
trasformare le sanzioni, ma al contrario le rinnovò ponendo altre due
condizioni, assai più politiche e più difficili da verificare: il pagamento
dei danni di guerra ed il disarmo non convenzionale del paese (nucleare,
chimico, balistico e biologico). Inoltre, furono istituite tre Commissioni:
la ben nota UNSCOM per l'attuazione e la verifica del disarmo non
convenzionale; quella sulle sanzioni, incaricata dell'attuazione di queste
e di eventuali eccezioni all'embargo, quali ad esempio il programma "Oil
for Food" istituito nel 1996 per l'importazione di merci essenziali per la
popolazione pagate con una parte delle limitate vendite di petrolio
iracheno autorizzate; e la UNCC, la Commissione delle Nazioni Unite per le
compensazioni, cioè i risarcimenti per i danni di guerra, che non ha
precedenti dai tempi del Trattato di Versailles. In sostanza l'Iraq è stato
considerato responsabile per tutte le perdite e i danni economici derivanti
dalla sua invasione del Kuwait dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU.

Ovviamente durante i 13 anni di embargo l'intero servizio sul debito estero
(quote di capitale da restituire, interessi e spese finanziarie) non venne
onorato e quindi gli interessi arretrati si accumularono iniziando a
costituire una parte significativa dell'intero debito.
Inoltre, vanno ricordati gli ampi margini di discrezionalità nella
definizione di merci "essenziali" per la popolazione irachena all'interno
del programma "Oil for Food": in sostanza medicine e alimenti per la
popolazione ridotta alla fame erano in concorrenza con l'uso dei fondi
destinati invece al pagamento dei danni di guerra (in un primo momento il
30%, poi ridotto al 25% nel 2000, del totale delle entrate dalle vendite
petrolifere permesse), all'affitto dell'oleodotto che collega Kirkuk nel
nord dell'Iraq con il terminale turco di Ceyhan sul Mar Mediterraneo per le
esportazioni del greggio (di cui ha benificiato anche l'ENI e l'Italia),
nonché al funzionamento dello stesso ONU in Iraq.

A partire dal 1996 l'Iraq ha venduto petrolio per 64 miliardi di dollari,
ma la popolazione ha ricevuto prodotti essenziali per la sopravvivenza solo
per 27 miliardi di dollari. In effetti, a partire dall'8 aprile del 2003,
cioè da quando Kofi Annan ha ricevuto l'incarico di utilizzare parte dei
fondi delle vendite del petrolio per interventi di emergenza, con la
creazione del Fondo di Sviluppo per l'Iraq che ha sostituito il programma
"Oil for Food", e come ONU ha lanciato appelli per contribuzioni speciali
per gli aiuti umanitari, ben 870 milioni di dollari sono stati pagati al
Kuwait, all'Inghilterra e ad altri paesi per le compensazioni dei danni di
guerra. Successivamente, il 23 giugno 2003, l'ONU ha richiesto 259 milioni
di dollari per sopperire alle esigenze umanitarie mentre negli stessi
giorni la UNCC annunciava la sua intenzione di prelevare altri 600 milioni
di dollari dal programma "Oil for Food" per pagare le compensazioni di
guerra. La contraddizione appare evidente, si toglie con una mano ciò che
si da con l'altra, in palese violazione della Risoluzione del Consiglio di
Sicurezza n.687 dell'aprile del 1991 che affermava che il livello dei
pagamenti dell'Iraq doveva "prendere in considerazione le esigenze della
popolazione irachena, la capacità di pagamento del paese e i fabbisogni
dell'economia dell'Iraq".

Proprio negli ultimi mesi sta prendendo forma l'immenso conto per le
compensazioni per i danni associati alla prima guerra del Golfo presentato
da tutti coloro che sono stati danneggiati dalle iniziative militari di
Saddam Hussein, imprese private, governi ed individui, eccetto gli iracheni
che non hanno alcun diritto a richiedere compensazioni per i danni subiti!
L'ammontare complessivo non è stato ancora determinato perché la
Commissione UNCC ha ricevuto ad oggi ben 2,6 milioni di richieste di
indennizzi per i danni della prima guerra del 1991 per ben 349 miliardi di
dollari, di cui 180 miliardi solo dal Kuwait (80 per danni ambientali), ed
ha completato la verifica soltanto delle richieste presentate da singoli
individui, ma non quelle di governi ed imprese private. Circa il 70 per
cento dei risarcimenti richiesti sono stati ridotti a 46,25 miliardi di
dollari di indennizzi autorizzati, e di questi 18,5 sono già stati pagati
dal programma "Oil for Food", mentre ancora 27,5 miliardi devono essere
sborsati (pari a ben il 250 per cento dell'intero PIL attuale del paese!).
Se si applica lo stesso tasso medio di risarcimento applicato fino ad oggi
ulteriori 23 miliardi di dollari di indennizzi potrebbero essere accordati,
portando quindi i rimborsi ancora da effettuare a circa 50 miliardi di
dollari (pari a circa il 400 per cento del PIL attuale iracheno!).

