Niente
speranza! di Andrea
Il nostro rientro nella Striscia di Gaza -dopo tre
settimane di sospensione della presenza- è stato piuttosto traumatico; la
durezza di questa realtà si dimentica facilmente stando in Italia, la
quotidianità di questa occupazione diventa un ricordo, fresco ma allo stesso
tempo lontano.
Ritroviamo la gente del villaggio, i nostri amici.
Sono contenti di rivederci e di sapere che ricominceremo ad essere vicini di
casa. Sanno meglio di noi che la nostra presenza qua non cambierà niente, non
scaccerà l'esercito, non fermerà le azioni militari. Ma credo che per loro
vedere che non li abbandoniamo e che nonostante tutto abbiamo deciso di
condividere questa situazione, sia motivo di gioia e di speranza. Almeno sanno
che qualcuno in Italia saprà cosa succede qua attraverso i nostri occhi e la
nostra vita, sanno che tutti i volontari passati in questi mesi cercano di
lavorare e di essere attivi nella nostra società, insomma si rendono contro che
a qualcuno interessa la sofferenza di questa gente, che non tutto passa
nell'indifferenza del mondo.
Ma li troviamo anche tristi, provati, stanchi. I. ci
sintetizza efficacemente questo momento, dicendo che dopo l'elezione di Sharon e
con la guerra in Iraq ormai alle porte le cose qua non potranno che peggiorare.
È peggio del '48, quando centinaia di migliaia di palestinesi hanno perso la
loro casa e la loro terra. Noi la chiamiamo "nakhba", la catastrofe, e lo
ricordiamo come il momento più terribile del popolo palestinese. Ma ora è
peggio. Nel '48 la gente ha perso tutto, è stata costretta a emigrare in altre
terre, i villaggi sono stati rasi al suolo; ma c'era ancora la speranza.
Speranza di ritornare a casa, speranza che tutto questo sarebbe durato poco
tempo. Speranza di ricostruire prima o poi quello che era stato distrutto.
Adesso tutto questo non c'è più. Tutti si rendono conto che questa situazione,
insostenibile umanamente e psicologicamente, è destinata a continuare per molto
tempo, che una soluzione non si avrà tra breve. Perché il mondo sta a guardare,
tutti sanno cosa succede ma niente cambia, nessuno alza la voce contro il
governo israeliano. Non c'è più speranza.
E ce ne rendiamo conto in fretta anche noi. Ci
rechiamo al check point di Tufah, unico accesso alla zona di al-Mawasi che si
trova all'interno del blocco di insediamenti a ridosso di Khan Yunis e Rafah, e che
occupa tutta la fascia costiera del sud della striscia. Al-Mawasi è abitata da
palestinesi, che quindi oltre ad essere nella Striscia di Gaza, sono anche
dentro l'insediamento israeliano all'interno della striscia. Una prigione nella
prigione. Gli ottomila palestinesi che ci vivono sono sottoposti a condizioni
durissime; la politica israeliana è quella di convincerli ad andarsene
spontaneamente, rendendo impossibile una vita normale. Ed infatti: se esci dal
check point, per andare in ospedale, o a scuola, o al lavoro, poi è
difficilissimo rientrare. Se vuoi accedere alle due cliniche all'interno devi
passare altri posti di blocco, le umiliazioni, le perquisizioni, i
maltrattamenti sono all'ordine del giorno, secondo testimonianze di chi ci vive.
Nemmeno le grosse agenzie umanitarie hanno vita facile: la settimana scorsa un
medico di MSF (Medici senza Frontiere) è stato malmenato dai soldati mentre
tentava di ottenere l'autorizzazione per entrare ad al-Mawasi. Sia MSF che
addirittura la Croce Rossa Internazionale, per accedere alla zona devono
chiedere il permesso due giorni prima al comando dell'esercito, aspettare ore
per le autorizzazioni necessarie, poi arrivare al check point e negoziare
nuovamente coi soldati che negano l'accesso. È la prima guerra in cui vedo che
le agenzie umanitarie non hanno libertà di movimento e non vengono tenute in
nessuna considerazione dalle autorità. È la prima volta che vedo il governo di un paese che si considera
democratico (e che tutto il mondo occidentale considera tale) negare alla
popolazione civile quei diritti basilari e minimi contemplati nelle convenzioni
internazionali.
Assistiamo, impotenti, alla battaglia quotidiana che
la gente è costretta a combattere per tornare alle proprie case; l'attesa, poi
il megafono che chiama cinque persone, queste che si avviano verso le torrette.
Qualcuno passa, qualcuno viene rispedito indietro. Pazienza, si riproverà il
giorno dopo. Alcuni lo fanno per settimane. Un signore ci dice di essere appena
stato mandato indietro, ci chiede di andare di nuovo insieme così noi possiamo
parlare coi soldati. Accettiamo, poco fiduciosi per via delle esperienze
passate, ma qualcun altro ci blocca. Dice che se i soldati si arrabbiano con noi
-cosa molto probabile- poi chiudono e non passa più nessuno. È giusto, decidiamo
di non andare. Siamo combattuti tra la voglia di essere utili alla gente e di
vedere in faccia questi soldatini, e la consapevolezza che non dobbiamo fare le
cose per sentirci noi a posto con la coscienza. Tante volte bisogna mandare giù
dei rospi e accettare la nostra inutilità, altrimenti si rischia per niente si crea solo danno alla
gente.
Restiamo ancora un'oretta, per parlare con queste
persone, un ragazzo è stato dimesso dall'ospedale e cerca di tornare a casa, ma
è stato rispedito indietro. Un altro ha moglie e figli dall'altra parte, e anche
lui non può passare. Pare ci sia un nuovo regolamento: le persone sotto i 35
anni non possono più entrare ad al-Mawasi.
Ce ne andiamo.
Incontreremo poi a Gaza Heder Abdel Shafi, politico
saggio e illuminato del mondo palestinese, il quale ci ringrazia dei nostri
sforzi, della nostra presenza, ma ci ricorda che la nostra vera lotta è in
Italia, con il nostro governo. "Voi siete
una democrazia, quello che succede qua è contro i principi fondanti del vostro
paese, il vostro governo deve fare qualcosa". Ha ragione, in teoria. In
pratica forse non si rende conto di quanto le nostre democrazie siano fragili e
interessate soprattutto a se stesse e al proprio benessere. Ma
proveremo.
Mentre siamo a Gaza ci giunge la notizia che un'auto
bomba è esplosa al check point vicino a casa nostra, quello che di fatto taglia
a metà la Striscia di Gaza da nord a sud. Dobbiamo dormire a Gaza, poiché casa
nostra è proprio mezzo chilometro dalla parte sud del check
point.
Tre palestinesi si sono lanciati con la macchina
carica di esplosivo contro un tank israeliano, sono morti solo loro. L'attentato
è rivendicato dalla Jihad islamica. La gente è sconcertata, considera una pazzia
- giustamente - quello che è successo. Un'azione che non poteva che finire così,
senza nessuna speranza di "successo".
È un altro sintomo del deterioramento della società
della psicologia delle persone. Non si ragiona più. Mi vengono in mente tutti
quei ragazzini di 20 anni che mi hanno detto spesso che è meglio morire che
vivere così. Siccome il suicidio, nella cultura locale, porta infamia e disonore
a tutta la famiglia, tanto vale suicidarsi contro gli israeliani, almeno si
diventa eroi. E alle famiglie arrivano anche i soldi in premio dalle
organizzazioni fondamentaliste islamiche.
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