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La nonviolenza e' in cammino. 743



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 743 del 28 novembre 2003

Sommario di questo numero:
1. Maria G. Di Rienzo: la resistenza nonviolenta delle donne tibetane
2. Barbara Bellini e Luciano Benini: ci abboniamo ad "Azione nonviolenta"
perche'...
3. Lidia Menapace: alcune considerazioni su terrorismo e resistenza
4. Giobbe Santabarbara: ancora quattro note sul terrorismo
5. Giovanni Scotto: la trasformazione costruttiva dei conflitti
6. Il terzo salone dell'editoria di pace a Venezia
7. Letture: Claudio Bazzocchi, La balcanizzazione dello sviluppo
8. Letture: Pascal D'Angelo, Son of Italy
9. Riletture: AA. VV., Critica della tolleranza
10. Riletture: AA. VV., Saggi sulla tolleranza
11. Riletture: Laura Boella, Cuori pensanti
12. Riletture: Laura Boella, Le imperdonabili
13. Riletture: Franca Ongaro Basaglia, Salute/malattia
14. Riletture: Franca Ongaro Basaglia, Una voce
15. Riletture: Silvia Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi
16. Riletture: Silvia Vegetti Finzi (a cura di), Psicoanalisi al femminile
17. La "Carta" del Movimento Nonviolento
18. Per saperne di piu'

1. ESPERIENZE. MARIA G. DI RIENZO: LA RESISTENZA NONVIOLENTA DELLE DONNE
TIBETANE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per
questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto
rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento
di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel
movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta'
e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza]

Il movimento delle donne tibetane per la liberta' ha una storia che parte
dal 12 marzo 1959, in cui migliaia di donne si riunirono a Lhasa per
protestare contro l'occupazione del proprio paese: la risposta fu
violentissima, e molte di esse furono uccise a bastonate dopo
l'incarceramento.
Phuntsok Nyidron, portavoce del movimento ed attivista per i diritti umani,
e' nata nel 1968 a Phenpo, nel distretto di Gachoe, ad ovest della capitale
del Tibet, Lhasa. Nel 1986 entro' nel monastero buddista di Mechungri. Fu
la' che incontro' le squadre cinesi per la "rieducazione" politica delle
monache (una pratica ormai comune in Tibet) con cui invece di subire
passivamente l'"insegnamento" si confronto', pregando i "rieducatori" di non
interferire nelle attivita' religiose. Parlo' loro, inoltre, della liberta'
di parola e di movimento, e critico' la politica repressiva cinese.
Il 14 ottobre 1989, Phuntsok Nyidron guido' una manifestazione pacifica,
nella citta' vecchia di Lhasa, che chiedeva la fine dell'occupazione cinese
del Tibet: la dimostrazione ebbe luogo tre giorni dopo il conferimento del
Nobel per la pace al Dalai Lama. Quattordici monache vennero arrestate per
aver manifestato pubblicamente, e fra loro Phuntsok Nyidron, la cui sentenza
fu di 9 anni di carcere.
Durante l'arresto fu presa a calci e bastonata; piu' tardi subi' scosse
elettriche sulle mani, le spalle, i seni, la lingua ed il viso.
L'interrogatorio fu effettuato con lei sospesa al soffitto, tramite le mani
incatenate dietro la schiena, per quindici minuti, mentre veniva colpita con
una sbarra di ferro: lo scopo della tortura era farle firmare una
confessione preconfezionata, che la monaca rifiuto'.
L'8 ottobre 1993, Phuntok canto' una canzone in carcere assieme ad altre 13
monache, un canto dedicato all'indipendenza del Tibet e al Dalai Lama.
Questo canto, assieme ad altri, fu registrato su nastro e fatto uscire
clandestinamente di prigione: su di esso, le donne annunciavano ciascuna il
proprio nome, e poi dedicavano una poesia o una canzone ai loro familiari,
amici o sostenitori. Questo frutto' a Phuntok la sentenza ad altri 8 anni di
carcere, nella prigione di Drapchi, in cui e' ormai la prigioniera
"anziana".
Dal carcere non giungono buone notizie: la sua salute si sta deteriorando,
ha problemi allo stomaco ed ai reni, e sopporta intensi dolori. Se nel 2006
sara' ancora viva, e la rilasceranno, questa giovane donna avra' passato 17
anni in carcere: l'imprigionamento piu' lungo di un prigioniero politico in
Tibet.
Inoltre, le violazioni dei diritti umani delle donne in Tibet vanno
aumentando proporzionalmente alla loro partecipazione al dissenso: esse
costituiscono la maggioranza dei partecipanti alle dimostrazioni pacifiche e
nonviolente, e le monache buddiste giocano un ruolo di primo piano in queste
proteste.
Se volete far giungere loro le vostre parole, questi sono i recapiti:
Tibetan Women's Association, Central Executive Committee, Bhagsunath Road,
P. O. Mcleod Ganj, Dharamsala - 176219, Kangra (H. P.) India; tel.
91-1892-221527, 221198, fax: 91-1892-221528, e-mail: twa@del2.vsnl.net.in

2. MEMORIA E PROPOSTA. BARBARA BELLINI E LUCIANO BENINI: CI ABBONIAMO AD
"AZIONE NONVIOLENTA" PERCHE'...
["Azione nonviolenta" e' la rivista mensile del Movimento Nonviolento
fondata da Aldo Capitini nel 1964, e costituisce un punto di riferimento per
tutte le persone amiche della nonviolenza. La sede della redazione e' in via
Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail:
azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org; l'abbonamento annuo e'
di 25 euro da versare sul conto corrente postale n. 10250363, oppure tramite
bonifico bancario o assegno al conto corrente bancario n. 18745455 presso
BancoPosta, succursale 7, agenzia di Piazza Bacanal, Verona, ABI 07601, CAB
11700, intestato ad "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona,
specificando nella causale: abbonamento ad "Azione nonviolenta".
Avvicinandosi la fine dell'anno, abbiamo chiesto ad alcuni autorevoli amici
della nonviolenza di motivare l'invito - che ci permettiamo di rivolgere a
tutti i lettori del nostro notiziario - a  rinnovare (o sottoscrivere per la
prima volta) l'abbonamento ad "Azione nonviolenta". Oggi rispondono Barbara
Bellini e Luciano Benini (per contatti: barbara.bellini4@virgilio.it e
luciano.benini@tin.it). Barbara Bellini e' impegnata nei movimenti
nonviolenti ed in particolare nel Mir di Fano, ha preso parte a varie
esperienze di promozione del dialogo e della solidarieta'. Luciano Benini,
gia' presidente del Movimento Internazionale della Riconciliazione, da
sempre impegnato in molte attivita' e iniziative di pace e di solidarieta',
e' una delle persone piu' prestigiose dei movimenti nonviolenti in Italia]

Siamo abbonati da piu' di venti anni ad "Azione nonviolenta", ed a fine anno
rinnoveremo l'abbonamento. Perche' lo faremo? Ci verrebbe da dire: leggete a
caso uno dei numeri di "Azione nonviolenta" degli ultimi venti anni, e
capirete perche'.
"Azione nonviolenta" e' di fatto la rivista dei nonviolenti italiani, di
coloro che da piu' di quaranta anni propongono una alternativa politica,
rimasta l'unica ad essere credibile e a non aver causato le grandi tragedie
del XX secolo e di questo inizio del terzo millennio. Comunismo, capitalismo
e le altre ideologie del XX secolo hanno dietro di loro una scia
interminabile di sangue: la nonviolenza, invece, non ha tragedia da
nascondere ne' abiure da fare. Nel suo piccolo "Azione nonviolenta" e' da 40
anni al tempo stesso testimone e promotrice di quanto di buono e di
alternativo si propone sulla scena locale e internazionale, e tutto questo
senza padroni ne' padrini politici, ciascuno libero di portare il proprio
contributo indipendente per la crescita della nonviolenza organizzata.
Chi crede che una alternativa sia possibile non puo' non abbonarsi ad
"Azione nonviolenta". Chi crede che il grande movimento per la pace, che
negli ultimi tempi ha fatto la sua irruzione sulla scena politica mondiale,
abbia bisogno di diventare davvero movimento capace di proporre una
alternativa di giustizia, pace e salvaguardia del creato, trovera' in
"Azione nonviolenta" un luogo adatto di crescita e di dibattito.

