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La nonviolenza e' in cammino. 584



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 584 del 17 giugno 2003

Sommario di questo numero:
1. Da Assisi a Gubbio
2. In memoria di Giuseppe D'Urso
3. Adriano Apra' ricorda Jean-Claude Biette
4. Gianfranco Capitta ricorda Marisa Fabbri
5. Gianni Manzella ricorda Marisa Fabbri
6. Luisa Muraro: tutto o niente
7. Rossana Rossanda: il simbolico e il materiale
8. Luisa Muraro: cara Rossanda
9. "L'incontro"
10. "Mani tese"
11. "Roma Caritas"
12. "Segno"
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'

1. INIZIATIVE. DA ASSISI A GUBBIO
Nel settembre del 2000, nel ricordo di Aldo Capitini e con la parola
d'ordine "mai piu' eserciti e guerre", si svolse una marcia da Perugia
Assisi non genericamente per la pace, ma specificamente per la nonviolenza,
promossa dal grande collaboratore e continuatore dell'opera di Aldo
Capitini, Pietro Pinna. Contro ogni previsione, furono migliaia le persone
che aderirono a quell'appello, a quell'iniziativa cosi' caratterizzata,
cosi' impegnativa, cosi' illimpidita e liberata dalle mille ambiguita' e
ciarlatanerie che ancora offuscano e soffocano le mozioni e le tensioni di
tanti movimenti e tante esperienze e tante persone buone che si illudono di
potersi impegnare per la pace e la giustizia senza fare la scelta concreta e
vincolante della teoria-prassi nonviolenta.
Fu in quella occasione che nacque anche questo notiziario, dapprima col
titolo "In cammino verso Assisi", poi, svoltasi la marcia, con la testata
che ancora mantiene.
Quella camminata da Perugia ad Assisi ora continua, da Assisi a Gubbio.
Per iniziativa del Movimento Nonviolento ancora una volta tutte le persone
amiche della nonviolenza sono chiamate a un nuovo incontro, a un nuovo
cammino comune: dal 4 al 7 settembre 2003 da Assisi a Gubbio lungo il
sentiero francescano in un nuovo colloquio corale, per mettere insieme il
nostro andare e il nostro interrogarci, per conoscerci e riconoscerci, per
proseguire in questo percorso e in questa scelta, il cammino della
nonviolenza in cammino, la scelta della nonvioenza come scelta di rigore
intellettuale e morale, come sentimento di appartenza a una sola comune
umanita', come opposizione a tutte le violenze e a tutte le menzogne, come
lotta e comunicazione, come resistenza e apertura. Per cercare ed aprire un
varco nella storia.
Per informazioni e adesioni all'iniziativa contattare il Movimento
Nonviolento (e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.irg);
il programma completo dell'iniziaitva abbiamo pubblicato nel notiziario di
ieri.

2. MAESTRI. IN MEMORIA DI GIUSEPPE D'URSO
[Il 16 giugno 1996 moriva Giuseppe D'Urso. Lo ricordiamo riproponendo una
scheda curata dal "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo alcuni anni fa]
* Peppe Sini: con solidarieta' e gratitudine
Il primo dei testi che seguono e' un ricordo del professor Giuseppe D'Urso
scritto da Riccardo Orioles, un ricordo che si trova nella bella raccolta di
scritti di Riccardo Orioles, Allonsanfan. Storie di un'altra sinistra,
disponibile nella rete telematica (e che sarebbe bene che qualche editore
stampasse e diffondesse in libreria).
Non ho mai visto il professor D'Urso e non sono certo se ho parlato con lui
per telefono qualche volta (ma mi pare di si').
Ma in anni che oggi sembrano remotissimi, ed invece non lo sono poi
granche', tutti i miei amici del movimento antimafia di Catania e di Palermo
quando dicevo loro che a Viterbo nella nostra azione contro i poteri
criminali e il regime della corruzione venivamo individuando come strategico
il ruolo della massoneria (e qui per creanza - o per prudenza - si suole
apporre la qualifica di "deviata") nell'intreccio tra poteri criminali,
economia, finanza, e corruzione politica ed amministrativa, mi parlavano di
lui come del loro principale punto di riferimento, poiche' per primo il
professor D'Urso aveva individuato la crucialita' del rapporto tra
massoneria e mafia.
Rapporto, e decisivita', successivamente emersi con grande evidenza: cfr. ad
esempio la "tesi 8" nel libro di Luciano Violante, Non e' la piovra. Dodici
tesi sulle mafie italiane, Einaudi, Torino 1994, pp. 169-181; e varra' la
pena di trascrivere qui almeno l'enunciazione di questa tesi: "Logge
massoniche 'deviate' costituiscono il tramite piu' frequente e piu' sicuro
nei rapporti tra mafia e istituzioni. Per mezzo di queste logge, in
particolare, la mafia cerca di 'aggiustare' i processi che la riguardano.
Esponenti delle logge massoniche, a loro volta, hanno chiesto in diverse
occasioni la partecipazione di Cosa Nostra a vicende criminali ed eversive.
Il terreno d'incontro tra la mafia e queste logge e' costituito dai comuni
interessi antidemocratici".
Mi piacerebbe sapere, e non so, cosa il professor D'Urso abbia pubblicato, e
se dopo la scomparsa i suoi scritti ed il suo archivio siano stati ordinati
e se siano oggi a disposizione degli studiosi, delle istituzioni
democratiche e dei militanti antimafia.
Tra le mie carte ho ritrovato solo, in un fascicolo del 1990 di una vivace
rivista palermitana, uno schematico (ma interessantissimo) intervento svolto
ad un'assemblea nazionale di Cgil, Cisl e Uil tenutasi a Palermo nel 1982,
che anch'esso ripubblico qui anche se mi rendo ben conto che non gli rende
giustizia.
Poiche' il professor D'Urso non e' stato solo uno studioso ed un sostenitore
ed ispiratore del movimento antimafia: e' stato un protagonista della lotta,
concreto ed efficace, e valga a provarlo ad esempio quanto ricordato nel bel
libro di Claudio Fava, La mafia comanda a Catania, Laterza, Roma-Bari 1991,
alle pp. 84-85: "il merito d'aver innescato il detonatore dell''affaire
Catania' non va soltanto al Csm [il riferimento e' alla decisione del
Consiglio Superiore della Magistratura del 28 ottobre 1982 di avviare
un'indagine della propria commissione d'inchiesta sulla Procura di Catania]
(...) Il professore Giuseppe D'Urso... un docente di urbanistica che per
molti anni aveva continuato silenziosamente a raccogliere prove sulle
irregolarita' amministrative, i misfatti edilizi, gli appalti pubblici
pilotati. Per ogni abuso, il professor D'Urso aveva compilato un dossier
completo di cifre, nomi, indicazioni di legge, estratti del Piano
regolatore, fotocopie di delibere comunali. Quegli esposti, con incrollabile
perseveranza, forse perfino con un filo di dolente ironia, erano stati
puntualmente spediti all'autorita' giudiziaria. Che per molti anni aveva
continuato ad inghiottirli in silenzio. L'ultimo fascicolo Giuseppe D'Urso
aveva preferito invece farlo trovare sui banchi del Csm. Dentro, in
bell'ordine, i promemoria del professore su tutte le inchieste insabbiate
dalla Procura di Catania: le protezioni accordate, le illegalita' compiute,
le indagini depistate. Ma soprattutto c'era il testo del telegramma che
D'Urso aveva spedito 'per conoscenza' a ministri e presidenti di mezza
Repubblica. La vertenza Catania di fatto era nata su quelle poche righe di
denuncia civile, sull'intransigente ribellione di un cittadino qualsiasi".
Questo era il professor D'Urso. Non altro potendo oggi fare per rendergli
omaggio, ne segnalo la figura. Con solidarieta' e gratitudine.

