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[MEDIA] - CARITAS: Conflitti Dimenticati
Fonte:
http://www.db.caritas.glauco.it/caritas/Evidenza_sn/Conflitti/Sintesi.htm
Conflitti dimenticati
Una ricerca della Caritas Italiana in collaborazione con "Famiglia
Cristiana" e "Il Regno"
Riportiamo di seguito alcuni passaggi del volume "I conflitti dimenticati"
(ed. Feltrinelli, pp. 149), curato da Caritas Italiana in collaborazione
con le riviste "Famiglia Cristiana" e "Il Regno". La ricerca si e' avvalsa
del supporto di F. Strazzari e G. Giacomello dell'Istituto Universitario
Europeo di Fiesole, e di altri autorevoli esperti (la SWG di Trieste,
Canale Tre di Roma, il Centro Ferrari di Modena, P. Boda dell'Universita'
di Roma e A. Brandani dell'Universita' di Bologna).
Esistono conflitti?
Negli anni '90 si sono registrate 57 guerre in 45 Paesi, in massima parte
deflagrazioni civili combattute per il controllo del governo o del
territorio. Il 90% delle guerre dopo il 1945 ha avuto luogo nei Paesi
poveri. A pagarne il prezzo maggiore sono stati degli innocenti: 2 milioni
di bambini morti dal ‘90 al 2000; circa 27 milioni di morti tra i civili
dal dopoguerra ad oggi (il 90% del totale delle vittime); 35 milioni di
rifugiati. A cio' si aggiungano i danni ambientali, economici, sociali,
spesso cause di sottosviluppo di interi continenti.
I conflitti sono dimenticati?
Una risposta sintetica a tale domanda non puo' che essere affermativa,
almeno se ci si riferisce all'Italia di oggi. Tv, radio, stampa, Internet,
Istituzioni (europee e italiane), la stessa popolazione in generale da'
poca attenzione, talvolta semplifica o banalizza situazioni drammatiche.
Anche la Chiesa cattolica, sebbene si metta in gioco in prima linea (si
pensi all'audacia del Papa e ai 634 martiri degli ultimi 12 anni) non
raggiunge in modo significativo l'obiettivo di informare i cattolici sui
disastri causati dalle guerre. Un campione rappresentativo della
popolazione italiana e' stato infatti raggiunto all'inizio di dicembre
2001, attraverso un sondaggio demoscopico. Che la guerra evochi
nell'immaginario collettivo un'idea di morte e devastazione lo riconosce il
78% degli intervistati. E tuttavia il 25% degli stessi non e' in grado di
citare alcun paese coinvolto in guerre.
I mass-media
La maggioranza degli intervistati ritiene che l'opinione pubblica non sia
sufficientemente informata sulle guerre in corso e sulle ragioni che le
determinano. Questo implica un giudizio negativo sui media di cui essi
prevalentemente si servono: Tv, radio e stampa. Questa considerazione e'
confermata dalle altre parti della ricerca relative ai mass-media che ha
preso in esame l'informazione su sette casi studio (Angola, Colombia,
Guinea Bissau, Kosovo, Palestina, Sierra Leone, Sri Lanka) per un periodo
di osservazione di 2 anni e mezzo (dal 1/1/99 al 30/6/01).
