UN DESTINO COMUNE
La scelta sionista fatta da ragazza, l'impegno
pacifista, gli amici palestinesi, la preoccupazione per il paese che si
autodistrugge, la delusione di Barak, l'odio per Israele di certa sinistra, il
figlio che non c'è più...
Intervista a Manuela
Dviri.
Manuela Dviri, israeliana originaria di Padova, ha
scritto L'uovo di cioccolata, pubblicato in Israele, collabora col Corriere
della Sera, vive a Tel Aviv.
Perché sono andata in Israele? Perché vengo da una
famiglia ebraica sionista. La piccola comunità ebraica padovana, a differenza di
quella di Venezia, era molto sionista; da Padova erano partiti parecchi ragazzi
dell'età di mio padre, tra cui Renzo Calabresi, i fratelli Rossi, parlo del
primo dopoguerra. A mio padre sarebbe molto piaciuto andare, però aveva una
madre molto vecchia ed è rimasto qui, ha passato la guerra, ha fatto un po' il
partigiano.
Mio padre ricordava come un affronto terribile la
seconda guerra, l'essere perseguitati. Il fatto di essere in mano d'altri, di
non avere il proprio destino nelle proprie mani è qualcosa che ha avuto un peso
nella nostra famiglia.
Delle tre sorelle, la prima a partire sono stata io,
nel '66, quindi prima della guerra del '67; avevo diciassette anni e in nave,
proprio venendo la prima volta in Israele ho conosciuto un ragazzo israeliano,
un sabra; due anni dopo ci siamo sposati. Di stabilirmi in Israele già ci
pensavo, comunque, così, con un marito israeliano, mi è stato anche più facile.
Pochi anni dopo, anche mia sorella è arrivata, mentre una terza sorella è
rimasta in Italia, a Torino.
Io quindi sono venuta in Israele non per bisogno,
come spesso è successo agli ebrei della diaspora, ma proprio per puro desiderio
sionista. Devo anche dire che i primi anni sono stati molto belli e molto
faticosi, anche perché io non parlavo una parola di ebraico, l'ho imparato da
sola, ho fatto l'università a Tel Aviv, mi sono laureata in Letteratura
Comparata, in inglese e francese, poi ho insegnato in varie scuole; mi ero
inventata un metodo particolare per insegnare l'inglese ai bambini handicappati;
infine sono passata all'Istituto Weizman e lì ho lavorato fino al '98. Nel
frattempo mi erano nati tre figli, il grande nel '69, uno nel '72, il terzo nel
'77. Nel '98, il 26 febbraio '98, è morto mio figlio piccolo, Yoni. E' morto sul
fronte del Libano.
Per alcuni mesi sono tornata al lavoro, poi ho deciso
che dovevo fare altro nella vita, che bisognava darsi da fare; se non l'avessi
fatto io non l'avrebbe fatto nessun altro.
Fare cosa? Far sentire la mia voce, anche se diversa
da quella degli altri, anche se a volte sgradevole, ma farla sentire lo stesso,
come se io fossi l'unica al mondo che può cambiare le cose. Certo, lo so che non
lo sono, ma se tutti lo pensassero, probabilmente il mondo
cambierebbe.
Tutto è iniziato nel '98, durante la Shivah, la
settimana di lutto per i morti. Mi sono venuti a trovare in casa il presidente
della Repubblica, che allora era Weizman, e il ministro della Difesa, Yitzhak
Mordechai. Si aspettavano la solita madre affranta, in lacrime e invece si sono
trovati davanti una donna infuriata. Io ho chiesto al ministro della Difesa:
"Lei mi sa spiegare cosa stanno facendo questi soldati in Libano? E perché siamo
ancora lì?". Lui non ha saputo rispondermi o, forse, non ha voluto e allora mi
sono rivolta a tutti i militari, dal Capo di Stato Maggiore ai colonnelli, ai
generali, ai soldati semplici. E a tutti ho fatto la stessa domanda: "Cosa
stiamo facendo in Libano?". La risposta è stata: "Siamo nel territorio libanese
perché nessuno ha deciso di non esserci".