3. RIFLESSIONE. LIDIA MENAPACE: ALCUNE CONSIDERAZIONI SU TERRORISMO E
RESISTENZA
[Ringraziamo di cuore Lidia Menapace (per contatti:
llidiamenapace@virgilio.it) per averci inviato questo intervento, di cui
riproduciamo ampi estratti, originariamente scritto come lettera a mo' di
contributo scritto a un dibattito che si svolgera' a Roma il primo dicembre,
in risposta a una sollecitazione di Vittorio Parola (altro caro amico e
compagno di lotte che cogliamo l'occasione di queste righe per salutare).
Lidia Menapace e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi
impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente
universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra le voci piu' alte e
significative della cultura delle donne, dei movimenti della societa'
civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli scritti e degli
interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e riviste, atti di
convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a cura di), Per un
movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La
Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della
differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con
Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma
1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la
luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001]

... Un paese invaso e il suo popolo ha diritto alla legittima difesa che si
chiama "resistenza" e di scegliere le forme che reputa piu' efficaci, piu'
conformi alla sua tradizione ecc.
Da fuori e' bene non interferire: le manifestazioni a favore della
resistenza irachena sono facili e un po' vigliacche. E' meglio sostenere i
familiari dei militari italiani che sono stati ingiustamente inviati in
guerra e chiedere il rientro immediato di tutti dovunque siano, e fare
pressione perche' quelli che sono in Italia disertino, facciano obiezione di
coscienza, di renitenza ecc.(anche a chi e' volontario infatti non si
possono dare ordini ingiusti o incostituzionali).
Cosi' fanno a Pietroburgo le coraggiosissime madri di militari russi inviati
in Cecenia: organizzano la loro renitenza o diserzione.
*
Chi pensa che sia giusto resistere "con ogni mezzo" farebbe bene ad
arruolarsi e non a strillare al coperto di una situazione protetta. La
tradizione dei movimenti popolari, democratici ecc., in occasione di episodi
di resistenza che seguono le occupazioni, e' sempre stata quella di
appoggiare la giustezza della risposta resistenziale, senza entrare nel
merito delle forme scelte. Gridavamo infatti "Vietnam libero" oppure "Cile
libero", e adesso dobbiamo dire "Iraq libero", cioe' che si ritirino tutte
le truppe di invasione e di occupazione, e "Cecenia libera".
La differenza nelle vicende che ho appena ricordato era che molti gridavamo
"Vietnam rosso", "Cile rosso", pensando che fosse possibile avviare anche un
processo rivoluzionario insieme alla resistenza contro l'invasione. Si e'
sempre visto finora che non avviene: in Iraq poi non si sa a chi rivolgersi
per una rivoluzione. Il partito Baath di Saddam, come quello siriano, faceva
parte dell'internazionale socialista, e il partito comunista iracheno era al
governo insieme, la situazione e' troppo poco nota, almeno a me, per capire
che tipo di rivoluzione avverrebbe, probabilmente qualcosa di  simile
all'Iran (no, grazie). Solo rare e poco seguite furono altre ed equivoche
parole d'ordine...
*
Credo che noi dobbiamo fare manifestazioni al grido "Iraq libero". E non
giudicare le forme che la resistenza pratica.
Se vengo interpellata dico che preferisco le forme che non contemplano armi
e uccisioni... Non giudico, ma considero sbagliate le forme di violenza che
contemplano o organizzano uccisioni di militari, in cui si possono uccidere
anche civili innocenti, e fui tra chi - allora - critico' come un errore
politico l'attentato di via Rasella (ovviamente considerai e considero
orrenda e ingiusta sotto ogni profilo di diritto la rappresaglia delle Fosse
Ardeatine).
Sono molto perplessa verso le forme di resistenza che suscitano illegalita',
guerra civile e uccisioni indiscriminate. Quando facevamo progionieri nazi o
repubblichini li tenevamo per gli scambi, anzi certe volte le formazioni
partigiane facevano apposta prigionieri per avere chi offrire in cambio di
persone prese nei rastrellamenti. I nazi accettavano gli scambi, non so gli
americani. Il vescovo di Novara, mons. Ossola, si dedico' molte volte a
queste operazioni di scambio di prigiionieri, tanto che i repubblichini
misero una taglia di un milione (di allora!) sulla sua testa e gli
bruciarono la macchina con la quale si muoveva per le trattative: non sempre
e' possibile specialmente se i prigionieri vengono mandati a Guantanamo, e
qui bisogna avviare e sostenere una azione internazionale per tirarli fuori
dalle galere dove i prigionieri di guerra non debbono essre inviati, perche'
non sono detenuti, ma appunto prigionieri di guerra.
*
Non so giudicare gli aspetti di una resistenza guidata da un dittatore
sanguinario, forse alleato con Al Qaeda, o da organizzazioni religiose
fondamentaliste.
Anche per questo credo che il nostro compito sia di pretendere "Iraq libero
da ogni occupazione " e "Popolo iracheno libero di scegliere il suo futuro".
E' la sola politica ragionevole e sulla quale possiamo influire. Il resto e'
solo un appoggio al pericolosissimo scivolamento verso la guerra mondiale.

