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sul caso dell’addetto militare argentino a Roma
(sul caso dell’addetto militare argentino a Roma)
di Daniela Binello
Presto il suo status di cittadino potrebbe cambiare. Da addetto militare
dell’ambasciata d’Argentina di stanza a Roma _ con tutti i benefici
riservati agli alti ranghi delle cancellerie estere, compreso un
passepartout d’eccellenza, cioè il passaporto diplomatico _ a imputato in
contumacia o latitante. Per il colonnello Horacio Losito, e altri militari
argentini apparentati da una storia comune, quella di essere stati
operativi durante la dittatura militare del generale Jorge Videla
nell’Argentina di fine anni Settanta, sta per essere varata una decisione
che solo pochi mesi fa nessuno si sarebbe nemmeno sognato.
Il nuovo capo di Stato Maggiore, nominato dal neo presidente argentino
Néstor Kirchner, Roberto Bendini, sarebbe intenzionato, infatti, sentito il
parere del ministro della Difesa, José Pampuro, e di quello della
Giustizia, Gustavo Beliz, a fare riaprire i processi contro i militari
salvati nel 1990 dall’indulto dell’ex presidente Carlos Menem, candidatosi
e poi ritiratosi poco prima del ballottaggio nelle presidenziali di
quest’anno.
Quasi tutti i protagonisti di questa storia hanno cognomi d’origine
italiana, così come molti di quei 30mila desaparecidos che non hanno potuto
ottenere nemmeno un certificato di morte valido ai fini anagrafici.
Scomparsi, ma non nei corsi e ricorsi della storia. Accantonate le leggi
dell’obedienca debida e del punto final (indulto), annullate giuridicamente
nel marzo di quest’anno, si potrebbero riaprire in Argentina i vecchi conti
in sospeso contro numerosi militari, alcuni ormai in quiescenza, ma altri
ancora in servizio. Secondo commentatori del calibro di Horacio Verbitsky,
giornalista argentino che collabora con il quotidiano Pagina 12 e che
presiede un Comitato internazionale per i diritti umani, stanno, infatti,
per essere riammessi i processi contro quella giunta militare e i
rispettivi imputati, ufficiali come il nostro ospite Horacio Losito. Per
lui, come per altri due suoi colleghi ancora in servizio.
Oggi ultracinquantenni, erano in piena attività fra il 1976 e il 1983, anno
in cui con la fallimentare guerra delle Malvinas/Falklands il
protagonistico regime militare scomparve, si ritiene per sempre, dalla
ribalta argentina e probabilmente anche da quella latinoamericana.
Losito, con Ricardo Guillermo Reyes, dell’intelligence in forza allo Stato
Maggiore argentino, e German Emilio Riquelme, funzionario dell’ospedale
militare di Buenos Aires, sarebbero coinvolti, secondo il giudice federale
della Resistencia Carlos Skidelsky, nel massacro di Margarita Belén.
L’accusa è di omicidio volontario aggravato e premeditato, sequestro e
occultamento. Sono imputati per gli stessi crimini anche altri sette
ufficiali dell’Esercito, ora in pensione.
Il capo di Stato Maggiore Bendini avrebbe deciso, perciò, di notificare
agli imputati di restare a disposizione della giustizia. Un dispaccio del
ministero della Difesa chiarisce che “il magistrato incaricato porterà a
compimento il provvedimento”.
Il caso di Losito, però, rischia di diventare molto interessante per la
giurisprudenza, perché se l’addetto militare presso l’ambasciata si
rifiutasse di rientrare contro la sua volontà nel suo paese potrebbe venire
arrestato in Italia. E se ciò avvenisse, procurerebbe un mal di pancia a
chi dovrà firmare il suo mandato d’arresto e provvedere poi alla richiesta
d’estradizione che dovrebbe essere firmata, di norma, da Kirchner in
persona. Si ricorderà, infatti, che nell’agosto del 2001 ha preso il volo
da Fiumicino, indisturbato, niente di meno che l’ex maggiore dell’Esercito
argentino, Jorge Olivera, ricercato dalla magistratura francese e ora
riabilitatosi come avvocato nel Modin, il partito (peronista di estrema
destra) dei Carapintada (letteralmente “facce dipinte”). I giudici
supplenti della Corte d’appello di Roma, che presero la decisione di non
fare arrestare Olivera, dichiararono che si trattò di un grossolano errore.
Se invece Losito s’imbarcasse volontariamente per Buenos Aires, o altra
città della pampa, troverà al suo arrivo un cellulare pronto a tradurlo in
carcere.
Nel massacro di Margarita Belén, avvenuto il 13 dicembre del 1976 sulla
statale n. 11 e catalogato come “caso 678, causa 13”, perirono diciassette
uomini e quattro donne nella messinscena di uno scontro a fuoco (10 corpi
furono in seguito identificati). I prigionieri politici stavano per essere
trasferiti dall’Unità penitenziaria n. 7 al carcere di massima sicurezza di
Formosa, per ordine del generale Cristino Nicolaides della subzona 23
(l’Argentina era stata meticolosamente suddivisa in zone e sottozone,
ciascuna capeggiata da un ufficiale militare). I prigionieri tentarono di
fuggire e per questo i soldati furono costretti ad aprire il fuoco. Questa
la versione ufficiale delle autorità militari dell’epoca, mentre le
indagini fecero emergere tutta un’altra storia, e cioè che le vittime,
incappucciate e fatte inginocchiare, furono giustiziate con alcuni colpi
alla nuca (mentre altre presentavano fratture multiple). I loro cadaveri
furono poi trasferiti e sparsi in un campo per simulare una fuga.
Losito a fine anni Ottanta aveva partecipato alla rivolta dei Carapintada.
I militari, sdegnati e offesi di essere stati sottoposti a giudizio,
protestarono e furono riabilitati alla veloce dall’indulto menemista. Ma i
tempi cambiano, cantava Bob Dylan, e il corrispondente del Nyt (New York
Times) dall’America Latina, Larry Rother, si è complimentato con Kirchner,
in un articolo intitolato “La più sporca delle guerre non sarà
dimenticata”, per la sua ostilità alle leggi che concessero l’impunità ai
militari.
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