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La nonviolenza e' in cammino. 504
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 504 dell'11 febbraio 2003
Sommario di questo numero:
1. Maria G. Di Rienzo, fermare la violenza interpersonale
2. Luigi Ferrajoli: la guerra contro il diritto, il diritto contro la guerra
3. "Una citta'" intervista Donatella Della Porta sul movimento new global
4. Riletture: Norberto Bobbio, La mia Italia
5. Riletture: Oscar Cullmann, Il Nuovo Testamento
6. Riletture: Lu Hsun, Fuga sulla luna
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'
1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: FERMARE LA VIOLENZA INTERPERSONALE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per
questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, regista teatrale e commediografa, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza]
Fatto: Secondo l'Oms (Organizzazione mondiale della sanita'), ogni anno 40
milioni di bambini sotto i 15 anni sono vittime dell'abuso familiare al
punto di aver necessita' di ricovero medico (Onu, We the Children: Meeting
the Promises of the World Summit for Children 2001, p. 73).
Fatto: Studi su 11 nazioni hanno riportato che fra il 5 e il 48% delle donne
denunciano di aver subito abusi da un partner almeno una volta nella loro
vita. Studi locali in Africa, America Latina ed Asia portano il picco della
percentuale al 58% (Onu, The World's Women 2000: Trends and Statistics, p.
153).
Fatto: 130 milioni di bambini nel mondo non frequentano la scuola
elementare: il 70% sono bambine.
Fatto: Secondo il Dipartimento statunitense per la Giustizia, fra il 1995 e
il 1996 piu' di 670.000 donne negli Usa sono state vittime di stupri e abusi
sessuali (National Crime Victimization Survey, Bureau of Justice Statistics,
1997).
Fatto: Dal 40 al 60% dei crimini a sfondo sessuale vengono commessi contro
ragazze minori di 15 anni, senza distinzione di luogo o cultura (Onu, The
World's Women 1995: Trends and Statistics, p. 158).
Fatto: La violenza contro le donne e i bambini e' la piu' estesa violazione
del diritto umano oggi nel mondo (Charlotte Bunch, Unicef, 1997).
*
La violenza nei rapporti interpersonali e' la scuola della violenza per
eccellenza.
E' nelle relazioni familiari, intime, amicali, che impariamo a praticare il
rispetto per gli altri esseri umani o apprendiamo ad accettare la violenza e
l'abuso come "naturali".
C'e' sempre qualcuno, persino in buona fede, pronto a dirvi che la violenza
e' normale, che e' nella natura umana, persino nei nostri geni. Cosi', siamo
"scusati" se la usiamo: possiamo parlare delle ragioni economiche e sociali
del conflitto, della guerra e del terrorismo su scala internazionale, ma non
della nostra guerra quotidiana, che e' semplicemente "il modo in cui vanno
le cose". Persone autorevoli, laiche e religiose, sotto la spinta
dell'imminente attacco all'Iraq, stanno giustamente prendendo posizione
contro la guerra. Ma abbiamo bisogno che le stesse voci si facciano udire
sulla violenza interpersonale, che semina, nutre e rialimenta la violenza
internazionale.
Il crollo delle Torri ha ucciso o seriamente ferito 4.000 persone inermi: la
nostra condanna e' stata immediata. Ogni giorno, piu' di 4.000 donne e
bambini vengono uccisi o sono seriamente feriti da membri della loro stessa
famiglia. Non odo, al proposito, neppure un mormorio di disapprovazione.
Questo tipo di violenza e' spesso visto come il risultato dell'azione di
poche "mele marce": ma se diamo uno sguardo alla questione da una
prospettiva storica e interdisciplinare ci accorgeremo che abbiamo a che
fare con un disagio culturale, una malattia dello spirito umano, che ci
trasciniamo dietro da secoli. Per perpetuare se stesse, le societa' basate
sulla guerra hanno bisogno che il dominio e la gerarchia si insedino nel
nostro pensiero, divengano il fondamento delle nostre relazioni e vengano
mantenute con la violenza o la minaccia della stessa.
Le societa' umane, ci piaccia o no, sono primariamente basate sulla
relazione fra la meta' femminile e la meta' maschile dell'umanita', e sulle
relazioni che madri e padri hanno con i loro figli e figlie. Le nostre prime
lezioni sulle relazioni umane non le impariamo in pubblico, ma in una sfera
piu' privata ed intima, dove possiamo apprendere il rispetto e la liberta',
o la crudelta' e l'oppressione. Gli schemi di comportamento che ne risultano
non sono facili da sciogliere, tanto piu' che sono interconnessi con leggi,
usi, costumi, tradizioni che incoraggiano, approvano o semplicemente fingono
di ignorare la violenza domestica. Per alcuni, la violenza contro donne e
bambini e' addirittura consentita, richiesta e giustificata da un superiore
ordine divino.
Essa non ha confini di struttura (famiglia nucleare o famiglia estesa), ne'
di classe sociale, ne' territoriali, ed il suo nodo centrale e' la
dominazione di un genere sull'altro: in nome della quale si puu' negare cure
e alimentazione alle bambine del Punjab (che fra i 2 e i 4 anni muoiono in
una percentuale doppia rispetto ai coetanei di sesso maschile); si puo'
introdurre annualmente nel "mercato del sesso" due milioni di bambine
thailandesi, indiane, russe, la cui eta' va dai cinque agli undici anni; si
puo' battere regolarmente le mogli o le donne in genere (il 42% delle donne
in Kenya, il 67% delle donne in Nuova Guinea, una donna su tre a Lima, in
Peru'), ed arrivare a ucciderle: il 62% delle donne uccise in Canada durante
gli ultimi anni sono morte di violenza domestica.
I legami fra la violenza interpersonale e la struttura sociale, i sistemi di
valori correnti, dimostrano che esse si influenzano a vicenda: dove la
guerra e' il paradigma per la relazione umana alle donne si chiede di
obbedire, di essere a disposizione, di restare o tornare in una posizione
definita "tradizionale", ed i bambini e le bambine imparano con dolore che
porre domande all'autorita', mettere in discussione l'ordine gerarchico, e'
pericoloso per la loro incolumita' fisica e mentale.
I paladini della guerra negli Usa, quelli che parlano di "guerra santa", di
"nemici senza dio", di "liberta' infinita", sono gli stessi che si oppongono
all'eguaglianza di diritti per le donne; non solo per quanto riguarda la
costituzione statunitense, per la quale si propongono di battere
l'emendamento che sancirebbe tale eguaglianza: gruppi ed uomini politici si
rifiutano persino di ratificare la convenzione Onu che protegge i diritti di
donne e bambine.
E' nella famiglia umana che impariamo a considerare il terrore e la violenza
delle cifre normali per l'esistenza. E' nelle relazioni fra i sessi che
impariamo il "doppio standard", per il quale le violazioni all'integrita'
personale hanno differente peso a seconda di chi sia la vittima, e possono
persino non venir perseguite, oscurate da argomentazioni legali, culturali e
religiose. E fra chi sostiene di opporsi alla violenza, vi sono molti pronti
ad opporre gli stessi distinguo, in nome del rispetto delle altrui
tradizioni, che soverchierebbe il rispetto dovuto alle persone umane:
ovviamente, ogni comportamento istituzionalizzato, inclusa la schiavitu', e'
una tradizione culturale. Nessuno pero' si sognerebbe oggi di giustificare
la schiavitu' con il medesimo argomento.
E' venuto il momento di riconoscere la violenza contro donne e bambine/i per
cio' che essa e', una brutale pratica di controllo e dominazione, e se non
bastano a muoverci il dolore e la morte di coloro verso cui e' indirizzata,
riflettiamo sulle connessioni fra violenza interpersonale e violenza
internazionale, sui costi e le minacce che esse ci impongono. Per costruire
veramente la pace dobbiamo partire da qui, donne ed uomini, insieme.