* Riccardo Orioles: la ragione
Domenica 16, a Catania, e' morto il professor Giuseppe D'Urso e questa e'
probabilmente l'unica pagina dell'unico giornale che lo ricordi. Tuttavia e'
un avvenimento storico: 16 giugno 1996, muore Giuseppe D'Urso che sconfisse
i mafiosi.
E' stato il primo, in tutta Italia, a dire cos'era veramente la mafia dei
nostri tempi. Non un'escrescenza criminale, non una patologia; ma il braccio
armato, organizzato da molti anni su basi ben precise, di una parte
consistente della classe dirigente siciliana e nazionale, quella
inquadrata - negli ultimi decenni - dalle massonerie deviate. Fu lui a
postulare per primo, e a descrivere con precisione, il legame organico fra
mafie e massonerie, ad analizzarne le strutture, a denunciarne la strategia.
Tutti gli altri, vennero dopo. E quando, faticosamente, il concetto di
"massomafia" - il termine da lui coniato nei primi anni Ottanta - divenne
senso comune, allora e solo allora la lotta ai poteri mafiosi pote'
cominciare davvero. Andreotti, Licio Gelli, i cavalieri catanesi ebbero nel
suo cervello il nemico piu' pericoloso.
Ci fu maestro, a noi dei "Siciliani". Nessun altro ebbe cosi' pienamente
questo onore, eccetto Giuseppe Fava. Nel 1982, prima ancora - anche qui,
l'unico - dei "Siciliani" egli gia' denunciava pubblicamente i cavalieri
catanesi, i magistrati al loro servizio, le servitu', gli affari. Era allora
presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica e di questa prestigiosa
posizione si valse - oltre che per una notevole attivita' scientifica - per
una documentatissima battaglia civile. Nel gennaio dell'84, dopo
l'assassinio di Giuseppe Fava, raccolse l'appello dei giovani e si
arruolo' - non c'e' altra parola - nei "Siciliani". Da quel momento, la sua
vita fu indissolubilmente legata alla nostra e la sua ragione e il suo cuore
appartennero ai "Siciliani".
Nell'autunno del 1984 fondo' l'Associazione I Siciliani, di cui fu il
Presidente. Piccolo gruppo di militanti, l'Associazione si radico'
rapidamente ed acquisto' peso ed influenza; insieme col Coordinamento
Antimafia di Palermo e col Centro Peppino Impastato, fu il primo esempio in
assoluto di politica militante, nell'Italia degli anni Ottanta, fuori dei
partiti. Oltre a D'Urso, l'Associazione pote' contare su uomini come il
sacerdote Giuseppe Resca, il magistrato Scida', il professor Franco Cazzola,
l'operaio Giampaolo Riatti ed altri ancora. Era la nuova classe dirigente,
quella che avrebbe potuto davvero cambiare tutto; finche' essa fu unita, non
passarono i gattopardi.
Nel 1990, il professore fu fra i ventiquattro fondatori della Rete, nata
allora non come un partito ma come un movimento unitario di liberazione.
Egli ne organizzo' i primi passi dal letto in cui gia' era inchiodato,
contribuendo come pochi altri alle sue prime vittorie. In seguito, le
ambizioni personali vi presero - per sventura del Paese, come in tante altre
occasioni - il sopravvento, e solo il coraggio individuale, che non fu mai
tradito da alcun siciliano, sopravvisse agl'ideali con cui s'era partiti. Ma
gia' allora, e non casualmente, egli ne era stato emarginato.
Gli ultimi anni, di lunga malattia, furono una feroce vendetta della Fortuna
invidiosa. Egli la sopporto' virilmente, ragionando fino all'ultimo. Io
ricordo una sera, quando una diagnosi dei medici gli dava poche settimane di
vita. Mi avverti' pacatamente che non avrebbe potuto, non per sua colpa, far
fronte ad alcuni impegni organizzativi predisposti. Me ne espose il motivo.
Mi dette cortesemente alcune istruzioni per continuare in sua assenza. Il
resto della serata fu speso in una conversazione su alcuni punti controversi
del pensiero di Benedetto Croce.
"Addio, compagno! Per buon tempo hai combattuto, e con onore / Per la
liberta' del popolo..." dice un antico canto rivoluzionario. Giuseppe
D'Urso, ingegnere, pensatore illuminista e militante del popolo siciliano,
ha combattuto come pochissimi altri per il bene comune. La sua vita e' stata
utile, il suo pensiero fraterno; non ha sprecato un attimo della sua forte
intelligenza; ha vissuto. I suoi figli possono essere orgogliosi di lui, e
orgoglioso chi gli fu amico. Quando sarete liberi, voi della Sicilia e di
tutt'Italia, quando sarete dei cittadini, allora - e solo allora -
portategli un fiore.
[Questo testo e' incluso (col titolo La ragione, e recando in epigrafe "...
la raison tonne en son cratere...") nel libro elettronico di Riccardo
Orioles, Allonsanfan; l'autore indica come luogo di prima pubblicazione il
settimanale "Avvenimenti", nel giugno 1996, ma non abbiamo avuto agio di
verificare]