Dopo il ritiro dal Libano, per un'idea che era
venuta, pare, a Rabin, si era deciso di lasciare una "striscia di sicurezza" che
sarebbe stata salvaguardata da truppe maronite, cattoliche e
israeliane.
All'inizio funzionò, ma poi nacque il gruppo degli
Hezbollah che si mise a combattere contro i ragazzi rimasti nella striscia di
sicurezza; in pratica questi giovani, anziché salvaguardare i villaggi ebraici
di frontiera divennero dei bersagli, come quegli anatroccoli che si vedono nei
Luna Park.
All'inizio ne morivano due, tre, anche quattro in un
mese. Sembrava fosse una cosa normale. Nel '97, in seguito alla collisione nei
cieli del Libano di due elicotteri israeliani (in cui morirono 73 militari)
quattro madri di soldati residenti in Galilea fondarono il gruppo "Quattro
Madri". Le donne avevano cominciato a far sentire la loro voce. Era il momento
giusto, nel 2000 ci sarebbero state le elezioni e Barak aveva capito che
l'opinione pubblica stava cambiando: ormai erano in molti a volere il ritiro
delle truppe dal Libano, così promise: "Se io sarò eletto usciremo dal Libano" e
mantenne l'impegno. Fu l'unica cosa veramente buona che fece durante il periodo
del suo governo.
Già, Barak. Il suo governo, fin dall'inizio, fu un
po' bizantino; Barak non si fidava di nessuno, credeva solo in se stesso, quindi
aveva formato due gruppi di consiglieri o di aiutanti che si combattevano l'uno
con l'altro, aveva proprio una corte che gli girava intorno. Del resto parliamo
di un uomo che era appena uscito dall'esercito, che era stato Capo di Stato
Maggiore; un uomo nato e vissuto nei kibbutz, che aveva conquistato il Labour
così, in volata, quasi senza alcuna fatica, ma anche senza alcuna esperienza
politica che lo potesse sostenere in una trattativa così delicata come quella
che doveva portare agli accordi coi palestinesi. Non dimentichiamoci che un
arabo è un arabo; un arabo ama il suk, il mercato, il cercare di tirare sul
prezzo, e allora forse anche il provare a forzare coi
negoziati.
Secondo me, se un negoziato non funziona, bisogna
andare avanti ugualmente; a Taba si era veramente arrivati vicinissimi un
accordo. Per questo si può citare Jossi Beilin, che era a Taba e ha continuato a
tenere rapporti coi palestinesi: c'era già un accordo anche per il numero dei
palestinesi che sarebbero potuti rientrare in Israele in base alla legge del
ritorno palestinese. Comunque, ora è inutile tornare sull'argomento,
semplicemente non c'era tempo. Era già tardi a Camp David, l'incontro non era
stato adeguatamente preparato. Soprattutto si era troppo a ridosso della fine
del mandato di Clinton, come pure di quello di Barak; stava avvenendo tutto
all'ultimo momento. Infatti sono stati compiuti degli errori enormi, sia da
parte palestinese, che da parte israeliana; su questo non ho alcun
dubbio.
Credo anche che Arafat non si aspettasse un'intifada
così lunga, di cui ha perso il controllo; in Medio Oriente, ci sono delle forze,
delle emozioni, che sono potenti, e che a un certo punto sfuggono di mano.
Neppure Barak pensava che poi sarebbe finita
così.
I risultati dell'intifada sono stati orribili per
ambedue le parti. Nei Territori palestinesi la disoccupazione è altissima, siamo
ormai arrivati alla fame, c'è molto spesso il coprifuoco, è una vita
impossibile. La popolazione palestinese sopravviveva anche grazie agli impieghi
in Israele; oggi da Gaza non entra più nessuno, Betlemme è chiusa, come pure
Ramallah, Jenin, Nablus, tutte le città palestinesi sono chiuse. A Gerico, dove
c'era il famoso casinò in cui gli israeliani andavano a giocare, è successo il
finimondo, è sparito tutto, anche il casinò.
Ma la cosa più incredibile è che si era veramente a
un passo dalla normalità. Io ricordo, e parlo di due non di dieci anni fa,
quando gli israeliani andavano a comprare i mobili nei Territori; quando
andavano nei Territori a giocare al casinò, ad aggiustare la macchina perché il
garage costava meno, a curarsi i denti perché il dentista in Israele costa
carissimo mentre quelli palestinesi, pur essendo qualificati, costano meno.
