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Portare testimonianza/7 - Baghdad, 22 dicembre 2002
22 dicembre 2002
LETTERA A UN COMBATTENTE
Ho ricevuto di recente il seguente messaggio di posta elettronica da un
uomo che non conosco personalmente, ma che deve aver letto una delle nostre
lettere dall¹Iraq: ³Sarei lieto di unirmi alla vostra delegazione di pace
in Iraq, non appena le nostre bombe avranno rispedito al paleolitico la sua
brutale dittatura. Firmato: Terrence Grave, Marina militare degli Stati Uniti².
Malgrado il tono aggressivo del messaggio e il cinismo che può averlo
ispirato, ho imparato a mie spese che spesso gli oppositori sono i nostri
migliori maestri. Forse c¹è qualcosa da imparare, per me e per tutti noi,
dalla dura affermazione di Terrence. Pertanto colgo l¹occasione di questo
dibattito aperto - chiamando voi che ricevete queste lettere a fare da
assemblea di coscienza - per tentare una risposta e capire che lezione se
ne può trarre.
Caro Terrence,
sono lieto di apprendere che avresti interesse a unirti alla nostra
delegazione di pace: sei caldamente benvenuto. Quello che mi lascia
perplesso sono le condizioni che poni: non capisco come le nostre bombe
potrebbero rispedire al paleolitico questo regime senza fare strage di
innocenti, e aprire ferite che innescherebbero ancora più violenza in
futuro, avvelenando la speranza stessa che porteresti alla delegazione di pace.
So che la tua è la speranza implicita in molte guerre: creare le condizioni
per la pace uccidendo coloro che, a nostro modo di vedere, sono di ostacolo
alla pace. Nella tua lettera di una frase lo hai espresso in modo molto
succinto. E se fossi persuaso che questa tattica sia davvero in grado di
creare la pace e liberare il mondo dai dittatori brutali, mi unirei a te
nel dire: bombardiamo!
Però non crea la pace, ma sofferenza, rabbia e morte, e getta i semi di
altre dittature, altre guerre, altre bombe.
Sei nella marina militare. Forse servi a bordo di una di quelle portaerei
al largo del Golfo che si apprestano a sferrare un attacco su questo paese.
Immagina cosa accade quando quelle snelle bombe e quei missili che vedi
assicurati al ventre dei velivoli vengono sganciati nel cielo sopra l¹Iraq.
Immagina cosa accade quando colpiscono, ammettiamo pure, gli obbiettivi
stabiliti, senza deviare su zone abitate da civili come tanto spesso
succede. Immagina di aver scritto con la vernice su uno di quei missili
³Saddam, torna al paleolitico!², e che vada a colpire il ministero
dell¹informazione qui a Baghdad, di certo una roccaforte della brutale
dittatura.
Immagina quel momento. Di fronte all¹entrata dell¹edificio c¹è un bambino
di otto anni. Si chiama Ahmed. Fa il lustrascarpe per aiutare la famiglia
in questi tempi duri. Potrebbe essere tuo figlio. Quegli occhi vivaci - te
li puoi immaginare. Il missile squarcia il lato nord dell¹edificio, ed ecco
che le immagini della CNN che inquadrano il muso del missile si oscurano, e
milioni di spettatori americani provano un moto di orgoglio nazionale per
l¹eccezionale riuscita del lancio, per la nostra tecnologia di precisione
chirurgica. Ahmed, che sta seduto all¹entrata est sulla sua latta di
vernice, alza gli occhi, giusto in tempo per ricevere in piena faccia una
pioggia di detriti. L¹urto lo fa cadere all¹indietro, e fortunatamente
perde i sensi quando batte la testa sul marciapiede. Lo ritrovano un¹ora
dopo sotto un cumulo di macerie, e lo trasportano all¹ospedale affollato di
vittime. È cieco, un lato della faccia è ustionato e un piede manca
all¹appello. Ma in qualche modo sopravvive, un¹esistenza mutilata, che lo
riporta più indietro del paleolitico. Dopo qualche anno lo potresti
incontrare per le strade di Baghdad, quando verrai per la delegazione di
pace. Lascia qualche spicciolo nel suo bicchiere di carta.
Terrence, puoi sentire la mia amarezza, e ti chiedo di perdonarmi. Ho
vissuto per quasi sessant¹anni, e per tutto questo tempo il mio paese, il
mio glorioso antico paese i cui principi ispiratori condivido sinceramente,
ha perseguito politiche estere basate più sulla sfiducia, sul dominio e
sulla violenza che sull¹intelligenza o la gentilezza. La nostra nazione
detiene la supremazia per la sua potenza militare, ma detiene anche quella
morale? Sono cresciuto credendo che il nostro paese si battesse per la
³libertà e la giustizia per tutti². Chiedi a chi vuoi: è questa l¹immagine
che nel mondo si ha degli Stati Uniti, nella stragrande maggioranza dei casi?