* Giuseppe D'Urso: per riprendere e continuare
La sezione siciliana dell'Istituto Nazionale di Urbanistica sottolinea la
maturita' dei contenuti e l'approfondimento delle tematiche di tutti gli
interventi di questa coraggiosa e democratica assemblea.
Per noi, urbanisti democratici, l'analisi degli assetti e delle
trasformazioni del territorio costituisce uno strumento formidabile per
comprendere, risalendo alle cause, interconnessioni occulte, intrecci
speculativi e per conoscere gestori segreti.
Abbiamo fornito e forniamo alla Magistratura elementi precisi e puntuali
sulle piu' grosse operazioni di rapina mafiosa nel territorio siciliano.
Al Sindacato democratico, unitariamente riunito oggi a Palermo, vogliamo
invece fornire delle riflessioni, sotto forma di schede sintetiche, per
contribuire a fare chiarezza sulle questioni generali dibattute in questa
assemblea e cio' alla luce dell'esperenza fatta nelle nostre specifiche
ricerche.
Le schede rappresentano tracce sistematiche di lavoro di ulteriore ricerca
collettiva da svolgere.
Esse sono le seguenti:
Scheda 1
Necessita' di possedere una definizione complessiva, esaustiva e
storicamente valida del fenomeno in generale etichettabile come: "alta
criminalita' organizzata".
E' necessaria l'unificazione sistematica di fenomeni sociali come:
a) criminalita' economica organizzata; mafia (Sicilia), 'ndrangheta
(Calabria), camorra (Campania), fibbia (Puglia); banditismo (Sardegna);
b) servizi segreti deviati: dell'est (Patto di Varsavia), dell'ovest (Patto
Atlantico), del Terzo Mondo (Paesi non allineati);
c) criminalita' politica organizzata: terrorismo rosso, terrorismo nero;
d) poteri occulti laici: massoneria bianca ((Ovest-Est-Terzo Mondo),
massoneria nera (nei Paesi dell'Ovest), massoneria rossa (nei Paesi
dell'Est);
e) poteri occulti religiosi: cattolici (internazionali): Opus Dei, gesuiti
laici, cavalieri di Malta; altre religioni (terzo mondo).
Anche se si rischia di allargare troppo il campo dell'indagine, questo e'
uno sforzo che deve essere compiuto con l'aiuto degli intellettuali
progressisti: il rischio inverso e' quello di tenere l'obiettivo puntato
sopra un elemento troppo limitato rispetto al quadro generale.
Bisogna individuare l'intera figura della "piovra" e non solamente uno dei
suoi innumerevoli tentacoli (il quale anche se asportato, col tempo si
riforma cosi' come era).
Una definizione di "alta criminalita' organizzata" puo' essere la seguente:
"Gruppo sociale chiuso che, nell'ambito di un sistema economico,
articolandosi in una complessita' di sottogruppi, ha come fine l'accumulo e
la gestione per i propri affiliati di ricchezze non lavorative: il 'gruppo'
si avvale di strumentazione per la violenza fisica e l'intimidazione morale,
lega i suoi appartenenti con regole di subordinazione e di morte ed ha un
processo di adeguamento continuo a quello del sistema economico a cui si
riferisce".
Scheda 2
Necessita' di possedere una visione storica del problema, cercando di
intravedere i nessi tra storia della Sicilia, storia del Meridione d'Italia
e storia d'Italia dall'Unita' alla fine della seconda guerra mondiale
(conferenza di Yalta).
A questa scheda si allegano alcune fotocopie di testi ritenuti fondamentali
per la comprensione di come alcuni fatti economico-sociali si sono tra loro
intrecciati: tutto cio' per capire quali sono le interconnessioni del
presente e quindi la limitazione delle analisi che focalizzano solo un
aspetto della questione.
L'analisi storica deve mettere in luce quali sono stati i rapporti tra
potere economico e potere istituzionale sia nelle campagne che nelle citta',
sia al centro (Roma) che in periferia (settentrionale e meridionale) facendo
risaltare come il tutto si e' evoluto fino ai nostri giorni (e cio' al di
fuori di esasperati ideologismi).
Debbono individuarsi fatti, situazioni e nomi precisi in modo tale da
comprendere in maniera puntuale i corsi e gli intecci degli avvenimenti
economico-sociali.
Le tappe di questa analisi sono:
1) la situazione preunitaria;
2) l'Unita', Cavour e Garibaldi;
3) l'eta' giolittiana;
4) la prima guerra mondiale ed il primo dopoguerra (arricchimenti di guerra
e loro impieghi);
5) avvento del fascismo: lotta alla mafia ed alla massoneria: il concordato;
6) secondo conflitto mondiale e sistema Yalta;
7) il secondo dopoguerra, ricostituzione di "cosche" e di "logge" e loro
scala internazionale.
Scheda 3
Necessita' di possedere una chiara radiografia dello stato patrimoniale
degli individui e dei gruppi che gestiscono oggi il sistema economico, il
sistema istituzionale, il sistema dei mass-media, il sistema culturale.
Solo una analisi puntuale in questo senso puo' porre in luce i sotterranei
rapporti che, mettendo in cortocircuito il potere economico, il potere
politico (legislativo, esecutivo, giudiziario), il potere dell'informazione
ed il potere culturale, bloccano di fatto lo sviluppo economico e
democratico del popolo italiano a vantaggio di determinati gruppi chiusi di
sfruttamento economico e di conseguente reazione politica.
I lavoratori italiani debbono farsi carico politico di analisi che,
focalizzando comuni, province, regioni, organizzazione statale, mettano a
nudo, attraverso l'indagine finanziario-catastale, le posizioni di tutti gli
attuali detentori di potere.
Debbono farsi altresi' carico dell'introduzione di una strumentazione
democratica che consenta per il futuro il controllo continuo su tutti i
detentori di potere previsti dalla nostra carta costituzionale.
[Questo testo di Giuseppe D'Urso lo abbiamo ripreso da "Antimafia" n. 2 del
1990, che lo pubblicava (peraltro con vari refusi, alcuni dei quali ci
saranno certamente sfuggiti) facendolo precedere dalla seguente nota: "Per
'riprendere' e 'continuare' tutti insieme. Le schede che pubblichiamo furono
presentate e lette dal prof. Giuseppe D'Urso (allora presidente della
sezione siciliana dell'Istituto Nazionale di Urbanistica) all'assemblea
nazionale dei consigli generali e dei delegati Cgil, Cisl, Uil 'Per la
democrazia, il lavoro, lo sviluppo: lotta alla criminalita' mafiosa e al
terrorismo" che si tenne a Palermo il 15 e 16 ottobre 1982, dopo il delitto
Dalla Chiesa. Tutti gli atti dei lavori vennero in seguito pubblicati: tra
di essi pero' non vi era traccia delle schede presentate dall'Inu.
Riproporle oggi ci pare atto dovuto, oltre che di pregnante attualita' di
analisi metodologica"].