2. RIFLESSIONE. LUIGI FERRAJOLI: LA GUERRA CONTRO IL DIRITTO, IL DIRITTO
CONTRO LA GUERRA
[Da "La rivista del manifesto" n. 36, del febbraio 2003, riprendiamo il
seguente articolo. Luigi Ferrajoli, illustre giurista, e' nato a Firenze nel
1940, gia' magistrato tra il 1967 e il 1975, dal 1970 docente universitario.
Opere di Luigi Ferrajoli: tra i lavori recenti segnaliamo particolarmente la
monumentale monografia Diritto e ragione, Laterza 1989, giunta alla terza
edizione; il saggio La sovranita' nel mondo moderno, Laterza 1997; e La
cultura giuridica nell'Italia del Novecento, Laterza 1999]
Che cosa significa "stare con l'Onu"
C'e' un equivoco che sta deformando il dibattito sulla guerra e che e'
stato riproposto dall'ambiguo discorso di fine d'anno del presidente
Ciampi: l'idea che la scelta di stare dalla parte delle Nazioni Unite
comporterebbe, in base alla seconda parte dell'articolo 11 della
Costituzione italiana, che nella sua prima parte "ripudia la guerra", il
dovere di aderire alla guerra contro l'Iraq qualora il Consiglio di
sicurezza, a seguito delle ispezioni ordinate con la risoluzione 1441,
l'autorizzasse con una nuova, esplicita risoluzione.
Dietro questo equivoco c'e' una grossolana confusione: tra l'Onu, ossia
l'ordinamento istituito con la Carta delle Nazioni Unite, e il Consiglio di
sicurezza, qualunque cosa decida, quasi fosse un sovrano legibus solutus e
non un organo dell'Onu sottoposto alla sua Carta statutaria. Se dissipiamo
questo equivoco, e riconosciamo che l'Onu, come e' ovvio, e'
l'ordinamento delle Nazioni Unite disciplinato dalla sua Carta
istitutiva, diventa chiaro che la guerra annunciata contro l'Iraq,
autorizzata o meno da una seconda risoluzione, sarebbe comunque, sulla base
di quella Carta, un illecito internazionale; che la sua autorizzazione
avrebbe il solo effetto di coinvolgere il Consiglio di sicurezza nella
violazione e, forse, nella dissoluzione del suo stesso ordinamento; che
dunque "stare con l'Onu", come ripetono di volere molti esponenti
dell'Ulivo, vuol dire non gia' aderire, bensi' condannare comunque la
guerra, perche' vistosamente in contrasto con l'ordinamento dell'Onu
medesima.
Ho gia' argomentato lungamente questa tesi sul numero di dicembre di questa
rivista (1). Qui mi limitero' ad insistere sulle due principali ragioni che
rendono comunque illecita una guerra contro l'Iraq.
Manca, innanzitutto, il presupposto previsto dalla Carta dell'Onu per un
uso della forza diretto a mantenere o a ristabilire la pace. Questo
presupposto, dice l'art. 39, e' l'esistenza di una minaccia alla pace o di
una violazione della pace o di un'aggressione in atto.
Ora, la sola minaccia alla pace che esiste attualmente e che meriterebbe di
essere severamente censurata dal Consiglio e' quella posta in atto dagli
Stati Uniti, che da mesi minacciano la guerra e perfino l'uso dell'atomica,
bombardano quotidianamente le zone irachene di "non volo" e stanno percio'
violando sistematicamente il comma 4 dell'art. 2 della Carta, che vieta ai
paesi membri sia "l'uso" che "la minaccia" dell'uso della forza.
Quanto all'Iraq, per quanto ripugnante sia il regime di Saddam, un
intervento armato diretto a disarmarlo o a rovesciarlo non sarebbe
legittimo neppure nell'ipotesi che le ispezioni ordinate dal Consiglio di
sicurezza accertassero o comunque non escludessero il possesso di armi di
distruzione di massa. Armi simili, chimiche e nucleari, sono detenute da
mezzo mondo, dalla Corea del Nord all'India e al Pakistan, per non parlare
degli Stati Uniti, della Russia, della Cina e di Israele, senza che questo
sia mai stato considerato una minaccia alla pace sufficiente a
giustificare una "difesa preventiva". Al contrario, proprio la guerra di
difesa preventiva, invocata da Bush, e' stata ripetutamente dichiarata
contraria all'ordinamento delle Nazioni Unite sia dalla Corte
internazionale di giustizia che dallo stesso Consiglio di sicurezza.
Ricordero' solo, perche' riguarda proprio l'Iraq di Saddam, la
risoluzione di condanna adottata dal Consiglio il 19 giugno 1981 con il
voto favorevole anche degli Stati Uniti contro neppure una guerra, ma un
singolo attacco militare israeliano al reattore atomico Osiraq, nei pressi
di Bagdad, che Israele aveva giustificato con la "necessita' di difendersi
dalla costruzione di una bomba atomica in Iraq" (2).
C'e' poi un secondo e non meno grave aspetto di illegittimita' di
un'eventuale guerra, pur avallata dal Consiglio di sicurezza.
Cio' che l'Onu puo' deliberare non e' certo una guerra ma solo, quale
estrema misura diretta a "mantenere o ristabilire la pace", l'uso della
forza in "un'azione coercitiva internazionale" che deve essere svolta "alle
dipendenze" del Consiglio di sicurezza (art. 47 comma terzo) e
comunque, ove siano utilizzate forze diverse da quelle di cui parla il
Capitolo VII, "sotto la sua direzione" (art. 53, comma primo). E' chiaro
che tra la guerra e questo uso della forza c'e' una differenza radicale,
che non riguarda solo le forme, che pure in una materia come questa sono
essenziali, ma la sostanza.
La guerra e' per natura un uso della forza smisurato e incontrollato,
diretto all'annientamento dell'avversario e destinato inevitabilmente a
colpire anche le popolazioni civili.
L'impiego legittimo della forza e' invece solo quello strettamente
necessario per mantenere la pace e la sicurezza internazionale e
proprio per questo posto sotto la costante direzione del Consiglio di
sicurezza.
La differenza tra le due cose - che non puo' certo essere occultata con un
gioco di parole, chiamando "azione coercitiva" o "di polizia" quella
che ha tutte le caratteristiche della guerra - risiede poi in altre due
circostanze, assicurate dall'uso legittimo della forza e non invece dalla
guerra: che l'intervento non serva interessi di parte e che sia garantita
l'incolumita' degli innocenti. Che e' la stessa differenza che corre tra
pena e vendetta, tra diritto e ragion fattasi: l'uno e' la negazione
dell'altra, e per negazione dell'altra si definisce.
*
Giusto massacro?
Quanti oggi rifiutano il pacifismo cosiddetto "assoluto" come "utopistico",
o "ideologico", o "idealistico" oppure pregiudizialmente "anti-americano",
evocando magari la giusta guerra combattuta contro Hitler, dimenticano
dunque che proprio all'indomani di quella catastrofe mondiale, per
scongiurare altre future catastrofi, l'idea stessa della "guerra giusta" fu
archiviata dalla Carta dell'Onu.
Innanzitutto perche' la Carta, regolando l'uso legittimo della forza nei
rapporti tra Stati, ha posto fine all'anarchia internazionale generata
dallo jus ad bellum di tutti contro tutti e ha trasformato in ordinamento
giuridico, incompatibile con la guerra, il vecchio sistema puramente
pattizio delle relazioni tra Stati: la guerra e' da allora illecita come
lo e', all'interno degli ordinamenti degli Stati, la vendetta o la ragion
fattasi.
