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La nonviolenza e' in cammino. 526



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 526 del 5 marzo 2003

Sommario di questo numero:
1. Ettore Masina, la guerra
2. Ida Dominijanni, 8 marzo di pace
3. Mao Valpiana, la nonviolenza del digiuno e della preghiera
4. Vandana Shiva, difendere la vita
5. Gloria Guasti, A Giorgiana
6. Maria G. Di Rienzo, una filastrocca
7. Marina Forti intervista Milan Rai
8. Il "Cos in rete" di marzo
9. Benito D'Ippolito, Osvaldo Caffianchi, Luciano Bonfrate: in memoria di
don Sirio Politi, a quindici anni dalla scomparsa
10. Peppe Sini: una lettura di Matteo, 4, 1-11
11. Riletture: Helen S. Kaplan, Dare un senso al sesso
12. Riletture: Francesco Tonucci, La citta' dei bambini
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. ETTORE MASINA: LA GUERRA
[Ringraziamo Ettore Masina (per contatti: ettore.mas@libero.it) per averci
messo a  disposizione questo suo articolo che comparira' nel prossimo numero
di "Segno nel mondo", la bella rivista settimanale dell'Azione Cattolica. Su
Ettore Masina riportiamo la seguente scheda biobibliografica scritta da lui
stesso su nostra richiesta e gia' pubblicata sul n. 418 di questo foglio:
"Nato a Breno (Bs) il 4 settembre 1928, ho molto viaggiato al seguito di mio
padre ufficiale. Dal 1934 al 1937 abbiamo abitato in Cirenaica e i ricordi
di quel soggiorno (a Bengasi e a Derna) sono in me ancora vivissimi. Vi
rintraccio con evidenza i segni del colonialismo italiano. Siamo poi finiti
a Varese per diversi anni. In quella citta' sono stato presidente della Fuci
e ho pubbllicato i miei primi articoli e racconti sul quotidiano locale "La
Prealpina". Mi sono allontanato da Varese  per Milano perche' vi sono
diventato libraio e poi giornalista: prima al quotidiano cattolico
"L'Italia", poi al  "Popolo di Milano" e infine a "Il Giorno" di Baldacci e
poi di Pietra. Vi ho fatto prima il vicecapocronista, poi l'inviato. Quando
papa Giovanni annunzio' che avrebbe indetto un Concilio, Italo Pietra,
benche' agnostico, ebbe chiara l'idea che sarebbe stato un evento
rivoluzionario e comincio' a mandarmi periodicamente a Roma, per raccogliere
informazioni e scrivere articoli comprensibili ai lettori. Nel 1963 mi
trasferi' stabilmente a Roma, dove da allora vivo con la mia famiglia. Con
mia moglie Clotilde (preziosa compagna di ideali e di speranze: la grazia
piu' grande che il Signore mi abbia donato) vivemmo il Concilio quasi "dal
di dentro". Nella nostra casa si radunavano ogni sera vescovi, teologi,
giornalisti, da Helder Camara a padre Rahner, da padre Chenu a Raniero La
Valle, da don Carlo Colombo a Giancarlo Zizola. Fu il periodo piu' felice
della nostra vita, ci diede una tale vitalita' che desiderammo intensamente
di avere un nuovo figlio: cosi' Pietro Paolo si aggiunse a Emilio e Lucia.
Seguii i viaggi di Paolo VI in Palestina, in India, all'Onu, a Fatima. Ebbi
grande stima di questo pontefice pur vedendone alcuni limiti, anche gravi.
"Le Monde" scrisse una volta che io ero "le journaliste le plus proche a la
pensee si non a la personne de Paul VI". Durante il viaggio in Palestina fui
radicalmente scosso dalla visione della poverta' di grandi masse. Al mio
ritorno decisi con mia moglie di dare vita a un'associazione che si
proponesse, mediante un'autotassazione mensile degli aderenti, di aiutare
comunita' di poveri in cerca di liberazione. Nacque cosi' quella che poi si
chiamo' Rete Radie' Resch (dal nome di una bambina palestinese morta di
pomonite in una grotta). La rete si e' espansa al di la' di ogni previsione.
Per trent'anni l'ho coordinata io, finalmente nel 1994 sono riuscito a far
si' che essa assumesse una piena conduzione collettiva. E io me ne sono
andato verso altre avventure. A spingermi a fondare la rete e' stato
l'incontro fra la mia inquietudine (il non poter piu' vivere come se non
avessi visto certe cose) e l'evangelizzazione di Paul Gauthier. Paul rimane
il mio grande maestro spirituale, colui che, anche precorrendo la teologia
delle liberazione, mi ha aperto gli occhi sull'importanza del magistero dei
poveri. Ha dato dunque completezza e profondita' alla mia sequela di tanti
altri uomini e donne "di Dio" che avevo frequentato sino a quel momento o
dei quali avevo letto con amore gli scritti. Qualche nome? Simone Weil e
Suhard, Tolstoj e Dostoevskij, Dossetti, La Pira e Lazzati, Steinbeck,
Mounier, Merton, Voillaume eccetera eccetera. Nel 1969 l'insistenza di
alcuni dirigenti della Rai e il desiderio di sperimentare il "nuovo"
giornalismo mi fecero accettare di entrare in via Teulada. Dopo un breve
periodo di grande felicita' (sotto la direzione di Fabiani) cominciarono ben
presto i miei problemi. Nel 1974 per essere stato uno degli estensori del
manifesto "Ai cattolici democratici" perche' votassero no al referendum
abrogativo del divorzio, fui sospeso dal video per sette mesi. Appena ebbe
vita il TG2, vi passai e godetti nuovamente di liberta', ma l'estromissione
di Andrea Barbato, contro la quale mi ero battuto, mi fece cadere in
disgrazia presso il nuovo direttore, Sergio Zatterin, il quale mi privo' di
ogni ruolo. Ridotto, come si dice, ai minimi termini, nel 1983 finii per
accettare il reiterato invito del Pci di candidarmi come indipendente nelle
sue liste. Fui eletto nel collegio Brescia-Bergamo e in quello
Varese-Como-Sondrio. Optai per il primo e vi fui rieletto nel 1987. Durante
i dieci anni del mio mandato ho rappresentato il gruppo della Sinistra
Indipendente nella Commissione Esteri. Nella mia prima legislatura sono
stato vicepresidente del Comitato per la cooperazione internazionale; nella
seconda, su designazione unanime dei gruppi, presidente del Comitato
Internazionale per i diritti umani. Ho guidato delegazioni di parlamentari
in Tanzania, Zimbabwe, e nei campi profughi palestinesi. Sono stato
"osservatore estero" in Cile, in occasione delle elezioni del 1989. Ho
rappresentato la Camera dei deputati italiani alla cerimonia
dell'investitura della Commissione per la pace nel Salvador. Ho partecipato
a missioni, anche altamente drammatiche, in Somalia, Sudan e Sud-Sudan,
Cina, Croazia, Slovenia e Serbia. Sono  stato presidente dell'Associazione
Italia-Vietnam. Molte di queste cose sono state raccontate in due miei libri
autobiografici. Diario di un cattolico errante. Fra santi, burocrati e
guerriglieri (Gamberetti, 1997) e Il prevalente passato. Un'autobiografia in
cammino (Rubbettino, 2000). I miei altri libri: Il Vangelo secondo gli
anonimi (Cittadella, 1969, tradotto in Brasile), Un passo nella storia
(Cittadella, 1974), Il ferro e il miele (Rusconi, tradotto in serbo-croato),
El Nido de Oro. Viaggio all'interno del terzo Mondo: Brasile, Corno
d'Africa, Nicaragua (Marietti, 1989), Un inverno al Sud: Cile, Vietnam,
Sudafrica, Palestina (Marietti, 1992), L'arcivescovo deve morire. Monsignor
Oscar Romero e il suo popolo (Edizioni cultura della pace, 1993 col titolo
Oscar Romero, poi in nuova edizione nelle Edizioni Gruppo Abele, 1995),
Comprare un santo (Camunia, 1994); Il Volo del passero (San Paolo, tradotto
in greco), I gabbiani di Fringen (San Paolo, 1999), Il Vincere (San Paolo,
2002)"]
Qualche volta, molto raramente, mio padre raccontava della guerra che aveva
combattuto: quella del 1915-1918, che a noi bambini, a scuola, insegnavano a
chiamare con venerazione (perche' l'Italia l'aveva vinta) "la Grande
Guerra".
Una sera mio padre narro' di quando gli austriaci avevano lanciato i gas
asfissianti sui nostri soldati alle falde del Monte San Michele che sbarrava
le porte di Gorizia. Diceva che da quel settore erano arrivate dapprima urla
altissime e un gran numero di spari, cui era seguito un profondissimo
silenzio. Per un gioco del vento lui e il suo battaglione non erano stati
investiti dalle nubi velenose. L'artiglieria aveva bloccato l'avanzata
austriaca e quando mio padre e i suoi compagni erano riusciti ad andare al
soccorso dei commilitoni, avevano trovato centinaia di cadaveri dal volto
verdastro, i ventri mostruosamente rigonfi. Ne avevano seppelliti a decine,
poi era sopraggiunta la notte. Allora, tornati in trincea, mio padre e i
soldati che erano con lui avevano sentito correre per la landa arsa e
sconvolta del campo di battaglia immense torme di topi che andavano a rodere
quei corpi. Dopo quel racconto, quella notte non riuscivo a dormire: anche a
me, mentre mi tiravo le coperte sul capo, sembrava di sentire il lavorio
frenetico di migliaia di piccole mandibole.
*
Ho ripensato spesso a quel racconto. L'orrore e' rimasto ma vi si e' unita
una considerazione anche piu' spaventosa, questa: i figli dei poveri soldati
morti sul San Michele furono condannati alla tragedia dell'orfananza, ma
l'arma che aveva ucciso i loro genitori non li raggiunse; adesso, invece, le
guerre si protraggono molto al di la' degli armistizi, colpiscono per
generazioni.
In Vietnam, a Hochiminhville, cioe' Saigon, conobbi anni fa la dottoressa
Thi Ngoc Phuong. La chiamavano "la madre dei mostri" perche', con infinita
pieta' e con una maestria che le aveva valso una grande fama internazionale,
riusciva a dare sembianze umane a qualcuna delle creature nate deformi (ma
deformi e' un eufemismo) in seguito alla irrorazione di defolianti operata
dagli americani per stanare i viet-cong. La guerra era formalmente finita
ventidue anni prima, ma nell'ospedale Tu Du continuavano ad arrivare bambini
che sembravano (non so come dirlo) granchi umani. Venivano da tutti i
villaggi dell'ansa del Mekong o dalla cordigliera centrale, ma erano una
parte minima di quella sfida della chimica di guerra al Creatore, perche'
molti e molti altri rimanevano senza cure nei villaggi devastati delle zone
piu' impervie. Adesso la dottoressa Thi Ngoc Phuong, nel cui studio stavano
due grandi vasi di vetro con due bambini a due teste, nati-morti per
fortuna, e' andata in pensione, ma migliaia di bambini deformi (ricordate:
deformi e' un eufemismo) continuano a nascere nelle zone irrorate di
diossina.
Nel Kosovo e in Iraq accade lo stesso per l'uso ormai "antico" dei
proiettili all'uranio impoverito. E negli Stati Uniti il Pentagono ha un
gran daffare a nascondere la quantita' di bambini "anormali" nati dai
veterani in Vietnam, nei Balcani e nel Golfo del 1991.
Ogni tanto un giudice americano condanna una delle societa' chimiche
produttrici di veleni a risarcire (anche questo e' un eufemismo) i genitori
di quei piccini "sfigurati al punto da non parere piu' un uomo". Nessun
giudice si occupa dei bambini del Vietnam, del Kosovo e dell'Iraq. Ne' delle
altre  devastazioni di guerre "di tanto tempo fa": anche la catena
alimentare, infatti, risulta  ancora inquinata da radiazioni e veleni; e
molte  falde acquifere. Tante piccole Hiroshima "periferiche" continuano a
perpetuare l'orrore radioattivo o (Dio non voglia) ne preannunziano uno ben
piu' grave.
Intanto in tutto il mondo, ogni giorno, in zone in cui teoricamente la pace
e' tornata da anni e anni decine di bambini rimangono mutilati dai milioni
di mine sparse su campi di battaglie che sembrano lontanissime nel tempo.
Una mina rimane in funzione vent'anni e quando domandai a uno dei tecnici
della produzione italiana (i cui ordigni sono disseminati tuttora in immense
aree) perche' non si pensasse di dare a questi strumenti di ferocia
tecnologica una efficacia limitata nel tempo, mi guardo' sorpreso: "Nessuno
ce l'ha mai chiesto". Ricordo di avere visto a Beled Wayn, nell'Ogaden, due
bambini che erano saltati su una delle tante mine italiane vendute
imparzialmente alla Somalia e all'Etiopia in guerra fra loro. In un
fatiscente ospedale, li curavano amorosamente medici italiani. "Sono
condannati all'ergastolo" mi disse un dottore; e poiche' io mostravo di non