4. RIFLESSIONE. GIOBBE SANTABARBARA: ANCORA QUATTRO NOTE SUL TERRORISMO
I. Il terrorismo, che consiste nel ridurre gli esseri umani a pietra poiche'
ad essi toglie ogni liberta', e' un crimine assoluto; ma oltre che crimine
assoluto, il terrorismo e' anche una forma di lotta armata, e quindi una
tecnica militare; e uno strumento di potere politico, e quindi di controllo
sociale. In quanto tale il terrorismo, crimine assoluto, e' stato usato dai
soggetti piu' diversi nei contesti piu' svariati per le finalita' piu'
varie. Chi pretende di semplificare cio' che non e' semplificabile compie
un'operazione ideologica astratta, ed in concreto il terrorismo non
contrasta.
*
II. Chi ammette che il fine giustifichi i mezzi, e che la conquista del
potere possa essere un fine in se', ha gia' ammesso anche il terrorismo:
ogni machiavellismo porta ad Auschwitz e a Hiroshima. Ma anche chiunque
pensi di possedere la verita' assoluta e di doverla imporre con la violenza
ad altri, ha gia' ammesso anche il terrorismo: ogni dogmatismo porta ai
roghi degli eretici e ai processi di Mosca. Ma anche chi sostiene che la
stessa legittima difesa non debba conoscere vincoli e proporzioni, ha gia'
ammesso anche il terrorismo: e non c'e' terrorismo piu' feroce di quello che
mena strage e di vite e diritti fa scempio pretendendo di legittimare i suoi
atti terroristici con il definirli come "lotta contro il terrorismo", che e'
il motto di tutte le dittature.
*
III. E' propria del terrorismo l'inversione linguistica enunciata dalle tre
streghe di Macbeth e tematizzata da Orwell in 1984 con gli slogan
esemplificativi della neolingua e del bispensiero. L'analisi del linguaggio
e la verifica delle relazioni che intercorrono tra le parole e gli atti
costituiscono il primo compito di chiunque al terrorismo voglia opporsi, e
per potervisi opporre identificarlo deve sapere attraverso un'analisi
adeguata.
*
IV. In quanto il terrorismo umilia, minaccia, aliena, vulnera, pietrifica,
annienta gli esseri umani, ad esso occorre opporsi lottando per difendere ed
affermare la dignita', la sicurezza, l'autenticita', l'incolumita', la
vitalita', l'esistenza di tutti gli esseri umani. In quanto il terrorismo e'
dispiegamento e magnificazione dell'uccidere e del reificare, ad esso
occorre opporsi lottando contro tutte le uccisioni e tutte le riduzioni
degli esseri umani a cosa, a strumento, a merce. In quanto il terrorismo e'
la violenza oltre ogni limite, ad esso occorre opporsi lottando contro ogni
violenza. Vi e' un solo modo di contrastare il terrorismo, ed e' la
nonviolenza. Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

5. RIFLESSIONE. GIOVANNI SCOTTO: LA TRASFORMAZIONE COSTRUTTIVA DEI CONFLITTI
[Ringraziamo Giovanni Scotto (per contatti: giovanni_scotto@yahoo.de) per
questo intervento che si inserisce nel dibattito promosso dall'intervento di
Francesco Tullio apparso nel n. 719 di questo foglio, e proseguito
dall'intervento di Claudio Bazzocchi apparso nei nn. 728 e 730, dibattito
che prende le mosse da alcuni giudizi espressi nel libro di Claudio
Bazzocchi, La balcanizzazione dello sviluppo, Il Ponte, Bologna 2003. Come
abbiamo gia' sottolineato presentando i precedenti interventi "come i
lettori sanno, su questo foglio non si ama accogliere interventi polemici,
ma in questo caso gli interlocutori sono nostri cari amici che stimiamo come
autorevoli costruttori di pace, e forse questa riflessione, decantata dei
modi forse bruschi e dei possibili fraintendimenti che nel registro
espressivo adottato sono forse talora inevitabili ancorche' dispiacevoli,
puo' giovare ad un processo di chiarificazione di cui l'intero movimento per
la pace ha grande bisogno".
Giovanni Scotto e' uno dei piu' importanti studiosi italiani nell'ambito
della peace research, studioso e amico della nonviolenza; ricercatore presso
il "Berghof Research Center for Constructive Conflict Management" di
Berlino; collabora con l'"Institute for Peace Work and Nonviolent Settlement
of Conflicts" di Wahlenau ed e' presifdente del "Centro studi difesa civile"
di Roma. Tra le opere di Giovanni Scotto: con Emanuele Arielli, I conflitti,
Bruno Mondadori, Milano 1998 (seconda edizione notevolmente ampliata:
Conflitti e mediazione, Bruno Mondadori, Milano 2003); sempre con Emanuele
Arielli, La guerra del Kosovo, Editori Riuniti, Roma 1999.
Claudio Bazzocchi, gia' responsabile dell'area ricerca dell'Osservatorio sui
Balcani, precedentemente e' stato per nove anni dirigente del Consorzio
Italiano di Solidarieta' (Ics); fa parte del comitato promotore italiano del
Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali (il "Mauss" -
nell'acronimo che evoca anche l'eredita' teorica e civile del grande Marcel
Mauss - che in Francia rappresenta una rilevante esperienza di studio e di
impegno che ha come uno dei suoi principali promotori Serge Latouche); tra
le sue opere: La balcanizzazione dello sviluppo, Il Ponte, Bologna 2003.
Francesco Tullio, prestigioso studioso e amico della nonviolenza, e' uno dei
piu' noti peace-researcher a livello internazionale e animatore di molte
iniziative per la pace e la gestione e risoluzione nonviolenta dei
conflitti; nato a Roma il 18 giugno 1952, laurea in medicina e chirurgia,
specializzazione in psichiatria, libero professionista, psicoterapeuta,
esperto di gestione delle risorse umane, di prevenzione e trasformazione dei
conflitti, di problem solving organizzativo; docente di psicoterapia breve
alla Universita' di Perugia, docente di psicologia al master "Esperto in
cultura d'impresa" all'Universita' di Perugia, 2001, ricercatore a contratto
con il Centro militare di studi strategici nell'anno 1998-1999, presidente
onorario del Centro studi difesa civile (sito: www.pacedifesa.org) di cui e'
stato e resta infaticabile animatore, ha coordinato ricerche per diversi
enti, tra cui quella per l'Ufficio Onu del Ministero Affari Esteri su "Ong e
gestione dei conflitti. Il confidence-building a livello di comunita' nelle
crisi internazionali. Analisi, esperienze, prospettive"; promotore del
Centro di ricerca e formazione sui conflitti e la pace presso l'Universita'
di Perugia e dell'Istituto internazionale di ricerca sui conflitti e per la
pace; numerose le sue esperienze come medico, in Germania, in Nicaragua ed
in Italia, sia in reparti di medicina che di chirurgia ed in particolare in
pronto soccorso, come medico di famiglia, inoltre come psichiatra nei
servizi pubblici ed in un servizio di medicina legale, infine come libero
professionista psicosomatista e psicoterapeuta; le sue attivita' di studioso
e formatore si sono incentrate sulla ricerca teorica, la gestione pragmatica
dei conflitti, sulla mediazione e la gestione delle risorse umane per e
nelle emergenze; e' impegnato dal 1970 in attivita' di volontariato per la
prevenzione della violenza e lo sviluppo umano; quale conduttore di
incontri, seminari, laboratori teorico-pratici, si e' occupato di gestione
dei conflitti, d'affiatamento di gruppi di lavoro, di gruppi di terapia e di
crescita umana; in ambito sociale tale interesse si e' tradotto in un
contributo culturale per la prevenzione e la gestione dei conflitti
intergruppali. In particolare ha coordinato ricerche e convegni sui temi
della violenza organizzata e della guerra; e' autore e curatore di diverse
pubblicazioni]