In secondo luogo perche' si e' compreso che la guerra moderna ha cambiato
natura ed e' stata percio' riconosciuta, dai padri costituenti delle
Nazioni Unite, come un male assoluto: ingiustificabile perche' rispetto
ad essa tutte le vecchie cause di giustificazione e i vecchi limiti
giusnaturalistici della guerra giusta sono divenuti incongruenti,
essendo stati travolti tutti i limiti naturali alle sue ormai illimitate
capacita' distruttive.
La tragica conferma di questa incongruenza tra le illimitate capacita'
distruttive del mezzo della guerra e qualunque fine invocato come sua
giusta causa e' stata offerta proprio dagli effetti provocati dalle nuove
guerre di questi anni, opposti alle "giuste" finalita' dichiarate a suo
sostegno nell'odierna riesumazione imperiale della dottrina medioevale
della "guerra giusta": la tutela dei diritti umani nel Kosovo e la lotta al
terrorismo in Afghanistan.
La cosiddetta "guerra umanitaria" della Nato alla Federazione jugoslava in
difesa dei diritti umani non solo ha cagionato migliaia di vittime
innocenti e la distruzione dell'intera infrastruttura economica della
Serbia e del Kosovo, ma favori', all'indomani del suo inizio, le vendette di
Milosevic contro le popolazioni kosovare e le loro espulsioni in massa.
"Guerra a tutela dei diritti", d'altro canto, e' una clamorosa
contraddizione in termini, dato che i diritti si garantiscono con il
diritto - con i tribunali e con l'accertamento e la sanzione delle
responsabilita' - e non certo con quella massima e massiccia violazione
del diritto e dei diritti, primo tra tutti il diritto alla vita, che e' la
guerra.
Quanto al terrorismo, esso non e' stato affatto debellato dalla guerra in
Afghanistan, nella quale sono state uccise migliaia di persone innocenti
ma sono sopravvissuti sia Osama bin Laden che il mullah Omar. Ne e' prova il
fatto che lo si continua a invocare come giustificazione di una nuova
guerra, che non si capisce perche' dovrebbe riuscire a raggiungere
l'obiettivo fallito dalla prima. Al contrario, la guerra al terrorismo ha
finito con l'omologarsi, quale violenza sregolata e rivolta contro vittime
innocenti, al terrorismo medesimo, e cosi' per rompere l'asimmetria tra
violenza privata e risposta istituzionale - consistente nelle indagini di
polizia e nella cattura dei colpevoli, e non in bombardamenti
indiscriminati -, che e' il vero segreto della forza simbolica,
delegittimante e depotenziante, propria del diritto.
Tutte le nuove guerre, insomma, sono consistite nella punizione, per una
sorta di "responsabilita' collettiva", di persone innocenti. E hanno
quindi violato - in maniera tanto piu' ripugnante, perche' accreditate come
guerre "a zero morti", per i soli aggressori, ovviamente - i due principi
fondamentali dell'etica moderna: quello kantiano secondo cui nessuna
persona puo' essere usata come mezzo per fini non suoi e quello, proprio
dell'etica della responsabilita', della congruenza dei mezzi impiegati ai
fini dichiarati. Chiamare simili imprese "guerra giusta" o "guerra etica"
o "guerra umanitaria" o "guerra legittima" o "guerra preventiva" equivale
a parlare, come abbiamo scritto nell'appello contro la guerra del
Tribunale permanente dei popoli, di "giusto massacro", o di "legittima
strage degli innocenti", o di "carneficina etica o umanitaria" o di
"massacro preventivo".
*
Politica imperiale e razzismo
Se le finalita' dichiarate con cui in questi anni si e' tentato sempre piu'
apertamente di riabilitare la guerra come mezzo di soluzione dei problemi e
delle controversie internazionali non sono state raggiunte - ne' era
possibile che lo fossero, ne' comunque sono moralmente sostenibili -, quali
sono gli effetti che concretamente esse sono in grado di produrre?
L'effetto piu' grave, al di la' delle vittime e delle devastazioni, e' il
crollo del diritto internazionale. Se e' vero che il diritto e' la
negazione della guerra, e' anche vero il contrario: la guerra e' la
negazione del diritto e la sua rilegittimazione equivale alla
delegittimazione dell'intero edificio eretto con l'istituzione dell'Onu e
alla regressione allo stato selvaggio delle relazioni internazionali.
Sarebbe questo il risultato di un'eventuale guerra contro l'Iraq, la quale
non potrebbe neanche accampare taluna delle pur infondate giustificazioni
invocate per le altre guerre del passato decennio. Le sole ragioni di
questa guerra, cosi' palesemente illecita, ingiustificata e
ingiustificabile, si rivelerebbero percio' le ragioni della forza: come ha
detto Raniero La Valle nella sua relazione al Tribunale, il suo scopo
principale sarebbe la legittimazione di se medesima e si identificherebbe
quindi con il mezzo (3). Per questo un simile strappo alla legalita', cosi'
sprezzantemente voluto e perfino ostentato, sarebbe, tanto piu' se
avallato dal Consiglio di sicurezza, il segno della volonta' di
instaurare un nuovo ordine internazionale, modellato sul dominio
dell'Occidente, di fatto degli Stati Uniti e basato, appunto, sulla guerra.
Dobbiamo allora domandarci in che cosa consisterebbe questo "nuovo ordine
internazionale", alternativo a quello disegnato dalla Carta dell'Onu e
difeso con la guerra. Non dobbiamo fare sforzi di fantasia. Si tratterebbe
della legittimazione, oltre che della guerra e della legge del piu' forte,
dell'assetto attuale del mondo, segnato da una disuguaglianza senza
precedenti, che si manifesta nei milioni di morti ogni anno per fame, per
mancanza di acqua e di farmaci essenziali. Con una decisiva differenza: il
crollo della credibilita', agli occhi del resto del mondo, di tutti i valori
dell'Occidente - la democrazia, lo Stato di diritto, la legalita',
l'uguaglianza, la dignita' delle persone, i diritti umani che sono tali, e
non privilegi, solo se di tutti - e percio' l'esplicitazione, senza piu'
veli ideologici, del latente razzismo espresso dalle nostre politiche, o
meglio dall'assenza di qualunque politica, che non sia quella delle armi,
idonea a fronteggiare i grandi problemi del pianeta.
E' questo latente razzismo, piu' ancora dell'oggettiva ingiustizia e
disuguaglianza, che sta provocando in tutto il mondo una crescita dell'odio
e dello spirito di rivolta nei confronti dell'Occidente e sta minando le
basi delle nostre stesse democrazie.
Il razzismo, scrisse Michel Foucault ventisette anni fa, consiste
precisamente nell'"introdurre una separazione, quella tra cio' che deve
vivere e cio' che deve morire": esso e' "la condizione d'accettabilita'
della messa a morte..., la condizione in base alla quale si puo' esercitare
il diritto di uccidere" (4).
E' la condizione, appunto, che ci consente di tollerare e perfino di
applaudire le odierne guerre dal cielo "senza perdite di vite umane" dalla
nostra parte e con migliaia di vittime innocenti - evidentemente
avvertite come "inferiori" a noi - nei paesi bombardati. E' lo stesso
tacito razzismo, che ha reso possibile, negli Stati Uniti, l'approvazione
delle cosiddette "leggi patriottiche", che hanno istituito tribunali
militari speciali, arresti di polizia e processi sommari in segreto per i
soli non-cittadini degli Stati Uniti; che rende accettabili le attuali
politiche contro l'immigrazione, incluso il dramma di migliaia di
persone respinte ogni anno alle nostre frontiere e di decine di altre che
muoiono ogni anno affogate prima di approdare sul nostro territorio;
che infine permette all'opinione pubblica dei nostri ricchi e spensierati
paesi di sopportare o almeno di rimuovere la morte per fame o mancanza di
cure di milioni di esseri umani ogni anno.