3. LUTTI. ADRIANO APRA' RICORDA JEAN-CLAUDE BIETTE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 giugno 2003. Adriano Apra' e' uno dei
piu' illustri studiosi di cinema italiani. Jean-Claude Biette, regista,
attore, sceneggiatore, chef decorateur e critico, e' nato a Parigi il 6
novembre 1942 ed e' morto d'infarto il 10 giugno 2003. Cinephile di
proporzione sovrumana, Biette lavora per una ventina d'anni ai "Cahiers du
cinema", prima dal 1964 al 1965 poi tra il 1977 e il 1986 in modo piu'
regolare, per poi affiancare Serge Daney nella rivista teorica "Trafic" che
dal 1992 dirige dopo la morte dell'amico. Assistente alla regia di Pier
Paolo Pasolini, durante il suo esilio romano (obiettore di coscienza durante
l'occupazione francese in Algeria), e attore per Marguerite Duras (India
song), Jean Eustache (La maman et la putain), Jean-Marie Straub e Daniele
Huillet (Othon), Rohmer (Racconto d'inverno), Biette inizia a girare corti e
documentari e firma, dopo Soeur du cadre (1973) il lungometraggio Le Theatre
des matieres (1977). I suoi film sono a basso costo e ad alta intensita' di
linguaggio. Ma non conoscono mai un grande successo di pubblico. Del 1982 e'
Loin de Manhattan, del 1983 il segmento "Pornoscopie" di L'Archipel des
amours; del 1990 Le Champignon des Carpathes, del 1993 Chasse gardee, del
1995 Le Complexe de Toulon, del 1999 Trois ponts sur la riviere, e del 2003
Saltimbank che e' appena stato presentato al festival di Cannes (con
recensioni molto positive), star Jeanne Balibar. Per il teatro scrive Barba
Azul (Barbablu), messo in scena a Lisbona (Teatro da Cornucopia) da
Christine Laurent con Luis Miguel Cintra. Tra i suoi programmi televisivi
una famosa monografia su Pier Paolo Pasolini (1966). Abitue' dei festival
off off come Salsomaggiore o Rotterdam, oltre ai suoi saggi sui "Cahiers" e
su "Trafic" ha pubblicato due volumi per la casa editrice Pol, Qu'est-ce
qu'un cineaste? (2000) e Cinemanuel (2001); e Poetiques des auteurs, edito
nel 1988 dai "Cahiers" stessi. In questi lavori analizza l'immagine filmica
(e soprattutto i suoi tre elementi costitutivi, recit, drammaturgia e
progetto formale), anche in rapporto con letteratura, musica (Debussy e
Schoenberg) e teatro. Numerosi i cineasti che fanno parte del suo
laboratorio d'analisi. Bresson, Sternberg e Straub (che sono stati oggetto
di corsi seminariali), Ford, Hitchcock, Lang (con Renoir e Murnau la sua
vera trinita' d'ispirazione), ma anche il dimenticato Eustache, Guitry,
Pagnol, e tra gli italiani, Rossellini, Rosi, Soldati, Bertolucci,
Gregoretti. Inoltre Minnelli, Fuller, King, Borzage, Ozu, Mizoguchi,
Fassbinder, Chaplin, Hawks, Tourneur, Browning, Sirk, Lewin. Nella rivista
"La lettre du cinema", n.7/8/9 e' stata pubblicata una lunga intervista (con
illuminanti passaggi su Barbet Schroeder)]
Mi telefona Cristina Piccino: l'ha chiamata da Parigi Bernard Eisenschitz
per dirle che e' morto (martedi' scorso), all'improvviso, Jean-Claude
Biette.
Stupore, dolore, angoscia. Era malato? Telefono agli amici parigini, a
Bernard e a quelli che condividono con lui l'avventura di "Trafic",
l'austero e appassionante trimestrale di cinema fondato assieme a Serge
Daney (n. 1, inverno 1991). Raymond Bellour e' incupito dallo choc, Sylvie
Pierre e' in lacrime. No, non era malato, anzi, stava benissimo: il suo
ultimo film, Saltimbank, era stato presentato qualche giorno fa con successo
alla Quinzaine des Realisateurs a Cannes. Un ictus improvviso, o qualcosa
del genere. Ha chiamato un'amica dicendo che non stava bene. Poi niente.
Hanno dovuto sfondare la porta di casa...Nato nel 1942, aveva dunque 61
anni: ma, ai miei occhi, l'aria assai piu' giovane, quasi da ragazzo; e non
e' poi tanto che non lo vedevo.
L'ho conosciuto nel 1965, quando sbarco' a Roma senza una lira e con due
numeri telefonici, quello di Gianni Amico e il mio, passatigli dai "Cahiers
du Cinema", con i quali aveva cominciato a collaborare (memorabile la sua
scoperta da Locarno, nel "petit journal" del dicembre 1965, di De Oliveira).
Non sapevamo bene chi fosse. Ci spiego' che, a imitazione dell'amato
Jean-Marie Straub, era scappato da Parigi per non fare il servizio militare.
Era evidente che cercava il modo di sopravvivere. Io lavoravo nel piu' che
confortevole ufficio di Gian Vittorio Baldi in via della Scrofa, al progetto
di una rivista internazionale trilingue sul documentario (che poi non si
fece). Convinsi Baldi, assai pretestuosamente, a ingaggiare Jean-Claude, sia
pure per due lire, come traduttore in francese da una lingua, l'italiano,
che a mala pena parlottava ma di cui rapidissimamente si approprio'. Poi gli
produsse anche un paio di cortometraggi che vidi all'epoca e che sarebbe
bello ritirare fuori. E' assieme a Jean-Claude che cominciammo, saranno
stati i primi del '66, a vedere Pasolini nella sua casa di via Eufrate per
tradurgli a voce (con me sorpreso che non sapesse bene il francese) gli
scritti di Christian Metz sulla semiologia del cinema (il che frutto' i suoi
liberi e poetici interventi in un campo peraltro cosi' arido).
La forza della sopravvivenza, ma anche la sua brillante intelligenza,
permisero a Jean-Claude di rivedere i sottotitoli in francese di Uccellacci
e uccellini e di inventare il titolo: "Des oiseaux, petits et gros", nonche'
di fare da aiuto a Pasolini per l'Edipo Re in Marocco, e anche di rivestire
la parte di un sacerdote in una scena assieme a Pier Paolo. Le incursioni
attoriali dei critici erano allora correnti, e Jean-Claude prosegui' con
Straub-Huillet in Othon (1968-'69), stavolta nel ruolo, piu' rilevante, del
perfido Marciano, con dialoghi travolgenti in coppia con "Jubarite Semaran",
cioe' Jean-Marie stesso in veste insolita di attore.
Ero riuscito anche a strappargli qualche articolo per la rivista che allora
dirigevo, "Cinema & Film". Non si capiva bene se l'attivita' di scrittura
critica lo interessasse davvero: quel poco che concedeva era comunque
lavorato parola per parola (me ne rendevo conto traducendolo in italiano), e
la sua pigrizia era dunque compensata dalla densita' concettuale.
Fra i tanti lavoretti, ci dev'essere stato anche un passaggio con me
all'ufficio documentazione della Mostra di Pesaro. Poi ci dev'essere stata
un'amnistia in Francia, e nel 1970 e' potuto tornare nella sua Parigi, ma
conservando sempre con l'Italia un rapporto privilegiato. L'ho visto, la',
saltuariamente ma regolarmente.
Qualche anno dopo, era il 1977, riusci' a debuttare come regista di
lungometraggio con Le theatre des matieres, su cui scrisse un elogio sui
"Cahiers" Serge Daney, e che non sono mai riuscito a vedere. Vidi invece il
successivo Loin de Manhattan (1980), con la sua grande amica Laura Betti, e
invitai entrambi nel 1981 al festival di Salsomaggiore, dove partecipo' a
una bella tavola rotonda sul nuovo cinema degli anni '60 assieme a
Bargellini, Farassino, Gianni Amico, Stavros Tornes... (c'e' una foto di
gruppo che li ritrae tutti assieme). Devo ammettere che lo conosco meglio
come critico che come cineasta. Dei suoi otto lungometraggi ne ho visto solo
un altro, Le complexe de Toulon (1995), che mi e' piaciuto senza vero
entusiasmo. Ma come critico l'ho sempre trovato prezioso e imprevedibile.
Pur appartenendo alla "scuola Cahiers", le sue preferenze per gli autori
erano eclettiche, e ancor di piu' quelle per i film di tali autori. Amava
Rohmer e Jacques Tourneur, Eustache e gli Straub, Pasolini naturalmente e di
recente, a sorpresa, Mario Soldati; e di Hawks, per esempio, preferiva Land
of the Pharaohs (cioe' La regina delle piramidi, 1955) a piu' reclamizzati
capolavori. Nell'insieme aveva un gusto piu' marcatamente classico che
moderno.
Non ha mai scritto molto, e tuttavia doveva essere ben cosciente del valore
di cio' che scriveva se ha sentito il bisogno (o altri per lui) di
raccoglierlo in volume: Poetique des auteurs (1988) nelle edizioni dei
"Cahiers du Cinema", poi di recente, per le edizioni P. O. L. di "Trafic",
Qu'est-ce qu'un cineaste? (replica palese a Bazin) e Cinemanuel. Non va
dimenticato inoltre che e' stato lui a curare (assieme a Emmanuel Crimail)
il libro postumo di Daney, L'exercice a ete' profitable, Monsieur. (scritto
cosi', col punto finale: e' la risposta che il giovane John Mohune da' al
"padre" Stewart Granger nella versione doppiata in francese di Moonfleet, da
noi Il covo dei contrabbandieri, 1955, l'amatissimo, da entrambi, film di
Fritz Lang). (Da noi e' stato tradotto dal Castoro come Il cinema e oltre.
Diari 1988-1991).
L'imminente Mostra di Pesaro lo ricordera', il Festival di Torino progettava
una retrospettiva. Se ne vanno sempre i migliori, e ci si rammenta di loro
sempre troppo tardi.