Lo so che la risposta d¹obbligo ai casi come Ahmed è che si tratta degli
incresciosi danni collaterali di una guerra necessaria che a conti fatti
salverà molte vite. Interrogata circa i 500.000 bambini che sono morti,
stando alle stime dell¹ONU, in conseguenza delle sanzioni contro l¹Iraq,
l¹ex segretario di stato Madeleine Albright rispose come è ormai noto: ³Era
il prezzo da pagare². Che assurdo calcolo è mai questo? Cinquecentomila
Ahmed! Non è un genocidio in piena regola? C¹è da meravigliarsi che la
gente di qui consideri gli Stati Uniti come il ³brutale dittatore² delle
loro esistenze?
La notte scorsa abbiamo tenuto una veglia a lume di candela presso un
impianto elettrico qui a Baghdad. Eravamo circa sessanta, ciascuno con una
candela in mano, i volti ingentiliti dal tenue bagliore. Sembrava una
processione natalizia. I nostri tassisti si sono uniti a noi, come pure i
lavoratori dell¹impianto, uomini baffuti che reggevano le candeline come
bambini, con gli occhi fissi nel buio. Accanto a me c¹era una madre
irachena con i suoi tre figli. Si chiama Amara. Ha dato alla luce il primo
durante il bombardamento di Baghdad nel 1991. La stampa le si faceva
attorno piazzandole almeno una dozzina di microfoni davanti, mentre lei col
suo inglese stentato diceva: ³Vi prego, dite al governo americano, vi
prego, niente più bombe. Niente più bombe. Vogliamo vivere in pace².
Terrence, non mi aspetto di farti cambiare idea con queste poche parole, ma
sono grato dell¹occasione che mi dà il tuo messaggio per esprimere quello
che provo. Sono venuto in Iraq per dare voce a quelli come Ahmed e come
Amara, o se non altro per imprimere quei volti nelle coscienze di tutti,
perché possiamo renderci conto che sono persone in carne e ossa le cui vite
sono preziose quanto le nostre. Io credo che tu, in quanto combattente, e
tutti i tuoi colleghi militari insieme alle donne e agli uomini del nostro
paese, dobbiate tenerlo sempre presente nella vostra mente e nel vostro
cuore, quale che sia la scelta - di pace o di guerra - che faremo.
Potrai dire che è un nobile sentimento e che in fondo lo condividi, ma che
non è adeguato per fare fronte al male. Credo che questo sia il punto di
maggiore disaccordo fra noi: non il comune desiderio di pace, ma i mezzi
per gettare i semi di una pace autentica. Tu dici che i semi sono le bombe.
Io dico che ci abbiamo provato, e il raccolto ci ha sempre deluso.
E se invece di finanziare altre bombe i bravi cittadini della nostra ricca
nazione decidessero di destinare, faccio per dire, un terzo della nostra
enorme spesa militare (circa centoventi milardi di dollari all¹anno) alla
lotta contro l¹AIDS in Africa, a fornire acqua pulita e cibo sufficiente ai
bambini del mondo e alla fondazione di scuole, università e ospedali in
varie parti del pianeta? Non sarebbe forse una base più stabile per la
sicurezza nazionale? E se offrissimo di finanziare i progetti dell¹ONU? E
se promuovessimo scambi fra studenti e cittadini di tutti i paesi, così che
l¹incontro personale faccia svanire la paura della diversità? E se
smettessimo di inondare il mondo con armi pericolose, e lavorassimo
attraverso l¹ONU e altre agenzie internazionali per eliminare le armi di
distruzione di massa dagli arsenali di tutti i paesi? E se appoggiassimo in
tutti i modi possibili la Dichiarazione universale dei diritti dell¹uomo,
la Carta della terra, e tutte le risoluzioni dell¹ONU? E se invece di
dominare il mondo con la paura lo ispirassimo con la nostra iniziativa?
Azioni come queste farebbero di più per garantire la nostra sicurezza di
ogni guerra che potremmo tentare. Certo, ci sarebbero ancora prepotenti e
dittatori da tenere a bada e armi da smantellare. Noi, di concerto con la
grande maggioranza delle nazioni mondiali, affronteremmo questi problemi
con tutti gli strumenti diplomatici e non violenti disponibili alle nostre
forze congiunte. Così facendo, avremmo contribuito a trasformare l¹intero
contesto in cui la comunità delle nazioni opera per il bene comune.
Diventeremmo l¹amico, il buon vicino, dei popoli del mondo. Certamente vale
la pena di pagare il prezzo.
Cordiali saluti, in pace
Elias Amidon