capire, spiego': "Sono figli di una tribu' di pastori, nomadi che ogni
giorno si spostano per 15-20 chilometri. Quando usciranno di qui, i genitori
non potranno fare altro che appoggiarli all'ombra di un muretto dove
camperanno la vita del mendicante". La guerra era finita da quattro anni. E
non e' soltanto questione di mali fisici: un orfano di soldato, un ragazzino
che ha visto morire la madre in un bombardamento, un bambino che ha vissuto
terribili traumi diventa assai spesso, ci dicono gli psicologi, un padre che
trasmette ai sui figli il marchio delle psicosi.
Basterebbe questa constatazione - che le guerre continuano per decenni, per
generazioni successive a quella che ha firmato un trattato di pace, a
infierire su bambini (almeno loro!) totalmente innocenti - per dire che le
guerre moderne sono legate alla ferocia dei secoli piu' bui della storia: o
che forse, nonostante tanti progressi, questo in cui viviamo e' uno di quei
secoli.
*
La guerra moderna ha anche un'altra caratteristica: colpisce non piu'
soprattutto i soldati ma soprattutto gli inermi.
Sempre i "civili" (le donne, i vecchi i bambini) sono stati coinvolti nella
tragedia delle guerre: guerra non significava soltanto vedove e orfani, ma
eserciti che avanzavano, si scontravano in battaglia, si ritiravano su ampi
territori; e dunque distruzione di ponti e di case, di strade, di
coltivazioni e di pozzi; e fame e terrore e stupri; e odio che sarebbe
durato per decenni. Ma dal 1937 in poi, dalla distruzione di Guernica ad
opera dell'aviazione nazista prestata ai falangisti, la guerra ha cominciato
a uccidere intenzionalmente anche e soprattutto lontano dai fronti di
battaglia. I generali hanno compreso che i nemici combattono piu'
fiaccamente, demoralizzati e sconvolti, quando sanno che la guerra sta
distruggendo le loro case e i loro figli.
E' nata cosi' la guerra-terrorismo, quella che colpisce gli inermi per
disarmare gli armati. La distruzione di citta' come Coventry in Gran
Bretagna o Dresda in Germania e' l'emblema di questa violenza insieme
selvaggia e astuta. Hiroshima e Nagasaki sono la vergogna incancellabile
della storia del mondo cosiddetto libero, democratico. Avvennero nella prima
meta' del secolo XX: ma i bombardamenti sulle popolazioni del Vietnam del
Nord sono della fine degli anni '60, quelli su Bagdad e su Belgrado sono
degli anni '90, i missili sulle case di Gaza, di Jenin e di Ramallah hanno
inaugurato l'orrore del secolo XXI. Del resto, tredicimila testate atomiche
intatte sono l'eredita' lasciata dal Novecento al nostro oggi.
*
I governanti che hanno scatenato le guerre hanno sempre sostenuto di voler
restaurare la giustizia e la razionalita', cioe' i presupposti della pace.
In realta' la guerra ha ormai trascinato nel fango tutte le sue bandiere
perche' ha assunto il peggio della storia.
Come una conchiglia oceanica, che costruisce il suo guscio non elaborandolo
con un proprio materiale ma usando pezzi di altre conchiglie, o come una
spugna immersa in un liquido velenoso, la guerra e' andata assumendo in se',
lungo la storia umana, il peggio delle ideologie distruttive, del
nichilismo, delle perversioni, del fanatismo scientifico che indaga le
proprie potenzialita' e celebra le proprie vittorie senza curarsi delle
sofferenze dell'uomo.
Gli arsenali di certi paesi - forse l'Iraq, certamente gli Usa, certamente
Israele - sembrano essere progettati non tanto dal dottor Stranamore,
terribile macchietta inventata, quanto dal dottor Mengele, quello dei lager
nazisti che studiava la sopravvivenza dei torturati: sono armi proibite da
tutte le convenzioni internazionali eppure considerate "contro l'umanita'"
soltanto se in possesso degli avversari. La possibilita' di un loro uso,
giustamente negata ai dittatori, sembra resa lecita dal fatto che la possa
decidere un governante il cui nome sia uscito dalle urne di un processo
democratico (o quasi).
Se il terrorismo e' negazione dell'uomo, allora possiamo leggere il suo
contagio su  tutte le divise e le bandiere: basterebbe pensare alle
condizioni in cui vengono tenuti i prigionieri delle nuove guerre. Si nega
loro la qualifica di combattenti, e cosi' gli accordi umanitari
internazionali si perdono nel vento dell'ipocrisia. Si e' andati alla guerra
contro il governo dei talebani (governo ex-amico, non lo si scordi,
riconosciuto ai massimi livelli in tutte le sedi internazionali, grazie al
patrocinio degli Usa) ma alle sue milizie non e' stato riconosciuto lo
status di prigionieri di guerra: percio' a centinaia i soldati di Kabul sono
morti di freddo, di fame, di mancanza d'ossigeno, chiusi in contenitori;
centinaia sono stati massacrati in carcere; centinaia sono stati deportati
in un'isola lontanissima della quale tuttora non conoscono l'ubicazione:
trascinati su aerei militari, incatenati mani e piedi, probabilmente
drogati, gli occhi bendati, tamponi alla bocca e alle orecchie in modo di
non poter comunicare fra loro, costretti a orinarsi e defecarsi addosso nel
corso di un viaggio di 18 e piu' ore. Viene in mente, anche se la citazione
e' impropria, la disperata constatazione di Primo Levi: "Se questo e' un
uomo". Qualche centinaio di casi, certamente, e non la mostruosa apocalisse
nazista, imparagonabile con qualunque altra tragedia della storia; e
tuttavia quando aberrazioni del genere vengono accettate e addirittura
studiate dagli "esperti" di un esercito, allora questo esercito regredisce
ai tempi dell'Inquisizione.
*
Otto piccole suore americane sono state condannate il mese scorso da sei a
dodici mesi di reclusione per avere partecipato, nel novembre 2002, alle
manifestazioni che si svolgono tutti gli anni davanti alla "Escuela de las
Americas", che ha sede in Georgia in una base militare chiamata Fort
Benning. La "Escuela", un tempo, era situata nella Zona del Canale di
Panama, poi e' stata trasferita negli States. Vi sono passati,
complessivamente, in trent'anni di attivita', decine di migliaia
(ottantamila, secondo alcuni) di "quadri" degli eserciti delle dittature
militari latino-americane: dal colonnello Noriega, losco dittatore di Panama
e gia' figlio diletto della Casa Bianca al colonnello D'Aubuisson, mandante
dell'assassinio del vescovo Romero e agli autori dell'uccisione dei sei
gesuiti di San Salvador, dai torturatori brasiliani a quelli cileni a quelli
uruguaiani, Ricordate "L'Amerikano" di Costa Gravas? Ecco, gente cosi': E'
possibile - e quasi certo - che in altri paesi esistano scuole
"contro-insurrezionali" del genere, e certamente il regime di Saddam Hussein
non e' secondo ad altri nell'uso della tortura e dell'eliminazione dei
torturati: ma, per l'appunto, parlando di Saddam Hussein, parliamo di un
feroce dittatore da rimuovere al piu' presto: la vergognosa bandiera di Fort
Benning, detta l'Universita' della Tortura, sventola invece nel cielo del
grande paese che fu di Lincoln e di Franklin Delano Roosevelt, il presidente
che porto' l'America in lotta contro il nazismo.
*
Molte sono le ragioni per le quali non si puo' vincere il terrorismo con la
guerra. La prima e' che il terrorismo non e' un'entita' statale, non ha un
esercito, non ha strutture pubbliche, non si immedesima con un governo:
L'Afghanistan e' stato arato di bombe e di carri armati, ma e' mancata la
cattura di bin Laden, dichiarato obiettivo della guerra. Ne', per quanto la
Casa Bianca parli di un Grande Satana Terrorista, c'e' un solo terrorismo:
quello. filippino non ha niente a che vedere con quello palestinese o con
l'Eta o con gli epigoni delle Brigate Rosse italiane ne' con il terrorismo
di stato nord-coreano o colombiano. Percio' la guerra a un dato paese non
sradichera' mai il terrorismo, il terrorismo puo' essere vinto soltanto
tagliandogli i collegamenti con i grandi potentati economici che lo
sostengono e risanando le spaventose situazioni di ingiustizia dalle quali
provengono tanti suoi esponenti. Al contrario, le guerre, aumentando le zone
dell'ingiustizia e della disperazione dei popoli, aumentano a dismisura le
nascite dei terrorismi. Da questo punto di vista le guerre sono, con ogni
evidenza, del tutto controproducenti.
Ma la ragione principale per la quale il terrorismo non puo' essere
definitivamente vinto e' che il terrorismo ha gia' vinto molte battaglie e
continua a vincerne. Se infatti, per combatterlo, le democrazie rinunciano
alle garanzie proclamate dalle loro costituzioni, se un numero crescente di
cittadini si trova di fronte a uno stato di polizia, a pratiche illegittime,
a sospensioni o violazioni di diritti, alla degradazione (ormai evidente)
del diritto internazionale, alla violenza fatta alle grandi istituzioni,
allora c'e' gia' del terrorismo nel cuore di quegli stati, il serpente della
ferocia ha gia' posto le sue uova nel nido delle aquile.
*
La propaganda di guerra tiene altissima la voce come fanno i ciarlatani e
sventola immagini a non finire per alimentare il furore irrazionale del
pubblico. Ma poi la guerra dei nostri anni agisce nella segretezza assoluta
alla stregua degli assassini.
Fu nel 1983 che il Grande Comunicatore, il presidente Ronald Reagan, nel
momento in cui mandava le sue truppe a invadere la piccola repubblica di
Grenada, troppo vicina a Cuba per i suoi gusti, decise che i giornalisti non
potessero piu' seguire le operazioni delle forze armate americane. Egli non
dimenticava che il ritiro degli Usa dal Vietnam era dovuto al fatto che
quella guerra era stata portata dai mass-media sin nelle case degli States e
che la vista di quegli orrori aveva provocato una profonda rivolta politica.
Oggi Reagan brancola nelle nebbie dell'Alzhaimer ma i due Bush, suoi
legittimi discendenti ideologici, e del resto anche Clinton a suo tempo,
hanno fatto tesoro di quella prudenza. Giornalisti al seguito, ma sottoposti
a una censura, la quale, naturalmente, si chiamera' "necessita' militare":
abbiamo visto e vedremo, delle guerre di questi anni, soltanto quello che i
comandi supremi vorranno farci sapere: giochi di luce, eventi elettronici e,
tutt'al piu', le immagini dei profughi a stimolare il buon cuore del
pubblico televisivo.
E anche questa segretezza indica la volonta' di spossessare l'opinione
pubblica di ogni responsabilita' e capacita' di reazione. E' un'altra
negazione della democrazia: una casta politico-militare pretende di avere
mano libera e di  agire "per il nostro bene".
*
Viviamo giorni terribili e meravigliosi. Contro ogni previsione dei
professionisti della politica e della psicologia delle masse, da tutta la
Terra si e' levata un'ondata di no alla guerra, una immensa protesta
globale. Benche' io abbia ormai vissuto una lunga vita, non ricordo di avere
mai assistito a un fenomeno cosi' imponente. E' una gigantesca forza
politica della quale e' impossibile prevedere come si esprimera' localmente
ma i cui principi appaiono inequivocabili: no alla ferocia, alla
degradazione del diritto, alla logica delle armi, SI' alla custodia del
Creato, alla giustizia internazionale, al dialogo, alle istituzioni di pace.
Proprio nel momento in cui l'arroganza imperiale minaccia di smantellare
politicamente il Palazzo di Vetro, sembra risuonare la parola del Dio di
Isaia. "Non indugiatevi a parlare del passato... Ecco - non vedete? - io sto
creando in mezzo a voi una cosa nuova".
La volonta' di pace apre nuove strade all'ecumenismo. Le grandi chiese
cristiane, da Mosca a Canterbury, riecheggiano le parole del Vecchio di
Roma; una delegazione della Chiesa metodista americana, cui appartiene il
presidente Bush, viene a dire a Giovanni Paolo II affetto e consenso:
Dall'epoca  della "Pacem in terris" il vangelo di giustizia e di pace non
era apparso agli uomini cosi' amabile e forte. Tocca a noi, adesso, esserne
viventi testimoni.