Solo il razzismo, cioe' il senso di una radicale asimmetria tra "noi" e
"loro", consente di promuovere e di praticare queste politiche di morte.
E il rapporto tra politiche di morte e razzismo e' un circolo vizioso:
le une sono legittimate e assecondate dall'altro. Le nostre leggi, con
cui migliaia di immigrati ogni anno vengono espulsi o respinti alle nostre
frontiere, non diversamente dalle nuove guerre e dalle gabbie di
Guantanamo, vengono decise per soddisfare le pulsioni razziste e le
richieste di vendetta indiscriminata dell'opinione pubblica (e
dell'elettorato) occidentale, che da quelle politiche, a loro volta,
vengono legittimate, alimentate e rafforzate. Il razzismo, del resto, e'
sempre stato l'effetto piu' che la causa delle discriminazioni e delle
oppressioni. Fu necessario il razzismo per rendere tollerabili la conquista
del nuovo mondo, le colonizzazioni e la schiavitu'. E' necessario il
razzismo per rendere oggi accettabile, al di la' degli incredibili
argomenti della propaganda, il progetto di bombardare un paese con una
guerra di aggressione, che provochera' migliaia di morti a beneficio di una
lobby di petrolieri.
C'e' poi un altro effetto che sarebbe provocato dalla guerra e che in parte
e' gia' stato prodotto dalle guerre passate e dal clima di guerra in cui
stiamo vivendo: la crisi della democrazia. In primo luogo la crisi delle
liberta' e l'involuzione poliziesca della democrazia all'interno dei nostri
stessi paesi.
Ho gia' detto delle "leggi patriottiche" fatte votare da Bush negli Stati
Uniti. Ma si pensi anche al decreto anti-terrorismo inglese, che di fatto
sopprime l'habeas corpus per i sospetti di terrorismo; o al nostro Decreto
legge n. 374 del 2001, che estende in maniera indeterminata i presupposti
delle intercettazioni telefoniche "preventive" e consente "attivita'
sotto copertura" affidate ad agenti provocatori; o alla crescita della
paura, delle politiche di esclusione e del clima di intimidazione che,
soprattutto negli Stati Uniti (5), si e' sviluppata in nome dell'emergenza
nei confronti del dissenso.
In secondo luogo sta producendosi una crisi del paradigma dello Stato di
diritto e della democrazia sul piano internazionale: crisi dello Stato di
diritto, ossia della soggezione del potere al diritto, dato che il nuovo
ordine prefigurato dal documento strategico statunitense del 17 settembre
2002 reintroduce il potere sovrano di far guerra quale potere assoluto,
senza limiti e controlli, affidato al governo americano e per esso al suo
presidente, investito cosi' del potere di vita e di morte; crisi della
democrazia perche' tutta la popolazione del pianeta risulterebbe soggetta a
questo nuovo sovrano assoluto, eletto soltanto dal popolo del suo paese e
per di piu', come sappiamo, da una minoranza di questo stesso popolo.
Avremmo insomma un ordine mondiale fondato soltanto sulla forza e sul
progressivo discredito e svuotamento dei nostri stessi principi di legalita'
e di democrazia. Il terrorismo avrebbe vinto davvero: giacche' la guerra,
promossa contro il terrorismo allo scopo, come dice il documento Bush del 17
settembre, di difendere contro il "male" i valori occidentali della
liberta' e della democrazia, avrebbe avuto l'effetto di affossarli.
*
L'illusione irrealistica di un governo del mondo attraverso la guerra
La domanda che allora dobbiamo porci e' se sia realistica, ancor prima che
accettabile giuridicamente e moralmente, l'idea che il mondo, con simili
ingiustizie e disuguaglianze, possa essere governato con la guerra; se sia
verosimile o non sia invece illusoria, almeno nei tempi lunghi, la
prospettiva di un ordine internazionale - inteso con "ordine" un
qualsiasi assetto del mondo che in un modo o in un altro garantisca la
convivenza pacifica - basato sulla divisione tra paesi ricchi e paesi
poveri, sempre piu' privo di legittimazione e capace soltanto di
politiche di guerra e di mortificazioni razziste della dignita' e
dell'identita' di interi popoli e culture.
Io credo che non ci sia nulla di piu' irrealistico di una simile
prospettiva. E' la stessa Dichiarazione dei diritti del '48 che lo afferma,
istituendo un nesso razionale e insieme realistico tra pace e sicurezza da
un lato e diritti umani dall'altro: "e' indispensabile che i diritti
dell'uomo siano protetti da norme giuridiche", essa dice, "se si vuole
evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla
ribellione contro la tirannia e l'oppressione". Per questo sarebbe un
segno di realismo politico se le grandi potenze per prime, a cominciare
dagli Stati Uniti, si facessero carico, onde salvaguardare la loro stessa
sicurezza, di quella che Juergen Habermas ha chiamato "una politica interna
del mondo" (6).
Una guerra infinita, infatti, equivale certamente all'affermazione della
legge del piu' forte. Ma e' altrettanto certo che essa non giova, nei tempi
lunghi, neppure al piu' forte, risolvendosi in un aumento dell'odio nei
suoi confronti e in una generale insicurezza e precarieta': giacche'
sempre "il piu' debole", come scrisse Thomas Hobbes, "ha forza sufficiente
per uccidere il piu' forte o con una macchinazione segreta o alleandosi
con altri" (7).
E un qualche grado di consenso e di legittimazione politica e morale, in
un mondo in cui economia e comunicazioni sono globalizzate, e'
indispensabile a qualunque funzione di governo.
Purtroppo cio' che sta accadendo non consente nessun ottimismo. Ma occorre
quanto meno evitare la fallacia naturalistica nella quale incorre buona
parte della filosofia politica e giuridica "realistica". Non e' affatto vero
che la guerra sia inevitabile, connaturata, come leggiamo quotidianamente
sui giornali, alle relazioni internazionali o addirittura alla natura
umana, e che la pace sia impossibile. E non c'e' nulla di naturale, ne' di
necessario, ne' percio' di inevitabile nella deriva in atto dei processi
di globalizzazione. Questa deriva e' al contrario il frutto di scelte
politiche; cosi' come sarebbe il frutto di scelte politiche e di
progettazioni istituzionali l'adozione, nel diritto internazionale e in
quello interno, di tecniche di garanzia idonee a contrastarli. E' sempre
stato cosi', nella storia delle istituzioni. Non confondiamo quindi
problemi teorici con problemi politici. Non presentiamo come
utopistico o irrealistico, occultando le responsabilita' della
politica, cio' che semplicemente non si vuole fare perche' contrasta con
gli interessi dominanti, oltre tutto di cortissimo respiro, e che solo per
questo e' inverosimile che si faccia. Giacche' questo tipo di miopia
realistica finisce per legittimare e assecondare come inevitabile cio'
che resta comunque opera degli uomini, e di cui portano la
responsabilita' i massimi poteri politici dei nostri paesi.
Se questo e' vero, dobbiamo leggere nella crisi in atto del diritto
internazionale una sfida nei confronti della ragione giuridica e della
ragione politica. Non possiamo, infatti, permetterci il lusso di essere
pessimisti e di dichiarare la bancarotta del diritto internazionale.
Giacche' il diritto internazionale - l'Onu - continua comunque ad essere la
sola alternativa razionale a un futuro di guerre, di terrorismi, di
violazioni massicce dei diritti umani.
E dobbiamo percio' continuare a leggere e a denunciare la divaricazione sia
pure crescente tra il dover essere dei principi costituzionali e
internazionali e la realta' di quanto accade non gia' come smentita o
falsificazione, bensi' come violazione illecita del primo da parte della
seconda; non come un segno dell'inattualita' o peggio dell'utopismo delle
promesse costituzionali, bensi' come un cedimento allarmante alle
vocazioni eversive e alle tentazioni assolutistiche dei poteri forti.