Insomma, il passaggio dalla quasi normalità alla catastrofe è stato rapidissimo.
Dubito che dalla catastrofe si possa tornare alla quasi normalità con la stessa
rapidità.
La guerra dei Sei Giorni, la grande vittoria, è
stata, in fondo, la nostra rovina. Oggi, da persona normale, mi chiedo: "Quali
sono le nostre prospettive?". Se i Territori diventano parte dello Stato
d'Israele cosa ne facciamo dei palestinesi? Se diamo il voto a tre milioni di
arabi, avremo un premier arabo entro cinque minuti; se non diamo il voto a tre
milioni di arabi, allora è apartheid; se rimaniamo come siamo adesso, che non
siamo né qui né lì, come andiamo avanti? Continueremo a colpi di bombe da una
parte e di kamikaze dall'altra? Il problema è la sfiducia, una sfiducia enorme,
che proviamo gli uni rispetto agli altri, reciprocamente. I palestinesi
sostengono che da Netanyahu in poi gli accordi non sono più stati rispettati;
Israele avrebbe dovuto lasciare altri territori, invece anche con Barak. insomma
la loro accusa è: "Noi ci abbiamo creduto e voi non avete fatto quello che
avreste dovuto fare".
Dall'altra parte l'israeliano dice: "Se voi accettate
che i vostri kamikaze ci uccidano nelle nostre città, come possiamo avere
fiducia in voi?". Quindi c'è una sfiducia fortissima da ambedue le parti. E
tuttavia c'è anche il desiderio di vivere una vita normale, perché questa è una
vita impossibile ormai, per loro e anche per noi.
Il fatto è che siamo intimamente intrecciati l'uno
con l'altro, siamo come dei gemelli siamesi: se uno sposta la testa, sposta la
testa anche l'altro, se uno sta bene, sta bene anche l'altro, se uno sta male
sta male anche l'altro. Allora, sarebbe importante che almeno si sapesse quel
che succede dall'altra parte, anche per eliminare l'aspetto di demonizzazione
del nemico, che nel nostro caso è una persona che ci vive a pochi metri o a
pochi chilometri di distanza.
A volte l'israeliano crede di vivere in Europa,
invece no, vive nel Medio Oriente, c'è poco da fare. Allora, israeliani e
palestinesi hanno gli stessi problemi, vivono nello stesso luogo, si conoscono
molto bene. Forse i palestinesi ci conoscono meglio di quanto noi conosciamo
loro; moltissimi palestinesi parlano l'ebraico perfettamente, io lo sto
studiando adesso, l'arabo, lo parlo malissimo; quello che voglio dire è che noi
abbiamo un destino comune, mentre l'italiano, tutto sommato, spesso gioca sul
problema israelo-palestinese, secondo quello in cui crede politicamente. Del
resto, i palestinesi sono molto più simili a noi di quanto uno possa credere;
hanno imparato tutto da noi: noi abbiamo avuto il sionismo loro hanno il
desiderio di uno Stato, con un capo di Stato, con un parlamento. Questo
desiderio nasce esattamente dal fatto di non avere libertà, di non poter
decidere per se stessi. Ebbene, non c'è niente di meglio di un'oppressione per
diventare popolo. Noi lo sappiamo bene: quand'è che siamo diventati Stato
d'Israele? Quando -in ben altro modo, per carità facciamo le debite distinzioni-
come popolo ci siamo sentiti espropriati di tutto quanto un popolo deve avere. I
palestinesi sono gli ebrei del Medio Oriente.