2. RIFLESSIONE: IDA DOMINIJANNI: 8 MARZO DI PACE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 marzo 2003. Ida Dominijanni (per
contatti: idomini@ilmanifesto.it) e' una prestigiosa giornalista e saggista
femminista]
Si annuncia, da Washington a Roma, un 8 marzo pacifista. Mezzo sincero e
mezzo retorico, com'e' sempre mezzo sincero e mezzo retorico ormai l'8
marzo.
Essendoci di mezzo la guerra, pero', la meta' retorica irrita piu' del
solito: lo spontaneo ricorso al "naturale" pacifismo femminismo da parte di
tutta la sinistra maschile, dai riformisti ai (no)global, che per tutto il
resto dell'anno si guarda bene dall'interrogarsi sulle pratiche misogine e
fratricide che la abitano, fa venire voglia di armarsi fino ai denti per
fare guerra agli stereotipi, anche ai piu' edificanti tipo quello di una
natura femminile pacifica e salvifica.
Le motivazioni femminili dell'8 marzo pacifista, infatti, sono consapevoli
della trappola dello stereotipo, e cercano di evitarla.
Nel sito-web che prepara la manifestazione di Washington, ad esempio, c'e'
un articolo di Swanee Hunt del Boston Globe che la evita in concreto,
ricordando una per una le reti e le pratiche femminili di pace che operano
quotidianamente in tutte le zone piu' calde del mondo, dal Medioriente al
Ruanda al Kosovo.
E c'e' un testo firmato Starhawk che la affronta di petto in punta di
teoria, con le argomentazioni classiche del femminismo transnazionale
americano. Non si tratta, sottolinea il testo, di affermare il pacifismo
come un sentimento "naturale" femminile - che dire altrimenti di donne come
Condoleeza Rice? -, ma di rivendicare gli strumenti femministi di critica
del patriarcato, cioe' di quel sistema socio-simbolico che per un verso
inchioda gli uomini alle misure della forza e del potere non meno di quanto
assegni le donne ai valori della pace e della cura. E per l'altro verso
continua a coprire, in occidente, una gran quantita' di discriminazioni
sessuali, dalle quali gli uomini occidentali che fanno la guerra per
"liberare" le donne dai Talebani o dal Corano si sentono chissa' perche'
assolti.
Sempre scavando sotto la crosta degli stereotipi, qui in Italia, sul
fascicolo che "Micromega" dedica alle ragioni dell'opposizione alla guerra
in Iraq, Adriana Cavarero ragiona sul pacifismo femminile a partire dal suo
manifesto piu' classico, Tre ghinee di Virginia Woolf. Senza paura di essere
accusata di essenzialismo, Cavarero scrive che si', il pacifismo delle donne
e' assoluto ("ogni volta che si annuncia o scoppia una guerra le donne
manifestano contro la guerra") ed e' inscritto nella loro differenza, ´"non
importa - diceva Virginia - se innata o accidentale".
Si tratta, sostiene Cavarero, di un pacifismo radicato nella profonda
consapevolezza storica femminile che guerra e politica, nella tradizione
occidentale moderna, sono strettamente legate, come sta a dimostrare la
ferrea costruzione del Leviatano hobbesiano. Lo sono anche ineluttabilmente,
nel momento in cui il mondo globale sembra uscire dalla gabbia del Leviatano
e avviarsi verso forme politiche post-statuali?
Qui la diagnosi si complica, perche' per un verso il passaggio alla politica
post-statuale non promette nulla di buono, anzi sembra ribadire e rafforzare
il nesso costitutivo fra politica e guerra. Per l'altro, pero', in questo
poco confortante panorama opera anche la critica radicale portata dal
femminismo all'antropologia politica moderna e alla sua matrice violenta e
sacrificale.
E dunque, sono gia' in circolo nel corpo sociale (femminile e maschile: si
veda il testo "Non ne possiamo piu' della violenza" firmato dal "Gruppo di
uomini di Pinerolo" sul n. 492 del foglio "La nonviolenza e' in cammino" e
riproposto dal sito della Libreria delle donne di Milano) alcuni anticorpi
di rifiuto radicale del codice guerrafondaio che impronta il linguaggio
della politica tradizionale.
"La pace, piu' che prevenire la guerra, comporta una risignificazione della
politica", conclude Cavarero e io concordo, anche se questo rende il lavoro
del pacifismo tanto piu' arduo quanto piu' urgente.

