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INTERVISTA A YAMINA BACHIR-CHOUIKH
Fonte: Missione Oggi - Giugno/Luglio 2003
LUCI DAL SUD
RACHIDA: UNA DONNA
IN PIEDI
INTERVISTA A YAMINA BACHIR-CHOUIKH
Il film "Rachida" è stato salutato da una vera standing ovation a Cannes e
premiato quale miglior lungometraggio al Festival del cinema africano di
Milano. Ne parliamo con l'autrice, l'algerina Yamina Bachir-Chouikh.
Ci sono due tipi di terrorismo in Algeria: quello dei giovani che vogliono
così manifestare il loro malessere; e quello, più organizzato, di chi vuole
il potere e figura come mandante delle stragi, spesso dall'estero.
È difficile dire di aver vinto il terrorismo. In Irlanda ci sono voluti 25
anni. È un male che si nasconde fra la folla; e quando uno meno se l'
aspetta, riesplode. Non si può abolirlo per decreto.
Non esiste una causa "nobile" per rubare il soffio della vita. Che l'altro
professi una religione diversa, che abbia una cultura differente, non
significa che io abbia il diritto di annientarlo.
L'Algeria e la guerra dei fondamentalisti contro i civili. In questo tema
spinosissimo, decide di entrare Yamina Bachir-Chouikh, la regista di
"Rachida" (nelle sale italiane dal 28 marzo). È un conflitto ancora in
corso, che continua a mietere vittime, malgrado il governo l'abbia definito
come "residuale". Insomma, non siamo ancora nello spazio della memoria e
della storia. E, quindi, tutto è più difficile. "Ma bisognava cominciare a
raccontare, perché raccontare significa resistere", dice Yamina, cui è stato
ucciso un fratello e che in questo tempo difficilissimo non ha mai voluto
lasciare l'Algeria.
Ecco, dunque, "Rachida", un film salutato a Cannes - nella sezione Un
certain regard - da una standing ovation, e premiato quale miglior
lungometraggio al 13° Festival del cinema africano di Milano. La storia:
Rachida, 20 anni, lavora come insegnante in un quartiere popolare di Algeri.
Un mattino viene avvicinata da quattro giovani. Uno di loro si chiama
Sofiane, è un suo ex allievo. Questi gli ordina di mettere una bomba nella
scuola. Seppur attanagliata dalla paura, lei rifiuta e tenta di dare l'
allarme. Loro le sparano, lasciandola a terra ferita e sanguinante. Rachida
sopravviverà e si rifugerà con la madre in un piccolo villaggio alle porte
della capitale. Crede (e si sbaglia) di poter sfuggire così ai terroristi.
Ecco la lunga intervista che Yamina ci ha rilasciato.
Com'è nata l'idea del film?
Quando ho iniziato a scrivere, non avevo idea di come avrei affrontato l'
argomento. Un giorno c'è stato poi un fatto di sangue: un'insegnante è stata
assassinata da terroristi islamici. E allora mi sono detta: perché non
partire dalla storia di questa donna per raccontare la condizione terribile
del popolo algerino? Trovo magnifico il gesto di questa ragazza che avverte
la gente della presenza dell'ordigno, salvando di fatto loro la vita. Nella
realtà, purtroppo, la bomba è esplosa e l'insegnante è morta. Si chiamava
Zakia Guessab.
Per quale ragione, nel film, Lei ha preferito che l'insegnante
sopravvivesse?
In nessun momento, volevo cadere nel voyeurismo, nel sensazionalismo. Non
avevo voglia di mostrare dei massacri, del sangue. Volevo fare un film dove
si respirasse la dolcezza dei personaggi, la poesia di questa cultura. Mi
sono imposta di non mostrare la violenza. Perché mostrarla non serve. Nel
film, comunque, si capisce che la violenza è presente, come lo è la paura.
Nel film si dice ad un certo punto che "il terrorismo è residuale", lo Stato
lo ha praticamente vinto. Le cose stanno davvero così?
Da due anni, il governo fa dei comunicati affermando appunto questo. Solo
che il giorno dopo, puntualmente, con un altro massacro si riapre il
capitolo del terrore. Questa storia non è chiusa. È difficile dire di aver
vinto il terrorismo. In Irlanda ci sono voluti 25 anni. È un male che si
nasconde fra la folla; e quando uno meno se l'aspetta, riesplode. Non si può
abolirlo per decreto.
Chi sono realmente i terroristi? Perché uccidono? Il suo film, questo, non
lo dice.
È stata una scelta. All'inizio non volevo mostrarli. Volevo riprendere
solamente le persone che amo. Avevo allora deciso di farli apparire solo
come ombre: per noi era gente conosciuta e, nello stesso tempo, quando
agiscono sono inafferrabili. Se hanno questi visi nel film, è perché la
realtà è questa: sono giovani. Non fanno paura, quando li si incontra per
strada. Si mescolano con la folla. È la loro strategia. Inoltre, non volevo
fare un film che fosse un manifesto politico. Volevo raccontare un dramma,
raccontando soprattutto gli uomini. Era il lato umano della storia ad
interessarmi.