Vado spesso avanti e indietro tra Israele e l'Italia;
dovunque vada mi piace osservare l'espressione della gente: in Israele il viso
delle persone è molto spesso triste. Quella di Sharon è una politica di
vendetta, occhio per occhio, dente per dente, così alla fine rimarremo tutti
senza occhi e senza denti. La preoccupazione di una persona che non è della
sinistra israeliana, come può essere mio marito, è quella di un paese ormai allo
sbando: "Va bene, allora continueremo a uccidere e a farci uccidere e intanto
resisteremo. ma fino a quando?". Tutti si chiedono quale sarà il futuro. Anche
chi vuole la vendetta si chiede quale sarà il futuro. Intanto oggi a pagare sono
le classi meno abbienti. Tantissimi giovani hanno perso il lavoro; un'amica mi
raccontava che ci sono dei ragazzi che girano per il mondo, che casomai stanno
sei mesi in India perché -dicono- "In India la vita costa poco, così ci
divertiamo e anche se non lavoriamo sopravviviamo lo
stesso".
Il futuro è un grande punto di domanda. Io credo che
Israele rischi non già la distruzione da parte degli arabi, quanto
l'autodistruzione; il pericolo è che rimangano quelli che dicono: "Occhio per
occhio, dente per dente, vendichiamoci" e che un giorno o l'altro i giovani si
rassegnino a pensare: "Che ragione c'è perché io stia qui? Il mondo è grande, io
parlo le lingue, so lavorare col computer, ho studiato per fare il medico, posso
farlo anche da un'altra parte". Questo è un pericolo enorme. Israele è un paese
che non ha mai conosciuto simili tassi di disoccupazione; d'altra parte non ha
nemmeno mai conosciuto un tale numero di stranieri che fanno lavori fisici. Ora
ci sono i filippini che fanno i badanti o le badanti, i rumeni che fanno i
muratori, i cinesi e i tailandesi che si occupano di agricoltura, i tailandesi o
i filippini che lavorano nei ristoranti, ce ne sono per tutti i gusti e per
tutte le qualità; addirittura le prostitute russe, o anche israeliane che
lavorano per tutti questi gruppi di stranieri. Ci sono ormai delle piccole città
di stranieri in Israele, per esempio a Tel Aviv nella zona della vecchia
stazione degli autobus. E' un mondo fuori d'Israele dentro
Israele.
Credo che la comunità ebraica italiana, che è quella
che io più conosco, sia molto confusa e imbarazzata, e forse anche poco
informata. Del resto, la complessità del mondo israeliano è tale che diventa
difficile seguire giornalmente quello che succede, malgrado moltissimi ebrei
della diaspora, praticamente quasi tutti, abbiano parenti e amici in Israele. Io
spesso incontro ebrei della diaspora e li trovo sempre molto preoccupati
dell'antisemitismo.
Ecco, l'antisemitismo è la cosa di cui io ho smesso
di preoccuparmi dal '68, cioè da quando sono andata in Israele. Secondo me,
l'antisemitismo è soprattutto razzismo, ossia una brutta malattia, e chi ce l'ha
probabilmente la tiene nascosta. Comunque, io penso che nei corsi e ricorsi, la
storia non torna mai ad essere identica a quella che è stata in passato. Credo
che oggi in Europa, in Italia, sia più facile che facciano del male agli
albanesi, ai turchi, o agli afgani o ai russi. L'antisemitismo, come l'abbiamo
conosciuto durante la seconda guerra mondiale, non tornerà mai più. Comunque di
antisemitismo di sicuro in Italia non si muore, mentre di anti-israelismo oggi
si muore. E' una bella differenza. Di questo si muore in Israele, ma in futuro
potrebbe accadere anche all'estero. Anzi forse già accade: quel gruppo di
israeliani morti in Kenia sono morti non perché erano ebrei, ma appunto perché
erano israeliani. Penso che non sia lontano il giorno in cui in un albergo si
potrà sentirsi dire: "Lei ha passaporto israeliano? No, allora preferiamo di no,
è troppo pericoloso per noi". Insomma, io sinceramente non sento l'urgenza di
preoccuparmi dell'antisemitismo contro gli ebrei, né in Italia né
altrove.