Per quanto riguarda la stampa quotidiana italiana sono stati esaminati
quattro quotidiani nazionali: "La Repubblica", "Il Corriere della Sera",
"La Stampa" e "Avvenire", per dieci settimane estratte casualmente, due a
semestre, dal gennaio 1999 al giugno 2001. Su 1087 articoli analizzati,
Palestina e Kosovo si presentano al primo posto, con il 95,2% del totale
degli articoli. I casi scelti tra le "guerre dimenticate" occupano
solamente il 4,8% del totale degli articoli censiti, confermando cosi' che
l'attenzione data a conflitti "vicini" (geograficamente, culturalmente,
ecc., come ad esempio Kosovo e Palestina) e' assai superiore a quella data
a situazioni meno note (grafico 1). La conclusione e' che nella stampa
quotidiana italiana ci sono guerre di serie A e guerre di serie B. Inoltre,
la presenza sulla stampa di notizie sui conflitti e' episodica, legata
spesso a singoli eventi, con una vitalita' che in genere non supera i due
giorni consecutivi di presenza sui quotidiani. Nell'analisi dei conflitti
da parte della stampa italiana prevale la cronaca diplomatica e quella
militare a scapito dell'analisi delle cause e delle conseguenze sociali,
economiche, culturali, ecc. La maggior parte delle fonti e' di origine
internazionale, tra cui gli stessi governi nazionali e agenzie
internazionali, spesso compromesse con interessi di governi e lobbies
politico-economiche, la cui attendibilita' e' quantomeno discutibile.
Per Internet, radio e televisione le considerazioni sono analoghe. Per la
Tv in particolare, i dati confermano decisamente l'esistenza di conflitti
dimenticati da parte dei media televisivi italiani, anche se bisogna
rilevare una maggiore attenzione su questi temi da parte della Tv pubblica.
Sono stati analizzati 68.510 giornali radiotelevisivi, catalogando le
notizie con criteri quanti-qualitativi (che tengono conto di orari,
collocazioni, ecc.) che corrispondono all'offerta informativa di 8 antenne
Tv nazionali [Rai 1, Rai 2, Rai 3, Canale 5, Rete 4, Italia 1, TMC 1 (oggi
La 7), TMC 2 (oggi MTV)] e di 13 antenne radio [Radio 1, Radio 2, Radio 3,
Italia Radio, Radio 24, Radio Capital, Italia Radio, Radio Vaticana, RDS,
RTL, Radio Popolare, Radio 105, CNR], per 2 anni e mezzo e cioe' per
l'intero periodo oggetto della ricerca (da 1/1/99 a 30/6/01). In generale
la radio mostra un grado di copertura migliore e piu' equilibrato. Ad
esempio, mentre nel caso delle emittenti televisive il conflitto con il
maggior grado di copertura (Kosovo, 103.304) riscuote un punteggio 2792
volte superiore rispetto al conflitto con il grado piu' basso di copertura
(Guinea Bissau, 37), nel caso della radio la differenza tra i valori
massimi/minimi e' piu' ridotta: il Kosovo fa registrare un valore di
34.053, punteggio 115 volte superiore al conflitto con il grado minore di
copertura (Guinea Bissau, 296). Anche i conflitti che vedono il
coinvolgimento di alleanze internazionali (ad es. quello che si e'
combattuto in Kosovo nella primavera del '99) dopo gli eventi bellici,
cadono rapidamente nell'oblio dei media, col rischio di dimenticare i
drammi delle conseguenze lasciate sul campo di battaglia. E, come si sa,
cio' che non si vede, "non esiste", o almeno cosi' puo' accadere.Tutto cio'
da' ragione al dato espresso dal sondaggio: il 71% degli intervistati
avverte la necessita' di maggior conoscenza e approfondimento sulle grandi
questioni mondiali.
Sono stati esaminati anche i lanci di quattro agenzie stampa nazionali:
Adn-Kronos, Agi, Ansa e Misna, per dieci settimane estratte casualmente,
due a semestre, da gennaio 1999 a giugno 2001. Complessivamente i lanci
sono stati 6.786, compresi quelli riguardanti il Kosovo e la Palestina, che
da soli sono 6.455. All'interno del monitoraggio non sono stati presi in
considerazione tutti i lanci relativi ai sette paesi (Angola, Colombia,
Guinea Bissau, Sierra Leone, Sri Lanka, Palestina e Kosovo), ma solo quelli
direttamente e indirettamente collegati agli eventi bellici e ai loro
effetti sulla situazione generale del paese. Nell'analisi quantitativa sono
state rilevate per ogni lancio le seguenti voci: data del lancio, agenzia
di stampa, argomento principale, chiave prevalente e tipo di fonte. È stato
verificato per ogni lancio di stampa l'avvenuta pubblicazione o meno nei
quattro quotidiani presi in esame nel capitolo sulla stampa quotidiani. Va
detto che in corrispondenza di piu' lanci per la stessa notizia, l'articolo
di stampa che riprendeva la notizia era solamente uno, per cui e'
inevitabile un certo scarto tra il numero di lanci di agenzia e il numero
di articoli pubblicati sul tema. Ci sembra infine doveroso precisare che
l'analisi si e' concentrata sulle sole agenzie nazionali in quanto i prezzi
di accesso ai data-base delle principali agenzie internazionali sono
esorbitanti.