Inoltre, se la Commissione continua a procedere con le stesse controversie
e lentezze che la hanno caratterizzato fino ad oggi, si stima che l'Iraq
continuerà a pagare compensazioni per la prima guerra del Golfo per almeno
altri venti anni. Comunque, l'UNCC parla di un prelievo di circa 600
milioni di dollari per i pagamenti del 2003, circa il doppio del pagamento
medio effettuato fino ad oggi, e pari a circa il 5 per cento del PIL
iracheno odierno ed al doppio della cifra richiesta dall'ONU nell'ultimo
appello umanitario a favore delle popolazioni irachene.
Tutto ciò senza considerare le nuove possibili riparazioni di guerra da
calcolare per la guerra del 2003, su cui i paesi occupanti ancora non si
pronunciano. Concordiamo con Khaldun al Naqeeb, professore di scienze
politiche all'Università del Kuwait, secondo cui gli accordi attualmente in
vigore garantiscono che "il futuro economico dell'Iraq è stato ipotecato
per gran parte di questo secolo a causa delle centinaia di miliardi di
dollari richiesti per danni di guerra".

La Risoluzione n.1483 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, approvata il 22
maggio 2003, si è espressa in favore della continuazione dei pagamenti,
utilizzando il 5% delle entrate per il petrolio iracheno destinate ad
alimentare il Fondo per lo Sviluppo dell'Iraq, dal momento che è stata
decretata la fine del programma "Oil for Food" a decorrere dal novembre
2003.
Bisogna notare che l'Iraq non ha avuto alcun diritto di appellarsi contro
le decisioni dell'UNCC (il cui consiglio direttivo ha la stessa
composizione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU!), ed a maggior ragione
non lo ha oggi che non ha un governo ed istituzioni democratiche. Soltanto
se il Consiglio di Sicurezza dell'ONU con una sua risoluzione eliminasse
l'obbligo delle riparazioni , l'Iraq sarebbe liberato dalla necessità di
pagare questa cifra enorme, pari a circa un quarto del suo debito estero.
Ironia della sorte, oggi l'Iraq deve anche pagare le stesse attività svolte
dall'UNCC, calcolate in 278 milioni di dollari alla fine del 2002;
decisamente un onorario parecchio salato per i legali della Commissione.


L'ipocrisia dei creditori e del Club di Parigi

Nell'incertezza delle stime esatte del debito estero dell'Iraq, i paesi
creditori, pur richiedendo almeno parzialmente i relativi pagamenti, si
sono presi del tempo per documentare le loro richieste. Ciò può in parte
dipendere dalla segretezza che copre alcuni dei prestiti concessi a Saddam,
ma anche dal fatto che dopo 13 anni di mancato servizio sul debito, possono
in molti casi aver di fatto cancellato l'aspettativa di un pagamento di
questo.

Il Club di Parigi, che comprende i 19 più grandi paesi creditori al mondo,
inclusi tutti quelli del G8, ha finalmente reso note le sue richieste il 10
luglio 2003, tre mesi dopo la caduta di Baghdad. Tuttavia non è stato in
grado di precisare l'ammontare degli interessi e degli arretrati, ma
soltanto le richieste relative al valore del capitale prestato all'inizio,
cioè 21 miliardi di dollari. Si riteneva che il Fondo Monetario
Internazionale avrebbe fornito un rapporto sulle richieste dei paesi
creditori non appartenenti al Club, ma ciò non si è ancora verificato. Il
Presidente del Club di Parigi, Jean Pierre Jouyet, ha dichiarato che "Il
Club di Parigi definirà un accordo con l'Iraq non appena nel paese saranno
in funzione delle autorità locali, quando queste saranno riconosciute a
livello internazionale e quando il Fondo monetario avrà valutato a quale
livello sarà necessario alleggerire il debito. Più presto le autorità
locali saranno in attività, più presto noi potremo fare tutto ciò" ed ha
aggiunto che spera che ciò avvenga entro il 2004. Un compito alquanto arduo
per lo stesso Fondo monetario, dal momento che l'Iraq risulta essere il
paese più indebitato al mondo.