Per questo l'idea, troppo spesso avallata dalle filosofie politiche
realistiche, che la crisi e' priva di alternative e la guerra fara' sempre
parte della vita umana equivarrebbe a un'abdicazione della ragione. E
varrebbe di fatto a confortare, se non a legittimare, i processi di
dissoluzione in atto cosi' del diritto come della ragione. Equivarrebbe,
come ho gia' detto, a una fallacia naturalistica e deterministica, cioe'
alla confusione tra cio' che accade e cio' che non puo' non accadere e alla
derivazione di questo da quello.
Dobbiamo invece essere consapevoli che nonostante (e comunque dopo) le
cadute e i fallimenti e' sempre possibile un corso diverso della storia;
e che questo corso diverso dipendera' - come sempre, del resto - dal ruolo
che saranno in grado di svolgere il diritto e la politica. Ai quali si
richiede, essenzialmente, la costruzione di una sfera pubblica
internazionale, dotata, ben piu' che di istituzioni di governo, di
istituzioni di garanzia dei diritti e della pace, all'altezza dei grandi
e drammatici problemi del pianeta (8).
*
L'alternativa della pace
In questa prospettiva non e' ingenuo tornare a riproporre, proprio di
fronte alla gravita' della crisi, la necessita' di dare attuazione alla
principale garanzia della pace prevista dalla Carta dell'Onu: l'istituzione
della forza di polizia internazionale sotto la "direzione strategica" del
"Comitato di stato maggiore" previsto dall'art. 47 della Carta, in
vista - dobbiamo aggiungere - della graduale formazione di un monopolio
giuridico della forza in capo alle Nazioni Unite.
Certamente, se le norme del capitolo VII della Carta dell'Onu fossero state
attuate, non avremmo avuto le nuove guerre dello scorso decennio ne' si
profilerebbe la nuova terribile guerra contro l'Iraq; e le crisi
internazionali che con quelle guerre sono state affrontate sarebbero
state risolte con ben maggiore efficacia ed autorevolezza e senza i tragici
costi e i disastrosi effetti che stiamo registrando.
A garanzia della pace, inoltre, dovrebbe essere ripreso il processo di
progressivo disarmo, interrottosi nei primi anni novanta, attraverso
rigide convenzioni internazionali sul divieto della produzione, del
commercio e della detenzione di armi. Le armi, essendo destinate comunque
ad uccidere, dovrebbero finalmente essere considerate quali beni
illeciti, ben piu' delle sostanze stupefacenti, e come tali messe al
bando della convivenza civile. E' infatti evidente che la loro sconfinata
disponibilita' e' la causa prima delle guerre, oltre che del terrorismo e
della criminalita'.
Si dovrebbe poi far entrare rapidamente in funzione la Corte penale
internazionale per i crimini contro l'umanita', il cui statuto, essendo
state raggiunte le sessanta ratifiche richieste, e' in vigore fin dallo
scorso luglio. E occorrerebbe pervenire quanto prima a renderne operativa
la competenza anche in ordine al crimine, previsto dalla lettera d)
dell'art. 2 del suo statuto, della "guerra di aggressione", formulandone una
definizione rigorosa idonea a distinguerla chiaramente dalla "legittima
difesa", oggi assurdamente invocata anche a titolo preventivo. E' poi
evidente che dipenderanno dai finanziamenti degli Stati che l'hanno
ratificata, a cominciare da quelli europei, e dal sostegno dell'opinione
pubblica internazionale la sua indipendenza, la sua efficienza, la sua
credibilita' e anche la sua futura accettazione da parte delle potenze
che fino ad oggi, temendo di vedere incriminati loro cittadini o
governanti, si sono rifiutati di approvarla: come gli Stati Uniti, la Cina
e Israele.
C'e' poi un altro ordine di problemi, ancor piu' gravi e difficili, che
dovrebbero essere affrontati se si vuole costruire la pace: i problemi
dell'alimentazione di base, dell'acqua e dell'accesso ai farmaci essenziali,
che non e' sufficiente trattare con le politiche degli aiuti e che occorre
invece impostare sulla base della garanzia dei diritti. E questo
richiederebbe la creazione, a livello internazionale, di molte altre
istituzioni di garanzia, in aggiunta alla forza di polizia dell'Onu e alla
Corte penale internazionale.
Andrebbero, infatti, organizzate, di fronte ai giganteschi problemi
sociali della fame e della miseria generati da una globalizzazione
senza regole, istituzioni deputate alla soddisfazione dei diritti
sociali sanciti dai Patti del 1966.
Talune di queste istituzioni, come la Fao e l'Organizzazione mondiale
della sanita', esistono da tempo, e si tratterebbe di dotarle dei mezzi e
dei poteri necessari alle loro funzioni di erogazione delle prestazioni
alimentari e sanitarie. Altre - in materia di tutela dell'ambiente, di
garanzia dell'istruzione, dell'abitazione e di altri diritti vitali -
dovrebbero invece essere istituite.
A tale scopo, e in generale ai fini della costruzione di una sfera pubblica
internazionale, un'innovazione decisiva sarebbe infine l'introduzione di
una fiscalita' mondiale, cioe' di un potere sovrastatale di tassazione
volto a reperire le risorse necessarie a finanziare le istituzioni di
garanzia: che e'' il presupposto indispensabile di ogni politica
internazionale redistributiva, fondata sui diritti anziche' sugli aiuti. E'
in questa direzione che si orienta la proposta della Tobin tax sulle
transazioni internazionali, fatta propria dai movimenti "no-global".
Ma non meno giustificata, sulla base di principi elementari di diritto
privato, sarebbe l'imposizione di un risarcimento, o meglio di un
adeguato corrispettivo per l'indebito arricchimento proveniente alle
imprese dei paesi piu' ricchi dall'uso e dallo sfruttamento, quando non
dal danneggiamento, dei cosiddetti beni comuni dell'umanita': come le
orbite satellitari, le bande dell'etere e le risorse minerarie dei fondi
oceanici, attualmente utilizzate a titolo gratuito come se fossero res
nullius anziche', secondo quanto stabilito dalle convenzioni
internazionali sul mare e sugli spazi extra-atmosferici, "patrimonio
comune dell'umanita'" (9).
Ovviamente non possiamo fare previsioni. Ne' d'altra parte hanno rilevanza e
neppure interesse il nostro personale pessimismo o ottimismo. Cio' che e'
certo e' che non ha senso la tesi sedicente "realistica", secondo cui
l'odierna crisi dell'Onu sta dimostrando che il suo disegno
universalistico e' un'utopia ed e' comunque fallito a causa della sua
impotenza, per carenza di mezzi e di poteri.
L'Onu non e' un'istituzione extra-terrestre. La sua attuale impotenza,
cosi' come il suo futuro e con esso il futuro della pace e dei diritti
umani, non dipendono dalla sua natura, ma unicamente dalla volonta'
delle grandi potenze dell'Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, e
dalla loro indisponibilita' a rinunciare al loro ruolo incontrastato di
dominio militare, economico e politico e ad assoggettarsi anch'esse al
diritto internazionale.
Sarebbe nell'interesse di tutti - non solo del Sud del mondo ma anche
dell'Occidente - riabilitare l'Onu e rafforzarne le funzioni di
garanzia della pace e dei diritti: se non per ragioni morali o giuridiche,
a tutela della nostra stessa sicurezza e della sopravvivenza delle nostre
stesse democrazie. Per non dover tornare a riscoprire i nessi indissolubili
tra diritto e pace e tra diritto e ragione, all'indomani di nuove
catastrofi provocate dalla nuova guerra infinita.
*
Note
Questo testo riprende in gran parte la relazione alla XXXI sessione del
Tribunale permanente dei popoli, svoltasi a Roma nei giorni 14-16 dicembre
2002 su "Il diritto internazionale e le nuove guerre", i cui atti saranno
presto pubblicati presso gli Editori Riuniti.