3. RIFLESSIONE. MAO VALPIANA: LA NONVIOLENZA DEL DIGIUNO E DELLA PREGHIERA
[Ringraziamo Mao Valpiana per questo intervento. Mao Valpiana e' il
direttore di "Azione nonviolenta" (per contatti: e-mail:
azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org) ed una delle figure
piu' prestigiose della nonviolenza in Italia]
Accolgo con profonda convinzione l'appello del papa per la giornata di
digiuno e preghiera per la pace, rivolto a tutti i cristiani e alle persone
di buona volonta'.
Il digiuno e la preghiera, infatti, sono due forme particolari di satyagraha
(la forza della verita', o nonviolenza).
Il Mahatma Gandhi applico' rigorosamente il digiuno e la preghiera come
strumenti fondamentali della sua vita spirituale e politica.
Sul digiuno: "Il digiuno e' una potente arma dell'arsenale del nonviolento,
ma deve essere ispirato dal profondo dell'anima. Invito le persone che
pensano unicamente in termini politici a guardare alla nonviolenza e al
digiuno, che della nonviolenza e' la massima espressione, con simpatia e
comprensione".
Sulla preghiera: "La preghiera mi ha salvato la vita. Tre dei piu' grandi
maestri del mondo - Buddha, Gesu' e Maometto - hanno lasciato
un'incontestabile testimonianza di aver trovato illuminazione nella
preghiera. Che ciascuno provi, e scoprira' che la preghiera quotidiana
aggiungera' qualcosa di nuovo alla sua vita".
La preghiera e il digiuno, come ci ha insegnato Gandhi, sono due elementi
fondativi della nonviolenza stessa.
Per questo come amico della nonviolenza osservero' nella giornata delle
Ceneri il digiuno dal cibo e dalle televisione, e momenti di preghiera,
meditazione, silenzio.
Segnalo anche la proposta di accendere, la sera del 5 marzo, una candela
alla finestra, come simbolo della luce di pace che vincera' le tenebre della
guerra.

