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Portare testimonianza/4 - Baghdad, 26 Novembre 2002



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Baghdad, 26 Novembre 2002

VOLANDO NELLA ZONA INTERDETTA AL VOLO


Segreti. Sotto di me vedo strade, agglomerati di case fatte con mattoni di
fango ed edifici agricoli, tratti di terra coltivata. Quattro giorni dopo,
tornando a Baghdad per via terra, rivedo la stessa area da una prospettiva
diversa. Mentre i chilometri si succedono monotoni, guardo fisso dal
finestrino del fuoristrada: per qualche motivo imprecisato, la mia mente
snocciola una serie di aggettivi che cominciano per 'd': devastato,
degradato, derelitto, desolato... Capanne di fango a una stanza, bambini
coi piedi scalzi, cani scheletrici a caccia di avanzi: i segreti
stereotipi della povertà ci sono tutti. Segreti perché li costeggiamo
frettolosamente in macchina, o li sorvoliamo in aereo scuotendo la testa
rassegnati, senza mai spezzare il guscio del loro segreto: cosa si prova a
essere condannati a non avere scelta.
Mentre l'aereo vira disegnando un ampio cerchio attorno a Basra, immagino
come dev'essere facile giocare a far fuori i minuscoli autocarri
giocattolo là sotto. Nel porto, due grandi scafi d'acciaio giacciono
sull'acqua riversi su un fianco. Due giorni più tardi, alcuni di noi
raggiungono a sud il confine con il Kuwait, fermandosi a un cimitero di
veicoli lungo una delle tante "autostrade della morte" dove gli iracheni
in fuga dal Kuwait caddero vittime di una "battuta al tacchino", per dirla
con i piloti dei caccia. Carcasse carbonizzate di autocarri, autobus, auto
e carri armati sono sparpagliate lungo un'area di parecchi acri. Ci dicono
di non toccare nulla, perché gli americani usavano proiettili all'uranio
impoverito per perforare i rivestimenti dei carri armati, e le polveri,
diffuse nell'aria e nel suolo, ancora fanno scattare i contatori geiger.
Guardo lo scheletro di un autobus abbandonato sulla sabbia, arrugginito,
con mezzo tetto sfondato. Mi vengono in mente certe foto di autobus
israeliani sventrati dalle bombe, sporchi di sangue, l'aria piena del
pianto dei familiari delle vittime. Ma il pianto per i morti di questo
autobus è da lungo tempo caduto nel silenzio. Fisso attonito i pochi
sedili superstiti, le molle messe nudo che gettano ombre sinistre sul
pavimento. Segreti.
Atterriamo incolumi. Guardo i passeggeri, uomini per lo più, che si
salutano con una stretta di mano, baciandosi sulle guancie, portandosi una
mano al cuore. Ricordo che una volta, all'aeroporto di Denver, notai un
uomo, riconoscibile come arabo all'aspetto, che si faceva strada fra la
folla: pensavo come doveva sentirsi a essere l'oggetto del generale
malcelato sospetto. Ora mi trovo nella sua posizione, viste le migliaia di
uomini armati del mio paese pronti all'attacco a 40 miglia da qui. Ma non
percepisco odio da parte di questa gente. Quando sorrido, faccio un cenno
con la testa, e dico "A'salaam alleikum" (la pace sia con te) rivolto a un
estraneo, invariabilmente annuiscono e rispondono: "Altrettanto, pace a te".
Il nostro primo pomeriggio a Basra lo passiamo all'ospedale pediatrico, il
presidio locale per l'oncologia infantile. Dai tempi della guerra del
Golfo c'è stato un drastico aumento di casi di leucemia, linfoma, cancro
del seno, della pelle e del polmone, per non parlare delle malattie da
malnutrizione. Un certo dott. Jamash ci riceve e ci descrive pazientemente
lo scenario ormai familiare: mancano farmaci, fiale per la chemioterapia,
macchine per la radioterapia, denaro per pagare medici e infermieri.
"L'embargo economico ha distrutto tutto", dice senza emozione apparente.
Il dott. Jamash ci parla di un'allarmante crescita di "casi anomali mai
visti prima", deformità congenite, bambini nati senza occhi, senza faccia,
o con arti mancanti.
L'ospedale è squallido, malconcio, con le finestre e le pareti sudicie. Mi
ritrovo in una stanza insieme a perlomeno otto madri in nero che
accudiscono i loro bimbi malati. Comincio a scattare istantanee, mostrando