1. Neanche l'Onu puo', in "La rivista del manifesto", n. 34, dicembre 2002,
pp. 20-25.
2. Si veda, su questo caso e in generale sull'inammissibilita' della guerra
preventiva, A. Di Blase, Guerra al terrorismo e guerra preventiva nel
diritto internazionale, relazione alla sessione sopra citata del Tribunale
permanente dei popoli.
3. R. La Valle, Gli anni Novanta: la restaurazione di fine secolo,
relazione alla sessione sopra citata del Tribunale permanente dei popoli.
4. M. Foucault, Corso del 17 marzo 1976, in Il faut defendre la societe'
(1997), tr. it. a cura di M. Bertani e A. Fontana, Bisogna difendere la
societa', Feltrinelli, Milano 1998, pp. 220-221.
5. R. Falk, Che cosa e' cambiato negli Usa dopo l'11 settembre, relazione
alla sessione sopra citata del Tribunale permanente dei popoli.
6. "Con la fine dell'equilibrio del terrore", ha scritto Habermas,
"sembra che sul piano della politica internazionale della sicurezza e dei
diritti umani si sia dischiusa - nonostante tutti i contraccolpi - una
prospettiva per cio' che C. F. von Weizsaecker ha definito 'politica
interna del mondo' [Weltinnenpolitik]" (Die Einbeziehung des Anderen
(1996), tr. it. di L. Ceppa, L'inclusione dell'altro. Studi di teoria
politica, Feltrinelli, Milano 1998, p. 139. L'espressione e' ripresa in J.
Habermas, Die postnationale Konstellation (1998), tr. it. di L. Ceppa, La
costellazione post-nazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia,
Feltrinelli, Milano 1999, pp. 26 e 90-101. Si veda inoltre L. Bonanate,
2001: la politica interna del mondo, in "Teoria politica", XVII, 2001, n.1,
pp. 20-21.
7. T. Hobbes, Leviatano, con testo inglese del 1651 a fronte, tr. it. a cura
di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, cap. XIII, 1, p. 203.
8. Rinvio al mio Per una sfera pubblica del mondo, in "Teoria politica",
XVII, 2001, n. 3, pp. 3-21.
9. L'art.1 del Trattato sugli spazi extra-atmosferici del 27.1.1967
qualifica tali spazi come "appannaggio dell'umanita' intera", imponendone
l'"utilizzazione per il bene e nell'interesse di tutti i paesi, quale che
sia lo stadio del loro sviluppo economico o scientifico". Analogamente, gli
artt. 136-140 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare
del 10.12.1982 affermano che "l'Area (di alto mare) e le sue risorse sono
patrimonio comune dell'umanita'", che "le attivita' nell'Area sono
condotte a beneficio di tutta l'umanita', tenuto particolarmente conto
degli interessi e delle necessita' degli Stati in via di sviluppo" e che va
"assicurata l'equa ripartizione dei vantaggi che ne derivano su base non
discriminatoria". Su queste basi, e' stata proposta una tassazione
internazionale per lo sfruttamento delle risorse minerarie dei fondi
oceanici (cfr. D. E. Marko, A. Kinder, Gentler Moon Treaty: a Critical
Review of the Treaty and proposed Alternative, in "Journal of Natural
Resources and Environmental Law", 1992), nonche' per l'uso delle orbite
satellitari intorno alla terra e delle bande dell'etere (cfr. G. Franzoni,
Anche il cielo e' di Dio. Il credito dei poveri, Edup, Roma 2000, pp.
91-113).
3. RIFLESSIONE. "UNA CITTA'" INTERVISTA DONATELLA DELLA PORTA SUL MOVIMENTO
NEW GLOBAL
[Dalla bella rivista "Una citta'", n. 108 del novembre 2002 (sito:
www.unacitta.it), riprendiamo questa intervista a Donatella Della Porta,
docente all'universita' di Firenze, e attenta studiosa dei movimenti
sociali. Naturalmente non tutti i giudizi qui espressi ci sembrano
condivisibili (ed i lettori sanno che ad esempio per noi l'opposizione alla
violenza e' una discriminante rigorosa, e che certe sottovalutazioni e
ambiguita' anche da parte di autorevoli studiosi ci paiono assai gravi)]
Un movimento, quello new-global, plurale da un punto di vista politico,
delle pratiche quotidiane, della composizione sociale e generazionale. Il
rifiuto della denominazione no-global, in nome di una globalizzazione dal
basso, dei diritti, della democrazia. Un movimento in cui confluiscono anche
vecchie ideologie e si riciclano vecchi gruppi, ma in cui a prevalere sono
comunque gli elementi di novita'.
*
- "Una citta'": Lei sta facendo una ricerca sul movimento new-global. Ci
puo' dire quali sono, secondo lei, le caratteristiche nuove di questo
movimento?
- Donatella Della Porta: Il discorso sulla novita' dei movimenti e' sempre
difficile da affrontare perche' in genere anche i movimenti tendono a
costruirsi sul passato, quindi ci sono senz'altro molti aspetti di
continuita', altrettanto interessanti da mettere in evidenza rispetto agli
elementi di novita'. Dal punto di vista dell'innovazione direi che la
novita' forse piu' rilevante e' la capacita' di mettere in rete, di
collegare delle identita' molto diverse dal punto di vista sia organizzativo
sia di classe sociale, sia generazionale, e che in passato si erano espresse
attraverso movimenti, proteste, strutture organizzative diverse, qualche
volta anche con qualche tensione tra loro. Per esempio, in passato tra il
movimento ambientalista e i sindacati c'erano stati anche momenti di
tensione, quando i temi della protezione dell'ambiente venivano contrapposti
allo sviluppo e all'occupazione. Nel movimento c'e' una grande attenzione al
sud del mondo e ci sono movimenti nel nord del mondo che cercano di
sviluppare un collegamento: da questo punto di vista anche in passato
c'erano movimenti che si dicevano internazionalisti e cercavano di mettere
in collegamento parti del mondo diverse, pero' in questo caso la
consapevolezza che l'azione sui temi della globalizzazione debba essere
globale, mi sembra molto piu' forte. Un altro dato interessante, in
relazione ai movimenti del passato, e' che negli anni Settanta erano emersi
alcuni movimenti, come quello delle donne e quello ecologista, che erano
stati definiti post-materialisti, perche' ritenevano prioritari temi come
quello delle liberta', della difesa della soggettivita' rispetto al problema
della giustizia sociale, che forse sentivano un po' in via di risoluzione.
Adesso invece in questi movimenti si e' creato un ponte, un'interazione tra
i temi classici della sinistra tradizionale, in particolare la giustizia
sociale, e temi che erano stati avanzati da movimenti sociali nuovi, in
particolare la ricerca di forme nuove di democrazia. E' interessante vedere
anche come queste diversita' vengono percepite dall'interno del movimento e
dalle diverse anime e aree in cui il movimento si articola, come una
ricchezza. Anche in passato i movimenti sociali erano stati caratterizzati
dalla compresenza di identita' diverse, pero' c'era stata sempre
un'aspirazione a una unicita', alla ricerca di una struttura organizzativa
unitaria e, soprattutto, di un'identita' unitaria. Ora invece tutto cio'
sembra superato da un'accettazione della molteplicita' come espressione
positiva per il movimento. L'elemento di continuita' che anche la nostra
ricerca ha individuato consiste nel fatto che questo movimento mette insieme
un attivismo, una partecipazione politica, che si erano espressi gia' in
passato. Le persone che abbiamo intervistato, che avevano partecipato alla
manifestazione di Genova o anche ad altre successive, sono persone che
avevano vissuto in passato esperienze in diverse realta' associative, da
quelle di tipo solidaristico, le organizzazioni del cosiddetto terzo
settore, le associazioni di volontariato, ad associazioni legate piu' ai
movimenti sociali, delle donne, dell'ambiente. E questo anche e'
interessante: sempre di piu' le manifestazioni vengono promosse da centinaia
e centinaia di sigle. A Genova la protesta contro il G8 era stata promossa
da un grande cartello di circa 800 organizzazioni. Un aspetto interessante
e' che queste organizzazioni sono anche estremamente eterogenee come forme
d'azione, come strumenti organizzativi, ma riescono - e questa e' una
novita' - a incontrarsi, a mettersi in rete, spesso anche utilizzando la
cosiddetta "rete delle reti", internet, per entrare in contatto,
privilegiando, appunto, un'identita' molteplice ma coordinandosi su alcuni
temi centrali per il movimento.
