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La nonviolenza e' in cammino. 629
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 629
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac@tin.it>
- Date: Thu, 31 Jul 2003 20:15:51 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 629 del primo agosto 2003
Sommario di questo numero:
1. Antonia Pozzi: confidare
2. Aldo Capitini: teoria della nonviolenza (parte prima)
3. Ileana Montini: veli
4. Giovanni Mandorino: il rispetto del corpo dell'uomo morto
5. Andrea Fedeli: i cadaveri esibiti e la salvezza
6. Enrico Peyretti: paesaggi
7. Letture: Pier Cesare Bori, Saverio Marchignoli (a cura di), Per un
percorso etico tra culture
8. Letture: Rita El Khayat, La donna nel mondo arabo
9. Letture: Miriam Schiro', Un lottatore senz'armi: mio padre Lucio Schiro'
D'Agati
10. Riletture: Aicha Benaissa, Sophie Ponchelet, Nee en France
11. Riletture: Assia Djebar, Donne d'Algeri nei loro appartamenti
12. Riletture: Fatima Mernissi, La terrazza proibita
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'
1. POESIA E VERITA'. ANTONIA POZZI: CONFIDARE
[Da Cesare Segre, Carlo Ossola (diretta da), Antologia della poesia
italiana. Novecento, Einaudi, Torino 1999, 2003, tomo primo, pp. 614-615. La
poesia che presentiamo e' datata 8 dicembre 1934. Antonia Pozzi nacque a
Milano nel 1912, poetessa di straordinaria cultura e sensibilita', si tolse
la vita nel 1938]
Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurita'.
Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zagara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.
Ho tanta fede in te. Son quieta
come l'arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l'orzo intorno alla casa.
2. MATERIALI. ALDO CAPITINI: TEORIA DELLA NONVIOLENZA (PARTE PRIMA)
[Riproduciamo di seguito una prima parte (pp. 1-15) dell'opuscolo che
riporta alcuni testi di Aldo Capitini, Teoria della nonviolenza, Edizioni
del Movimento Nonviolento, Perugia 1980 (richiedibile presso la redazione di
"Azione nonviolenta", e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito:
www.nonviolenti.org). Aldo Capitini e' nato a Perugia nel 1899, antifascista
e perseguitato, docente universitario, infaticabile promotore di iniziative
per la nonviolenza e la pace. E' morto a Perugia nel 1968. E' stato il piu'
grande pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo
Capitini: la miglior antologia degli scritti e' (a cura di Giovanni Cacioppo
e vari collaboratori), Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977
(che contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoche'
integrale - ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche
dell'epoca - bibliografia degli scritti di Capitini); recentemente e' stato
ripubblicato il saggio Le tecniche della nonviolenza, Linea d'ombra, Milano
1989; una raccolta di scritti autobiografici, Opposizione e liberazione,
Linea d'ombra, Milano 1991, nuova edizione presso L'ancora del Mediterraneo,
Napoli 2003; e gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996.
Presso la redazione di "Azione nonviolenta" (e-mail:
azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org) sono disponibili e
possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di Capitini non piu'
reperibili in libreria (tra cui i fondamentali Elementi di un'esperienza
religiosa, 1937, e Il potere di tutti, 1969). Negli anni '90 e' iniziata la
pubblicazione di una edizione di opere scelte: sono fin qui apparsi un
volume di Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, e un volume di
Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1994, seconda edizione ampliata,
Fondazione centro studi Aldo Capitini, Perugia 1998. Opere su Aldo Capitini:
oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il messaggio
di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda almeno: Giacomo
Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Clara Cutini (a cura di), Uno
schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988; Fabrizio
Truini, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole
(Fi) 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini. Tra
religione ed etica laica, Clueb, Bologna 1991; Fondazione "Centro studi Aldo
Capitini", Elementi dell'esperienza religiosa contemporanea, La Nuova
Italia, Scandicci (Fi) 1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per
una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini,
Pisa 1998; AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume
monografico de "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante,
La realta' liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del
Rosone, Foggia 1999; Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta
2001; cfr. anche il capitolo dedicato a Capitini in Angelo d'Orsi,
Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001; per una
bibliografia della critica cfr. per un avvio il libro di Pietro Polito
citato; numerosi utilissimi materiali di e su Aldo Capitini sono nel sito
dell'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini: www.cosinrete.it]
Principi di nonviolenza
La nonviolenza risulta dall'insoddisfazione verso cio' che, nella natura,
nella societa', nell'umanita', si costituisce o si e' costituito con la
violenza; e dall'impegno a stabilire dal nostro intimo, unita' amore con gli
esseri umani e non umani, vicini e lontani. La manifestazione piu' concreta
ed anche piu' evidente di questa unita' amore e' l'atto di non uccidere
questi esseri e di non operare su di loro mediante l'oppressione e la
tortura. Questo impegno non e' che un punto di partenza (come nessuno nella
poesia, nella musica, puo' pretendere di esaurirle), e le imperfezioni del
nostro atto di unita' amore non possono essere compensate che dal proposito
di essere attivissimi in essa, nel tu che diciamo agli esseri nella loro
singola individualita', mai dicendo che basta. La nonviolenza non e'
l'esecuzione di un ordine, ma e' una persuasione che pervade mente, cuore ed
agire, ed e' un centro aperto: il che significa che ognuno prende
l'iniziativa di unita' amore senza aspettare che prima tutti si innamorino,
e la concreta in modi particolari che egli decide con sincerita', e con
dolore per ogni limite e impedimento che lo stato attuale della
realta'-societa'-umanita' ancora mette a sviluppare pienamente questa unita'
con tutti.
Vi sono, dunque, tanti gradi e tante espressioni della nonviolenza, ma, al
punto in cui siamo, esse si concentrano in un modo fondamentale, che e' di
non uccidere esseri umani. Mentre si sta stabilendo, oggi piu' che mai,
anche economicamente politicamente culturalmente, l'unita' mondiale
dell'umanita', l'atto di affetto all'esistenza di ogni essere umano ci porta
al punto di questa unita' umana. Verso gli altri esseri viventi ma non
umani, come gli animali e le piante, tutto cio' che e' fatto nell'affetto e
rispetto alla loro esistenza, apre l'unita' amore anche a loro e abitua a
sentire, di riflesso, il valore del non uccidere esseri piu' complessi e
piu' simili a noi, come sono gli uomini. La prassi del vegetarianesimo ha
percio' grande importanza.
La nonviolenza non e' soltanto contro la violenza del presente, ma anche
contro quelle del passato; e percio' tende a un rinnovamento della realta'
dove il pesce grande mangia il pesce piccolo, della societa' dove esiste
l'oppressione e lo sfruttamento, dell'umanita' nella sua chiusura egoistica
e nelle sue abitudini conformistiche e gusto della potenza. Ma finche' diamo
col pensiero e con l'atto la morte, non possiamo protestare contro la
realta' che da' la morte. E perche' la societa' non torni sempre oppressiva
sotto un nome od un altro, deve cambiare l'uomo e il suo modo di sentire il
rapporto con gli altri: la nonviolenza e' impegno alla trasformazione piu'
profonda, dalla quale derivano tutte le altre; e percio' non si colloca
nella realta' pensando che tutto resti com'e', ma sentendo che tutto puo'
cambiare, e che com'e' stata finora la realta' societa' umanita' non era che
un tentativo secondo i modi della potenza e della distruzione, e che vien
dato un nuovo corso alla vita con i modi dell'unita' amore e della
compresenza di tutti.