loro il risultato sul piccolo schermo della mia macchina fotografica
digitale. Le donne ridono, indicano la loro immagine e mi chiedono di fare
altre foto. L'atmosfera diventa allegra, i bambini malati con i faccini
smunti sorridono, le vecchie nonne radunano i familiari per un'altra
istantanea.
Il mattino seguente alcuni di noi vanno a sud, vicino alla "strada della
morte", fino a Safwan, una cittadina polverosa sul confine col Kuwait dove
nel 1991 fu firmato il cessate il fuoco con gli americani. Rintracciamo la
casa di una certa famiglia di contadini, dove c'è un bambino che sappiamo
affetto da un cancro alla pelle. Era nato sei mesi prima della guerra del
Golfo, subito dopo la quale sono comparsi i primi sintomi del tumore.
All'epoca i genitori vivevano e lavoravano in una piccola fattoria vicino
alla quale erano stati colpiti molti carri iracheni con proiettili
all'uranio impoverito. In questo momento vorrei smettere di scrivere,
vorrei evitare a voi e a me di ricordare, di profanare il segreto
custodito in un misero edificio con le pareti di fango su una strada
desolata di una remota cittadina, con la sua soglia ben spazzata, con il
pavimento della piccola stanza senza finestre ricoperta di stuoie di
palma, con il solitario orologio e il calendario appesi alla parete che
segnano il senso del tempo con sontuose immagini della grande moschea
della Mecca, e la sua targa sbreccata con su scritto in caratteri arabi
"Che Allah benedica Mohammed e la sua famiglia". Entriamo e ci sediamo
lungo le pareti. Il vano della porta si oscura della figura della nonna,
rivestita di un abaya2 nero, che si prepara a far fronte all'inattesa
invasione di stranieri, sospingendo dentro il ragazzo con la mano.
Si chiama Naathn Massim. Indossa una sudicia tuta felpata con un berretto
in tinta con su scritto "Camps Fashion". Tiene la testa bassa, il mento
sul petto, tamponandosi con un fazzoletto appallottolato le piaghe aperte
sul volto. Il naso è mezzo mangiato, come pure gli occhi. Veniamo a sapere
che tre settimane fa è diventato completamente cieco. Naathn si mette
seduto accanto alla nonna, che risponde alle nostre domande. Il ragazzo è
stato visto dai medici a Safwan e Basra, ci dice, ma non c'è più niente da
fare. "Allah kareem", dice: "Dio provvede". Le mani di Naathn passano dal
tamponare il naso a scacciare lo sciame di mosche che continua a
posarglisi addosso. Neville, un religioso di 72 anni membro della nostra
missione di pace, comincia a piangere. Una voragine senza fondo di dolore
ci si apre dentro, dolore per il ragazzo, per la sua famiglia, il suo
paese, il nostro paese, per noi stessi. Se potessimo, ricacceremmo via il
segreto che abbiamo messo a nudo, lo sporco segreto della carne in
putrefazione di un ragazzino di undici anni, risultato finale di studiati
attacchi e contrattacchi ordinati da adulti in remote stanze ben illuminate.
Forse è solo questo che posso dire. Forse questo è il motivo per cui sono
venuto in Iraq, per testimoniare questo segreto. Forse questo è il massimo
che una missione di pace come la nostra può sperare di ottenere: guardare
in faccia per un attimo tutto ciò che si perde nella catastrofe della
violenza, e continuare a riconfermare l'impegno in favore della vita.
Quella notte, quattro di noi sono ospiti di una famiglia nel quartiere
povero di Basra, Jumariyah. Seduti sulla veranda prospiciente la strada
polverosa, dozzine di ragazzini ci si affollano intorno. Ho cominciato a
cantare per loro, e a insegnargli alcune battute da ripetere dopo di me.
Sei o sette bambini, all'incirca dell'età di Naathn, si aggrappano a me
insistendo che continui a cantare. Mi torna in mente una canzone che
cantavo ai miei figli, "Gospel Train". I bambini fanno festa e battono le
mani al ritornello: " A bordo piccolini, a bordo piccolini, a bordo
piccolini, c'è posto per mill'e più!". Il suono delle nostre canzoni sale
verso il cielo scuro, su nella no-fly zone, e oltre.

Elias Amidon



2 NdT: l'abaya è una tunica con maniche, lunga fino alla caviglia

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