In realtà gli Stati Uniti erano riusciti già a fine maggio al vertice del
G8 di Evian a definire a sorpresa una nuova politica per il Club di Parigi,
al fine di preparare la strada ad una cancellazione del debito ad hoc nel
caso dell'Iraq per permettere subito alle imprese ed agli investitori
americani di operare nella ricostruzione del paese sulla base di nuovi
prestiti e potenzialmente nuovi debiti. In sostanza il pragmatismo Usa ha
portato alla definizione di nuove regole per il Club di Parigi, i
cosiddetti Evian Terms, dopo venti anni di rigidissima applicazione
neoliberista dei precetti di semplice ristrutturazione del debito estero
dei paesi in via di sviluppo.
Con il caso Iraq il Club di Parigi si vede la possibilità di effettuare
cancellazioni dei crediti bilaterali dei paesi più ricchi, di operare
queste per qualsiasi tipo di credito e non solo quelli che risalgono a
prima dell'inizio dei processi di ristrutturazione del debito di un paese
presso il Club, ma soprattutto prevedono un trattamento ad hoc caso per
caso, senza regole precise su come effettuare le cancellazioni del debito.
Sarebbe da chiedersi se un tale trattamento sarà riservato anche ad altri
paesi a basso reddito pesantemente indebitati, oppure soltanto ai governi
amici degli Stati Uniti o sconfitti con guerre preventive unilaterali.

Secondo una fonte molto vicina al Club di Parigi, il gruppo di paesi membri
non ha ancora deciso la misura della cancellazione del debito dell'Iraq,
anche se è improbabile che raggiunga il livello del 90% di cancellazione
concesso sulla carta ai paesi più poveri del pianeta, come quelli
dell'Africa sub-sahariana.  Lo scenario più probabile contemplerebbe una
cancellazione pari al 70% del valore dei debiti in essere.
La società finanziaria Exotix prevede una riduzione compresa tra 51,5 e
57,3 miliardi di dollari, quindi pari ad un quarto del debito complessivo
incluse le riparazioni di guerra, con il risultato finale che invece di non
pagare nulla, l'Iraq dovrà pagare fino a 5 miliardi di dollari di servizio
sul debito ogni anno. L'Iraq, infatti, potrebbe probabilmente pagare solo
gli interessi dei primi 4 o 5 anni, quindi con pagamenti dell'ordine di
2,25 miliardi di dollari all'anno, ma dopo cinque anni, potrebbero essere
aggiunti alle restituzioni dei capitali, altri pagamenti per interessi per
circa 2,75 miliardi di dollari all'anno, portando i versamenti annui
complessivi dell'Iraq a poco più di 5 miliardi in totale. Una cifra che gli
analisti finanziari, e potenzialmente anche il Fondo monetario
internazionale, troverebbe sostenibile: praticamente poco meno della metà
del PIL iracheno di oggi!

Allo stesso tempo, una riduzione del debito verso i governi porterebbe
paradossalmente con sé un aumento del "prezzo" del debito dell'Iraq:
secondo l'agenzia Reuters "la cattura di Saddam ha costituito una nuova
spinta per i paesi creditori verso la cancellazioni di alcuni dei miliardi
di dollari che l'Iraq deve restituire e questo processo potrebbe aumentare
il valore di alcuni crediti di privati anche in misura superiore al 50%."
Può sembrare una stranezza che il valore del debito possa aumentare quando
viene annunciata una cancellazione, ma la ragione è che i creditori finora
avevano poche speranze di ottenere dei pagamenti, mentre ora sembra che il
Club di Parigi abbia raggiunto una posizione comune che obbligherà l'Iraq a
pagare, anche se in misura ridotta, il suo debito probabilmente per alcuni
decenni.

Nel suo tour europeo lo scorso dicembre, l'inviato americano James Baker è
riuscito a strappare l'impegno di Blair, Schroeder e Chirac ad una
sostanziale riduzione del debito dell'Iraq nell'ambito del Club di Parigi,
con un accordo sul fatto che avere il nuovo governo in funzione non
rappresenta una condizione preliminare per muoversi verso una
ristrutturazione del debito. Dopo la visita di Baker il 17 dicembre 2003,
anche l'Italia si è dichiarata d'accordo con gli Stati Uniti sulla
necessità di una sostanziale riduzione del debito dell'Iraq attraverso il
Club di Parigi ed il comunicato emesso dall'ufficio della Presidenza del
Consiglio per l'occasione ha sottolineato che "Berlusconi e Baker sono
d'accordo sull'esigenza di approvare un accordo insieme agli altri Stati
creditori per ridurre i debiti causati da un regime dittatoriale che ha
ridotto l'Iraq alla povertà".
Successivamente anche Putin ha dato la sua disponibilità a Baker a
pervenire ad una qualche riduzione del debito russo verso l'Iraq,
nonostante questo possa ammontare ad una cifra importante per le casse
della Russia. Ed infine anche il Giappone, ha confermato il suo impegno ad
una sostanziale cancellazione, nonché lo stesso Kuwait lo scorso gennaio si
è impegnato ad una riduzione di ben 16 miliardi di dollari.