4. LUTTI. GIANFRANCO CAPITTA RICORDA MARISA FABBRI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 giugno 2003. Gianfranco Capitta e'
critico teatrale de "Il manifesto", per Radiotre Rai ha curato servizi e
rubriche di cultura e spettacolo. Ha pubblicato, insieme a Roberto Canziani,
un'opera monografica su Harold Pinter, Harold Pinter, un ritratto, e
un'altra dedicata al regista Cesare Lievi. Con Gigi Cristoforetti ha
realizzato il volume dedicato ai venti anni del Centro Teatrale Bresciano,
per il quale ha scritto il saggio sul regista Massimo Castri]
Se ne e' andata una delle poche vere signore della scena italiana, Marisa
Fabbri. Una delle piu' grandi come attrice, certo la piu' energica e
appassionata. A settantasei anni, dopo aver combattuto nell'ultimo periodo
contro un male terribile, e' uscita di scena. E lascia un vuoto grandissimo,
difficile da accettare per chi ha conosciuto la sua vitalita' incontenibile.
Per la sua classe di attrice, per quanto ha elaborato e imposto in tanti
anni di lavoro, per le sonorita' incredibili di una pronuncia perfetta e
ogni volta reinventata, e per le sue battute mordaci che da fiorentina
terribile dispensava con dei fantastici, compiaciuti sorrisi d'alta scuola,
sotto i riccioli biondi che curava con metodo (la debolezza di un famoso
parrucchiere a via Condotti). Ma con la coerenza mai rinnegata di una vita
politica, dentro e fuori dalla scena, che ne fanno davvero la madre Courage
del teatro italiano di questi trent'anni. Attrice bravissima, piena di
riconoscimenti e lodi, eppure mai appagata. Sempre disposta a ricercare il
nuovo o una piu' intensa comunicazione con il pubblico e con la societa'.
Capace di mettersi a disposizione di un giovanissimo regista o di un nuovo
scrittore, per inventare modi sempre nuovi di fare teatro. Inesauribile.
Anche se lei poteva vantare di aver lavorato da protagonista, caso quasi
unico, sia con Strehler che con Ronconi. E anche se l'espressione "lavorato"
e' del tutto insufficiente a esprimere l'importanza che lei ha avuto nel
lavoro dei due nostri massimi artisti della scena.
Con Ronconi ha condiviso quasi tutto dai primi anni settanta, fino a
diventarne quasi il corpo teatrale per eccellenza, l'interprete bionica di
cui bastava una sola sillaba per riconoscere il tanto discusso e
inconfondibile "marchio" ronconiano. Ma con Strehler, oltre a esser stata
parte delle sue ultime grandi realizzazioni nei sessanta al Piccolo,
condivise l'avventura folle e piu' azzardata, la fuoriuscita sessantottesca
dal Piccolo, con quel feticcio dell'antifascismo radicale che fu il
Fantoccio lusitano di Peter Weiss, portato nelle case del popolo prima
ancora che nei grandi teatri.
La politica era la sua passione, ma anche la normalita' della sua vita
quotidiana: "Il manifesto" era forse il suo giornale preferito (e chiamava
anche, o lasciava messaggi arguti, per complimentarsi o condividere una tesi
o un titolo; divorava i pezzi di Pintor e Rossanda, ma il suo preferito era
da sempre Valentino Parlato; e su ogni iniziativa culturale o specificamente
teatrale si dichiarava sempre disposta a mettersi in prima linea).
Dagli anni settanta dunque si schiero' con Ronconi, e basta pensare alla
epifania di Clitennestra nell'Orestea iscatolata nel legno. Ma lei resta
anche l'icona del Laboratorio di Prato: per lei il regista invento' le
Baccanti come monologo, un rito di iniziazione al teatro e alla vita
attraverso i corridoi e le stanze dell'orfanotrofio Magnolfi. E' stata
un'esperienza che in molti casi ha cambiato il senso del teatro per i
privilegiati che poterono assistervi. Una invenzione strepitosa che al lume
di candela viveva solo del suo corpo e della sua voce. Da allora Marisa
Fabbri e' stata al fianco di Luca Ronconi, anzi in prima fila nel suo
teatro. Ed e' una folla quella dei suoi personaggi che si addensano
indimenticabili: badessa nei Dialoghi delle Carmelitane e scienziato in
panni maschili nell'Ignorabimus di Arno Holtz, lungo le nove ore della sua
durata filata al Fabbricone di Prato (e ancora al maschile e' stata in
seguito un inquietante giardiniere nel Lutto si addice ad Elettra di
O'Neill); e ha il suo volto una delle ricerche piu' avanzate condotte sul
rapporto tra teatro e televisione, nel John Gabriel Borkman di Ibsen
realizzato dallo stesso Ronconi per Raidue. Ma non era un rapporto
"monogamico" quello col suo regista preferito.
Marisa Fabbri aveva uno straordinario talento comico (al di la' della
simpatia generosa e fluviale della sua vita privata), capace di farsi
irresistibile sulla scena. E' stata cosi' la svagata e furbesca zia Leonia
nei Parenti terribili di Cocteau per l'Eliseo con Giancarlo Cobelli, e
quando ha preso il coraggio di fare Gallina vecchia di Novelli (un mito
d'infanzia per lei fiorentina) ha conteso a Sarah Ferrati la palma di quel
testo di appartenenza. Aggiungendo alla propria arguzia quella di un'intera
cultura cittadina. Ma poco prima, a Venezia con Giancarlo De Bosio, ci aveva
rivelato un testo di Goldoni poco conosciuto e rappresentato, Le Massere, un
altro fragoroso successo.
Un'altra sua passione fondamentale era la scuola, la formazione e la
trasmissione a nuove generazioni di attori del suo grande sapere, che come
si e' capito non era solo scenico. Ha insegnato per molto tempo
all'Accademia d'arte drammatica, quasi una sua seconda casa, ed e' stata un
baluardo della scuola dello stabile torinese fondata da Ronconi (cosi' come
era una delle presenze piu' attente e scrupolose nella giuria del Premio
Riccione di drammaturgia). E poi c'era la sua passione per il nuovo, che
fossero drammaturghi o registi da aiutare e promuovere con la sua presenza e
la sua interpretazione. O lo scavo in autori non facili come Pasolini e
l'amatissimo Calvino. E i laboratori che era capace di tenere lontano dalle
capitali teatrali, piuttosto a Pontedera o a Buti. Molti devono alla sua
malleveria, al suo coraggio leonino, di essersi fatti conoscere o di aver
debuttato gia' ad alto livello.
Tanto era l'orrore (e le battute sferzanti) di Marisa Fabbri per "il nuovo
che avanza" nella politica di questi anni, quanto invece era disposta a
rischiare su un talento da scoprire. Del resto in tempi non sospetti era
stata in prima fila in testi ostici come Attraverso i villaggi di Peter
Handke allo stabile di Trieste, dove con Fulvio Tolusso si era costruita
molti anni fa una storia professionale improntata gia' alla assoluta ricerca
di una nuova comunicazione.
Ora tutte quelle sue signore si affollano nella memoria, insieme ai piccoli
privilegi che da signora della scena non le dispiaceva permettersi, fossero
i vesti di Armani o i prediletti spostamenti in taxi in cui dilapidava le
paghe conquistate insieme ai riconoscimenti. E sono proprio quelle sue
creature e il ricordo della sua simpatia a far sembrare impossibile ora che
il teatro italiano abbia perduto la sua signora piu' autorevole.