La Chiesa e le Istituzioni
Il Papa, la Chiesa cattolica e l'Onu sono considerate dagli intervistati le
uniche voci autorevoli che si levano contro l'ingiustizia delle guerre e
nei contesti di crisi. Residuale il peso attribuito alla Commissione
europea e al governo italiano. È noto anche l'impegno per la giustizia di
molti cattolici: per circa la meta' degli intervistati essi rappresentano
delle voci di denuncia troppo scomode per le realta' in cui si trovano ad
operare. Nonostante l'apparente successo di alcuni interventi armati, il
70% del campione ritiene che il ruolo della comunita' internazionale di
fronte a situazioni di conflitto debba essere quello della mediazione
politica preventiva e dell'adozione di soluzioni non-violente. Una scelta
economica, oltre che etica e solidaristica, visto che e' dimostrato quanto
sia costoso intervenire quando ormai le guerre sono devastanti. Solo il 10%
condivide le tesi militariste. E un misero 2% ritiene che sia meglio non
intervenire e lasciare che le crisi si risolvano da se'. Tutti questi dati
devono far riflettere, soprattutto se confrontati col relativo silenzio e
con la scarsa iniziativa delle nostre istituzioni (in special modo quelle
italiane: governo e parlamento), confermata dalle altre sezioni della ricerca.
Non servono j'accuse, ma precise assunzioni di responsabilita'
Dopo l'11 settembre abbiamo capito con chiarezza che ci sono situazioni
complesse che rischiano di ritorcersi contro di noi. Le guerre remote non
portano piu' in casa nostra solamente persone richiedenti asilo, o gli
enormi costi di operazioni/guerre umanitarie, o il disagio (etico) di dover
aiutare popoli straziati dai conflitti o di usare beni "insanguinati"
(diamanti, metalli, materie prime, droghe, petrolio ed altre risorse
energetiche, ecc.). Le guerre lontane non sono piu' lontane. Gli Stati
Uniti d'America sono entrati in una "nuova" guerra. E tutta l'Europa con
loro. "In casa" abbiamo avuto vittime, case distrutte, aziende fallite o in
seria difficolta', stravolgimenti dei diritti civili... Abbiamo capito che
occuparci di crisi lontane e un po' incomprensibili diventa una questione
di sopravvivenza: personale, sociale, economica, politica.... Tuttavia,
tale posizione non deve limitarsi ad azioni di conservazione del proprio
benessere, senza interrogarsi sulle profonde radici che sono alla base di
conflitti e di instabilita' a livello mondiale. In altre parole, non si
tratta solamente di arroccarsi in una posizione di difesa dall'esterno, ma
di una questione prima di tutto di carattere etico e solidaristico: bisogna
essere vicini a persone meno fortunate e difendere i diritti (umani) di
milioni (miliardi) di esseri umani che nel mondo vedono violate le loro
attese, le loro speranze, assumendo fino in fondo una posizione di etica
della responsabilita', che riguarda anche la nostra stessa
esistenza-sopravvivenza. È un compito che non riguarda solamente le
Istituzioni, ma ciascuno di noi, nella vita di tutti i giorni.
Che fare dunque?