La nonviolenza e' in una continua lotta, con le tendenze dell'animo e del
corpo e dell'istinto e la paura e la difesa, con la realta' dura,
insensibile, crudele, con la societa', con l'umanita' nelle sue attuali
abitudini psichiche: non puo' fare compromessi con questo mondo cosi com'e',
e percio' il suo amore e' profondo, ma severo; ama svegliando alla
liberazione e sveglia alla liberazione amando; quindi distingue nettamente
tra le persone e gli esseri tutti che unisce nell'amore, tutti avviati alla
liberazione, e le loro azioni, delitti, peccati, stoltezze, assumendo il
compito di aiutare questi esseri ad accorgersi del male, e, se proprio non
e' possibile altro, contribuendo a liberarli dando, piu' che e' possibile,
il bene.
La nonviolenza e' attivissima, per conoscere gli aspetti della violenza e
smascherarli impavidamente; per supplire all'efficacia dei mezzi violenti
col moltipllcare i mezzi nonviolenti, facendo percio' come le bestie piccole
che sono piu' prolifiche delle grandi; per vincere l'accusa e il pericolo
intimo che essa sia scelta perche' meno faticosa e meno rischiosa; per dare
effettivamente un contributo alla societa', che ci da', in altri modi. altri
contributi. Proprio in questo tempo la nonviolenza ha il suo preciso posto
nell'indicare una svolta decisiva e nell'inserire il fatto nuovo. Che non si
veda un altro impero romano e un altro impero barbarico, e sempre
oppressioni e rivolte, nascere e uccidere e morire, e l'uomo dolorante e
illusoriamente lieto, perche' ancora non ha imparato a fondo quanto
dinamismo rinnovatore hanno l'interiorita', la liberta', l'amore. Proprio
appassionandoci per l'esistenza degli esseri viventi, rispettandoli piu' che
si puo', e dolendoci della loro morte, noi impariamo a sentire immortali i
morti e uniti all'intima presenza.
Chi e' nonviolento e' portato ad avere simpatia particolare con le vittime
della realta' attuale, i colpiti dalle ingiustizie, dalle malattie, dalla
morte, gli umiliati, gli offesi, gli storpiati, i miti e i silenziosi, e
percio' tende a compensare queste persone ed esseri (anche il gatto malato e
sfuggito) con maggiore attenzione e affetto, contro la falsa armonia del
mondo ottenuta buttando via le vittime.
La nonviolenza e' impegnata a parlare apertamente su cio' che e' male, costi
quello che costi, non cedendo mai su questa liberta', e rivendicandola per
tutti; e a non associarsi mai a compiere cio' che ritiene il male. Contro
imperialismo, tirannia, sfruttamento, invasione, il metodo della nonviolenza
e' di non collaborare al male; e di creare difficolta' all'esplicazione di
quei modi, senza sospendere mai l'amore per le singole persone, anche
autrici di quei mali, ma non esaurentisi in essi; cosi' si riconosce di
avere un alleato alla solidarieta' che si stabilisce tra gli oppressi,
nell'intimo stesso degli oppressori.
Chi e' persuaso della nonviolenza tende alla comunita' aperta, e percio' a
mettere in comune il piu' largamente le sue iniziative di lavoro, la
proprieta', non sfruttatrice, che egli possiede, la cultura (partecipando e
celebrando i valori culturali con altre persone), la liberta' (favorendola
con altri in assemblee nonviolente per il controllo e lo sviluppo
amministrativo della vita).
(Principi elaborati per il Centro di Perugia per la Nonviolenza costituito
nel 1952).
*
La nonviolenza nella prospettiva individuale e in quella sociale
La nonviolenza e' lotta.
Agli uomini usciti dalle guerre, agli animi che sentono il peso di
un'immensa stanchezza e il bisogno di un riposo che talvolta e' perfino
sogno di annullamento e piu' spesso e' idoleggiamento di uno stato lento,
comodo, col gusto di piaceri che non vengano tolti; prospettare l'idea e le
conseguenze della nonviolenza produce un urto doloroso; ed essi domandano
tra stizziti e allarmati: "ma e' cosi difficile ricomporre una vita
tranquilla, una casa, un orario giornaliero, e la fruizione dei beni della
terra; e bisogna invece affrontare un problema cosi sconcertante e
paradossale? Noi vogliamo la pace, l'umanita' vuole, merita la pace".
Penso che questa gente abbia una sensazione esatta. E' un errore credere che
la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo, matrimoni e
figli in grande abbondanza, nulla di spezzato nelle case, nessuna
ammaccatura nel proprio corpo.
La nonviolenza non e' l'antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui
tutto infranto, li' tutto intatto. La nonviolenza e' guerra anch'essa, o,
per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti,
le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e
il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e
di violenza disperata.
La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il
disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una
situazione tormentosa. La nonviolenza fa bene a non promettere nulla del
mondo, tranne la croce. E quegli uomini che dicevo prima non vogliono la
croce: disfatti o disorientati preferirebbero ritagliarsi una parte anonima
della vita, con uno stipendio immancabile, e frequenti "bicchierini" per
tirare avanti. Gli uomini, la civilta' infine del "bicchierino" per reggere;
e il bicchierino puo' essere liquore, fumo, vincita di lotteria, vita
sensuale, un appoggio insomma che ci sia realmente, un qualche cosa di
sensibile, che dica all'uomo attraverso un piacere: tu sei.
Questi uomini furono ingannati perfettamente dal fascismo, il quale di rado
era scomodo, ma nell'insieme ordinato e piacevole; e quando divenne pieno di
punte problematiche quegli uomini gli si ribellarono contro con una
sincerita' tale come se gli fossero stati avversi dall'inizio.
Per scoprire l'inganno del fascismo sarebbe bisognato non prendere l'ordine
per cosa assoluta; e per reagire sarebbe bisognato non prendere per cosa
assoluta il comodo proprio e circostante.
I regimi politici che assicurano comunque un ordine trovano sempre
moltissimi che li accettano, senza badare se l'ordine esterno non e' tradito
potenzialmente da una mentalita' sopraffattrice e avventuriera.
Si diceva durante il fascismo: "Nel '21 c'era il disordine, scioperi, i
treni non partivano; il fascismo ha stabilito l'ordine, la concordia tra
capitale e lavoro". E si diceva cosa insulsa; perche' il fascismo non
risolse i problemi del dopoguerra, quelli che generavano il "disordine"; e
se delle due fazioni avesse invece trionfato la socialista, avrebbe essa
stabilito il suo ordine; e allora e' da discutere sull'essenza, sulla
qualificazione dell'ordine: ordine fascista o ordine socialista? Che cosa
fosse l'ordine fascista si poteva intrinsecamente gia' vedere con l'occhio
alla sua sostanza morale; ma si vide nel fatto: partirono, si', i treni, ma
sono partite poi anche le stazioni.