*
- "Una citta'": Anche una certa confusione, chiamiamola ideologica, si puo'
ricondurre a questa pluralita'? La confusione del nome, ormai evoluto da
"no" a "new", in qualche modo testimonia una complessita' della realta', per
cui si e' tutti un po' amanti delle differenze, ma allo stesso tempo ancora
tutti molto universalisti...
- Donatella Della Porta: Nelle interviste che abbiamo fatto con gli
attivisti ci e' sembrato che emergesse in maniera abbastanza chiara che il
"no" e' una componente molto minoritaria del movimento. Non a caso il
movimento tende a rifiutare l'etichetta di no-global, ma abbiamo notato che
anche gli attivisti tendono a pensare a un'altra globalizzazione, piuttosto
che a una contrapposizione a tutte le forme di globalizzazione. Il "no"
netto e' a un tipo di globalizzazione, cioe' a una globalizzazione
neoliberista, alla globalizzazione dei mercati, che ha voluto dire riduzione
della capacita' della politica di intervenire rispetto alle disuguaglianze
economiche. La percezione che, soprattutto negli anni '80 e '90, la
globalizzazione sia stata sponsorizzata, portata avanti da alcune
organizzazioni internazionali che hanno privilegiato la liberalizzazione
degli scambi rispetto ad ogni obiettivo di sviluppo eco-sostenibile, di
difesa dell'ambiente, ma soprattutto di difesa dei diritti sociali e' un
tema unificante che tiene insieme un'area che va dai gruppi della Rete
Lilliput, alcuni anche vicini a un attivismo di tipo cattolico, ai gruppi
dei centri sociali. Li' c'e' un "no" netto, li' c'e' un'identita' che si
contrappone, e anche delle richieste articolate che si contrappongono a
questa forma di globalizzazione. Pero', per il resto, il movimento e gli
attivisti si percepiscono come attivisti di un mondo globale, dove i
problemi non possano essere affrontati in maniera localizzata, ma collegando
ricerche di soluzioni locali e globali in nome di una globalizzazione dei
diritti. Quindi c'e' anche la consapevolezza che alcuni aspetti della
globalizzazione rappresentano risorse piuttosto che vincoli. La definizione
del movimento "no-global" era presente solo nel 5% dei nostri intervistati.
Nella maggior parte dei casi quello che unificava era la richiesta di una
globalizzazione diversa, di un altro mondo possibile, dove gli slogan, che
sono abbastanza indicativi delle richieste del movimento, sono appunto
"globalizzazione dal basso", "globalizzazione dei diritti", che ancora
riportano a questi due nodi che mi sembrano centrali in questo movimento:
richiesta appunto di giustizia sociale, globalizzazione dei diritti e di
democratizzazione con la ricerca di forme di democrazia nuove.
*
- "Una citta'": A chi esprime diffidenza verso il cosiddetto antagonismo di
alcune parti consistenti del movimento, responsabile in parte dello
"scontro" genovese, altri osservatori replicano: "State attenti perche' c'e'
una novitq', a parte gli antagonisti di professione, la maggior parte delle
persone va alla manifestazione, si contrappone ma poi, rientrando nel
quotidiano, fa delle cose, la bottega dell'equo-solidale, l'associazione, e
li' c'e' la proposta, c'e' il "riformismo" in qualche modo...
- Donatella Della Porta: Intanto bisogna dire che a Genova erano presenti
due tipi di gruppi fra i piu' radicali: da un lato i black block, un gruppo
considerato anche dal movimento come piuttosto esterno, sempre piu'
antagonista anche del movimento stesso, le cui iniziative vengono percepite
come forme di azione sbagliate e con effetti negativi. Invece un'altra
componente, presente e visibile a Genova, che fa parte a tutti gli effetti
della rete, del movimento, e' quella dei "disobbedienti", dei centri
sociali, delle allora "tute bianche". Io credo che ci sia stata
un'evoluzione interessante all'interno dei centri sociali, che li ha portati
progressivamente ad allontanarsi da forme di protesta piu' violente verso
una ritualizzazione simbolica dello scontro, che prevedeva piu' che una
militarizzazione effettiva, lo spostamento a un livello simbolico, quasi
mitologico, del conflitto. E sotto questo profilo credo che sia
un'evoluzione che puo' aiutare una descalation piuttosto che un'escalation
dei conflitti. E dopo Genova credo ci sia ancora piu' attenzione, da parte
del movimento, a evitare di dare un'impressione di un movimento violento.
Per esempio a Firenze questa attenzione e' stata molto forte. Sembrava che
in tutto il movimento, inclusa l'ala dei disobbedienti, ci fosse una
consapevolezza del rischio di farsi percepire come parte di gruppi radicali.
E quindi l'evoluzione che c'e' stata, soprattutto nel corso degli anni
Novanta, ha facilitato una riduzione dell'utilizzazione effettiva della
violenza. Genova, per esempio, avrebbe potuto riavviare un processo di
radicalizzazione, e invece per il movimento e' diventato un campanello
d'allarme: dopo Genova non ci sono stati episodi di radicalismo nelle forme
d'azione. Quindi diciamo che da questo punto di vista ho l'impressione, e
anche i dati che abbiamo raccolto lo confermano, che questo e' un movimento
molto convinto della nonviolenza, sia del valore simbolico piu' profondo,
soprattutto in alcune componenti del movimento che teorizzano la nonviolenza
gandhiana, che definiscono la nonviolenza con la enne maiuscola, ma anche
nelle altre ali del movimento, quelle che non sono convinte della
nonviolenza come valore in se', ma sono fortemente convinte che in questo
momento sia sbagliato, in paesi democratici, utilizzare forme d'azione
radicali. Questo non deve far pensare che i movimenti sociali rinunzino del
tutto a forme di protesta non convenzionali. Cosi', per esempio,
l'occupazione o il cosiddetto smontaggio dei centri di permanenza temporanea
degli immigrati senza documenti sono forme di azione sicuramente non
convenzionali, pero' analoghe, in qualche modo, agli scioperi del passato,
le occupazioni, i blocchi stradali, a forme di protesta, cioe', che, credo
sarebbe molto pericoloso considerare solo sotto il profilo dei problemi di
ordine pubblico. La protesta e' di per se' dirompente, e' di per se'
un'azione che esce dalla routine, pero' ci sono forme di protesta che sono
momenti in cui si cerca di acquisire visibilita', ma una buona gestione
dell'ordine pubblico consiste nel non far degenerare queste forme non
convenzionali in forme d'azione violenta. Io credo che su questo ci sia, sia
da parte delle forze di polizia che da parte dei manifestanti, una certa
pratica che si e' sviluppata negli ultimi due decenni, che a Genova non e'
stata sostenuta, ma che poi mi sembra abbia dato buoni risultati
successivamente, sia a Firenze, che nelle manifestazioni precedenti al
Social Forum Europeo e successive alla contestazione del G8.
*
- "Una citta'": E rispetto al retroterra quotidiano?