Informare
Emerge con evidenza dalla nostra ricerca la richiesta della gente non solo
di notizie, ma anche di strumenti di tipo interpretativo: serve conoscenza,
non solo informazione. Non sempre le notizie riportate dai media
internazionali affrontano determinate questioni da un'ottica obiettiva e
con un approfondimento qualitativo adeguato. Si corre pertanto un duplice
rischio: sia di non essere informati affatto su determinati conflitti, sia
di divenire bersaglio di una informazione distorta, banalizzante,
approssimativa, che in un'ultima analisi diventa essa stessa causa di
pregiudizi e stereotipi negativi. Un paradosso che il sondaggio mette in
evidenza riguarda la necessita' di prevenire i conflitti, intervenendo
quando sono ancora trattabili e relativamente meno costosi. Tuttavia,
perche' maturi una decisa volonta' di intervenire e' sempre piu' necessario
un alto livello di attenzione pubblica. Perche' questa sia presente occorre
una buona informazione. Se questa attende che il potere comunicativo della
violenza si manifesti, non si creano per tempo le condizioni perche' maturi
il livello di attenzione che spinge la volonta' politica a intervenire per
prevenire.
Educare
Nel lungo periodo, il compito e' quello di educare, e questo spetta a
tutti, in primo luogo alla scuola. Occorre educarci ed educare alla
mondialita', all'interculturalita', alla pace, per comprendere che non e'
piu' possibile chiudere fuori o blindare i problemi, dichiarandosi padroni
a casa propria. Dimenticare e' anche un'offesa alla dignita' umana. E se lo
slogan "conoscere per amare" ha un senso, occorre proprio partire da una
piu' capillare opera di formazione e rafforzare il lavoro ordinario alla
base, come pure gli sforzi straordinari per sensibilizzare e promuovere una
cultura del rispetto, del dialogo, della pace.
Avviare nuove politiche
a. Riempire il vuoto politico: Istituzioni e responsabilita' collettive
Le Istituzioni hanno la responsabilita' di cambiare rotta. La ricerca ha
mostrato la loro sostanziale reattivita' e la loro scarsa attivita'
(soprattutto preventiva) nei grandi (e piccoli) scenari di crisi a livello
internazionale. Sia i cittadini, sia i fatti (documentati da questa
ricerca) sembrano univocamente dimostrare come la latitanza della nostra
classe dirigente sia grave. Occorre ribadire che il 70% del campione
intervistato - oltre alla saggezza che contraddistingue ciascuno di noi -
ritiene che il ruolo della comunita' internazionale di fronte a situazioni
di guerra o di grave conflitto debba essere quello della mediazione
politica preventiva e dell'adozione di soluzioni non-violente. Il
tradizionale ruolo del governo italiano nella mediazione preventiva e
numerose altre esperienze meno note, talvolta di diplomazia sommersa,
dimostrano come ci sia un ruolo, uno spazio anche per i governi nazionali,
ma che tale spazio vada ulteriormente riempito.
Resta enorme anche il vuoto lasciato da dichiarazioni di imminenti "piani
Marshall" che si ripetono davanti a molti conflitti armati e a cui ben
poche iniziative fanno seguito. In questo senso, si avverte la necessita'
di una politica comune europea, attenta alle istanze provenienti dai paesi
piu' poveri, e non solamente ai grandi interessi dei gruppi di potere
politico ed economico o delle singole nazioni.
b. Lottare contro la poverta' e le disuguaglianze
Non va sottaciuto il forte ruolo scatenante dei conflitti ricoperto dai
meccanismi di ingiustizia sociale e asimmetria redistributiva. In effetti
nessuno puo' ormai negare che tra le principali cause dei conflitti vi sia
la poverta' economica. Basti pensare che circa il 90% dei conflitti armati
dopo il 1945 ha avuto luogo nel Terzo Mondo. La disuguaglianza sociale,
l'asimmetria nel possesso e nell'accesso alla ricchezza costituisce una
minaccia concreta alla sicurezza della terra e rischia di produrre il
combustibile per far esplodere nuove guerre. Il riequilibrio delle
disuguaglianze sociali (unito alla lotta al cambiamento del clima e alla
lotta alla proliferazione degli armamenti) diventa la base su cui fondare
il processo di costruzione della pace.