A volte, controversie apparentemente circoscritte possono aiutare a
comprendere meglio questioni assai complesse.
E' in questo spirito che vorrei riprendere alcuni temi della discussione tra
Francesco Tullio e Claudio Bazzocchi, ed in particolare la replica di
quest'ultimo, apparsa sui numeri 728 e 730 del 10 e 12 novembre 2003 del
notiziario.
Poiche' sono presidente del Centro studi difesa civile, organizzazione al
centro della critica di Bazzocchi e da lui elevata a rappresentante di una
vasta aera di ricerca e azione, sento la necessita' di chiarire alcuni
equivoci in merito alle attivita' e alla filosofia del Centro studi. Preciso
che non ho (ancora) letto il libro di Claudio Bazzocchi per intero, cosa che
mi riprometto senz'altro di fare. Pertanto i seguenti ragionamenti si
riferiscono unicamente all'articolo pubblicato su "La nonviolenza e' in
cammino".
Con le riflessioni che seguono spero di dare un contributo al chiarimento
sui  problemi di fronte ai quali si trova oggi la comunita' che lavora alla
trasformazione con mezzi pacifici dei conflitti.
Inizio col dire che il testo di Claudio Bazzocchi adotta troppo spesso una
strategia di semplificazione non giustificabile: per ognuno dei temi toccati
sono state scritte biblioteche intere e migliaia di operatori hanno fatto
esperienze sul campo di enorme importanza. Per questo motivo, se molte delle
premesse analitiche sono condivisibili, non lo sono affatto le conclusioni.
Nel testo che segue provero' a contestualizzare le affermazioni di Bazzocchi
anzitutto enucleando i problemi concreti che abbiamo di fronte - sui quali
peraltro c'e' un'ampia base di consenso nella comunita' scientifica e tra
gli operatori, cosi' come nella nostra piccola discussione.
In un passo successivo chiariro' la complessita' che si presenta non appena
analizziamo piu' da vicino il mondo degli stati (la cosiddetta "comunita'
internazionale"), e il mondo della societa' civile; complessita'
fondamentale per capire e progettare strategie di costruzione della pace
migliori, piu' incisive, "piu' nonviolente".
Infine approfondiro' il tema specifico della "trasformazione dei conflitti",
e della comunita' di ricercatori e operatori che a questa lavorano - tema
che e' al cuore del ragionamento di Bazzocchi e che tocca il lavoro che
fanno persone come Francesco Tullio o il sottoscritto, e organizzazioni come
il Centro studi difesa civile. Qui l'esposizione di Bazzocchi distorce a mio
parere il tema e va urgentemente corretta.
Per iniziare forse e' opportuno qualche chiarimento terminologico: come
d'uso nella letteratura sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti, uso
qui il termine "conflitto" in maniera ampia - come presenza di
un'incompatibilita' negli obiettivi di attori determinati - e non come
sinonimo di guerra. Dal nostro punto di vista, l'esistenza di conflitti e'
una caratteristica costitutiva delle societa' umane. Il problema urgente che
si pone e' piuttosto lo sviluppo di capacita' di gestione costruttiva dei
conflitti stessi. Si tratta in altri termini non di prevenire l'insorgere di
dispute e contrasti politici sulla scena internazionale (che esisteranno
sempre), ma di prevenire fenomeni di escalation incontrollata e di violenza.
Piu' precisamente, scegliamo di parlare di "trasformazione dei conflitti"
per sottolineare il fatto che ai conflitti - ed in particolare a quelli che
si manifestano in forme violente - spesso non e' possibile trovare una
soluzione (quindi una "chiusura" definitiva dei conti), ma che se ne possono
cambiare le modalita' di gestione, puo' cambiare il ruolo e il significato
nella memoria e nella cultura.
Infine, quello che dico non rappresenta nulla di nuovo, ma si limita a
riprendere una serie di lavori gia' pubblicati e non sconosciuti a chi si
occupa del tema.
*
1. I problemi che abbiamo di fronte
Come gia' detto, concordo nella diagnosi dei problemi che fa Claudio
Bazzocchi. Per riassumere: a partire dagli anni novanta, quindi con la fine
della guerra fredda, assistiamo a una serie di trasformazioni nei conflitti
e nelle guerre che devastano molte regioni del pianeta. Se analizziamo gli
eventi bellici in molti di questi paesi, ci rendiamo conto che non possiamo
piu' spiegarli con i concetti della strategia tradizionale - di Clausewitz e
della guerra come continuazione della politica con altri mezzi. La guerra
diventa permanente e si erge a sistema sociale in grado di autoperpetuarsi;
si manifesta una "economia politica delle guerre civili", all'interno delle
quali vecchie e nuove elite consolidano il proprio potere e soprattutto
fanno lucrosi affari con il contrabbando, lo sfruttamento della popolazione
civile e la predazione degli aiuti umanitari.
A questo sviluppo si accompagna e si interseca l'esplosione di conflitti
etnopolitici, conflitti cioe' nei quali un elemento identitario
(l'appartenenza a un determinato gruppo etnico, linguistico, religioso)
viene impiegato da parte di vecchie e nuove elite come fattore di
mobilitazione politico-militare ed escalation, fino alla creazione di nuove
entita' politiche o in alternativa al raggiungimento di uno scenario di
"nuova guerra".
Queste due linee di sviluppo si avverano con grande velocita' all'interno
del fenomeno planetario che si suole definire globalizzazione:
schematicamente, la progressiva creazione di uno spazio economico e
culturale unico, un aumento degli squilibri economici globali, un "governo"
della finanza globale basato sulla dottrina neoliberale (il cosiddetto
"Washington consensus").
Questo e' lo scenario che si trova di fronte chi su scala globale si pone il
problema dell'alleviamento della sofferenza e della costruzione della pace,
e su questo - mi sembra - concordiamo in pieno con Claudio Bazzocchi.
La prima tappa del "recupero di complessita'" rispetto all'esposizione di
Bazzocchi e' quella dell'unicita' di ogni situazione conflittuale. Sia
chiaro che nessuno nega l'impatto della globalizzazione neoliberista, in
particolare sui paesi piu' deboli del sistema internazionale. Il fatto e'
pero' che ogni conflitto presenta caratteristiche assai diverse: per
rimanere al sud-est Europa, le guerre in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo
si basano in parte su premesse storico-politiche ed economiche simili.
Chiaro che il tramonto della Jugoslavia socialista e' dovuto anche a una
serie di dinamiche globali (fine dei blocchi, crisi del debito degli anni
ottanta), e che la politica internazionale ha diverse responsabilita' in
merito. Ma ridurre le guerre di successione jugoslava a influenze esterne e'
un'operazione indebita.
Il fatto e' che il problema delle cause dei conflitti e' estremamente
complesso, e non si lascia ridurre a una formula, per quanto affascinante e
convincente. Si', le nuove guerre sono "conflitti postmoderni che fanno
emergere nuovi e originali progetti politici, che si adattano alla
globalizzazione nelle periferie", come dice Bazzocchi. Ma non bisogna
dimenticare il ruolo, all'interno di ogni particolare costellazione
conflittuale, della scarsita' di risorse, della poverta', di classi
dirigenti avide e corrotte, della disponibilita' di armi e della
disposizione a farne uso.
Le nuove guerre non sono pero' "la risposta del sud alla globalizzazione":
questa e' una generalizzazione banale. Perche' allora bisognerebbe spiegare
i motivi della varianza: perche' si e' riusciti a porre fine alla guerra in
Mozambico, con un trattato di pace frutto di mediazione che si e' rivelato
stabile per oltre un decennio, mentre in Angola i tentativi di pacificazione
sono andati a vuoto fino alla morte del leader dei ribelli. E perche' il Sud
Africa e' diventato un attore regionale che punta molto sulla facilitazione
di processi negoziali (come ad esempio in Burundi)? In ogni regione del
mondo si pone lo stesso problema. La verita' e' che le risposte "del sud"
alla globalizzazione sono molteplici come del resto lo sono "i sud" stessi.
Se questo e' vero, e se partiamo dalla premessa di valore che vogliamo
contribuire ad evitare le guerre, a far terminare con mezzi pacifici gli
spargimenti di sangue in atto, dobbiamo essere pronti a muoverci su almeno
due piani: il livello strutturale, cioe' di modifica delle istituzioni e
strutture sociopolitiche locali, regionali e globali che incoraggiano la
guerra, e il livello del singolo conflitto, in cui determinati attori
adottano alcune strategie piuttosto che altre, in cui determinate societa' e
comunita' politiche evolvono in un senso piuttosto che in un altro.
Il merito degli approcci legati alla psicologia (una tradizione veneranda,
dalla psicologia sociale di  Kurt Lewin negli anni cinquanta all'approccio
psicoanalitico di Franco Fornari, fino al lavoro sul trauma sviluppato in
anni recenti) e' quello di aver introdotto nell'equazione una variabile
ulteriore, la sfera soggettiva - che ricomprende l'elemento
cognitivo-percettivo, quello emozionale e le dinamiche della psicologia del
profondo. Cinquant'anni di lavoro nel campo della "conflict resolution", che
oggi preferiamo chiamare "conflict transformation", hanno mostrato piu'
volte che l'idea non era peregrina. Ma sul tema torneremo piu' avanti.
Riassumendo: non e' in discussione una "concezione psicosociale dei
conflitti", come semplificando dice Claudio Bazzocchi, ma una aggiunta di
complessita' a fenomeni che in epoca moderna venivano letti soltanto
attraverso le lenti dello scontro di volonta'  e/o delle strutture
socioeconomiche sottostanti - in estrema sintesi, la guerra clausewitziana e
la visione marxiana del conflitto sociale. Ed e' questo il senso del lavoro
di tutti i collaboratori del Centro studi difesa civile ed in particolare di
Francesco Tullio. Chiaro che poi la singola analisi puo' essere discussa,
risultare superficiale a un esame piu' approfondito, ecc.
*
2. I conflitti contemporanei e il mondo degli stati
Con una immagine suggestiva, Claudio Bazzocchi parla di un "matrimonio
convinto tra governi occidentali, con il loro apparato militare ed
umanitario, ong e associazioni pacifiste", aggiungendo: "mi preoccupa che il
matrimonio sia avvenuto su un'interpretazione coincidente delle cause delle
nuove guerre".
Orbene, matrimoni si possono celebrare solo tra individui. Solo che la
categoria dei "governi occidentali", cosi' come quella delle "ong e
associazioni pacifiste", e' un prodotto della semplificazione argomentativa
di Bazzocchi. Provo ad articolare meglio il discorso anzitutto con
riferimento al sistema degli stati.
All'indomani del 1989 il sistema internazionale si e' ritrovato con una