4. MAESTRE. VANDANA SHIVA: DIFENDERE LA VITA
[Questo passo abbiamo estratto dall'intervista a Vandana Shiva contenuta in
"A. Rivista anarchica" del febbraio 2003 (per contatti: e-mail:
arivista@tin.it; sito: www.anarca-bolo.ch/a.rivista). Vandana Shiva,
scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca
e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non
solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e
delle culture native, e' oggi tra i principali punti di riferimento dei
movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione
a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni
e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Tra le
opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990;
Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria,
Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma
2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo
sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002]
Lottare contro le multinazionali significa difendere la vita, le vite dove
siamo: sul posto di lavoro, sul territorio... Il concetto fondamentale e'
quello di fare le cose concretamente; magari non tutto, ma tutto quello che
siamo in grado di fare. Bisogna comprendere che la globalizzazione sta
creando un mondo di compratori, di consumatori, non di produttori. Non siamo
piu' umani, cittadini, donne... solo consumatori che devono comprare i
prodotti delle multinazionali. Lottare oggi significa reclamare la
riproduzione oltre alla produzione. Attraverso la clonazione e le
biotecnologie, si vuole trasformare la vita in una forma di profitto.
Un'idea di fondo del pensiero di Gandhi (oggi estremamente attuale) era che
questo sistema tende a distruggere gli esseri umani, siano essi gli Indiani
d'America, gli schiavi africani o i contadini dell'India. Quello che
l'industria tessile ha rappresentato per l'India (cioe' la distruzione),
oggi corrisponde, a livello planetario, all'industria delle biotecnologie,
alla biopirateria.
A quell'epoca la strategia adottata dal movimento dei contadini era quella
di autoprodursi i vestiti, oggi la strategia diventa la necessita' di
costituire una comunita' di individui liberi che rivendicano il diritto di
autogovernarsi, di autogestire l'economia, di avere cibo sano, non
geneticamente manipolato.

5. MEMORIA. GLORIA GUASTI: A GIORGIANA
[Da Laura Di Nola (a cura di), Poesia femminista italiana, Savelli, Roma
1978, p. 145]

... se la rivoluzione d'ottobre
fosse stata di maggio
se tu vivessi ancora
se io non fossi impotente di fronte al tuo assassinio
se la mia penna fosse un'arma vincente
se la mia paura esplodesse nelle piazze
coraggio nato dalla rabbia strozzata in gola
se l'averti conosciuta diventasse la nostra forza
se i fiori che abbiamo regalato
alla tua coraggiosa vita nella nostra morte
almeno diventassero ghirlanda
della lotta di noi tutte, donne
se...
non sarebbero le parole a cercare di affermare la vita
ma la vita stessa, senza aggiungere altro.