- Donatella Della Porta: Questo e' una novita' degli ultimi dieci anni, e il
movimento new-global o globalizzazione dal basso, come lo vogliamo chiamare,
e' riuscito a rendere visibili una serie di esperienze che si erano mosse
soprattutto nell'ambito sociale, delle pratiche dell'obiettivo, di crescita
della consapevolezza, senza, pero', acquisire visibilita' politica: le
banche etiche, il commercio solidale, la proposta di bilanci alternativi, ma
anche la vita quotidiana dei centri sociali, che spesso e' fatta di
attivita' di sostegno a gruppi marginali, attivita' di volontariato sociale.
Diciamo che il passaggio rispetto agli anni Settanta, che e' ancora visibile
nel movimento, e' stata la ricerca di un impegno concreto, anche di forme
d'azione che permettessero di cominciare a cambiare se stessi e il proprio
ambiente, a partire dalla vita quotidiana. Questo c'e' molto, fa parte un
po' dell'esperienza di testimonianza cattolica, ma anche dell'evoluzione di
movimenti come quello delle donne, che avevano sottolineato l'importanza di
cambiare le coscienze, piuttosto che di prendere il potere politico. C'e'
poi un'altra novita' importante, anche se e' in qualche modo un'evoluzione
dei movimenti precedenti: l'attenzione alla formazione di un contro-sapere,
di una nuova cultura, di informazione, che si esprime spesso attraverso i
forum sociali, che sono gigantesche conferenze con relazioni spesso ad alti
livelli di contenuto scientifico, spesso con un linguaggio anche piu' da
addetti ai lavori che da politici. Si privilegia l'attenzione alle
informazioni, al sapere, a non costruire delle grandi ideologie, ma a
costruire partendo da una conoscenza delle cose. Con questo non voglio certo
idealizzare questi incontri, dove c'e' anche molta presentazione di discorsi
identitari, organizzativi, legati a temi ideologici degli anni '60 e '70.
Pero' quello che e' nuovo, che stupisce, e' che nei Forum sociali, i grandi
leader non sono i politici ma piuttosto gli studiosi. Al Forum sociale di
Porto Alegre erano in 3.000 ad aspettare Noam Chomsky, che faceva una
relazione da esperto delle comunicazioni di massa. Anche questo e' un
aspetto abbastanza nuovo rispetto ai movimenti degli anni '60.
*
- "Una citta'": E rispetto alla composizione sociale del movimento?
- Donatella Della Porta: In questi questionari che abbiamo distribuito a
Genova e poi ad altre manifestazioni, alla Perugia-Assisi, e poi adesso al
Social forum europeo, c'era anche una domanda sulla base sociale. Anche li'
la novita' sembra essere la pluralita'. E' un movimento senz'altro
multi-classe. Anche questa e' una novita' rispetto ai tipici movimenti
sociali degli anni Settanta, Ottanta che erano stati dei movimenti
prevalentemente di ceti medi, di nuovi ceti medi, da una parte, e un
movimento sindacale prevalentemente di classe operaia e di ceti medi
dipendenti. Il movimento new-global vede una presenza fortissima di giovani,
e quindi di studenti, con livelli di istruzione elevati, e poi, pero', di
operai, di lavoratori, della nuova classe operaia del lavoro interinale,
magari non manuale, pero' sicuramente estremamente precario. Quindi, dal
punto di vista della base sociale, emerge questa presenza caratteristica
multi-classe e multi-generazionale, che pure e' nuova rispetto al passato.
Al momento sto studiando lo stesso movimento qui in Francia, e stiamo
iniziando una ricerca anche sulla Germania, e questo sembra essere un dato
comune, quindi non solo italiano, ma anche degli altri movimenti in Europa.
*
- "Una citta'": Questo fatto degli adulti e dei giovani insieme fa
impressione. Non c'e' alcun problema generazionale?
- Donatella Della Porta: Infatti, non c'e' scontro generazionale. A Firenze,
oltre al questionario, abbiamo utilizzato un'altra tecnica di ricerca che si
chiama "focus group", quindi con interviste piu' in profondita', piu' utile
proprio per approfondire alcuni temi, l'identita' del movimento in
particolare. E li', per esempio, e' emerso che nei Forum sociali locali sono
presenti almeno cinque diverse generazioni: i giovanissimi, la generazione
universitaria, i settantasettini, i sessantottini, ma poi anche la
generazione degli anni Cinquanta, del dopoguerra. Quindi sono tante le
generazioni compresenti. Non solo padri e figli, come hanno detto i giornali
a proposito di alcune manifestazioni dell'ultimo anno, ma spesso anche i
nonni. Non c'e' conflitto, non sembra emergere conflitto, sembra emergere
piu' dialogo che scontro; mentre per esempio nel '68 c'era stato anche
l'aspetto di una generazione che si contrapponeva a un'altra, questo nel
movimento new-global non c'e'. Certo, c'e' una difficolta' spesso a trovare
un linguaggio, trovarsi, trovare e riuscire a darsi delle strutture di
coordinamento per una base organizzativa cosi' frastagliata, ma ecco,
sicuramente non c'e' una dimensione di conflitto generazionale.
*
- "Una citta'": Per concludere, un movimento come questo ovviamente diventa
anche contenitore di tutto, anche delle vecchie ideologie, un certo
anti-americanismo pregiudiziale, un certo tipo terzomondismo, o le stesse
varie correnti comuniste. Ecco, secondo lei le vecchie storie quanto peso
hanno? O prevalgono gli aspetti di novita'?
- Donatella Della Porta: E' una domanda che si pone spesso qui in Francia,
in maniera anche evidente, perche' molti dei personaggi piu' visibili del
movimento sono persone con un passato nei gruppi trotzkisti, o anche nel
partito comunista francese, che era un partito comunista con un'identita'
particolarmente chiusa. Io ho l'impressione che questo aspetto del
"contenitore" di tante cose differenti si veda anche in Italia. E pero' non
mi sembra l'aspetto piu' dinamico del movimento. Se si guarda nelle
riunioni, non c'e' dubbio che c'e' un po' l'effetto palcoscenico, dove
attivisti di organizzazioni sopravvissute al passato, al riflusso dei
movimenti, di gruppi piu' tradizionali, e spesso burocratizzati, trovano un
momento per ripresentarsi e cercano di entrare, pero' mi sembra che non
esercitino una forte capacita' di attrazione, soprattutto rispetto alle
generazioni nuove. Queste, che rappresentano il numero piu' consistente e
crescente, mi sembra non si facciano condizionare o coinvolgere da questi
possibili rischi di cooptazione. E mi sembra che siano soprattutto loro a
dare il tono al movimento.
4. RILETTURE. NORBERTO BOBBIO: LA MIA ITALIA
Norberto Bobbio, La mia Italia, Passigli, Firenze 2000, pp. 448, euro 11,90.
Quarto volume di profili di maestri ed amici (dopo Italia civile, Maestri e
compagni, Italia fedele); dell'immensa opera di Bobbio le limpide ed intense
testimonianze di questa tetralogia di ritratti sono una delle gemme piu'
belle.
5. RILETTURE. OSCAR CULLMANN: IL NUOVO TESTAMENTO
Oscar Cullmann, Il Nuovo Testamento, Il Mulino, Bologna 1968, 1979, pp. 174.
Una nitida monografia introduttiva, dell'indimenticabile illustre teologo e
straordinario promotore del dialogo.
6. RILETTURE. LU HSUN: FUGA SULLA LUNA
Lu Hsun, Fuga sulla luna, De Donato, Bari 1969, Garzanti, Milano 1973, pp.
XVIII + 478. L'opera piu' propriamente narrativa del grande intellettuale
democratico cinese, con alcuni capolavori assoluti.
7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 504 dell'11 febbraio 2003