Ma dietro il presunto altruismo dei paesi creditori nel loro impegno ad una
significativa cancellazione del debito iracheno, concordiamo con Jubilee
Iraq nel credere che la verità sia ben diversa: i paesi creditori
rastrelleranno in ogni caso pagamenti non dovuti dalla popolazione irachena
per dei prestiti che la hanno pesantemente danneggiata in passato. Molti
degli iracheni credono che sono i creditori che dovrebbero cercare di far
dimenticare al popolo iracheno il sostegno finanziario che essi hanno dato
a Saddam. Sarebbe, invece, necessario avere un giusto processo di tipo
arbitrale che esamini le causali dei prestiti che hanno beneficiato Saddam
e non la popolazione dell'Iraq, visto che i creditori oggi possono
perseguire lo stesso Saddam per questi debiti.


Il business della ricostruzione: privatizzazioni e nuovo debito imposti
agli iracheni

In molti hanno tentato di fare i conti sui costi reali e complessivi della
seconda guerra contro l'Iraq, ma le stime variano moltissimo, andando dai
100 miliardi di dollari per un conflitto di breve durata agli oltre 1400
per una guerra prolungata. Gli Stati Uniti hanno finanziato la guerra in
Iraq prima con 75 miliardi di dollari (addizionali rispetto al bilancio
normale per la difesa) e poi con 87 miliardi, di cui 20 per la
ricostruzione in forma di donazioni. Il Regno Unito ha investito nella
guerra già due miliardi di sterline con possibili ulteriori quattro
miliardi da stanziare a breve.

Allo stesso tempo già dalla fine del 2003, con una guerra di fatto ancora
in corso in Iraq, si è iniziato a discutere di come finanziarie il grande
business della ricostruzione. In occasione della prima Conferenza dei paesi
donatori del 23 ottobre scorso a Madrid, la Banca Mondiale ha presentato
una prima stima del fabbisogno di risorse per la ricostruzione dell'Iraq.
Nei prossimi quattro anni saranno necessari almeno 55 miliardi di dollari,
di cui 17,4 nel 2004. 36 miliardi sarebbero destinati alla ricostruzione in
settori prioritari come sanità, scuola, infrastrutture, risorse idriche,
agricoltura, mentre l'Autorità provvisoria irachena, cioè le forze della
coalizione guidate dagli Stati Uniti, dovrebbe disporre di 19 miliardi di
dollari per garantire la sicurezza e la produzione di petrolio.

Intanto è importante ricordare che persino in Afghanistan, dove la guerra è
stata da tempo dichiarata "terminata", secondo una recente denuncia
dell'ONU la ricostruzione dopo due anni non è di fatto ancora iniziata.
Mancano in particolare i fondi previsti per il processo di
democratizzazione e quindi non è stato ancora possibile attuare il processo
di registrazione degli elettori, elemento essenziale per far svolgere la
consultazione elettorale nel giugno 2004. I paesi donatori hanno erogato in
complesso solo 23,5 miliardi di dollari rispetto ai 78,2 previsti dal piano
di interventi.

Ritornando alla ricostruzione in Iraq, a fronte di un impegno americano di
20 milioni di dollari già approvati dal Congresso, dell'impegno della Banca
mondiale di versare fino a 5 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni e
del Fondo monetario di fornire fino a 4,25 miliardi, ben pochi sono stati
gli impegni degli altri alleati della coalizione: Giappone 1,5 miliardi a
breve, più altri 3,5 in prestiti nel periodo 2005-2007; Regno Unito 470
milioni di dollari già spesi, altri 438 entro due anni; Spagna 300 milioni
fino al 2007; Canada  220 milioni, ed Unione europea con soli 235 milioni
per il 2004. L'aiuto italiano dovrebbe essere di 236 milioni di dollari, la
Polonia ha annunciato che non potrà largheggiare, Francia, Germania e
Russia (non rappresentate a Madrid, con l'ultima, di contro, disposta a
sostenere le sue imprese direttamente con quattro miliardi) si limiteranno
a quanto dato in sede europea ed a qualche aiuto umanitario e di emergenza
non collegato agli altri interventi per la ricostruzione. Il totale di 33
miliardi di dollari di impegni dovrebbe confluire in un Fondo Multilaterale
a cui parteciperanno 58 paesi e 19 organizzazioni internazionali, che
probabilmente sarà gestito dalla Banca mondiale e dall'ONU.