La nonviolenza non e' appoggio all'ingiustizia.
Ma oltre l'equivoco della nonviolenza come pace, io vorrei chiarire e
dissipare un altro equivoco, che e' ancor piu' insinuante e pericoloso.
Nella lotta politica e sociale, necessaria in una societa' di ingiustizia e
di privilegi, la nonviolenza fa tirare un sospiro di sollievo ai tiranni di
ogni specie; e questo sospiro di sollievo e' per noi oltremodo tormentoso.
Se la nonviolenza dovesse essere interpretata, o comunque risolversi in
un'acquiescenza all'ingiustizia, a quella violenza di secoli cristallizzata
in potere e in privilegi decorati ora di una apparente legittimita', non ci
sarebbe una piu' tentatrice sollecitazione a metterla in dubbio ed
abbandonarla.
La nonviolenza non e' soltanto rifiuto della violenza attuale, ma e'
diffidenza contro il risultato ingiusto di una violenza passata. Di quanto
piu' di violenza e' carico un regime capitalistico o tirannico, tanto piu'
il nonviolento entra in stato di diffidenza verso di esso.
Bisogna aver ben chiaro che la nonviolenza non colloca dalla parte dei
conservatori e dei carabinieri, ma proprio dalla parte dei propagatori di
una societa' migliore, portando qui il suo metodo e la sua realta'. Il
nonviolento che si fa cortigiano e' disgustoso: migliore e' allora il
tirannicida, Armodio, Aristogitone, Bruto. Due grandi nonviolenti come Gesu'
Cristo e San Francesco si collocarono dalla parte degli umiliati e degli
offesi. La nonviolenza e' il punto della tensione piu' profonda del
sovvertimento di una societa' inadeguata.
La nonviolenza e' attiva e modesta.
Percio', e cosi chiariamo il terzo equivoco, la nonviolenza e' attivissima.
La nonviolenza e' prova di sovrabbondanza interiore, per cui all'uso della
violenza che sarebbe ovvio, naturale, possibilissimo, viene sostituita, per
ulteriore ricerca e sforzo, la nonviolenza.
Sarebbe anche qui falsificazione intendere il nonviolento come un pedante
occupato esclusivamente a torcere il volto davanti ad ogni menomo atto
violento, senza addentrarsi nella vita e nei suoi motivi. Tra il nonviolento
inerte e il soldato che si esercita faticosamente ed arrischia, la
possibilita' di un valore morale e' piu' nel secondo che nel primo.
Il nonviolento deve essere attivissimo sia per conoscere le ragioni della
violenza, per individuare la violenza implicita che si ammanta di legalita'
e smascherarla impavidamente; sia per supplire all'efficacia dei mezzi
violenti con il moltipllcarsi dei mezzi nonviolenti, facendo come le bestie
piccole che sono piu' prolifiche (e anche sopravvivono alle specie delle
bestie grandi); sia per vincere l'accusa e il pericolo intimo che la
nonviolenza venga scelta perche' meno faticosa e meno rischiosa: il
nonviolento deve portarsi alla punta di ogni azione, di ogni causa giusta,
appunto per curare il proprio sentimento che potrebbe stagnare e per farsi
perdonare dalla societa' la propria singolarita'. E' noto che gli obbiettori
di coscienza (cioe' coloro che non hanno voluto collaborare alla
coscrizione) sono stati uccisi a migliaia dai governi totalitari; e dove
sono stati tollerati, hanno chiesto spesso servizi rischiosi e dolorosi, per
esempio di sottoporsi agli esperimenti medici o di raccogliere i feriti
nelle prime linee.
E infine sara' opportuno chiarire anche un quarto equivoco, che cioe' il
nonviolento pretenda essere superiore per il suo atto di nonviolenza.
Non e' l'atto di nonviolenza per se stesso, ma tutto cio' che sta con esso e
all'origine di esso, che puo' costituire un valore.
L'animo, l'intenzione, l'amore, gli sforzi fatti, quanto di proprio
sacrificio ci sia stato messo: qui e' il valore sia dell'atto di violenza
che dell'atto di nonviolenza. E' evidentissimo che tra colui che per evitare
l'uccisione di un bambino si slanciasse con l'arma in mano a difenderlo a
rischio di essere ucciso egli stesso, e il nonviolento che se ne stesse ben
lontano e inerte, avrebbe maggior valore il primo, quando il secondo non si
fosse gettato tra l'uccisore e il bambino a persuadere ed anche a offrire il
suo corpo, avanti a quello del bambino, al colpo mortale.
Concetti e modi della nonviolenza.
Chiariti e dissolti questi equivoci, sara' bene ora prender contatto con il
concetto stesso della nonviolenza.
Violenza e' un concetto relativo all'oggetto sul quale si esercita una certa
azione. Quanto meno io considero quell'oggetto in cio' che esso e' per se
stesso, tanto piu' mi avvio alla violenza contro di esso.
La nonviolenza e' una presa di contatto col mondo circostante nella sua
varieta' di cose, di esseri subumani, e di esseri umani, e' un destarsi di
attenzione alle singole individualita' di tutti questi oggetti circostanti
per porsi un problema: "che cosa e' questo singolo oggetto? qual e' la sua
caratteristica, la sua vita, la sua liberta', il suo formarsi dal di
dentro?".
E' la sospensione dell'attivismo che consideri tutto, senza eccezione, come
mezzo, fino a quei casi tipici che sono come il lusso e il gioco di questo
attivismo, come l'incendio di Roma da parte di Nerone per vederne la
bellezza, o il letto su cui il brigante greco Procuste stendeva i suoi
prigionieri stirandoli o stroncandoli secondo che fossero piu' corti o piu'
lunghi. Sospensione di attivismo che e' attivissima moltiplicazione
d'attenzione, d'interesse, di affetto, potenziamento della vita interiore
proprio mediante questo collegamento in atto di tutto il reale nelle sue
innumerevoli individuazioni con l'intimo nostro.
Ma questo non e' che un punto di partenza, perche' di qui comincia un
movimento, una tensione.
Ad una parte degli oggetti assegno un compito di collaborazione, prendendo
interamente su di me la definizione del fine del lavoro con cui essi
collaborano; e questi oggetti chiamo cose.
Nei riguardi delle "cose" io non mi pongo altro dovere che di adoperarle
bene, di chiamarle a collaborare ad atti di cui assumo la responsabilita'; e
la malvagita' sta non nell'usare l'acqua per un bagno, ma se nel bagno
affogo il bambino, invece di lavarlo semplicemente, buttando l'acqua ad
altro destino. Per il carbone fossile stare nell'interno della terra o
muovere una locomotiva puo' essere indifferente, come per la pietra che sta
nel monte, in un monumento o come polvere sulle strade.
Puo' darsi che un giorno il nostro occhio scopra altro e diventi possibile
ridurre il campo delle cose, stabilendo con alcune di esse un rapporto di
collaborazione meno imperioso e meno antropocentrico: e' un problema questo
non vano, e di un orizzonte vastissimo, schiuso proprio dal principio della
nonviolenza, che e' inquietudine continua, passione mai saziata di interesse
per le individualita'.