5. LUTTI. GIANNI MANZELLA RICORDA MARISA FABBRI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 giugno 2003. Gianni Manzella e' un
noto studioso di teatro, scrive sul "Manifesto" e dirige la rivista "Art'o"]
Un angolo grigio, spoglio. Un lettino ospedaliero appoggiato contro una
parete. Seduta in faccia al muro, l'attrice, i capelli chiari a caschetto
che brillano sotto la luce spiovente sull'abito scuro. E' una delle immagini
che sigillano nella memoria le Baccanti di Prato. Mancano dall'immagine i
ventiquattro spettatori che ogni sera seguivano l'attrice attraverso le
stanze vuote dell'istituto Magnolfi, e che giustificavano quella prova
solitaria, in quanto riflessione sulla comunicazione teatrale. Nel momento
in cui tante immagini diverse si affacciano insieme - e tutte legate a una
diversa emozione, dalle mobili apparizioni dell'Orestea alle lunghe nove ore
condivise nella costrittiva struttura di Ignorabimus - in questo momento
doloroso e pure chiarificatore, e' quasi inevitabile che ci si fermi su
quello spettacolo straordinario. (Inutilmente si e' sperato piu' avanti che
potesse essere ripreso, ne sono sempre mancate le condizioni).
Marisa Fabbri e' stata ben piu' di un'attrice di talento. E Baccanti e'
stato ben piu' del manifestarsi di un talento scenico d'eccezione. In quel
reale laboratorio condotto da Luca Ronconi, si scardinava il pilastro delle
strutture drammaturgiche convenzionali, il concetto di personaggio,
indicando cosi' la possibilita' di un altro teatro e di un'altra forma di
comunicazione. Passando oltre l'idea della rappresentazione. E l'attrice non
interpretava tutti i ruoli, bensi' era investita dell'esperienza complessiva
del testo. Un analogo percorso doveva allora compiere anche lo spettatore,
abbandonandosi alle oscurita' di un'esperienza che andava oltre l'assistere
al conflitto drammatico fra due o piu' personaggi ma era quel conflitto.
C'era una nota che rendeva inconfondibile la voce di Marisa Fabbri. Che dava
il timbro, per cosi' dire, alle sue interpretazioni. Mai psicologiche. Una
volta solo aveva voluto farsi da se' il proprio spettacolo, lei che era
abituata a recitare con i maestri della scena italiana, passata dallo
Strehler sessantottesco a Ronconi. Aveva intitolato V.O.C.E. il monologo
imbastito intorno al tema della pace e della guerra, sul filo di una
classicita' inesorabilmente lacerata, giacche' contrapponeva la poesia
antica di Omero e Euripide e Virgilio alla contemporaneita' beat di Gregory
Corso e del suo esorcistico poema Bomba. Ma dietro l'acronimo costruito con
le iniziali dei poeti era ben visibile la presenza di una "voce", quella di
chi se ne faceva interprete. Il suo unico personaggio.