Attualmente però risulta ancora poco chiaro quanti di questi soldi saranno
dati a prestito e quanti a dono, nonostante si parli di una quota di circa
il 50 per cento di prestiti che rischiano di generare subito nuovo debito.
Inoltre, non è chiaro se una parte dei fondi confluiranno anche nel Fondo
per lo Sviluppo dell'Iraq dell'autorità Provvisoria della Coalizione,
gestito da un comitato di 21 membri, con 11 con diritto di voto, di cui
sette americani, un inglese ed un australiano. Al riguardo va segnalato che
l'avanzo di cassa del programma "Oil for Food", sotto il controllo delle
Nazioni Unite fino alla sua dismissione lo scorso novembre, è stato
devoluto al Fondo per lo Sviluppo. Secondo Christian Aid, si tratta di ben
3,5 miliardi di dollari ricavati dalla vendita di petrolio prima della
guerra, di 3 miliardi relativi alle vendite dopo la fine della guerra, più
2,5 miliardi provenienti dalla confisca di fondi iracheni all'estero: in
totale quindi ben 9 miliardi di dollari passati dall'ONU sotto il controllo
anglo-americano!
In sostanza, un'appropriazione indebita di fondi multilaterali, che
riteniamo inaccettabile e lesiva dello stesso mandato delle istituzioni
internazionali.

Nel frattempo la guerra in Iraq ha scatenato l'appetito di numerose imprese
occidentali per quanto riguarda l'acquisizione di commesse per forniture
agli eserciti, gli appalti per i lavori di ricostruzione e l'acquisizione
del controllo su materie prime e servizi del paese nel lungo periodo.
Alcuni esperti indipendenti calcolano che di quattro miliardi di dollari al
mese necessari per mantenere le truppe di occupazione nel paese, almeno un
terzo viene appaltato a soggetti privati. Inoltre, dei 2,6 miliardi di
dollari accordati dall'amministrazione Bush nell'immediata caduta del
regime di Saddam solo 800 milioni sono stati destinati all'emergenza
umanitaria e il resto è andato alle prime opere di ricostruzione di
infrastrutture, di cui un terzo della cifra alla Kellog, Brown & Root,
filiale inglese della famosa Hulliburton vicina al vice-presidente
americano Cheney e coinvolta in numerosi scandali di corruzione in Iraq e
nel mondo.

Infatti, molte imprese americane ed inglesi, specialmente nel settore
dell'energia, mirano ad utilizzare proprio il processo di ricostruzione in
questi mesi per occupare il futuro mercato iracheno che sarà ampio e
cruciale. BP, Shell e Exxon Mobil, tre delle quattro imprese straniere (la
quarta era la francese Total-Elf-Fina, oggi marginalizzata) che
partecipavano al capitale della Iraq Petroleum Company prima della sua
nazionalizzazione nel 1973, vorrebbero avere il monopolio del petrolio
iracheno e sottrarlo alle decisioni dell'OPEC, acquisendo così il controllo
di una fonte dove il barile costa 5 dollari rispetto ai 15 nel Texas. Si è
valutato un fabbisogno di almeno 5 miliardi di dollari di investimento per
riportare il settore petrolifero almeno alle condizioni di funzionamento
analoghe a quelle precedenti la prima guerra del Golfo, quando il paese
riusciva a produrre 3,5 milioni di barili al giorno - oggi ne produce al
massimo 2 milioni di barili. Molti sono quindi gli interventi da
effettuare, tra cui la manutenzione straordinaria degli impianti di
pompaggio, l'ammodernamento di raffinerie e terminali, e la riparazione di
oleodotti, etc. Se invece si guarda ad una prospettiva più a lungo termine,
cioè se si considera l'obiettivo di aumentare di 4-4,5 milioni di barili al
giorno l'estrazione complessiva del paese, servirebbero da 30 a 50 miliardi
di dollari all'anno. In altre parole, non solo le spese sarebbero ingenti,
ma per far ritornare l'Iraq uno dei quattro paesi maggiori produttori di
petrolio al mondo ben pochi introiti potrebbero essere destinati ad altri
interventi, tipo la ricostruzione e le spese di natura sociale.
Tutto questo, mentre oggi la popolazione irachena vede l'accesso ai
prodotti petroliferi razionalizzato dalle forze di occupazione, che sono
molto più interessate all'export che a soddisfare il fabbisogno locale di
chi avrebbe il diritto di disporre delle risorse energetiche del paese a
proprio piacimento.