Vi e' poi il gruppo di esseri subumani. E c'e' come un gruppo di passaggio
in tutti quegli esseri di minima vita, microrganismi e microbi, rispetto ai
quali non possiamo fare che una valutazione di "cose" sempre pero' con
quella speranza e quel problema, che nuove indagini e nuove intuizioni
permettano una collaborazione migliore: chissa', per esempio, che non si
riesca a trovare il modo di volgere a benefica l'azione malefica di molti
microbi.
Ma quando incontriamo vite piu' sviluppate, individualita' con cui e'
possibile stabilire un rapporto complesso, qui sentiamo la gioia di salvarci
con piu' ragione dalla considerazione di "cose". Cio' non toglie che ci si
possa interessare a cose minime, rispettarle nel loro essere; che io possa
appassionarmi all'individualita' di quella farfalla che ho visto nel
boschetto e che vivra' oramai una settimana, di quel filo d'erba, di quel
sasso. Questo prova che la nonviolenza, essendo unita'-amore e' espressione
nostra, e' collocazione e scelta volontaria, non un dogma; e ognuno puo' a
sua ispirazione (Spiritus ubi vult spirat) dirigerla. San Francesco voleva
che l'ortolano non lavorasse tutto l'orto, ma ne lasciasse una parte dove le
cosi' dette erbacce potessero crescere liberamente, perche' per lui la
spontaneita' di quel crescere, la bellezza di quelle erbe, e che esse
attestassero e lodassero Dio, era la stessa cosa. E cosi egli preferiva che
l'albero si tagliasse lasciandogli la radice e la possibilita' di crescere
nuovamente.
Noi possiamo su tutta la scala degli esseri non umani istituire a noi stessi
delle direttive, che anche se non sempre attuate, provano che in noi vive un
problema, una passione, una direzione.
Preferire, per esempio, di regalare piante intere piuttosto che fiori,
rinunciare alla caccia, adoperarsi per addomesticare bestie selvagge.
Il vegetarianesimo, per esempio, e' una cospicua scelta che viene fatta nel
campo degli esseri subumani. Si decide di rinunciare al cibo che comporti
uccisione di animali; e con cio' stesso muta il nostro modo di avvicinarsi
ad essi, il nostro modo di considerarli; si accetta sorridendo ma con
fermezza l'apparente stranezza che galline e pecore, dopo averci dato uova e
lana, "muoiano di vecchiaia": si amplia, al posto della violenza spietata
alle sofferenze e all'uccisione, quel piano di collaborazione in cui
consiste l'incremento della civilta'.
Questa "sospensione" introdotta nella leggerezza sterminatrice e nella
freddezza utilitaria si riflette in accrescimento di valore interiore. Ma
c'e' di piu' e forse di meglio. Io debbo confessare che, pur avendo un
notevole interesse all'esistenza degli animali, mi decisi al vegetarianesimo
nel 1932, quando, nell'opposizione al fascismo, mi convinsi che l'esitazione
ad uccidere animali, avrebbe fatto risaltare ancor meglio l'importanza del
rispetto dell'esistenza umana.
Consideriamo, dunque, la nonviolenza in questi gradi anteriori come un
addestramento che ha due atteggiamenti, quello di considerare cio' che e'
altro da noi come "cosa" ma con l'impegno a servirsene per un fine degno e
alto; e l'atteggiamento di considerarlo come "esistente", rispettato e amato
percio' come tale.
Due atteggiamenti, come ho detto, non rigidi, ma in dialettica, in
travaglio, e appunto percio' prova della vitalita' interiore di un
appassionamento. Ma sia come un prologo al mondo umano. Noi sappiamo che
tutte le volte che in pedagogia ci si e' posti il problema del piu' basso,
di cio' che e' infimo, si e' fatto un grande passo: quando si e' cercata
l'educazione dei deficienti, o dei molto piccoli o dei molto poveri, si sono
scoperti sempre metodi che hanno dato risultati prodigiosi applicati agli
altri.
E cosi in questo prologo ci siamo posti dei temi: portiamoli ora nel mondo
umano, e sentiremo una risonanza grandiosa.
Riguardo ad esseri umani la nonviolenza e' l'appello continuo e intenso alla
comprensione, alla spontaneita', alla capacita' che ha l'altro essere umano
di giungere ad una decisione razionale.
Nel campo umano la dedizione a questo appello ha un fondamento piu' saldo
che per ogni altro essere: basta che io pensi che colui che incontro,
potrebbe essere mio figlio: nulla di eccezionale in questo sentimento di
genitura, per la somiglianza umana che c'e' tra noi.
Del resto, io penso che sempre nei riguardi di un essere umano debbo
richiamarmi a un punto interno in cui io mi senta madre di lui; che debbo
abituarmi a costituire costantemente questo atteggiamento nel mio intimo;
che, insomma, almeno per una volta, esaurite e sfogate se si vuole, tutte le
altre possibilita', io debbo domandarmi: "ma mi sono anche considerato pur
per un istante madre di costui? come agirei se fossi sua madre, certo una
madre non stolta, ma pronta a vedere che cosa c'e' a favore di lui, a
sperare per lui?".
La nonviolenza, porgendo l'appello alla razionalita' altrui, e' anche un
potenziamento del tu, e dell'interesse a che l'altro viva, si svolga, e come
un generarlo dall'intimo nostro, una gioia perche' l'altro esiste, un
appassionamento alla radice. Come noi potremmo avvicinarci all'infinita
miseria degli esseri umani, alle loro limitazioni, curare le loro
infermita', sopportarli, se non portassimo un infinito compiacimento che
l'altro esiste e proprio come essere umano? In questo atto si va oltre lo
stato di felicita' e infelicita', e si vive il sacro per cui ogni essere che
viene alla luce entra in qualche cosa di positivo, di la' dalla sua miseria
e dalla sua grandezza. Lo spirito lo tocca, e io posso raggiungerlo col mio
atto: qui siamo nella presenza religiosa, che e' piu' di ogni limitatezza,
deformita', malattia, bruttezza. La nonviolenza mi fa risaltare l'importanza
dell'atto col quale mi avvicino ad uno, atto di presenza aperta, superiore
alla felicita' o infelicita', a cio' che puo' accadermi o accadergli.
E se io voglio che l'altro sia in un certo modo, il ripudio dei mezzi
violenti mi induce ad una tensione interiore perche' io anzitutto viva
quello che voglio dall'altro, perche' io prenda su di me il compito di
attuare quel meglio, di portarmi a quel grado, di purificarmi, di
sacrificarmi, fino al sacrificio supremo di dare l'atto di nonviolenza al
posto dell'atto di violenza, e di trasferire con atto d'amore nell'intimo
dell'altro il punto a cui ero giunto. In questa nonviolenza si attua la fede
nell'unita' di tutti, e nell'efficacia che cio' a cui mi tendo io (o cio'
per cui io prego, per dirla nei termini tradizionali) influisce su di un
altro, pur lontano, quanto piu' di sacrificio e di purezza interiore io vi
metto.