Nel film, vengono poste delle domande. Ad esempio, la madre di Rachida
chiede: "In nome di quale religione si uccide la gente?" Non avevo bisogno
di entrare in discorsi sull'integralismo. Quella che viene compiuta, è
chiaramente una violenza integralista. Ma, ad un certo punto, poco importa l
'origine. Ciò che interessa dire, piuttosto, è che non si ha alcun diritto
di uccidere la gente. Non esiste una causa "nobile" per rubare il soffio
della vita. Che l'altro professi una religione diversa, che abbia una
cultura differente, che non condivida le mie aspirazioni, non significa che
io abbia il diritto di annientarlo.
Ma nella società algerina si cercano di capire le ragioni del terrorismo?
Le ragioni dei terroristi sono chiare e precise: è il potere. Hanno deciso
che si può prenderlo solo con le armi. E questo può condurre a violenze
terribili. Lo vediamo, oggi, in Iraq. Saddam Hussein è un despota. Ma tutti
sanno che la guerra in corso è per il petrolio, per le immense ricchezze del
paese. In nome di questo, si è disposti a massacrare un popolo.
Lei ha detto che alcuni di questi terroristi sono giovani che hanno
accumulato la violenza dentro di loro, a causa della totale mancanza di
sbocchi nella vita. Ci sono dunque due diversi tipi di terrorismo?
Sì. Quello dei ragazzi che vogliono così manifestare il loro malessere; e c'
è un altro terrorismo più organizzato che vuole il potere. In altri termini,
il terrorismo religioso si radica nelle pieghe di una società malata. La
causa dei giovani, la loro ribellione, all'inizio era giusta. Ma, in un
secondo momento, essi sono stati strumentalizzati da gente che vuole
prendere il potere. I mandanti si trovano ovunque nel mondo. Nel caso dell'
Algeria, molti di costoro hanno lasciato il paese, ad esempio per gli Stati
Uniti o la Germania. E da qui dirigono la violenza su di un popolo.
Utilizzano come carne da macello ragazzini di 16-17 anni e giovani di 30-35.
Non è un esercito. Potrebbe essere mio cugino, mio fratello. Vivono con noi.
La gente fra loro si conosce. Ma il terrore fa sì che regni la legge del
silenzio, l'omertà. Perciò questo periodo terribile è durato così a lungo.
Troppo a lungo.
È vero che ci sono delle complicità. È normale. Ci sono delle aspirazioni a
livello della popolazione, dello Stato islamico. Ma non è la maggioranza.
Tutti sono rimasti sconcertati da questa violenza.
Nel film, cerco di capire il meccanismo, per cui i nostri figli sono
diventati violenti. Non lo sono sempre stati. Un bambino non nasce
terrorista... Ciò vuol dire che c'è una responsabilità da parte del governo,
dello Stato, della società. "È anche colpa mia", dice ad un certo punto
Rachida.
La responsabilità è più degli uomini che delle donne?
Di entrambi. Anche le donne riproducono degli schemi. Esse, prima di subire
le violenze dei fondamentalisti, hanno già subito. Violenze della
tradizione, culturali, ecc. Ma la donna rompe la legge del silenzio. Perché
non vuole vedere morire i suoi figli. È lei infatti che dà la vita ed è lei
che piange i morti. Non si dice forse che "la donna ha il privilegio del
dolore"?
Le donne sono le prime persone che subiscono la violenza, assieme ai
bambini. Non so perché, ma questi due soggetti rappresentano un "pericolo
mortale" per i terroristi. Bisogna dunque eliminarli subito. Dal canto suo,
la donna non ha dunque niente da perdere.
Come fanno le donne a resistere al terrorismo fondamentalista in Algeria?
Lo fanno violando i divieti: ad esempio, quello di uscire senza velo o di
andare a lavorare. Loro hanno continuato ad andarci, a capo scoperto, tutti
i giorni. Ma non ci si deve nemmeno focalizzare troppo sui dettagli,
dimenticando l'essenziale: l'essenziale non è il velo, ma è il progetto di
società che ci viene proposto, nel quale dobbiamo inserirci per vivere il
nostro tempo, per evolvere.
Qual è il ruolo della religione?
Si dice che è in nome della religione che si uccide. Ma smettiamo di fare
questa confusione: non può essere Dio ad aver chiesto agli uomini di
uccidere. Dio non è colpevole dei crimini dei fondamentalisti, come non è
mai stato colpevole dei crimini dell'Inquisizione o della Shoah.
Può riassumere in poche parole il messaggio del film?
È un inno alla pace, un inno alla vita. Perché c'è molto humour nel film.
Che cos'è la pace per Lei?
È una cultura. Che si può imparare, si può inculcare.
Inculcare una cultura del genere richiede tempo. Lo si sta facendo oggi in
Algeria?
No. Potrei dire esattamente il contrario. Quando si nasce in una società
nella quale, a partire dalla scuola, si inculca la violenza e l'odio. non è
davvero facile. Per cercare di stabilire un po' più di pace e di tolleranza,
i politici dovrebbero decidersi a proporre un progetto di società. Ne
sentiamo una grandissima mancanza. Restiamo arroccati a delle tradizioni, ad
una mancanza di comunicazione, a una cultura dell'intolleranza.