Inoltre, nel dicembre 2003 sono stati definiti dall'amministrazione Bush i
criteri che saranno seguiti nell'assegnazione degli appalti in Iraq: "E'
necessario, per la protezione degli essenziali interessi di sicurezza degli
Stati Uniti, limitare la competizione per i contratti primari a imprese
degli Stati Uniti, dell'Iraq, dei partner della coalizione e di paesi che
contribuiscono alla forza schierata in Iraq". Per i 18,6 miliardi di
dollari disponibili, la direttiva elenca 63 paesi eleggibili per
partecipare alle gare per i 26 contratti inerenti la ricostruzione delle
infrastrutture, il ripristino dei servizi petroliferi e l'equipaggiamento
del nuovo esercito. Subito la decisione ha provocato le reazioni dei nove
paesi dell'UE esclusi, tra cui Francia e Germania, nonché del Canada, che
poi, poiché aveva contribuito all'intervento in Afghanistan, è stato
reinsenrito in seconda battuta.

L'Italia, ammessa nel club ristretto degli investitori in Iraq
dall'amministrazione Bush, cerca anch'essa di ritagliare uno spazio
significativo per le proprie imprese nella spartizione dei 18, 6 miliardi
di dollari che si prevede saranno spesi in Iraq a breve. In corsa nelle
gare per i maggiori contratti sarebbero la Magrini Elettronica, la Nuovo
Pignone, la FATA, nonché progetti specifici sono già stati presentati alla
Amministrazione Provvisoria della Coalizione da tre società del gruppo
Finmeccanica: Ansaldo Energia, per ristrutturare la centrale di Bajii, la
Elsag per creare una smart card per controllare la diffusione delle derrate
alimentari, e la Alenia Marconi per rifare il sistema radar dell'aereoporto
di Bagdad.

Allo stesso tempo, tutti questi investimenti avverranno in un contesto che
l'Economist ha definito come "il sogno di un capitalista". Il 19 settembre
2003 il reggente protempore Bremer ha emanato il decreto 39 con il quale ha
stabilito che duecento imprese pubbliche irachene sarebbero state
privatizzate, che le società straniere possono detenere il 100% di banche,
miniere e fabbriche irachene ed infine che queste aziende possono
trasferire tutti i loro utili fuori dall'Iraq senza alcun vincolo. Secondo
diversi osservatori il decreto sarebbe in violazione dei Regolamenti
dell'Aja, in particolare dove dicono che una potenza occupante "sarà
considerata solo amministratrice e usufruttuaria degli edifici pubblici,
del patrimonio immobiliare, delle foreste e dei fondi agricoli, situati nel
paese occupato." L'usufrutto è un contratto che garantisce ad una parte il
diritto di trarre beneficio da un bene altrui "senza alterarne la
sostanza". Quindi, lo stesso controllo seguente ad una conquista
provvisoria di guerra non darebbe diritto alla vendita per sempre dei beni
del paese occupato. Già in una nota interna del 26 marzo, infatti, il
procuratore generale britannico Lord Peter Goldsmith avvertiva il suo
premier Tony Blair che "l'imposizione di importanti riforme economiche
strutturali non sarebbe autorizzato dal diritto internazionale".

Crediamo che le regole "neocoloniali" emanate da Bremer violino la
convenzione internazionale che regola il comportamento delle forze
occupanti, i Regolamenti dell'Aja del 1907 (che come le Convenzioni di
Ginevra del 1949 sono stati ratificati dagli Stati Uniti) ed il codice di
guerra dello stesso esercito americano. Una privatizzazione degli enti
pubblici iracheni senza il consenso democratico della popolazione
pregiudicherà gravemente le possibilità di sviluppo del popolo iracheno
quando un giorno avrà nuovamente un governo democratico e rappresentativo.

Ancora più vergognoso risulta l'accordo siglato proprio a Roma lo scorso 5
dicembre, alla presenza della Trade Bank of Iraq e dell'Autorità
Provvisoria della Coalizione, tra le agenzie di credito all'esportazione di
16 paesi, tra cui l'italiana SACE, che autorizza la copertura assicurativa
pubblica per più di 2 miliardi di dollari agli investimenti occidentali in
Iraq nei primi sei mesi del 2004. Ben 500 milioni di dollari la copertura
proposta dalla Eximbank, mentre 250 milioni di * è l'impegno della SACE
nell'ambito di un plafond di un miliardo già autorizzato dal CIPE nel
settembre 2003. Di fronte ad un'assenza di prospettiva credibile per
l'instaurazione di un governo democratico in Iraq ed il trasferimento dei
pieni poteri a questo, la decisione è stata soltanto politica visto che in
passato in analoghe circostanze di conflitti militari le agenzie di credito
all'esportazione hanno sospeso tutti i loro interventi. Ancora più
sorprendente che l'Italia abbia ospitato un tale incontro in qualità di
presidente della UE, a fronte di un assenza politica di importanti paesi
membri dell'Unione quali la Francia.