Sarebbe piu' agevole che con un mezzo esteriore e violento io agissi
sull'altro, ma quanto perderei di interiorita', di qualita'!
Attuazione della nonviolenza.
Un principio che sta dentro l'atto della nonviolenza e' la potente
sollecitazione dell'impegno della propria persona.
La radice della nonviolenza sta nell'essere nonviolento, internamente, prima
dell'atto rivolto agli altri; e anche questo conferma che la nonviolenza non
e' un atto puntuale, ma una disposizione, una formazione, un'educazione,
un'intenzione, un insieme. Se la nonviolenza e' promovimento della tua
razionalita', della tua bonta', della tua spiritualita' superiore, bisogna
che io anzitutto mi tenda alla mansuetudine e alla ragionevolezza. Non si
puo' insegnare la nonviolenza con l'odio e le fucilate. Se io voglio che tu
agisca da persuaso interiormente, bisogna che io prima sia in tutto persuaso
e non retore. Se io voglio che nel mondo ci sia qualche cosa, e in questo
caso, un atto di unita'-amore insistente fino anche al sacrificio, se non ci
metti tu questo atto, o ancora non ce lo metti, ce lo metto io.
Quanto ai modi dell'attuazione della nonviolenza io vorrei sottrarli a
quella casistica che sorge per ogni proposito di azione, e anche per questo.
Tutti quelli che hanno esperienza di questo proposito, hanno anche
esperienza di una lunga discussione con se stessi e con gli altri sui casi,
sui modi. Piu' di quindici anni di questa esperienza mi hanno confermato che
e' lo spirito che conta, ed e' l'approfondimento di questo che fa progredire
la civilta'.
C'e' una scala di attuazione, una scelta, una creazione; non e' un dogma e
un ordine di chissa' chi: la nonviolenza e' una creazione che uno attua. Ci
puo' essere un'attuazione cosi' meticolosa da far sorridere; e non c'e'
nulla di male. Una civilta' che consuma tanto suo tempo in mille cose futili
e fatue, puo' ben consumarlo in questo campo. C'e' un eccesso e un ridicolo
che e' in funzione del sublime. Un discepolo di San Francesco aveva spinto
cosi' oltre il precetto dell'imitazione della santita', che ripeteva ogni
atto che vedesse fare al Santo, perfino sputare. E San Francesco ne
sorrideva. Tutti sappiamo che vi sono diverse interpretazioni e attuazioni
della nonviolenza, fino a quella che non si puo' parlare di "violenza"
quando si colpisce per diritto e a giusta ragione. Io qui esporro'
l'interpretazione che risulta dalla mia esperienza.
Considererei come un grande dolore se nel momento della morte di un
qualsiasi essere umano io non desiderassi con tutte le mie forze che quella
morte non avvenisse.
Non posso accettare come veramente mio il mondo dove le persone cadono come
oggetti, ma quello dove tutti sono soggetti, vivono, si svolgono. Se non
sentissi sempre questo, se avessi fatto qualche eccezione a questo, oggi
dovrei moltipllcare la mia tensione per riparare al passato.
E realmente io debbo riparare al passato, che oltre che mio, e' di tutte le
civilta' trascorse; e, istruito da questa insufficienza, oggi non sono tanto
disposto a farmi sorprendere dall'indifferenza, e sto attento perche' non
perda questa passione fondamentale ad ogni momento in cui la morte si
manifesta in questa realta'.
Percio' e' inutile che io raccolga armi vicino a me e mi addestri ad usarle,
se so gia' quale sarebbe la mia posizione domani. Da questo si riflette uno
stimolo ad atteggiare il mio fare in modo che senta di non poter far conto
su mezzi violenti, e che a mia disposizione non c'e' che il prestigio
dell'esempio, l'intima trasparenza, la razionalita' della persuasione, la
forza dell'anima. Potro', a parte il ripudio della uccisione, ricorrere a
dei mezzi che diminuiscano l'effetto della violenza dell'altro, specialmente
se in uno stato di furia; ma sempre tali che non lo mettano in uno stato di
tortura ne' in uno stravolgimento della sua possibilita' di razionalita'.
L'importante e' che in quel momento io mi immedesimi col problema
dell'altro, e della sua formazione verso la liberta', la razionalita', la
bonta'; e che, assicurate queste dalla parte mia, mi rifiuti ai mezzi che la
turbino nell'altro. La tortura, cioe' che io provochi in te il dolore per
ottenere qualche cosa da te, che senza la tortura mi rifiuteresti, non e'
per me giustificata da nulla, perche' io non voglio mai provocare il dolore,
ma riparare al dolore: essere non al punto in cui si causa il dolore (che e'
questa realta' e il mondo della limitatezza), ma al punto in cui si supera
il dolore, che e' la realta' autentica, il mondo del valore. Se questo mondo
e' la mia croce, ma io sono piu' del mondo, sono dall'infinito. Come davanti
alla morte, cosi davanti alla sofferenza di un altro, ho la passione di
essere non dalla parte del mondo ma del sopramondo eterno che qui si apre,
non dalla materia ma dalla forma, non dall'esteriorita' ma
dall'interiorita', non con un Dio che batte, ma con un Dio che porta nel
valore dell'amore che sempre si accresce, e che, come la liberta', non
esiste, se non si fa ancora piu' amore, ancora piu' liberta'.
La nonviolenza e la societa'.
A questo punto, dopo aver guardato la cosa dall'individuo, bisogna guardarla
dalla societa'; altrimenti mi si potrebbe dire che tutto quello che ho detto
e' "prima della nascita della societa', dello Stato". L'obbiezione piu'
formidabile e' questa: "non faccio questione di me come singolo, della mia
difesa, della mia esistenza, ma della societa', del suo ordine, della norma
che io debbo sostenere e contribuire a tener viva, per cui non e' lecito che
uno si serva della violenza: come potro' far questo senza l'uso della forza?
come potra' avvenir questo se il cittadino manca al suo dovere di
riconoscere la necessita' dell'uso della forza in qualche caso? Una societa'
non ha connessione senza l'uso parco e regolato della forza".
Qui debbo richiamare quel carattere drammatico della nonviolenza del quale
ho parlato all'inizio. Ho gia' detto che per intendere la nonviolenza
bisogna lasciar di guardare l'ordine, la compostezza, la pace: bisogna,
invece, prender su' risolutamente una responsabilita', che puo' essere anche
in mezzo all'avversione e al biasimo; e' una scelta severa e tremenda. La
nonviolenza non e' per conservare alcuna cosa di questo mondo, sia
dell'individuo o della societa': non il piacere, il comodo, la casa, il
letto, la roba, la vita, le cose fatte, costruite, l'ordine sociale, la
regolarita' dei servizi pubblici, l'esistenza dei cari, degl'innocenti. Non
e' un accrescimento di sicurezza che tutte queste cose permangano; anzi e'
una rinuncia interiore a questa sicurezza; e' in potenza la morte di tutto
questo. E' la possibilita' di perdere tutto cio' che e' nel mondo, il
Memento mori, non immaginazione oziosa, ma legato a un impegno, a un'azione.