6. DIBATTITO. LUISA MURARO: TUTTO O NIENTE
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questo articolo di Luisa Muraro apparso su "L'Unita'" del 7
giugno 2003 col titolo "Per vincere". Luisa Muraro insegna all'Universita'
di Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di "Diotima". Dal
sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo una sua scheda
biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei sorelle e cinque
fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione
allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita' Cattolica di
Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una carriera
accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare nella
scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia
dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba
Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista
dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al
femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della
differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva:
La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981,
ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La
Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti,
Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla
nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria
delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via
Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima
(1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero
della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della
maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel
1997"]
Ci sono di quelli che dicono: lasciamo perdere le polemiche, il problema e'
non perdere una sola occasione per battere la destra al governo. Li capisco,
pero' penso: non basta proporsi il risultato elettorale, per vincere bisogna
proporsi qualcosa di piu' e di meglio. Per vincere, bisogna aprire un
orizzonte che, per molti, non sappiamo quanti, si e' chiuso con la fine del
comunismo. Non vale solo per quelli che sono stati comunisti. E non occorre
essere (stati) comunisti per capirlo.
Non so se chi mi legge ha visto Tutto o niente di Mike Leigh. E' un film
ambientato in un'anonima periferia inglese, duro ma coinvolgente e vero. Non
racconta fatti atroci, non parla di gente marginale o esclusa, parla di
persone che tirano avanti avendo un lavoro, una famiglia, qualche scampolo
di vita sociale. Una settimana fa, il direttore di questo giornale gli ha
dedicato un lungo editoriale, Le anime morte della politica. Diceva: questo
film contiene una rivelazione che ci interessa tutti, parla di gente che la
politica ha abbandonato del tutto, come un mare prosciugato da cui sono
stati ritirati progetti, programmi, ideali, militanza, partecipazione.
Sono molto d'accordo con questa lettura e quello che sottintende. Ma ho
un'aggiunta da fare, che riguarda il finale. Il direttore non lo commenta,
ma dal finale dipende il senso del titolo, Tutto o niente. A un certo punto
capita che uno dei protagonisti, un tassista sempre malmesso, mite e
tremendamente scoraggiato, tiri su una cliente per una lunga corsa e che lei
abbia voglia di fare conversazione. Lei lo interroga, lui guida e parla, lei
lo ascolta. Parlando, capisce quello che manca nella sua vita, quello che la
fa "semivuota". Non lo dice alla cliente, lo dira' alla moglie, dopo molte
ore di assenza da casa. Non e' niente di quello che il film faceva supporre,
tipo lo squallore dei cortili, la ristrettezza dell'appartamento, la
disoccupazione del figlio: la sua pena e' avere perso l'amore della sua
compagna. Si indovina che in quelle ore ha pensato di farla finita: tutto o
niente. La storia finisce che i due si parlano, in lei si scioglie il groppo
di risentimento che aveva verso l'uomo e tornano a volersi bene, come agli
inizi e forse di piu'.
Dal finale dipende il senso del titolo e, aggiungo, dell'intero film, pero'
vediamo come. Con quel finale, non si tratta piu' di un film di denuncia. La
morale politica non la tiriamo noi che guardiamo il film, ce la insegnano i
suoi personaggi. Questa gente "abbandonata dalla politica", che s'ingegna a
sopravvivere con un'enorme fatica quotidiana cui il regista ci fa
partecipare, non chiede la nostra compassione ne' aspetta la nostra
indignazione. E, per finire, sono loro che ci insegnano la via d'uscita. E'
giusto che sia cosi'. Non e' piu' tempo di fare denunce in vista di
suscitare un'indignazione e una mobilitazione delle coscienze. Le mediazioni
che una volta agivano in questi casi, sono ormai estinte. Ero bambina e
ricordo il generoso fervore con cui il mio paese si mobilito' per dare
ospitalita' ai profughi del Polesine. Oggi ho una casa tutta mia e non ci
faccio dormire persone senza casa, neanche d'inverno. Io non sono cambiata,
e' cambiata la civilta'.
Ma l'amore sarebbe la via d'uscita? Non lo so. Certo, ci vuole qualcosa che
ci sbilanci, da dentro. Ci vuole un "movente" vero, che ci schiodi dalla
ripetizione. La razionalita' tutta e solo laica, per dire: ragionante e
calcolatrice, non ha la forza di vincere, perche' resta dentro l'ordine
costituito, i cui giochi sono ormai tutti giocati e noti. Doveva essere la
fine della storia, e' cominciata invece una storia di eversione. Un
Berlusconi e' riuscito a vincere sui politici di professione non perche'
fosse piu' intelligente di loro, ma proprio perche' loro erano dei
professionisti, mentre lui nel gioco e' entrato portando un interesse extra
(e molto pressante, come sappiamo: salvare il suo impero affaristico e non
finire in galera).
Ormai, stando alle regole del gioco, per bene che vada, si va in pari,
com'e' successo all'avversario di Bush nelle elezioni presidenziali. Per
vincere bisogna avere una passione e scommettere... Tutto o niente, e' una
parola contraria all'arte della mediazione, che in politica e' necessaria.
Ma intendiamoci: non si puo' mediare all'infinito, c'e' un punto passato il
quale la politica perde ogni senso e diventa la foglia di fico messa sopra
il privilegio e il dominio.
Mi chiedo se questo punto non lo abbiamo gia' passato. Voglio dire che la
politica delle regole e dei professionisti, da sola, non fara' vincere gli
abitanti delle periferie urbane, quale che sia il risultato elettorale: non
li riguarda piu'. Non li fara' vincere neanche che vinca la sinistra su
questioni di principio, per quanto sacrosante, come l'articolo 18, se la
misura dell'essere resta quella del successo, del potere e dei soldi. Non
serve, d'altra parte, che cerchiamo di correggere questa misura con valori
etici che, praticamente, sono vestiti che si puo' indossare solo in certi
posti, a certe condizioni, non in quei casoni e bar che fa vedere il film di
Mike Leigh (ma non occorre andare al cinema per sapere di che cosa parlo).
Forse invece li fara' vincere uno spostamento dello sguardo, esattamento
come quello che opera il film, che non denuncia lo sfruttamento, non accusa
il potere, ma si volta verso la sofferenza di quelle donne e di quegli
uomini, un patire comune e differente per ognuno di loro, e verso le loro
risposte, spesso fallimentari ma non sempre... Con il risultato elementare
quanto fondamentale di dare loro esistenza simbolica e di renderli
protagonisti delle loro vite. Loro e noi, perche' si tratta anche di noi e
del nostro patimento, abbassati come siamo anche noi al di sotto della
nostra capacita' di vivere con gioia e generosita'.

7. DIBATTITO: ROSSANA ROSSANDA: IL SIMBOLICO E IL MATERIALE
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 giugno 2003 riprendiamo questo
articolo li' comparso col titolo "Un aspetto per volta". Rossana Rossanda e'
nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista,
dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla
rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure
piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista
prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei
movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu' drammatica
attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti. Opere di
Rossana Rossanda: Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o
della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche
per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987;
con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma
1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione,
immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri,
Torino 1996. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della
testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e
politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli, saggi e
interventi pubblicati in giornali e riviste]
Possibile che il pensiero delle donne debba spazzar via tutto quello che ha
prodotto il movimento operaio e comunista? Nel giorno in cui il governo
abbatte i diritti del lavoro, priva il salariato delle poche garanzie che
aveva sul proprio destino, ne fa non piu' che uno snodo intermittente,
precario, a chiamata del processo produttivo o dei servizi, una delle nostre
piu' interessanti femministe - Luisa Muraro su "l'Unita'" di ieri - ci
informa "che non e' piu' tempo di fare denunce in vista di suscitare una
indignazione o una mobilitazione delle coscienze" perche' la mediazione "che
agiva in questi casi e' estinta". Suppongo che la mediazione fosse il
contratto di lavoro, o quello sulla previdenza. E prosegue "la politica
delle regole e dei professionisti da sola non fara' vincere gli abitanti
delle periferie urbane. Non li fara' vincere neanche che vinca la sinistra
su questioni di principio, pur sacrosante, come l'articolo 18, se la misura
dell'essere resta quella del successo, del potere, dei soldi...". Brutte
parole, successo, potere, soldi (sono piu' accattivanti riconoscimento,
autorevolezza e agio); ma tradotte per "gli abitanti delle periferie urbane"
significano poter prevedere un percorso professionale, poterne contrattare
tempo e modi, contare su un salario. Muraro sa che il conflitto sociale si
svolge comunque dentro al sistema, che per uscirne si dovrebbe mirare piu'
in alto - o tutto o niente - ma poi declina il "tutto" in un atteggiamento
mentale: "Forse li fara' vincere uno spostamento dello sguardo che non
denuncia lo sfruttamento, non accusa il potere, ma si volta verso la
sofferenza di quelle donne e di quegli uomini... con il risultato elementare
quanto fondamentale di dare loro esistenza simbolica e renderli protagonisti
delle loro vite".
Sono riflessioni suggerite dal film di Mike Leigh Tutto o niente, in Italia
uscito solo ora, differente da quelli di Ken Loach perche' non parla di una
certa lotta, vittoriosa o sconfitta, ma dell'affogare degli affetti e delle
relazioni nella durezza della vita dei poco abbienti. Ma davvero Mike Leigh
o Luisa Muraro sosterrebbero che la relazione personale o affettiva azzera i
rapporti di forza materiali, e bastera' a liberare i lavoratori, sempre piu'
simili al tassista del film e felicemente descritti ieri da Manuela
Cartosio? Non credo.
Muraro si interroga non sull'indifferenza ma sul che fare. E rimprovera alla
sinistra del Novecento di aver creduto che basti operare sul o nel sistema
dei rapporti di proprieta', e di dipendenza del lavoratore, per risolvere i
problemi di un uomo o una donna, non vedendo che fra cielo e terra ci sono
piu' cose che nel modo e rapporti di produzione. La vulgata sindacale e
comunista non hanno, per esempio, visto la differenza fra i sessi, o al piu'
hanno proposto di portare le donne al livello degli uomini. Rimprovero di
economicismo, di cui molti oggi si battono il petto.
E' un rimprovero giusto, anche se il movimento operaio partiva proprio dalla
constatazione d'una sofferenza. Ma e' lecito derivare dalla sua sordita'
alla problematica dei sessi e della persona, sessuata o no, che la
disoccupazione o le condizioni di sfruttamento del lavoro non fanno piu'
problema? Che per chi lavora avere o no un contratto nazionale, un impiego
non precario o non averlo, qualche diritto o no rispetto all'impresa, fa lo
stesso? Oppure che "ormai" e' inutile battersi perche' quel che avviene e'
fatale?
Io sono una vecchia comunista cui le femministe hanno aperto gli occhi su
molte cose. Ho riflettuto sui limiti dell'emancipazione. Ma non ne concludo
che se ne possa fare a meno. Affatto. Non ha senso ribaltare sul movimento
operaio, cancellandolo, la sua cecita' sulla differenza fra i sessi.
Possibile che dell'umana condizione non si possa vedere che un aspetto per
volta?
Gettate gli uni sugli altri uno sguardo partecipe, sarete e saranno liberi.
L'ho gia' sentito dire, e da gente con la quale Luisa Muraro non vorrebbe
aver a che fare. Vogliamo cessare questo, chiedo scusa, noioso conflitto fra
il primato del simbolico sul materiale reale o viceversa?