Sanpaolo IMI risulta l'unica banca italiana partecipante al consorzio
internazionale guidato dalla JP Morgan ed avrà il ruolo di banca agente per
lo svolgimento delle attività connesse alla gestione degli strumenti
commerciali che la Trade Bank of Iraq emetterà a favore degli esportatori
italiani e per cui verrà chiesta un'assicurazione pubblica alla SACE contro
i rischi politici e commerciali associati alle operazioni. Comunque, i
governi delle compagnie assicurate nei propri investimenti in Iraq saranno
sicuri di recuperare eventuali indennizzi da pagare a queste, in quanto
l'accordo prevederebbe che il Fondo di Sviluppo per l'Iraq, alimentato con
i proventi del petrolio esportato e originariamente pensato per lo sviluppo
della popolazione irachena, servirà per ripagare appunto i governi
occidentali, Italia inclusa. In sostanza, un'impresa petrolifera italiana
che investe oggi in Iraq non solo sarà assicurata dallo stato ed i suoi
profitti saranno da questo garantiti, ma lo stesso stato, non volendo
rimetterci con eventuali indennizzi alle imprese, si arroga il diritto di
farsi ripagare con i proventi dell'export petrolifero, realizzato magari
dalla stessa compagnia, che almeno in parte dovrebbero rimanere in Iraq.

Crediamo che questo ennesimo accordo capestro dimostri in maniera lampante
che saranno le multinazionali di alcuni paesi occidentali a beneficiare del
Fondo per lo sviluppo iracheno e non gli iracheni. In questo modo si creano
meccanismi per generare nuovo debito che dovrà essere ripagato in ogni caso
direttamente dalla popolazione irachena, anche se non ha ancora un governo
democratico e non ha autorizzato democraticamente tali accordi. Una vera e
propria ciliegina sulla torta a stelle e strisce, nonché tricolore,
dell'occupazione militare.


Conclusioni: tutto il debito è odioso e va cancellato

Le esperienze del passato mostrano che è improbabile che si possa risolvere
la crisi debitoria dell'Iraq sulla base dell'altruismo dei paesi creditori.
I paesi del G8 hanno finora cancellato solo un terzo dei 100 miliardi di
dollari di alleviamento del debito che, in risposta alla campagna di
Jubilee, avevano promesso al vertice di Colonia del 1999 per i 41 paesi più
poveri e più fortemente indebitati. Pur essendo un impegno limitato, era
sottoposto alla condizione che sarebbe stato concesso solo ai paesi
disposti a sottomettersi ai devastanti programmi di aggiustamento
strutturale imposti dal Fondo monetario internazionale.

Il caso dell'Iraq, di contro, ha riportato il dibatito internazionale al
concetto di debito "odioso", ossia quello contratto da un dittatore o da un
governo militare che hanno utilizzato i fondi per scopi militari o di
repressione interna, e che caduti tali regimi, dovrebbe essere pagato da
popolazioni che non hanno tratto alcun beneficio dai prestiti e che anzi
hanno subito tutte le conseguenze di un regime antidemocratico e
repressivo. La stragrande maggioranza dei debiti di Saddam ricadono in
questa categoria di prestiti poiché egli deteneva il potere nel periodo in
cui il popolo iracheno era decimato e impoverito mentre cifre rilevanti
venivano dissipate dal regime Baath e spese per l'oppressione esercitata
dai militari e dallo Stato. Allo stesso tempo tutti i creditori erano
perfettamente a conoscenza dell'uso che veniva fatto delle cifre da essi
stessi concesse. Al riguardo si pensi soltanto al fatto che da quando gli
Usa hanno intensificato la caccia ai fondi depositati all'estero dal
dittatore negli ultimi mesi, è emerso che 1,7 miliardi di dollari erano
depositati in 17 filiali di banche con sede negli Stati Uniti stessi e
rappresentano profitti illeciti degli ultimi anni derivanti da vendite
illegali di petrolio esportato, nonostante l'embargo, verso i paesi
limitrofi ed i mercati occidentali.

Come ammesso dal finanziere George Soros, la cancellazione del debito
odioso "potrebbe costituire un segnale per il mercato finanziario che è
pericoloso entrare in contatto e fare accordi con i regimi oppressivi",
andando così oltre la specificità del caso Iraq. Per rendere questo
possibile è necessaria l'applicazione dell'intera dottrina dell'arbitrato
internazionale che prevede il ricorso ad un
 "tribunale di arbitrato internazionale". Vi sono molti precedenti
internazionali che possono guidare la costituzione di un tale tribunale,
che sarebbe composto in parti uguali, da giuristi iracheni, rappresentanti
dei creditori e membri indipendenti agenti da arbitri. Ogni creditore che
intende ottenere dalla popolazione irachena i pagamenti relativi ad un
prestito in essere ottenuto da Saddam, dovrebbe sottoporre una
documentazione che dimostri al tribunale che il prestito è stato utile per
la popolazione. Il Tribunale discuterebbe e giungerebbe ad una conclusione
con sedute pubbliche e dovrebbe autorizzare i pagamenti solo in presenza di
crediti "legittimi". Una procedura di questo tipo ridurrebbe in misura
molto rilevante il debito iracheno, stabilirebbe un chiaro precedente anche
per altri paesi che si trovano in condizioni analoghe e scoraggerebbe i
creditori dal finanziare i Saddam del futuro.