Perche' nello stesso tempo la nonviolenza afferma un valore; ed e' dunque
atto, resurrezione. La societa' col suo ordine, la vita con i suoi oggetti,
non possono costituire quell'assoluto che si imponga indiscutibile e tolga
la possibilita' di un contributo, di un'iniziativa. Siamo davanti, in questo
tempo, ad una societa' impiantata cosi' che vorrei chiamarla "la societa'
dei pubblici servizi", una societa' pratica, del tempo dell'attivismo, del
tempo dei molti aspetti del vivere, delle varie cose. I pubblici servizi
esigono una difesa di essi con tutti i mezzi; e questo non e' la societa'
come concetto eterno: non e' che un tipo della societa' della vita,
corrisponde a una scelta che l'uomo di oggi fa: il che non esclude che si
possa fare un'altra scelta, presentare un altro tipo. Il significato
religioso della nonviolenza sta proprio nel preparare un altro tipo,
un'altra realta'. E' evidente che se si volesse configurare la societa' non
con la trama interna della difesa dei pubblici servizi, ma con la trama
interna della celebrazione di atti di infinito tu alle persone, tutta la
prospettiva muterebbe. La societa' romana aveva per trama la tutela dei
diritti del civis, la societa' cristiana aveva per trama la fruizione dei
carismi divini.
La societa' non e' un qualche cosa di staccato da me. E percio' come io, in
quanto individuo, ho il dovere di interiorizzarla e di rendermi conto delle
sue ragioni, ho anche il diritto di andare eventualmente oltre di essa. Non
quando io fossi ribelle, disordinato, ex lege, per natura; ma se seguo le
leggi che ritengo giuste, se attuo cio' che e' ordine, se continuamente
utilizzo l'esperienza tradizionale della societa', posso bene, quando sia in
gioco un valore, quando nel resto della mia vita sia solito a stare in
guardia contro il gusto personale e l'originalita' di proposito, innovare,
prendere un'iniziativa, dare un contributo, e in questo caso sentire,
vivere, e far vivere, che la vera societa' e' oltre quella dell'ordine
sociale, della difesa dei diritti, del mantenimento dei pubblici servizi; ma
e' oltre, nel regno degli spiriti, cioe' dei soggetti, cioe' dell'amore da
instaurare subito a costo di sacrifici. Accanto ad una societa' che usa la
guerra come via alla pace, la violenza come via all'amore, la dittatura come
via alla liberta', la religione mi porta ad anticipare di colpo il fine nel
mezzo; e ad attuare comunque, qui e subito, pace, amore, liberta'. La
religione e' impazienza dell'attendere il fine; e oggi che l'universo, il
tempo, lo spazio, non sono sentiti in dualismo stabile con l'infinito e
l'eterno, porremo noi questo dualismo nella societa' tra il mezzo e il fine?
Il limite del realismo.
Se si ostenta la natura umana nel suo fondo utilitario e violento, nelle sue
forze brute, che vanno continuamente represse e indirizzate, ma che sono
insopprimibili, la persuasione della nonviolenza non nega senz'altro questo,
non chiude gli occhi come lo struzzo per non vedere il nemico; e riconosce
che la situazione e' drammatica, quasi sempre drammatica, e ne accetta le
conseguenze. Pero' porta con se' una fede, che ha tanta conferma nella
attuale concezione della realta' fisica; la fede che tutto cio' che e' un
dato non e' un continuum senza interruzione, ma e' come a respiri con
intervalli, nei quali e' possibile inserire altro. Con quale certezza
possiamo noi dire che quella cosa e' sempre cosi? Questa sospensione della
continuita' si puo' applicare alla politica, per cui viene a risultare
insufficiente e quasi ingenuo, quel certo realismo di tipo machiavellico che
non tiene conto degli intervalli in cui e' possibile far agire forze d'altra
provenienza: quel realismo e' una specie di imitazione della natura in
ritardo. E cosi' per quella natura che e' la psiche, alla quale si vorrebbe
applicare solidita' e costanza invece di un ritmo di respiri e di tentativi
con intervalli e possibilita' di inserzione di temi e forze e prospettive
diverse. La nonviolenza e' fede in questa possibilita' di intromissione
miracolosa e rinnovatrice, per lo meno a suggerire e far rivivere una certa
realta' diversa.
Accettiamo che la civilta' culmini nel culto attivo dei valori, e che le
forme della civilta' siano insufficienti quando sono principalmente
amministrative, giuridiche, diffonditrici piu' che produttrici di valori. Ma
se la nonviolenza e' nella sua radice, nella sua intenzione, nella zolla che
la sostiene, un valore, ha ben il diritto di chiedere che la civilta'
attuale si allarghi a comprenderlo. Quando si segue un valore si scopre
sempre qualche cosa, una realta' anche maggiore della cercata, come Colombo
che ritrovo' non le Indie, ma scopri' un nuovo continente. Lo so, si puo'
perdere tutto; ma si puo' approfondire la conferma che la vita da un punto
di vista religioso e' eterna presenza aperta nel mondo, quanto piu' vivendo
dall'intimo i valori e la loro pace, tanto piu' incontrando asprezze, disagi
nelle cose e nel corpo, colpi simili alla morte. Non per pochi aspetti la
civilta' attuale sembra perdere il senso della distinzione tra il valore,
che e' fine, e il resto, che e' mezzo; e conquista e difende quelli che
sarebbero semplici mezzi come se essi fossero valori. Si mette, certe volte,
tutto nella conquista e nella difesa, e si tratta anche di cose fatue; tanto
piu' e' importante stabilire una prospettiva, e mostrare che si e' capaci,
per un valore, di perdere tutto il resto.
Mostrare, ho detto intendendo: non soltanto agli altri, ma a se stessi,
perche' anzitutto la nonviolenza ha un carattere di edificazione interiore.
Cio' non e' contro il principio dell'estensione della razionalita'. Si puo'
e si deve accettare che la razionalita' nell'uomo e nella societa' si
estenda sempre, e che l'uomo si faccia sempre piu' autonomo, e la societa'
sempre piu' democratica. Ma ad un tratto potrebbe avvenire, e avviene, che
si sospende la razionalita' e la democrazia con un atto di violenza. Il
metodo religioso, invece, contrappone l'atto e l'esempio di nonviolenza,
aggiunto ad arricchire la razionalita' e la democrazia. Rendiamo la societa'
sempre piu' democratica promovendo la razionalita', l'autogoverno, lo
scambio razionale, il controllo e lo sviluppo etico, civile, economico di
tutti; e in questa societa' aggiungiamo persone o gruppi che costituiscano
centri religiosi.
Tutti quelli che hanno parlato di nonviolenza nella esperienza
etico-religiosa di millenni hanno sentito piu' o meno consapevolmente che la
vita offre difficolta' e fatiche, che ogni giorno ha la sua pena, e che se
ci si vive dentro semplicemente lottando, ma divisi l'uno dall'altro, non
basta; che se invece si attua anche una intima e superiore unita', di
apertura sincera, di aiuto incondizionato, di sostituzione, tra noi, del
bene al posto del male, allora la realta' della lotta con le asprezze puo'
essere sostenuta, integrata, superata. E alle reazioni moderne alla
nonviolenza, reazioni, per esempio, del Marx e del Sorel in nome dello
sviluppo sociale, noi diciamo: ebbene, permetteteci di vedere questo flusso
storico da un intimo, di aggiungere questa presenza.