potenza militarmente egemone, tre poli di egemonia economica globale, e una
serie di istituzioni modellate sulle esigenze e le possibilita' di azione
della guerra fredda.
In rapida successione si sono dovuti fare i conti con l'invasione irachena
del Kuwait,  le guerre in ex Jugoslavia e nel Caucaso, il collasso della
Somalia, il genocidio in Ruanda. Senza contare la nuova dinamica nel
conflitto arabo-israeliano causata dalla prima Intifada.
Negli anni novanta gli stati hanno sviluppato e adottato strategie
diversissime di contenimento, gestione e "soluzione" dei conflitti: dal
peacekeeping "robusto", al cosiddetto "intervento militare umanitario";
dalle forme di mediazione attraverso canali ufficiali, alla "diplomazia del
secondo binario", fino ad arrivare all'imposizione dall'esterno di
"soluzioni" al conflitto (Rambouillet).
E' importante sottolineare che non e' possibile riscontrare una linea comune
coerente della "comunita' internazionale", ne' tantomeno dei paesi
occidentali. La stessa potenza egemone negli anni novanta oscillava tra il
ricorso a forme negoziali riconducibili grosso modo alla mediazione, e la
minaccia o l'uso della violenza militare.
La varieta' degli approcci che gli stati possono avere nei riguardi della
gestione dei conflitti puo' essere apprezzata attraverso una serie di
esempi. La Germania e' passata da una politica balcanica assai criticabile
che aveva incoraggiato le repubbliche jugoslave alla secessione, a un
approccio incentrato sulla costruzione di forme di integrazione subregionali
(il Patto di stabilita' per l'Europa sudorientale). Dal 1998 il governo
tedesco finanzia e sostiene un "servizio civile di pace", attraverso il
quale in centinaia di micro-progetti diversi si prova a dare un contributo
costruttivo in una serie di situazioni di conflitto. La Norvegia e' paese
membro della Nato ed ha partecipato attivamente alle guerre in Kosovo e in
Afghanistan. D'altro canto ha avuto un ruolo importante nel portare agli
accordi di Oslo del 1993 tra Israele e Olp, e ricopre la funzione di
mediatore internazionale tra governo dello Sri Lanka e ribelli Tamil. La
Svizzera e' inserita in pieno nelle istituzioni della globalizzazione
neoliberista, ha allo stesso tempo una politica estera di pace estremamente
innovativa (incoraggia tra l'altro processi di trasformazione del conflitto
a livello sociale in Sri Lanka e nei Balcani) (1).
Anche nel ruolo di donatori per azioni di carattere umanitario e di
cooperazione allo sviluppo c'e' una grande differenza tra gli approcci dei
paesi scandinavi, della Germania, della Svizzera e le strategie dello Usaid,
tradizionalmente vicino alle opzioni politiche del governo statunitense. O
all'Operazione Arcobaleno, con la quale il governo di centrosinistra
italiano ha usato strumentalmente l'azione umanitaria per costruire consenso
intorno alla guerra del Kosovo.
Considerazioni simili possono essere fatte per le diverse organizzazioni
internazionali (a partire dall'Onu e dall'Osce) e per le sottorganizzazioni
e missioni nelle quali queste a loro volta si articolano.
Concludendo, l'"apparato umanitario e militare" degli Stati occidentali non
e' un'entita' omogenea, ne' e' destinato a diventarla. I governi scelgono di
volta in volta la guerra, le pressioni "soft" tipiche della globalizzazione
o  approcci di trasformazione del conflitto piu' o meno efficaci e genuini.
*
3. Societa' civile internazionale e intervento civile nei conflitti
Anche l'altro "coniuge" del "matrimonio" di Bazzocchi, a ben vedere, e'
tutt'altro omogeneo.
Anzitutto, occorre partire dal fatto che non esiste "una" comunita' di
operatori civili internazionali. Di fatto, vanno distinti almeno quattro
ambiti di lavoro differenti: azione umanitaria, cooperazione allo sviluppo,
promozione e tutela dei diritti umani, lavoro per la pace e la
trasformazione del conflitto in senso stretto.
Questa distinzione e' fondamentale perche' i quattro ambiti di lavoro
ricomprendono comunita' di operatori e soprattutto strategie e obiettivi di
azione radicalmente diversi tra loro. Ognuno degli ambiti e' caratterizzato
da alcuni dilemmi e da diverse opzioni politiche a seconda della natura
emancipativa o di stabilizzazione dello status quo del lavoro che vi si
svolge.
L'azione umanitaria ha come scopo il salvataggio immediato di vite umane in
situazioni di emergenza - sia le catastrofi naturali sia le cosiddette
"emergenze complesse", o "emergenze causate dall'uomo". Il primo dilemma e'
quello della neutralita' rispetto alle parti in conflitto: qui si
confrontano due approcci radicalmente differenti, quello del Comitato
Internazionale della Croce Rossa - che per principio non prende alcuna
posizione nei conflitti - e quello di Medecines sans Frontieres - attenta
alla dimensione dei diritti umani e delle responsabilita' nella creazione
delle "emergenze causate dall'uomo".
Un dilemma ulteriore consiste nel coniugare la massima efficienza operativa
possibile - quindi massimizzare l'efficacia dello sforzo logistico - con il
rispetto per le specificita' e il potenziale di sviluppo a lungo termine
della societa' nella quale si opera.
La cooperazione allo sviluppo ha l'obiettivo di raggiungere un affrancamento
sostenibile dalla poverta'. Questo ambito di attivita' ha alle spalle
diversi decenni di storia, ed e' gia' da tempo in una fase di riflessivita'
critica (si veda per tutti il Dizionario dello sviluppo edito da Sachs agli
inizi degli anni novanta). Anche qui al cuore della questione vi sono due
dilemmi: come incoraggiare uno sviluppo in autonomia con l'intervento
dall'esterno (e' il classico dilemma di tutte le professioni di aiuto); e
come conciliare l'apertura al sistema economico internazionale - spesso
assai desiderata nel paese in cui si interviene - con l'esigenza di
incentrare lo sviluppo sui bisogni e le esigenze, non solo materiali, delle
societa' in cui si opera.
I diritti umani rappresentano forse il campo in cui piu' evidente e' stato
lo sviluppo negli ultimi decenni, dalla Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo all'istituzione osteggiata da diverse potenze, Stati Uniti in
testa, del Tribunale penale internazionale. Il primo dilemma  di fondo della
comunita' degli operatori dei diritti umani e' coniugare la pretesa
universale di questi ultimi con le specificita' dei singoli paesi e delle
diverse culture giuridiche del pianeta.
Dei quattro ambiti di lavoro, quello piu' giovane - per certi versi ancora
in fase di costituzione e maturazione - e' quello degli operatori di pace.
L'approccio del conflict resolution e' nato intorno agli anni sessanta
nell'area anglosassone. Ad esso hanno contribuito tra gli altri psicologi
sociali, politologi, diplomatici, senza dimenticare l'apporto fondamentale
del cristianesimo pacifista e in particolare dei Quaccheri. Un altro filone,
quello della nonviolenza gandhiana, ha percorso tutti i piu' grandi
movimenti di liberazione del Novecento, fino alle lotte nonviolente che
hanno segnato il crollo del muro di Berlino e la fine del socialismo
sovietico. In questo filone si sono inseriti i movimenti pacifisti che,
negli anni novanta, hanno dovuto rimettere in discussione le pratiche
politiche e gli obiettivi tradizionali, tagliati sulla realta' della guerra
fredda.
Un dilemma specifico degli operatori di pace risiede in due opzioni
strategiche: da un lato la parte esterna puo' decidere di diventare
mediatore in senso classico, cercando quindi di costruire un processo di
dialogo tra i diversi attori in conflitto. In alternativa, chi interviene
puo' focalizzare l'attivita' su un processo di capacitazione di quelle forze
che intendono mettere in discussione l'egemonia delle leadership
responsabili dell'escalation e della guerra. Tornando all'esempio della
Bosnia-Erzegovina, la prima opzione e' rappresentata dal mediatore
internazionale previsto dagli accordi di Dayton (il tedesco
Schwarz-Schilling), la seconda dal lavoro della ong quacchera Quaker Peace
and Social Witness, che effettua attivita' di supporto e messa in rete di
piccoli gruppi nonviolenti in tutti i paesi dell'ex Jugoslavia. Entrambe
queste attivita' hanno pregi e difetti, ma entrambe sono legittime e utili
se ben progettate e condotte.
I dilemmi di maggiore portata riguardano il rapporto tra gli obiettivi
perseguiti in ognuno di questi ambiti. Il bisogno di fare giustizia
perseguendo i colpevoli di violazioni dei diritti umani e' in perenne
tensione con le necessita' dei processi di pace: trattare con i colpevoli di
gravissime violazioni dei diritti umani, favorire nel dopoguerra
l'integrazione di ex combattenti nella societa', trovare forme di giustizia
riparativa e non punitiva. La necessita' di intervenire immediatamente in
situazioni di emergenza puo' da un lato portare al risultato paradossale di
sostenere le parti combattenti che sono in grado di appropriarsi degli aiuti
o di usare i campi profughi come basi. D'altro canto, la distribuzione mal
progettata di aiuti umanitari puo' far crollare il mercato agricolo della
regione in cui si interviene e quindi ostacolare processi di sviluppo
economico locale.
*
4. Che cosa e' e cosa fa la trasformazione dei conflitti
Quando Bazzocchi parla di sistema umanitario, ong e organizzazioni
pacifiste, intende questi quattro ambiti. Ma, poiche' non li distingue, non
si capisce mai dove finisce l'azione umanitaria, dove inizia la cooperazione
allo sviluppo, qual e' in tutto questo il ruolo della trasformazione dei
conflitti. E dei diritti umani non parla.
Ma il limite maggiore del testo e' senz'altro la descrizione piatta e
fuorviante degli approcci di "soluzione" e "trasformazione" dei conflitti
(2).
Qui vale la pena di citare Bazzocchi per esteso. A me sembra che, per
ricavare un'immagine piu' aderente alla realta' della comunita' che lavora
alla trasformazione dei conflitti, basta rovesciare la sua "descrizione":
"(1) Le teorie della risoluzione dei conflitti e dell'interposizione
nonviolenta presuppongono l'interazione di una terza parte che sa gia'
cos'e' giusto e cos'e' sbagliato e soprattutto cosa e' irrazionale. Questa
terza parte interviene avendo gia' deciso che la guerra e' irrazionale e (2)
in sostanza dipende da un deficit di comunicazione fra le parti. (3) Inoltre
le parti vengono considerate come un tutto unico: serbi e albanesi,
musulmani e croati, ecc. (4) Scompaiono le classi sociali, gli interessi
economici e anche la considerazione della violenza indotta dall'esterno,
sotto forma di esclusione dai flussi dell'economia globale legale... (5) Chi