8. DIBATTITO. LUISA MURARO: CARA ROSSANDA
[Questo articolo e' apparso sul quotidiano "Il manifesto" del 10 giugno 2003
col titolo "No, non vediamo un aspetto per volta"]
Cara Rossanda, ti ringrazio per l'attenzione che hai dato al mio articolo su
"l'Unita'" di sabato, Per vincere, ma temo di non avere scritto le cose che
tu critichi, quando esclami polemicamente nei miei confronti: "Possibile che
dell'umana condizione non si possa vedere che un aspetto per volta?". Che
sarebbe, nel mio caso, la differenza dei sessi.
Riassumo il mio articolo (che ora si puo' trovare nel sito
www.libreriadelledonne.it). Io dico che, per vincere, non basta mirare al
risultato elettorale secondo le forme della democrazia rappresentativa,
bisogna portare nella lotta politica qualcosa di altro, di extra, perche' la
fine del comunismo ha chiuso l'orizzonte e bisogna riaprirlo. Sostengo che
la lotta politica che sta tutta dentro le regole, tutta affidata ai politici
di professione, rischia ormai di essere una foglia di fico sopra la realta'
del privilegio e del dominio. Che cosa ci vuole allora, in piu'? Elenco e
scarto alcune risposte: la denuncia dello sfruttamento e dell'ingiustizia;
lottare su questioni di principio come l'articolo 18; puntare sui valori
etici. Non pretendo che siano cose sbagliate, ma insufficienti: non bastano
a vincere. E rispondo: per vincere, prestiamo attenzione alla sofferenza
corrente delle nostre vite, a cominciare dalle vite schiacciate di tanti che
hanno perso ogni fiducia nella politica; facciamo con la politica quello che
Mike Leigh fa con il cinema: restituire consapevolezza e protagonismo a chi
portava ciecamente gli effetti di una convivenza umana degradata.
Come si puo' vedere, io non sono una che, per pensare la politica delle
donne, deve spazzare via quello che ha prodotto il movimento operaio e
comunista. Al contrario, direi. Cara Rossanda, perche' possa risponderti
bisogna che mi riconosca nelle tue parole di critica. Per esempio, non
sostengo che la relazione personale o affettiva azzeri i rapporti di forza
materiali, come tu mi fai dire. Ma penso che, per combattere i rapporti di
forza e per vincere, sia necessario portarsi su un piano di essere (e di
politica) in cui l'attenzione alla sofferenza personale e la cura delle
relazioni sono beni preziosi. Tu contrapponi quello che io non contrappongo
e mi accusi di un esclusivismo che forse appartiene piu' a te che a me. Un
altro esempio. In chiusura dici: vogliamo cessare questo noioso conflitto
fra il primato del simbolico e il primato del materiale reale? Il noioso
conflitto lo hai evocato tu. Per parte mia, penso che l'analisi solo
economica della realta' sia politicamente inconcludente; puo' essere
scientificamente giusta ma non se ne puo' dedurre una politica se non si
considera quello che sentono, pensano, desiderano le donne e gli uomini
interessati. Non solo. Per vincere, bisogna anche che questo sentire,
pensare e desiderare si iscrivano in un orizzonte di possibilita'
alternative.
Su questi temi rimando a Christophe Dejours e al suo libro tradotto anche in
italiano (L'ingranaggio siamo noi. La sofferenza economica nella vita di
ogni giorno, Il Saggiatore, 2000), dove dice, fra l'altro: il silenzio
sociale sull'ingiustizia e l'infelicita', silenzio che ha permesso il
trionfo dell'economicismo, potrebbe dipendere, in definitiva, da un
appuntamento storicamente mancato delle organizzazioni sindacali con la
questione della soggettivita' e della sofferenza; da qui, un enorme ritardo
nei confronti delle tesi avanzate dal liberismo economico, e da qui anche la
grave difficolta' ad avanzare un progetto alternativo all'economicismo di
sinistra come di destra.

9. RIVISTE. "L'INCONTRO"
"L'incontro", mensile diretto da Bruno Segre, e' una voce di forte impegno
per la democrazia, la liberta' di coscienza e i diritti umani. Per
informazioni e contatti: via Consolata 11, 10122 Torino, tel. e fax
0115212000, e-mail: linc@marte.aeree.it

10. RIVISTE. "MANI TESE"
"Mani Tese" e' il notiziario mensile dell'omonimo organismo impegnato contro
la fame e per lo sviluppo dei popoli, una delle piu' importanti ong
italiane. Per informazioni e contatti: piazza Gambara 7/9, 20146 Milano,
tel. 024075165, fax 024046890, e-mail: manitese@manitese.it, sito:
www.manitese.it

11. RIVISTE. "ROMA CARITAS"
"Roma Caritas" e' il sempre interessante bimestrale della Caritas di Roma;
la redazione e' in piazza S. Giovanni in Laterano 6/a, Roma, tel.
0669886417, fax: 0669886381, e-mail: ufficio.stampa@caritasroma.it, sito:
www.caritasroma.it

12. RIVISTE. "SEGNO"
"Segno", il mensile palermitano diretto da padre Nino Fasullo, e' una delle
migliori riviste di impegno civile e culturale. Ogni volume e' un vero e
proprio libro di saggi, di autrici e autori sovente prestigiosi non solo per
dottrina ma per saggezza e coraggio grandi, da leggere e postillare dalla
prima all'ultima riga. Per informazioni e contatti: c. p. 565, 90100
Palermo, tel. e fax: 091228317, e-mail: rivistasegno@libero.it

13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
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LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
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Numero 584 del 17 giugno 2003