(Da Il problema religioso attuale, 1948).
*
(Continua nel prossimo numero del notiziario)
3. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: VELI
[Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini@tin.it) per questo
intervento. Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, gia'
insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta. Nata nel 1940 a Pola da genitori
romagnoli, studi a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima
scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia; giornalista per
"L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle; di forte impegno
politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e fatto parte di, varie
redazioni di periodici: della rivista di ricerca e studio del Movimento
Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo
Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain"
di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della rivista "Jesus
Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle"
insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il manifesto"; ha
collaborato anche, tra l'altro, con la rivista "Testimonianze" diretta da
padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come "Reti", "Lapis", e alla
rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora al "Paese delle donne".
Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita' di Base; e preso parte
ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non solo genericamente
politico ma gramscianamente intellettuale e morale della sinistra critica in
Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa,
scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (Bertani,
Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini (Bertani,
Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella
cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un
libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui ha
redatto il progetto e curato la supervisione delle operatrici: titolo: "...
ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente
ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta Crocella, Attraverso il
silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che racconta l'esperienza del
Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione
psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni
d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un progetto di Ileana Montini e con
alcune donne alla fine degli anni ottanta, preceduto dalla fondazione,
insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir".
Su Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica, la sua riflessione, hanno
scritto pagine intense e illuminanti, anche di calda amicizia, Lidia
Menapace e Rossana Rossanda]
Non so se noi italiani - o noi occidentali - ci rendiamo conto del
significato del velo islamico. A me pare che rischiamo facilmente di fare
un'operazione riduttiva quando per esempio paragoniamo la situazione delle
donne velate alla nostra di quarant'anni fa.
E' vero che a quei tempi in Italia le donne meridionali portavano quasi
sempre il foulard e in chiesa erano, tutte e ovunque, costrette a coprire il
capo. Poi, vuoi il Concilio Vaticano II, vuoi la rivoluzione sessuale da una
parte e, dall'altra, quella femminista, si e' verificato un mutamento dei
costumi. Ma c'erano, come dire, delle premesse che erano l'antico humus
delle battaglie sui diritti di cittadinanza e il criterio del soggetto e
quella delle differenze.
Se noi, comunque, tendiamo a semplificare, c'e chi ci richiama a non farlo
perche' non sarebbe di grande aiuto alle donne dei paesi islamici (e alle
emigrate di quei paesi in Occidente).
Di questo si fa carico la sociologa Nilufer Gole nel saggio Musulmanes et
modernes, gia' pubblicato dieci anni fa e ristampato in francese nelle
edizioni Decouverte con un aggiornamento.
La sociologa ci avverte del particolare significato che ha il velo islamico
per affermare l'alterita' dell'Islam nei confronti dell'Occidente. Scrive:
"Il corpo e la sessualita' delle donne si manifestano come un luogo politico
di differenza che resiste alle forze di omogeneizzazione e di egalitarismo
delle modernita' occidentale. Nella sua qualita' di emblema contemporaneo
dell'islamizzazione dello spazio pubblico, il velo rappresenta il punto di
cristallizzazione dei conflitti fra religione e modernita', tra Islam e
Occidente ma anche tra uomini e donne".
Le donne dell'Islam, se ascoltate, sembrano confermare questa tesi. E'
quanto emerge dalla lettura di un libro, Dietro il velo (Sperling & Kupfer,
Milano), di Jean P. Sasson, che ha prestato la penna a una principessa
dell'Arabia Saudita che voleva far giungere la sua voce in Occidente.
Vorrei raccogliere alcuni stralci, come in un collage, riferiti al velo.
"Dal momento delle mestruazioni, comparse due anni prima, Sara aveva messo
il velo. Il velo la rendeva una non persona e ben presto smise di parlare
dei sogni di grande successo che aveva coltivato negli anni infantili" (p.
23).
"In Arabia Saudita la comparsa del menarca significa che e' giunto il
momento di scegliere il primo velo e l'abaya con la piu' grande cura" (p.
52).
"Oltre a questo spesso velo alcune donne piu' conservatrici indossano guanti
neri e calze spesse e nere in modo da non mettere in mostra nemmeno un
centimetro di pelle" (p. 53).
"Nel negozio entra una ragazza ma ne esce una donna velata, e da quel
momento disponibile al matrimonio". "Gli uomini non fanno caso alla bambina
che entra nel negozio, ma una volta indossato il velo e l'abaya, sguardi
discreti cominciano a carezzarla. Adesso gli uomini cercano di sbirciare
quella caviglia che d'improvviso e' diventata tanto erotica. Una volta
velate, noi donne arabe diventiamo estremamente stuzzicanti e desiderabili
per l'uomo arabo". "Sara mi guardo' con grande tristezza e mi abbraccio' a
lungo, sapeva che da quel giorno in poi sarei stata considerata una minaccia
e un pericolo per tutti gli uomini finche' fossi stata sposata e rinchiusa
in una casa" (p. 54).
Dovremmo fare piu' attenzione alla percezione che del velo islamico e del
suo significato di sottomissione nei confronti dei maschi, hanno le donne di
quei paesi, appunto, evitando frettolose e falsamente tolleranti giudizi.
4. RIFLESSIONE. GIOVANNI MANDORINO: IL RISPETTO DEL CORPO DELL'UOMO MORTO
[Ringraziamo Giovanni Mandorino (per contatti: g.mandorino@tiscali.it) per
questo intervento. Giovanni Mandorino e' una delle piu' rigorose e attive
persone impegnate per la nonviolenza. Tahar Ben Jelloun, da un cui scritto
questo intervento prende le mosse, e' uno dei piu' grandi scrittori ed
intellettuali viventi, autore anche di due aurei libretti come Il razzismo
spiegato a mia figlia, e L'Islam spiegato ai nostri figli, entrambi presso
Bompiani, Milano]
Su "La Repubblica" del 25 luglio e` apparsa una importante riflessione di
Tahar Ben Jelloun ("Quando si esibisce il nemico morto") sull'ultima eroica
impresa dell'"Amministrazione" statunitense.
Peccato che lo stesso quotidiano su cui erano riportate le riflessioni di
Ben Jelloun, presentasse in prima pagina e sul sito web le foto del
massacro.
Ben Jelloun fa riferimento alla tradizione musulmana da cui proviene.
Ma, pur non essendo un praticante (e forse neppure un credente), mi sembra
di poter dire che anche la nostra tradizione cristiana (e comunque tutte
quelle attente ai diritti umani) richieda il rispetto del corpo dell'uomo
morto (e, magari, anche della vita del criminale).
Questo stesso rispetto non e`, evidentemente, estraneo alla cultura
statunitense se Bush ebbe a dolersi (giustamente) delle foto fatte circolare
dal governo iracheno dei soldati (statunitensi) uccisi in battaglia.
