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IRAQ: I CONTI SENZA L'OSTE
Chi si fida degli iracheni?
di Fabio Alberti
È EVIDENTE ORMAI che gli Stati uniti hanno fatto i conti senza l'oste.
Hanno sì portato a termine l'invasione dell'Iraq, com'era nei loro piani,
ma non sono stati accolti da folle di iracheni festanti, che non
desideravano altro che essere governati da Washington. Hanno trovato,
invece, un movimento di opposizione e resistenza diffuso e crescente.
L'opposizione nasce da almeno due fattori. Il primo è che gli iracheni
hanno la memoria lunga. Si ricordano che gli Usa per molto tempo hanno
appoggiato Saddam Hussein e si ricordano dell'embargo infame a cui per anni
sono stati costretti da Washington. Si ricordano anche del comportamento
statunitense nella vicenda palestinese, presente all'attenzione di tutti
gli arabi, e quindi anche degli iracheni. Non è strano, quindi, che non
muoiano dalla voglia di essere governati da Bush.
Nonostante questa memoria lunga, però, una parte della popolazione era
disposta, nelle settimane subito dopo la conquista di Baghdad, ad
«aspettare e vedere», se davvero gli Stati uniti avrebbero portato
democrazia e rimesso in moto il governo e l'economia del paese. È questa la
seconda componente dell'opposizione. A cinque mesi dalla fine ufficiale
delle operazioni belliche, la disillusione e l'esperienza dell'occupazione
hanno convinto anche chi era disposto a concedere una chance agli
statunitensi.
Oggi in Iraq si sta peggio di prima. Le condizioni di vita non migliorano.
La gente comune, per strada, si chiede perché la prima superpotenza del
pianeta non sia in grado di riportare stabilmente l'energia elettrica nelle
città. La risposta è che se non lo fanno, è perché non vogliono. Allo
stesso tempo, non si vede all'orizzonte alcuna «restituzione» del controllo
politico del paese ai cittadini. La prospettiva di elezioni e di un governo
legittimo si è allontanata. Certo, c'è un governo provvisorio nominato da
Bremer, ma non ha alcuna autonomia. Perché dovrebbero crederci, gli iracheni?
Opposizione quotidiana
Da qui, si vede solo una delle forme di opposizione. Siamo troppo attenti
agli stati e agli eserciti, per guardare oltre gli attacchi contro le forze
d'occupazione. Ci sono, invece, decine e decine di manifestazioni, sit in,
proteste pacifiche, petizioni. Così tante che il governatore statunitense,
Paul Bremer, ha deciso di chiudere «l'ufficio reclami», che aveva aperto
per dimostrare agli iracheni la disponibilità statunitense ad ascoltare la
loro voce. Con il passare delle settimane, e con il crescere della
resistenza armata, l'occupazione diventa sempre più pesante. Migliaia di
persone sono state arrestate, almeno diecimila secondo alcune fonti, tra
cui circa duecento minorenni. Le famiglie non possono contattare o avere
notizie degli arrestati, né la Croce rossa può visitarli. Il che alimenta
le voci di pesanti violazioni dei diritti umani, quando non di vera e
propria tortura contro i presunti «fedelissimi» del vecchio regime. I
«modi» dell'occupazione sono offensivi: i raid nelle case, i soldati che
entrano sfondando le porte, l'atteggiamento verso le donne, incompatibile
con la cultura locale. Tutto ciò alimenta le manifestazioni per chiedere
sicurezza, rispetto, lavoro. Manifestazioni a cui prendono parte settori
molto diversi della società irachena.
È comodo, da qui, non vedere questa opposizione. Soprattutto perché essa
pone una richiesta precisa: lasciateci ricostruire il nostro paese. Che è
esattamente quello che gli Usa non vogliono fare. L'eventuale intervento
dell'Onu servirebbe solo ad abbassare le spese che l'amministrazione Usa
non è in grado di sostenere, ma Bush ha ribadito, pochi giorni fa, che non
c'è alcuna intenzione di cedere il controllo politico sull'Iraq. Meno che
mai agli iracheni.
Cosa questo significhi lo si può vedere sul terreno della ricostruzione. La
Bechtel, che ha avuto 680 milioni di dollari di appalti per la
ricostruzione delle infrastrutture civili, a Bassora non ha ancora aperto
un cantiere. Noi, piccola Ong, nella stessa zona, ne abbiamo aperti nove.
La differenza è che noi lavoriamo con gli iracheni. Loro hanno persino
paura di venirci in Iraq. La scelta statunitense di dare appalti alle
grosse multinazionali, che non conoscono il paese, non conoscono il modo di
lavorare, arrivano come «conquistadores», sta allungando in modo drammatico
i tempi degli interventi. Non si fidano degli iracheni. Per fare un governo
o per scavare un pozzo.
Da società a società
La proposta francese, poteri a un governo iracheno di transizione entro un
mese e elezioni entro sei mesi, può sembrare assurda, ma credo che sia
l'unica soluzione possibile. È la proposta anche dei governi arabi e dei
movimenti che in tutto il mondo si sono battuti contro la guerra. Fino a
che non si deciderà di avere fiducia negli iracheni, non si riuscirà né a
riportare la calma, né a ricostruire l'Iraq, che anzi rischia di diventare
il campo di battaglia tra gli Usa e le varie forme di islam armato, che si
stanno innestando sulla resistenza e l'opposizione irachena.
L'infiltrazione di combattenti provenienti da altri paesi aumenta il
rischio di un caos senza via d'uscita e dell'esplosione di scontri interni
che, finora, sono stati evitati dalla responsabilità dei leader delle varie
fazioni e partiti iracheni. È su questo tema che il movimento per la pace
dovrebbe tornare in piazza. Restituire l'Iraq agli iracheni, e lasciare che
siano essi a scegliere che stato darsi, religioso, meno religioso o laico
che sia.
L'Italia, poi, non si è limitata a mandare un contingente militare, ma
partecipa al governo coloniale dell'Iraq, condividendone le responsabilità,
ma senza avere alcun peso nelle decisioni. Il meccanismo di sfiducia
funziona anche nei confronti degli «alleati» degli Usa, non solo degli
iracheni. Tanto che, nonostante i desideri del governo di Roma, nessuna
impresa italiana sembra abbia avuto, finora, un solo appalto.
In Iraq si stanno finalmente mettendo in moto quelle forze della società
civile che altrove sono gli interlocutori, i partner, il riferimento per
chi, oltre a credere nell'opposizione in Italia, lavora per «esserci».
... È il momento anche per noi di lavorare con gli iracheni e di
frequentare la loro terra.
da www.carta.it