media [nei Balcani] tende... a presentare quanto e' avvenuto durante la
guerra come irrazionale e quindi illegittimo, se non irrilevante, ... senza
considerare che le nuove guerre balcaniche costruiscono significati sociali
e assetti politici, economici e istituzionali tutt'altro che irrazionali.
(6) Nel fare cio' si precludono un vero dialogo con la societa' in cui
operano e non riescono a riconoscere le strategie politiche di resistenza ai
nuovi assetti creati dalle elites dominanti. (7) Infatti, se il mediatore
insiste nel pensare che la guerra e' un conflitto etnico fra due parti,
fara' fatica ad accorgersi che fuori dal suo schema possono esserci gruppi
sociali che lottano per assetti politici e sociali alternativi a quelli
delle elites nazionalistiche. Insomma, (8) una cultura di intervento
orientata al problem-solving non sara' in grado di capire la complessita'
della realta' politica del luogo in cui opera e tutte le sue stratificazioni
sociali".
1. Innanzitutto, nella cultura della trasformazione del conflitto la
stragrande maggioranza degli approcci alla mediazione partono dal
presupposto contrario, ovvero una terza parte che non sa in anticipo "cos'e'
giusto e cos'e' sbagliato", ne' interviene per sanzionare l'una o l'altra
parte, ma aiuta le parti a trovare una soluzione condivisa. Spesso non si
tratta neppure di imposizione di una "razionalita' occidentale", perche' chi
media lavora in maniera maieutica con i modelli culturali e la razionalita'
della societa' nella quale lavora (qui bisogna rimandare al lavoro di J. P.
Lederach). Chiaro che nel gergo politico e dei media il termine mediazione
indica spesso qualcosa di differente, ed e' arrivato a indicare anche il
diktat degli Usa nei confronti della Federazione Jugoslavia a Rambouillet.
Ma non e' di questo che stiamo parlando.
2. Questo punto e' stato chiarito da Francesco Tullio: chi si occupa di
trasformazione dei conflitti non vede nel blocco della comunicazione tra le
parti la causa unica delle guerre, ne' intende il suo ristabilimento come
una panacea. piu' semplicemente, per le elite che "costruiscono" conflitti
etnopolitici e nuove guerre l'interruzione della comunicazione tra i gruppi
e all'interno dei gruppi costituisce un obiettivo strategico di prima
importanza. Le elite delle nuove guerre usano la paura e l'intimidazione sia
verso l'avversario che nei confronti del "proprio" gruppo.
Ed e' quindi uno dei compiti primari degli operatori di pace disinnescare
l'egemonia delle strategie e dei discorsi di segregazione: sia per operare
un avvicinamento tra gruppi sociali che hanno subito con la violenza un
progressivo estraneamento, sia per iniziare e sostenere processi di
capacitazione alla base della societa' contro le elite delle nuove guerre. E
non ha alcun senso far equivalere (come fanno Bazzocchi e Duffield) il lavor
o sulla comunicazione a  una depoliticizzazione del conflitto: in realta' e'
il contrario - favorendo processi di comunicazione e autoorganizzazione alla
base della societa' si ricostruisce l'azione collettiva spazzata via
dall'escalation violenta (si vedano ad esempio tutti i progetti di dialogo
dal basso nello spazio post-jugoslavo).
3 e 4. Le parti vengono considerate un tutto unico solo dalle diplomazie
tradizionali, che infatti hanno combinato parecchi disastri negli anni
novanta. I migliori approcci di peacebuilding (cosi' come le recenti
riflessioni in campo umanitario) mettono al centro dello sforzo di
trasformazione del conflitto proprio la complessita' sociale dei gruppi
coinvolti. In questi approcci, le elite politico-militari tendono a perdere
centralita', e quindi almeno in linea di principio a perdere legittimazione.
Affiorano altre linee di conflitto rispetto alle "linee di faglia" che
escalation e guerra hanno imposto alla societa': conflitti di classe,
contrasti tra citta' e campagne, e, ubiquitaria, la questione di genere.
5. Chi lavora alla trasformazione dei conflitti ha un'idea ben precisa della
guerra, che considera una patologia sociale da evitare. Ma non credo che gli
operatori si sognerebbero mai di sostenere che la guerra e' irrilevante.
6. Se il concreto progetto di trasformazione del conflitto e' riuscito ad
analizzare le cause dell'escalation, gli attori coinvolti, le dinamiche
culturali, socioeconomiche e politiche che ne caratterizzano l'evoluzione,
allora potra' porsi due domande decisive: quali sono le forze che qui ed ora
lavorano per la pace, e qual e' il potenziale di pace ancora inespresso
all'interno della societa'. torniamo al dilemma tra tensione "orizzontale" e
tensione "verticale" del processo di costruzione della pace, e quindi al
punto 7.
7. Chi lavora alla trasformazione del conflitto - attore interno al sistema
sociale in cui si manifesta il conflitto, o esterno ad esso - dovra'
decidere di volta in volta quale dei due approcci favorire, o se trovare una
strategia in grado di combinarli.
8. Il problem-solving e' un approccio particolare utilizzato nel lavoro di
mediazione e puo' avere una sua validita' nella ricerca di soluzioni
innovative al conflitto e nell'individuare possibilita' di cooperazione tra
le parti. Ma non e' l'unico strumento della trasformazione del conflitto.
*
5. Una parola sul lavoro psicosociale
Tra le principali "vittime" dell'articolo di Bazzocchi e' il lavoro
psicosociale nei contesti di dopoguerra (il cosiddetto "post-conflitto", che
e' in realta' la continuazione del conflitto con altri mezzi). Anche qui
vale la pena citare una frase densa di approssimazioni e superficialita':
"... le ong vengono 'arruolate' nei programmi di assistenza psicosociale
volti a sanare la violenza che starebbe nelle popolazioni colpite dalla
guerra".
L'assistenza psicosociale assume nelle fasi di ricostruzione diversi ruoli.
Uno dei piu' importanti tuttavia e' il sostegno a persone traumatizzate
dagli eventi violenti e dalla perdita di persone care. Che questo bisogno
esista non solo subito dopo la fine delle ostilita', ma anni e decenni dopo
e' un fatto pienamente accertato (si veda ad esempio il lavoro di Dan Bar-On
con figli e nipoti di sopravvissuti alla Shoah e perpetratori nazisti).
La posizione di Duffield citata da Bazzocchi e' riduttiva: il lavoro
psicosociale sul trauma, a parte la sua qualita' di azione umanitaria
dettata dall'obbligo di aiutare le vittime, puo' ben avere una dimensione
sociale, di azione collettiva - e quindi portare proprio alla messa in
discussione dei risultati della guerra in quanto preciso progetto politico.
Anche qui tutto sta a chiarire cosa si intende per "assistenza
psicosociale", se rimane una risposta terapeutica e passivizzante a
individui o se e' orientata a una contestualizzazione sociale della
sofferenza psichica e quindi tematizza la dimensione politica del conflitto
e delle sue conseguenze sulle persone (3).
Nell'ex Jugoslavia in seguito alle guerre si e' formata un'intera
generazione di preparatissimi psicologi che costituiscono una delle realta'
intellettuali di punta, e piu' orientate a rimettere in discussione gli
esiti delle guerre etniche. Anche tra i clienti un approccio "politico"
all'assistenza psicosociale puo' innescare rilevanti processi emancipativi:
l'esempio piu' famoso e' quello delle donne di Srebrenica, che a un tempo
stanno rielaborando il trauma dell'azione genocida e si organizzano come
attore collettivo per chiedere la verita' sul massacro e la restituzione
delle spoglie dei loro cari.
*
6. Tornando a noi...
Per chi avra' avuto la pazienza di seguirmi nel ragionamento sara' forse ora
piu' chiaro il motivo per cui ci preme rispondere in maniera articolata agli
argomenti di Claudio Bazzocchi. Egli commette un grave errore non tanto e
non solo a considerare paradigmatico il Centro studi difesa civile per
l'intera "comunita' umanitaria" occidentale (troppo onore...), ma
soprattutto a leggere in maniera riduttiva il tipo di lavoro che il Centro
studi prova a portare avanti.
Dal canto nostro cerchiamo per quanto possibile di essere ricettivi ad ogni
tipo di critica sul nostro lavoro, sulle strategie e gli obiettivi di lungo
termine che ci siamo dati. Ma il punto di partenza fondamentale e'
comprendere cosa veramente cerchiamo di fare, con tutti i limiti e i
problemi  connessi con questa attivita'.
In sintesi, il lavoro di trasformazione dei conflitti consiste in una piu'
accurata comprensione del carattere politico dei conflitti, delle loro
radici strutturali, delle forme di manifestazione culturali in cui si
concretano, dei presupposti di natura sistemica; tutto questo allo scopo di
sviluppare strategie di capacitazione sia per gli attori direttamente
coinvolti in situazioni di conflitto, sia per attori esterni che abbiano
intenzione di dare un contributo costruttivo, civile, alla trasformazione
del conflitto.
E' evidente che in questo lavoro, cosi' come nei campi umanitario, dello
sviluppo, dei diritti umani, siamo guidati da chiare scelte di valore: per
noi non si tratta di dibattere se una guerra e' "razionale" o "irrazionale"
(l'occidente ha conosciuto abbastanza guerre devastanti combattute sul
presupposto della razionalita' dell'agire strategico). Si tratta di mettere
gli attori in conflitto in condizione di scegliere strategie di azione
alternativa, di capacitare le forze che in ogni societa' sono a favore della
pace e contro il sistema di guerra, di creare i presupposti per politiche
coerenti nel nostro paese e in occidente di prevenzione della violenza e
delle crisi a livello bilaterale, regionale e sistemico.
Per finire: condivido l'allarme di Claudio Bazzocchi in merito alla
"depoliticizzazione" del lavoro sui conflitti, e so che questo pericolo e'
presente: basti pensare alla missione Arcobaleno, o alla presente
diffusissima definizione del contingente militare italiano in Irak come
"missione di pace". Stia certo Claudio, e stiano certi i lettori, che
l'obiettivo della comunita' che lavora alla trasformazione costruttiva dei
conflitti (e del Centro studi difesa civile) non e' questo.
*
Note
1. Si veda il sito del dipartimento per gli affari esteri del Governo
svizzero: http://www.eda.admin.ch/eda/i/home/foreign/secpe.html
2. Per una introduzione al tema ci permettiamo di segnalare il testo di
Emanuele Arielli, Giovanni Scotto, Conflitti e mediazione, Bruno Mondadori,
Milano 2003, e il Berghof Handbook for Conflict Transformation, in rete sul
sito www.berghof-handbook.net
3. Sul tema rimando a Becker, David (2001), "Dealing with the consequences
of organized violence in trauma work", in Berghof Handbook on Conflict
Transformation, www.berghof-handbook.net