6. RIFLESSIONE. MARIA G. DI RIENZO: UNA FILASTROCCA
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per
averci consentito di pubblicare questi versi (una sequenza di endecasillabi
a rima baciata chiusi da un piu' complesso movimento ritmico nel distico in
sirma) scritti come lettera personale a Benito D'Ippolito, in cui prolunga
la riflessione proposta nel di lui intervento dal titolo "Un encomio e un
incitamento agli amici delle biciclettate nonviolente, e alla campagna di
boicottaggio della Esso", apparso nel n. 524 del notiziario. Maria G. Di
Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa
intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e
commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne
italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di
Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di
Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per
la pace e la nonviolenza]
Benito, la tua lingua usare voglio
per dirti quanto apprezzo, la' sul foglio,
i tuoi versi, e l'indomita passione
con cui incoraggi ed ami le persone.
Burbera e' anche la vita, e dolce assieme,
ma quando avanza cio' che piu' si teme
e di me paura e dubbio prigion fanno
penso alle tue parole, e a dove stanno.
Percio' ringrazio, e a te mando le mie,
certa che percorrendo queste vie
l'anima scalza e il corpo in bicicletta
stiamo guarendo il mondo dalla fretta.
Riempia il tuo calice la gioia, e la tua tavola sia imbandita di speranza:
disarmato, pacifico, tenace e' il popolo tuo, la gente tua che avanza.