Qualche tempo fa ho ricevuto il messaggio di uno
psicologo egiziano che raccontava, con molto disprezzo, di una trasmissione che
stanno facendo al Cairo sui Savi di Sion; la riteneva una cosa orribile,
assolutamente da condannare e auspicava che, visto che il mondo intero ha capito
che sono balle, gli egiziani smettessero di far vedere queste cose, e
soprattutto che i politici fossero i primi a dirlo. Ho interloquito con questo
signore per internet, non sapevo neanche chi fosse, e l'ho ringraziato; ho detto
che avevo trovato delizioso questo suo messaggio e che avremmo potuto cambiare
l'espressione "leader egiziani" con "leader israeliani". Lui ha risposto molto
gentilmente dicendo: "Mi fa piacere sapere che dall'altra parte c'è una persona
che è d'accordo con me". Ecco, internet fa sì che si continui a dialogare,
israeliani con palestinesi, con egiziani, con giordani. Io ho anche degli amici
in Giordania, in Egitto, ho degli amici palestinesi e, grazie a internet e al
telefono, si continua a parlare tra di noi, quasi fossimo una piccola coalizione
all'interno di questo mondo che fa le guerre preventive, che decide chi ha
ragione e chi ha torto nel modo più assoluto, che stabilisce che bisogna fare
assolutamente il tifo per l'una o per l'altra squadra, mentre, secondo me, non
ce n'è assolutamente bisogno, bisogna fare il tifo per le persone.
E' vero, a sinistra ci sono anche posizioni
ferocemente anti-israeliane. Recentemente, in occasione del giorno della donna,
eravamo state invitate in una città vicino a Firenze, io e due mie amiche
palestinesi in esilio; proprio mentre eravamo lì che parlavamo c'è stato
l'ingresso delle truppe israeliane a Betlemme, era marzo; il padre di una delle
amiche palestinesi mi ha contattato, chiedeva aiuto; ho subito telefonato in
Israele, ho messo in moto un'amica parlamentare, ho parlato con altre persone,
insomma ho cercato di mobilitarmi. Ebbene, quando sono tornata, sono subito
stata aggredita da una signora molto di sinistra che mi ha detto: "Lo Stato
d'Israele non ha il diritto di esistere perché è aggressore". Ma come? Mi ero
appena fatta in quattro per aiutare la gente di Betlemme attraverso amici
israeliani. E' subito saltata su una delle due palestinesi, dicendo: "Lei non si
permetta di dire una cosa del genere a questa persona". Ecco, a volte mi sembra
che in Italia si faccia del tifo per l'uno o per l'altro senza capire che, poi,
in realtà, quando siamo fuori dal contesto -o anche dentro- ci capiamo molto di
più fra israeliani e palestinesi di quanto possa fare un
italiano.
Quando c'è stata la famosa storia della raccolta
delle olive, ci sono stati dei gruppi che sono andati fisicamente ad aiutare i
palestinesi a raccogliere le olive e a me sembra una cosa importante, perché è
così che si crea un futuro comune. Non tutti i palestinesi sono dei kamikaze,
non tutti i palestinesi ci vogliono uccidere, ma tutti i palestinesi stanno
malissimo, sono ormai arrivati quasi alla fame e quindi vanno aiutati quando
vengono aggrediti dai coloni, come è successo nel caso delle raccolta delle
olive.
C'è un altro gruppo, che io trovo molto interessante,
che è "Medici per i diritti umani", medici israeliani che vanno nei Territori,
una volta ogni quindici giorni, ad aiutare i loro partner palestinesi. Poi ci
sono Le donne in nero che, tutti i venerdì, fanno delle manifestazioni; non
hanno mai smesso di farlo, mai, neanche per un giorno. Poi c'è un gruppo che
pubblica un giornaletto in ebraico e in arabo per bambini e che raccoglie
viveri, vestiario, anche pentole, per i palestinesi; c'è infine Ta'ayush che,
forse, è il più importante, e che si presenta ai processi, che va ovunque.
Certo, sono tutti piccoli gruppi, molto spesso fatti da ragazzi abbastanza
giovani, che non hanno alcuna importanza dal punto di vista politico. Eppure.
Forse in quel momento non l'avevo nemmeno capito, ma
la mia idea era che, siccome Yoni era un bravissimo ragazzo, un figlio buono,
bravo, simpatico, che non aveva mai fatto del male nella vita, ho deciso che
neanche la sua morte avrebbe dovuto farmi del male; anzi nella sua morte avrei
dovuto trovare una nuova ragione di vivere. L'ho trovata.
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