Per quel che concerne le riparazioni per i danni della prima guerra del
Golfo, ed eventualmente per l'ultima guerra, andrebbe applicato lo stesso
principio, ossia che quindi anche questi debiti "odiosi" dovrebbero essere
cancellati in quanto il popolo iracheno non può essere considerato
responsabile. Al riguardo si ricordi l'importante precedente della
cancellazione dei danni di guerra che la Germania avrebbe dovuto pagare a
numerosi paesi dopo la seconda guerra mondiale.

Altri organismi da tempo impegnati nel sostegno della popolazione irachena
hanno avanzato delle richieste rivolte ed al governo italiano ed alla
comunità internazionale, in particolare "Un Ponte Per…"; oltre a impegnarci
a sostenerle in tutte le sedi riteniamo opportuno ampliare e precisare
alcune di tali richieste in quanto il caso dell'Iraq ci sembra purtroppo
fortemente rappresentativo dei meccanismi economici e finanziari in atto
oggi a livello internazionale.


Chiediamo, quindi, in solidarietà con la popolazione dell'Iraq e ribadendo
la richiesta di ritiro delle forze di occupazione della coalizione dal
territorio iracheno, che:

- i cittadini iracheni non siano considerati titolari di alcuno dei debiti
prodotti dal regime di Saddam senza il loro consenso e dai quali non hanno
affatto beneficiato, in quanto anch'essi vittime delle guerre contro l'Iran
ed il Kuwait, nonché dei ripetuti bombardamenti occidentali;

- tutti gli individui, compagnie e governi creditori non chiedano il
pagamento del debito alla popolazione irachena. Qualora non vogliano
procedere a questa cancellazione o siano in grado di provare che i loro
prestiti abbiano direttamente beneficiato gli iracheni non essendo quindi
"odiosi", allora dovranno presentare un caso con tutti i giustificativi ad
un collegio arbitrale indipendente e pubblico, soltanto quando il popolo
iracheno avrà eletto il proprio governo rappresentativo;

- l'utilizzazione immediata di tutte le risorse del Fondo per lo Sviluppo
dell'Iraq, incluso l'avanzo di cassa del programma "Oil for Food", in
maniera trasparente a vantaggio diretto della popolazione irachena per far
fronte all'emergenza umanitaria nel paese;

- il Club di Parigi e tutte le altre istituzioni internazionali rispettino
il riconoscimento del debito odioso iracheno e l'eventuale processo
arbitrale, procedendo ad un riscadenzamento del pagamento dell'eventuale
debito iracheno residuo soltanto alla fine del processo di cancellazione;

- tutti gli aiuti pubblici governativi ed internazionali per la
ricostruzione in Iraq avvengano sotto forma di doni e di prestiti a fondo
perduto, i prestiti privati siano a tassi facilitati ed inoltre le
operazioni assicurate dai governi occidentali non siano controassicurate
dal Fondo per lo Sviluppo dell'Iraq o dal futuro governo sovrano dell'Iraq;

- l'Ordine 39 emesso dall'Autorità Provvisoria della Coalizione per la
privatizzazione di quasi tutti gli enti pubblici iracheni e la
facilitazione degli investimenti esteri, in particolare nel settore
dell'energia, sia immediatamente revocato, così come tutte le altre
ordinanze che rischiano di intaccare il patrimonio pubblico degli iracheni;

-  la popolazione irachena abbia immediatamente la possibilità di eleggere
un organo democratico responsabile della vendita del petrolio e della
gestione del Fondo per lo Sviluppo dell'Iraq;

- l'istituzione di una Commissione indipendente in ambito ONU nominata
dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e quindi sottratta al
controllo diretto del Consiglio di Sicurezza, che abbia il mandato di
valutare le richieste irachene di compensazioni per danni di guerra subiti
dal 1980 in poi; un fondo ad hoc per le compensazioni dovrà essere
costituito con le risorse finanziarie sottratte illegalmente dal passato
regime e da contributi della comunità internazionale, a partire dai paesi
della Coalizione che ha occupato l'Iraq in violazione del diritto
internazionale.