7. RIFLESSIONE. MARINA FORTI INTERVISTA MILAN RAI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 marzo 2003]
La prima arma di ogni guerra e' l'informazione, e in questo senso il mondo
e' gia' in guerra. Da parecchi mesi siamo sottoposti a una gigantesca
campagna di propaganda per dimostrare che un attacco armato all'Iraq e'
indispensabile.
Solo con la forza, dicono l'amministrazione Bush negli Stati Uniti e il
premier Tony Blair in Gran Bretagna, riusciremo a togliere le armi di
distruzione di massa a un dittatore criminale, restaurare la democrazia in
Iraq, eliminare una fonte di terrorismo internazionale, perfino portare la
pace in Medio oriente... La macchina propagandistica pero' non e' riuscita a
convincere il mondo che questa guerra sia necessaria - tantomeno "giusta".
Al contrario, l'opposizione alla guerra attraversa governi e cittadinanze.
Le ragioni sono diverse e nel libro Iraq. Dieci ragioni contro la guerra
(ed. or. Verso 2002, in italiano Einaudi, 2003) il ricercatore e attivista
Milan Rai le elenca: non ci sono prove reali che l'Iraq possieda quelle
armi, il legame tra il regime di Baghdad e Al Qaeda e' inesistente. Gli Usa
non badano affatto alla democrazia in Iraq: si limiteranno a trovare un
"clone" di Saddam che sia loro amico. La guerra invece puo' provocare un
disastro umanitario, mettera' a repentaglio la popolazione kurda nel nord;
sara' una guerra illegale, fuori dal diritto internazionale; creera' un
"cerchio di rabbia" e nuovo terrorismo. Infine divide le opinioni pubbliche,
ha l'opposizione di molti generali americani e britannici, puo' provocare
una recessione globale.
Da buon allievo di Noam Chomsky (il quale firma l'introduzione al libro),
Rai attinge a una quantita' impressionante di informazioni e materiale
documentario per smontare la macchina della propaganda. Nato in India e
residente in Gran Bretagna (dove lo raggiungiamo per telefono), Milan Rai e'
anche tra i fondatori di Arrow, movimento pacifista e nonviolento inglese.
Quando scrive che "le decisioni prese prossimamente si ripercuoteranno per
anni o decenni", si riferisce alle decisioni dei governi "ma anche a quelle
prese da noi".
- Marina Forti: Come valuta allora le manifestazioni contro la guerra che si
ripetono in tutto il mondo?
- Milan Rai: Credo che le mobilitazioni di massa del 15 febbraio siano di
straordinaria importanza. Qui in Gran Bretagna ha coinvolto persone di ogni
posizione e retroterra politico, e questo segna una vera rottura nel
panorama politico. Abbiamo visto articoli che incoraggiavano la
mobilitazione sul "Telegraph", un giornale di destra. Un vero rimescolamento
di carte della politica britannica. Che impatto avra' questo sulla guerra?
La mobilitazione ha reso piu' difficile la posizione di George W. Bush e di
Tony Blair. Blair in particolare e' in una situazione assai rischiosa. Le
manifestazioni hanno rafforzato il consenso internazionale a favore delle
ispezioni piuttosto che la guerra. Il premier britannico spera che una
seconda risoluzione del Consiglio di sicurezza, se ci sara', rendera' quei
milioni di persone piu' disponibili ad accettare l'azione militare: qui nel
Regno unito c'e' ancora una maggioranza che sosterrebbe o accetterebbe una
guerra all'Iraq se autorizzata dall'Onu. E pero' la proporzione cala: da 72%
un mese fa a 59% ora. Non solo: sembra chiaro che la nuova risoluzione non
autorizzera' esplicitamente la guerra, dunque non risolvera' il problema
politico di Blair. Per questo credo che le manifestazioni abbiano scosso i
preparativi di guerra. Forse non la impediranno, ma possono aprire la strada
in futuro a un nuovo tipo di movimento di massa per la pace. Il tema
unificante, credo, e' che tutti hanno paura delle conseguenze di un
atteggiamento unilaterale, aggressivo e cieco da parte degli Stati Uniti.
- M. F.: Per smontare le argomentazioni addotte dalla Casa Bianca - e da
Tony Blair - lei si avvale di fonti d'informazione pubbliche, soprattutto
articoli apparsi sulla stampa mondiale. Questo fa molto pensare sul ruolo
della propaganda nelle guerre.
- M. R.: Il punto e' come vengono presentati i fatti. Un conto e'
registrarli, un conto e' metterli nel contesto: un fatto puo' essere
riferito sulla stampa ma presentato in modo tale che nessuno riesce a
capirne il senso. A proposito di media, nel libro cito Noam Chomsky per dire
che i grandi mezzi d'informazione ("corporate media") funzionano in modo
tale da mistificare in modo sistematico gli eventi. La questione chiave oggi
e' se le domande elencate da Hans Blix la settimana scorsa - le questioni a
cui Baghdad deve ancora rispondere circa le sue armi di distruzione di
massa - diventeranno il parametro su cui misurare l'ottemperanza dell'Iraq
alle risoluzioni dell'Onu sul suo disarmo. E' ben questo che chiede la
Risoluzione 1284, quella che istituisce la missione Unmovic, l'attuale
missione di ispezioni guidata da Hans Blix: entro 60 giorni dall'inizio
delle ispezioni, la Unmovic e l'Aiea dovevano poter definire le questioni
chiave a cui l'Iraq dovra' rispondere per essere considerato adempiente.
Questo finora non e' successo e credo che l'unico motivo sia la pressione
degli Stati Uniti. Il fatto e' che l'opinione pubblica generale non sa molto
sulla risoluzione 1284, mentre a Washington e Londra serve ridefinire di
continuo la questione in modo da poter dire che l'Iraq non ha rispettato le
risoluzioni. Ecco un altro esempio in cui l'informazione c'e' - tutti
possono leggere la risoluzione 1284 - ma non e' alla portata dei piu'.
- M. F.: Lei dimostra che gli Stati Uniti hanno contribuito a demolire la
prima missione di ispezioni, Unscom, infiltrandola di spie, e poi hanno
fatto di tutto per ostacolare una nuova agenzia di ispezioni. Nonostante
tutto, la nuova missione di ispezioni e' cominciata. Quale potrebbe essere
ora l'elemento che innesca la guerra? I missili Samoud 2?
- M.R.: Credo che i fautori dell'attacco siano davvero in una posizione
difficile. A meta' gennaio alti funzionari britannici predicevano con grande
sicurezza che entro fine mese gli ispettori avrebbero fornito prove tali da
convincere tutti della necessita' di disarmare Saddam Hussein con la forza:
ma non e' successo. Tutto quello che hanno trovato sono quelle testate
vuote, e un pacco di vecchi documenti che mostrano il tentativo di
arricchire l'uranio con un processo complicato che a quanto se sa non e' mai
riuscito. Cosi', e' davvero difficile dire come Usa e Regno Unito
riusciranno a convincere il mondo, e i membri del Consiglio di sicurezza.
Forse vorranno che Hans Blix dichiari che l'Iraq non sta cooperando
appieno - lo aveva detto il 27 gennaio, ma non l'ha ripetuto il 14 febbraio.
Ma per ora Blix dice che gli ispettori lavorano senza ostacoli. Certo, se
Blix dicesse che non c'e' collaborazione da parte irachena, al punto che gli
ispettori non sono in condizione di lavorare, allora poco importeranno le
prove reali dell'esistenza di armi di distruzione di massa: Washington e
Londra potranno sostenere che serve la forza. La questione centrale delle
ispezioni sono le armi biologiche e chimiche che Baghdad notoriamente aveva
e di cui non ha piu' reso conto. Finora, l'Iraq ha dato agli ispettori una
lista di persone che sono state coinvolte nella distruzione di quelle armi.
Se gli ispettori intervisteranno quelle persone - per il momento non e'
successo perche' rifiutano i colloqui in presenza di un registratore o un
funzionario del regime - ma se li intervistano, forse alla fine si
ricostruira' in modo credibile come sono finite quelle armi biologiche o
chimiche. Considerate che gran parte delle armi chimiche oramai sarebbero
comunque inservibili. Le uniche cose di cui preoccuparsi sono l'iprite
(mustard gas), forse i VX, gas nervini. Ora l'Iraq sta cominciando ad
aiutare gli ispettori a stabilire se le armi chimiche sono state davvero
distrutte, e si puo' sperare che cio' faranno per le armi biologiche. Ma il
fatto che l'Iraq abbia cominciato a collaborare sulla questione sostanziale
delle ispezioni e' del tutto irrilevante per Usa e Regno Unito. Anzi,
l'ultima cosa che vogliono dall'Iraq e' una vera collaborazione con gli
ispettori...
- M. F.: Se il vero scopo della guerra non sono le armi di distruzione di
massa, e meno ancora la democrazia in Iraq, qual e' il vero obiettivo della
guerra? Crede che basti il petrolio a spiegare un tale accanimento - o forse
ridisegnare la mappa strategica della regione, affermare un potere
imperiale?
- M. R.: Il gruppo di persone a capo dell'amministrazione - il
vicepresidente Dick Cheney, il segretario alla difesa Donald Rumsfeld, il
suo vice Paul Wolfovitz, - ha una lunga storia di aggressivita' verso l'Iraq
e non ha mai fatto mistero che vuole eliminare Saddam. Fin dal '91 il
governo Usa voleva attaccare l'Iraq: ma la situazione internazionale non era
favorevole, e neppure l'opinione interna. L'11 settembre ha cambiato le
cose: sembra aver cancellato la sindrome del Vietnam dall'opinione degli
americani, l'opposizione a operazioni militari aggressive all'estero. Era
l'occasione giusta: per questo gia' il 12 settembre, prima che fosse chiaro
chi e come aveva organizzato l'attacco alle torri, Rumsfeld ha proposto al
presidente di attaccare l'Iraq. Perche'? Le due motivazioni sottostanti alla
lunga campagna contro Baghdad sono in primo luogo la credibilita' americana:
Saddam Hussein e' il primo esempio al mondo di uno che ha sfidato gli Usa ed
e' sopravvissuto, e questo e' il "messaggio sbagliato". Credo che la guerra
al terrorismo, propriamente intesa, e' una guerra per dimostrare che non si
puo' sfidare gli Usa e farla franca. Il petrolio e' un altro elemento: ma
non tanto procurarsi nuove fonti di greggio o controllare il prezzo del
barile: cio' che vogliono le compagnie anglo-americane e' una
redistribuzione delle concessioni sui pozzi petroliferi iracheni, ovviamente
a loro vantaggio. Gran parte dei contratti iracheni oggi sono a favore di
Russia, India, Cina e altri, e le aziende americane sperano che i vecchi
contratti e accordi saranno cancellati e loro avranno la parte del leone in
una nuova redistribuzione. Infine - e' un elemento minore ma entra in
gioco - i profitti sulla ricostruzione dell'Iraq: saranno una grande affare.
- M. F.: Andranno alla guerra comunque, ma a quale prezzo?
- M. R.: E' un azzardo. La scommessa dell'amministrazione Bush e di Tony
Blair e' un rischio che altre amministrazioni non avrebbero accettato, ne' a
Washington ne' a Londra. Scommettono che una vittoria veloce e schiacciante
in Iraq demoralizzi gli oppositori, umiliando chi si era opposto. Un po'
come nel '91, quando il tentativo europeo di trattare in modo diverso il
problema palestinese crollo' e gli europei si arresero all'agenda
americana. Si', ci sara' da aspettarsi un aumento del rischio di terrorismo
suicida, ma alla Casa Bianca e Downing Street pensano che sia un costo
contenibile, un prezzo accettabile in cambio del vantaggio di rafforzare il
controllo militare e politico internazionale. Questo e' l'azzardo. Ma
potrebbe andare diversamente da come sperano. Il costo politico di
quest'avventura sara' allora di delegittimare sia le istituzioni politiche e
della politica estera americane e britanniche, sia le organizzazioni
internazionali. E' un azzardo pericoloso.

8. INFORMAZIONE. IL "COS IN RETE" DI MARZO
[Dall'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini (per contatti:
capitini@tiscalinet.it) riceviamo e diffondiamo. Segnaliamo che il sito del
"Cos in rete" (www.cosinrete.it), animato da Lanfranco Mencaroni, amico e
collaboratore di Aldo Capitini, e infaticabile prosecutore dell'opera
comune, mette a disposizione una ricchissima messe di testi di e su
Capitini, ed e' un fondamentale punto di riferimento per amici e studiosi
della nonviolenza]
Vi segnaliamo nell'ultimo aggiornamento di marzo 2003 del "C. O. S. in
rete", www.cosinrete.it, una selezione critica di alcuni riferimenti trovati
sulla stampa italiana ai temi capitiniani: nonviolenza, difesa della pace,
partecipazione al potere di tutti, controllo dal basso, religione aperta,
educazione aperta, antifascismo; tra cui: Capitini e la guerra, La pace e'
un dono, "Gott mit uns", L'Europa e il mondo; Le chiusure del cardinale;
L'altra faccia della medaglia; Una donna Papa; Democrazia teorica; Lo spreco
dei rifiuti; Liberisti ultras; L'inutile dolore; Arabi e nazisti; Eroismo;
ecc.
Piu' scritti di e su Capitini utili secondo noi alla riflessione attuale
sugli stessi temi.
Ricordiamo che sui temi capitiniani sopra citati la partecipazione al C. O.
S. in rete e' libera e aperta a tutti.