6. INCONTRI. IL TERZO SALONE DELL'EDITORIA DI PACE A VENEZIA
Per iniziativa della Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace si terra'
dal 2 al 14 dicembre 2003 a Venezia il terzo salone dell'editoria di pace,
appuntamento ormai tra i maggiori in Italia per tutti gli studiosi ed
operatori di pace.
Esposizioni, mostre, dibattiti, presentazioni di libri e di iniziative (tra
cui - l'8 dicembre - l'appello per un'Europa neutrale e attiva, disarmata e
smilitarizzata, solidale e nonviolenta, scaturito dall'incontro di Verona
dell'8 novembre); con la partecipazione di pressoche' tutte le case editrici
italiane che alla cultura della pace dedicano attenzione, e di illustri
relatori e relatrici.
Un appuntamento da non perdere.
Per informazioni e contatti, e per conoscere il vasto programma di
iniziative, si puo' visitare nella rete telematica il sito ufficiale:
www.terrelibere.it/fondacodivenezia o contattare per e-mail l'infaticabile
principale animatore dell'iniziativa, Giovanni Benzoni: gbenzoni@tin.it

7. LETTURE. CLAUDIO BAZZOCCHI: LA BALCANIZZAZIONE DELLO SVILUPPO
Claudio Bazzocchi, La balcanizzazione dello sviluppo, Il Ponte, Bologna
2003, pp. 176, euro 16. Una riflessione su "nuove guerre, societa' civile e
retorica umanitaria nei Balcani (1991-2003)", con prefazione di Marco Deriu.