Credo di non dare una interpretazione particolarmente forzata se sospetto
che questo diverso atteggiamento sia in realta` frutto di una confusione
concettuale: per me e per voi, per quanto ci possa capitare di dare un
giudizio negativo sulle azioni che i singoli individui possono aver
commesso, gli iracheni (anche i figli di Saddam), come gli afghani di
Guantanamo Bay, sono pur sempre uomini, condividono la nostra intima
essenza. Non e` detto che la stessa cosa valga, oggi, per
l'"Amministrazione" statunitense. Il che, vista anche la lezione della
storia, non puo' che metterci i brividi.
5. RIFLESSIONE. ANDREA FEDELI: I CADAVERI ESIBITI E LA SALVEZZA
[Ringraziamo Andrea Fedeli per questo intervento. Andrea Fedeli (per
contatti: biiofe@tin.it) e' impegnato per la promozione di una cultura della
pace e nella difesa dei diritti umani]
... con il fatto di essere esposti nella nudita' dei loro corpi raggelati
dalla morte, i figli di Saddam Hussein hanno riacquistato una dimensione
umana che ce li porta vicino come fratelli, loro gli assassini, loro i
torturatori, loro le bestie sanguinarie che senza pieta' infieriscono sui pr
opri "sudditi" renitenti.
Vedendo quelle immagini, corpi-cose senza dignita', forse non solo a me e'
venuto in mente che un tempo furono bambini, esseri indifesi aperti sul
mondo pronto a formarli, che sorrisero alla loro madre. Bambini con un padre
come Saddam Hussein.
E per quanto male abbiano commesso, per quanto si siano macchiati di
atrocita' che non mancheranno di scontare, sono emersi attraverso quelle
fotografie (per molte persone, tra cui io, solo attraverso quelle
fotografie) come degli esseri disperati, vicinissime a noi nella loro
finitezza tragica.
Un'altra cosa. Subito dopo questo moto di pieta' e' sorto in me uno
spregevole senso di "giustizia" a dirmi che sotto i loro coltelli molti
uomini hanno sofferto e sono morti, i loro coltelli branditi con sadismo
probabilmente. E allora plauso agli americani che hanno reso giustizia... Io
come i parenti delle vittime che invocano la pena di morte di fronte ai
penitenziari.
E allora di nuovo mi sono sforzato di tornare su quei volti emaciati, quei
corpi-cose senza dignita', e dopo aver smascherato il mio bieco istinto, con
concentrazione, ho recitato alcune volte il mantra di Chenrezig, per loro
(un'"intenzione" di cui probabilmente le loro vittime non hanno goduto; e in
me per una seconda volta il senso di "giustizia" a ribellarsi: d'accordo la
pieta' umana e l'aiuto, ma non piu' che per le loro vittime; ancora
quell'istinto atavico da smascherare nuovamente, ancora quella logica,
quella "giustizia" del mondo, che sgorga dalle radici che alimentano la
natura chiusa e matrigna).
Cosi', grazie a quelle fotografie, io ho compiuto dei passi in avanti
rispetto alla mia coscienza. Cosi', grazie a quelle fotografie, per quei
dannati (quanti altri avranno recitato un mantra, una preghiera, avranno
provato un moto di pieta' e formulato, magari implicitamente,
un'aspirazione...) un, forse ulteriore, sottile spiraglio di luce.
6. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: PAESAGGI
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti@tiscalinet.it) per
questo intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno
di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999. E' diffusa attraverso la rete telematica
(ed abbiamo recentemente ripresentato in questo notiziario) la sua
fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica
delle lotte nonarmate e nonviolente]
Alla proposta di tenerle sempre, le bandiere di pace, si obietta che
diventano un elemento insignificante del paesaggio.
Si puo' rispondere che su edifici pubblici e scuole le bandiere italiana ed
europea ci sono sempre, e si vedono.
Anche le bandiere sulle case siano visibili sempre, vecchie o rinnovate.
Almeno fino ad una chiara politica italiana di pace, che ora non c'e',
mentre c'e' l'adesione alla politica dichiarata di "guerra infinita".
7. LETTURE. PIER CESARE BORI, SAVERIO MARCHIGNOLI (A CURA DI): PER UN
PERCORSO ETICO TRA CULTURE
Pier Cesare Bori, Saverio Marchignoli (a cura di), Per un percorso etico tra
culture, Carocci, Roma 1996, nuova edizione 2003, pp. 218, euro 12,60.
"Questo libro e' innanzitutto uno strumento per l'insegnamento. Esso
racchiude una serie di testi antichi, di tradizione scritta, fondamentali
per comprendere alcune grandi culture contemporanee a partire dalle loro
origini" (p. 11). Vivamente lo raccomandiamo.
8. LETTURE. RITA EL KHAYAT: LA DONNA NEL MONDO ARABO
Rita El Khayat, La donna nel mondo arabo, Jaca Book, Milano 2002, pp. 128,
euro 9. Una utile sintesi di una prestigiosa studiosa.
9. LETTURE. MIRIAM SCHIRO': UN LOTTATORE SENZ'ARMI: MIO PADRE LUCIO SCHIRO'
D'AGATI
Miriam Schiro', Un lottatore senz'armi: mio padre Lucio Schiro' D'Agati,
Zephyro Edizioni, Milano 2003, pp. 128, euro 10,50. Un appassionante
ritratto di "una delle piu' rappresentative e carismatiche figure del
protestantesimo italiano del Novecento", con testimonianze e documenti
(molte tenerissime poesie) amorevolmente raccolti e curati dalla figlia del
grande pastore metodista (1877-1961), educatore e filantropo, poeta,
drammaturgo e pubblicista, militante del movimento dei lavoratori, sindaco
socialista di Scicli, antifascista perseguitato, pacifista e uomo di pace
sempre. Per richieste alla casa editrice: Zephyro Edizioni, tel. e fax:
0243982558, e-mail: zephyro@iol.it, sito: www.zephyro.net
10. RILETTURE. AICHA BENAISSA, SOPHIE PONCHELET: NEE EN FRANCE
Aicha Benaissa, Sophie Ponchelet, Nee en France, Payot, 1990, Pocket, Paris
2001, pp. 156. La vicenda vera e drammatica di una giovane "nata in Francia
da genitori algerini, cresciuta tra due nazioni, due culture, due modi di
vita".
11. RILETTURE. ASSIA DJEBAR: DONNE D'ALGERI NEI LORO APPARTAMENTI
Assia Djebar, Donne d'Algeri nei loro appartamenti, Giunti, Firenze 1988,
2000, pp. 192, euro 8,26. Uno dei grandi libri della grande intellettuale
algerina.
12. RILETTURE. FATIMA MERNISSI: LA TERRAZZA PROIBITA
Fatima Mernissi, La terrazza proibita, Giunti, Firenze 1996, 2001, pp. 236,
euro 9,50. Memoria e riflessione della prestigiosa intellettuale marocchina,
un libro di struggente tenerezza e limpida profondita'.
13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 629 del primo agosto 2003