9. MAESTRI. BENITO D'IPPOLITO, OSVALDO CAFFIANCHI, LUCIANO BONFRATE: IN
MEMORIA DI DON SIRIO POLITI, A QUINDICI ANNI DALLA SCOMPARSA
[Don Sirio Politi, prete operaio, presidente del Mir, animatore di tante
iniziative di solidarieta', di pace, di nonviolenza, scomparve il 19
febbraio del 1988, era nato il primo febbraio del 1920. I nostri
collaboratori Benito D'Ippolito, Osvaldo Caffianchi e Luciano Bonfrate, che
lo conobbero, si sono scambiati nelle scorse settimane le seguenti lettere
che ora hanno messo a nostra disposizione, con le quali lo ricordano agli
amici, che non hanno dimenticato la sua generosita', la sua grandezza, la
sua umilta', e la sua lotta che continua in noi quando non ci dimentichiamo
della nostra dignita' e che essa consiste nell'affermazione della dignita'
di tutti e di ciascuno; e lo ricordano ai giovani che non lo conobbero ma
che sono anch'essi suoi compagni di lotta ogni volta che fanno la scelta
giusta, la scelta buona, la scelta di condividere il pane (che e' il
significato della parola bella "compagna, compagno"), che scelgono la
nonviolenza: per fermare la guerra, per un'umanita' di persone libere ed
eguali]

* Benito D'Ippolito: un ricordo

Di Comiso e Montalto erano gli anni
cupi nei quali conobbi don Sirio,
del sangue per le strade e sugli scranni
assisi i despoti. Anni di delirio
di furia e di empieta', felici quelli
che nulla sanno di quei tempi felli.

Ma insieme gli anni di lotte splendenti
lottate a viso aperto e cuore in mano
per conquistare con le unghie e i denti
a tutti dignita' di essere umano,
a tutti dagli stenti di sortire
trovando aita in un comun sentire.

Ed oggi che di nuovo la tempesta
infuria e la violenza si scatena
e la menzogna ogni pensiero infesta
e tutto invade nuova ria cancrena
al male opponi la tua resistenza
come gia' Sirio: con la nonviolenza.

*

* Osvaldo Caffianchi: Alla memoria di don Sirio Politi

Viareggio e' una strana citta'
di acque che sanno di morte.
A Viareggio mi squarciarono la gola.

Viareggio e' una bella citta'
di gioie e di lotte profonde.
A Viareggio ritrovai il respiro.

Viareggio e' un'ardita citta'
ragazza dolente, e a Viareggio
la darsena, e nella darsena
Sirio Politi che alla nonviolenza
chiamava, ed usava quell'unica risorsa
in cui consiste infine il satyagraha:
dare l'esempio, e questo salva il mondo.

*

* Luciano Bonfrate: Su questi binari a fermare la guerra

Ecco, mi torna in mente don Sirio
la lotta contro i missili, contro il nucleare
la lotta contro la macchina militare
e la solidarieta' concreta con chi soffre
il farsi prossimo di chi soffre
la vita condividerne e l'affanno.

Ecco, mi torna in mente don Sirio
l'obiezione di coscienza alle spese militari
l'obiezione di coscienza al servizio e all'industria militari
il ripudio delle armi e degli eserciti.

Ecco, mi torna in mente don Sirio
su questi binari, a fermare la guerra.

Ecco, don Sirio, non ho dimenticato
che alla violenza occorre opporsi sempre
e questa scelta e' la nonviolenza:
voce infinita che grida nel deserto
con sguardo e parola di donna tebana,
e si chiama coscienza.

10. RIFLESSIONE. PEPPE SINI: UNA LETTURA DI MATTEO, 4, 1-11
[Presento qui in estrema sintesi alcune piste di riflessione che ho proposto
ieri mattina agli studenti dell'Istituto professionale di Tuscania, che e'
una delle scuole in cui coordino un corso di educazione alla pace e di
accostamento alla nonviolenza. Come e' noto l'episodio di Gesu' nel deserto
e' narrato sia in Matteo, 4, 1-11 (di cui seguo la scansione); sia in Luca,
4, 1-13; sia anche - ma assai succintamente - in Marco, 1, 12-13]
Prima di impegnarsi nell'attivita' pubblica Gesu' fa l'esperienza del
deserto, del digiuno; dell'assumere la sofferenza, la fame, la solitudine;
del confronto col male; della lotta interiore.
E il male gli si presenta con tre sfide.
La prima: tramuta le pietre in pane. Gesu' risponde di no. Non vuole
manipolare la natura. Quando diciamo no al nucleare, alla clonazione, agli
organismi geneticamente manipolati, siamo memori di quel no.
La seconda: getta il tuo corpo nel vuoto e salvati. Gesu' risponde di no.
Non vuole abusare del suo corpo, ne riconosce il limite, la concretezza.
Quando diciamo no alla riduzione del corpo umano a macchina e merce e
feticcio, come quando diciamo no al superomismo, al machismo, al narcisismo,
al culto della prestanza, della performance e dell'oltranza, siamo memori di
quel no.
La terza: accetta il male ed avrai il potere sul mondo. Gesu' risponde di
no. Non vuole farsi imperatore, non vuole lasciarsi insignorire dalla
violenza, non vuole dominare altri esseri umani. Quando diciamo no al
terrorismo, no alle dittature, no alla guerra, siamo memori di quel no.
A questo punto il male dilegua, Gesu' lo ha vinto nel deserto, nella lotta
interiore (contro la tracotanza che nel cuore di ognuno si incista e che ti
sfida e ti invita all'eccesso, all'abuso; contro la violenza che ti lusinga
e ti tenta all'accaparramento, alla manipolazione, alla strumentalizzazione,
alla dominazione, al calpestare l'altro). Solo ora e' pronto all'azione
pubblica.
La nonviolenza e' questo.

11. RILETTURE. HELEN S. KAPLAN: DARE UN SENSO AL SESSO
Helen S. Kaplan, Dare un senso al sesso, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 208.
Un lbro di informazione ed educazione sessuale per i giovani di una
prestigiosa sessuologa, che ci sembra utile continuare a consigliare.

12. RILETTURE. FRANCESCO TONUCCI: LA CITTA' DEI BAMBINI
Francesco Tonucci, La citta' dei bambini, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. VIII
+ 248, lire 18.000. "Un modo nuovo di pensare la citta'", a misura di
bambino.

13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 526 del 5 marzo 2003