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L'ultima parola su Jessica Lynch



  L'ultima parola su Jessica Lynch
  di Francesca Mazzocchi, Megachip
  Scrive Tiziano Sclavi: "La guerra. Forse è perché dopo condanniamo gli
uccisori, ma onoriamo gli uccisi, i caduti, i martiri. Forse dovremmo avere
invece il coraggio di rinnegare gli eroi,morti per qualsiasi causa,anche la
più giusta, e di disprezzarli, perché non c'è causa per cui valga la pena
morire,né patria,né religione,né ideologia, né famiglia. Un valore che ti
chiede la vita non vale niente. Non portiamo fiori sulle tombe dei
caduti,sputiamoci sopra. Forse allora la gente non vorrà più morire,si
sentirà stupida a morire. E quindi a uccidere."

  Condividendo o meno il pensiero dell'autore di Dylan Dog, non possiamo
non ammettere che questa idea, secondo la quale chi muore valorosamente,
coraggiosamente, per una giusta causa, sia un eroe, aleggi e sia depositata
nelle nostre menti, risultato della sedimentazione delle esperienze
appartenenti alla nostra cultura. Per questo stesso motivo non ci dovremmo
domandare perché Jessica Lynch sia divenuta un' eroina, né perché i media
si siano dapprima piegati al gioco del Pentagono per poi proseguire la
corsa da soli,in fuga: non hanno fatto altro che assolvere pienamente ed
efficacemente al ruolo cui sono preposti, e hanno offerto al pubblico
esattamente quello che bramava, quello di cui aveva un'incalzante bisogno,
una bella storia a lieto fine.

  In un contesto bellico, di morte, polvere e sangue, di sacrifici umani,
di bombe e ragioni morali vacillanti, la figura della piccola Jessica, 20
anni, bionda, minuta, angelica, si staglia protagonista sulla scena,
incarnazione del bene, di valori positivi, come l'eroe di una fiaba
qualsiasi, puntello per gli animi e sedativo per le coscienze. Siamo noi i
veri creatori di questo mostro mediatico, nel gioco perverso dell'incontro
tra domanda e offerta, i giornali vendono ciò che la gente vuole comprare.

  I media sono vittime e carnefici, vittime della dinamiche del news
management, che facendo appello al diritto/dovere di essere informati,
forza i mezzi di comunicazione a diffondere notizie create a tavolino a
seconda delle necessità; carnefici nel momento in cui, alacremente,
amplificano e diffondono globalmente tali notizie, non senza favorire i
propri interessi. Assistiamo impotenti al dispiegarsi di strategie atte a
far fronte alle occorrenze di una guerra, nata già su consensi traballanti,
ora ancor più precari, che fin dall'inizio si è nutrita di quelle che
Ignacio Ramonet definisce "Menzogne di Stato", disegnando un panorama
inedito, per la maestosità dei mezzi approntati, dal quale emerge che la
guerra la vincerà chi saprà raccontarla meglio.

  Uno scenario che vede protagonisti l'Osp (Office of Special Plans), un
ufficio interno al Pentagono con il compito di raccogliere, analizzare e
sintetizzare i dati provenienti dalle varie agenzie di informazioni (Cia,
Dia, Nsa) e responsabile, apparentemente, di aver gonfiato la minaccia
delle armi di distruzione di massa e i sedicenti collegamenti tra Saddam
Hussein e Al Qaeda.

  L' Osp altro non è che una delle tante sigle come IW(Information Warfare)
o IO (Information Operation) o ancora RMA (Revolution in Military Affairs),
che ridisegnano il nuovo paradigma delle strategie e degli apparati
militari nordamericani. Che dire dell'Osi, ufficio per l'influenza
strategica, con il compito di diffondere false informazioni per servire la
causa degli Stati Uniti, responsabile, secondo quanto svelato da
un'inchiesta del New York Times, del montaggio mediatico della falsa
infermiera kuwaitiana, in realtà figlia dell'ambasciatore kuwatiano a
Washington. Ad oggi possiamo quindi azzardare una riformulazione del
celebre aforisma clausewitziano per cui sarebbe la comunicazione stessa ad
essere divenuta il proseguimento della guerra con altri mezzi.

  Tesi sostenuta, dopo gli eventi dell'11 settembre, da Michael Deaver,
intimo di Rumsfeld, specialista di psy-war, che ha così riassunto il nuovo
obiettivo "Oggi la strategia militare dev'essere concepita in funzione
della copertura televisiva, una volta mobilitata l'opinione pubblica non si
conoscono ostacoli; mentre senza di essa il potere è impotente". Allora
vogliamo stupirci del caso Jessica Lynch?del fatto che la ripresa notturna
della sua liberazione sia stata eseguita da un operatore che aveva lavorato
con Ridley Scott nel film Black Hawk Down?

  Del fatto che ormai la televisione abbia anche modificato la nostra
percezione della realtà rendendoci 'addestrati' a vedere immagini girate ad
infrarossi, come se fosse un'esperienza ascrivibile al nostro quotidiano,
solo perché ha trasformato la realtà della guerra in un film d'azione
girato dalla telecamera di un giornalista embedded?

  Vogliamo forse servire la causa mediatica (e di chi ci vuole emotivamente
assoggettati) continuando ad occuparci ed interessarci del caso di una
ragazzina americana di provincia che ha cercato riscatto nella divisa, la
stessa che l'ha resa celebre, e dalla quale dice di essere stata usata?

  Se Jessyca Lynch ha ricevuto un anticipo di un milione di dollari per
scrivere un libro sulla sua vicenda, ora già in vendita, la colpa è nostra.
Se i media impongono alle luci della ribalta storie di drammi e passioni,
storie che "funzionano", storie che incarnano,per loro natura ,tutti i
criteri di notiziabilità che un evento possa avere per assurgere a notizia,
la colpa è sempre nostra. Volgiamo che questa sia l'ultima parola su
Jessica Lynch, perché sia l'ultima a servire ai suoi incassi e a quelli dei
media che a loro volta la sfruttano.

  Vogliamo essere consapevoli, vogliamo essere critici, vogliamo essere
informati e non emotivamente scossi.

  Non vogliamo piangere le vittime o gli eroi di una guerra, o di chi vi ha
voluto partecipare rendendola pertanto fattibile, piangiamo perché siamo
impotenti nel non poterla fermare.

  Francesca Mazzocchi, Megachip