In questo senso, la società civile non sta svolgendo un suo ruolo
fondamentale?
Non dico di no. Ci sono organizzazioni di donne che, ad esempio, si occupano
dei bambini sopravvissuti ai massacri e gravemente traumatizzati. Ma questi
sforzi - pur positivi - della società civile non sono canalizzati. La stampa
algerina, altro caso, gode una grandissima libertà rispetto a quella del
resto del mondo arabo e musulmano. Del resto, i giornalisti hanno pagato un
altissimo tributo di sangue per assicurarsi questa prerogativa. Direi dunque
che se il paese non è precipitato nel caos, è perché c'è stata questa
straordinaria resistenza. Nella guerra contro i civili - si noti: non una
"guerra civile" - gli insegnanti hanno continuato ad insegnare, i medici ad
andare in corsia o in sala operatoria, ecc.
In tutti questi anni di conflitto, l'Algeria ha dunque sempre cercato di
andare avanti.
Sì. I teatri hanno continuato ad allestire spettacoli, i giovani ad
organizzare feste, a cantare il raï, ecc. Nel film, ad esempio, ci sono
canzoni di Cheb Hasni, che è stato assassinato a soli 26 anni il 29
settembre 1994. Al suo funerale c'era tutta l'Algeria: gente che ha preso la
macchina, il treno, l'aereo o ha fatto decine di chilometri a piedi, pur di
esserci. Niente si è davvero fermato in Algeria in quegli anni. Dall'
esterno, forse, si aveva l'impressione della paralisi. Ma la vita è sempre
continuata.
Come sono state le reazioni a "Rachida" in Algeria?
Molto buone. Quando il film è uscito ad Algeri, tutti sono venuti a vederlo.
C'è stato un largo consenso. Dai tempi della "Battaglia di Algeri", le sale
cinematografiche non si erano riempite tanto. La gente è venuta con tutta la
famiglia: bambini, anziani, nonne, "barbuti", ragazzi sbarbati vestiti all'
Occidentale... Nessuno mi ha rimproverato di aver fatto un film per l'
estero. Questo racconta di un fatto d'attualità: siamo ancora in mezzo al
dramma, non a una distanza di vent'anni, nello spazio della memoria e della
storia. Ho ripreso il quotidiano e la gente si è sentita coinvolta. Quando
nel film appare un terrorista, ad esempio, nella sala sono volati insulti.
Quasi si fosse instaurato un rapporto interattivo tra il film e il suo
pubblico.
Lei vive tuttora in Algeria. Non ha paura dopo questo suo film?
La mia vita non è più preziosa di quella degli altri. Faccio parte del
popolo algerino che ha paura. Ma che, allo stesso tempo, cerca di andare
avanti.
C'è chi dice che il suo film è stato fatto su richiesta francese. Lei che
cosa risponde?
Che non è un film su mandato. È un soggetto che ho scritto io e ho
depositato per prima cosa in Algeria, al Centro nazionale del cinema, e poi
l'ho proposto un po' ovunque: ad Arté France Cinéma, Ciel Production, Ciné
Sud Promotion, ad associazioni, fondazioni, a tutti quei sistemi di
finanziamento cinematografico. C'è stato chi ha risposto e chi non ha
accettato. Lei sa il dolore nel quale mi trovavo? Nessuno poteva darmi un
mandato, qualunque esso fosse... Non voglio parlarne, ma ero in una
sofferenza terribile. Ho perso la persona a me più cara. Ho resistito al
terrorismo, nessuno poteva impormi qualche cosa. Non sono una donna alla
quale si possa imporre qualcosa. Ho deciso di non lasciare l'Algeria e non l
'ho lasciata.
Può dirci chi era la persona che ha perso?
Preferisco di no. Non voglio accaparrarmi il dolore degli altri. Il dolore è
quello nostro.
A cura di ALESSANDRA GARUSI
CONTRO LA GUERRA IN IRAQ:
UNA PROTESTA IN SORDINA
A proposito della guerra in Iraq, abbiamo visto delle enormi manifestazioni
nel mondo arabo, dal Cairo a Teheran. E l'Algeria come vive questo
conflitto?
Con molta inquietudine. E questo è normale. La gente ha cominciato a
scendere in piazza, a manifestare. Ma credo che, contemporaneamente, ci sia
anche un altro fenomeno in Algeria: la popolazione ha così tanto sofferto
qui, a causa della violenza, che è come se non si sentisse coinvolta.
È come se si dicesse: le bombe non cadono qua. non su di noi. Per troppo
tempo, la violenza si è infilata nel nostro quotidiano: si prendeva un
autobus alla mattina con l'eventualità di esplodere assieme ad esso; si
mandavano i figli a scuola con il cuore in gola al pensiero che avrebbero
potuto non tornare.
In questo ultimo anno, oltretutto, le marce non vengono autorizzate. Sono
sostituite da sit-in. La protesta contro la guerra in Iraq, dunque, avviene
in sordina.