8. LETTURE. PASCAL D'ANGELO: SON OF ITALY
Pascal D'Angelo, Son of Italy, Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi (Aq)
2003, pp. 208, euro 12. Un libro autobiografico pubblicato a New York nel
1924, Pascal D'Angelo (Introdacqua, L'Aquila 1894 - New York 1932) vi
racconta le sue vicende di emigrato italiano in America che da spaccapietre
divenne apprezzato poeta e scrittore.

9. RILETTURE. AA. VV.: CRITICA DELLA TOLLERANZA
AA. VV., Critica della tolleranza, Einaudi, Torino 1968, 1974, pp. 110. Un
sempre utile libro che raccoglie tre saggi di Robert Paul Wolff, Barrington
Moore jr e Herbert Marcuse.

10. RILETTURE. AA. VV.: SAGGI SULLA TOLLERANZA
AA. VV., Saggi sulla tolleranza, Il Saggiatore, Milano 1990, pp. 204. A cura
di Susan Mendus (autrice anche dell'introduzione) e David Edwards, una
raccolta di conferenze sul tema della tolleranza tenute all'universita' di
York tra 1981 e 1987 da Karl R. Popper, Friedrich August von Hayek, Leslie
George Scarman, Gerard Fitt, Alfred J. Ayer, Maurice Cranston, Helen Mary
Warnock.

11. RILETTURE. LAURA BOELLA: CUORI PENSANTI
Laura Boella, Cuori pensanti, Edizioni Tre Lune, Mantova 1998, pp. 136, lire
22.000. Quattro acuti profili di Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein,
Maria Zambrano.

12. RILETTURE. LAURA BOELLA: LE IMPERDONABILI
Laura Boella, Le imperdonabili, Tre Lune Edizioni, Mantova 2000, pp. 148,
euro 11,36. Etty Hillesum, Cristina Campo, Ingeborg Bachmann, Marina
Cvetaeva ritratte con la consueta finezza dall'autrice.

13. RILETTURE. FRANCA ONGARO BASAGLIA: SALUTE/MALATTIA
Franca Ongaro Basaglia, Salute/malattia, Einaudi, Torino 1982, pp. 296. Una
raccolta di saggi di straordinaria potenza ermeneutica.

14. RILETTURE. FRANCA ONGARO BASAGLIA: UNA VOCE
Franca Ongaro Basaglia, Una voce. Riflessioni sulla donna, Il Saggiatore,
Milano 1982, pp. VIII + 152. Un libro che resta di straordinaria
profondita'.

15. RILETTURE. SILVIA VEGETTI FINZI: STORIA DELLA PSICOANALISI
Silvia Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi, Mondadori, Milano 1986,
1994, pp. XIV + 454, lire 18.000. Uno dei libri migliori in questo ambito.

16. RILETTURE. SILVIA VEGETTI FINZI (A CURA DI): PSICOANALISI AL FEMMINILE
Silvia Vegetti Finzi (a cura di), Psicoanalisi al femminile, Laterza,
Roma-Bari 1992, pp. XVIII + 404, lire 28.000. Una raccolta di saggi di varie
autrici che ricostruiscono le figure, la riflessione e le opere di illustri
psicoanaliste, da Anna Freud a Luce Irigaray.

17. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di na
zionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

18. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini@tin.it,
angelaebeppe@libero.it, mir@peacelink.it, sudest@iol.it, paolocand@inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
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Numero 743 del 28 novembre 2003