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La nonviolenza e' in cammino. 501



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 501 dell'8 febbraio 2003

Sommario di questo numero:
1. Un appello di donne contro la guerra
2. Danilo Zolo, universalismo imperiale e nuovo pacifismo
3. Enrico Peyretti, o la guerra o la legge
4. Giuliana Sgrena, alpini in guerra
5. Il premio "Grazia Zerman"
6. Riletture: Elena Craveri Croce, Poeti e scrittori tedeschi dell'ultimo
Settecento
7. Riletture: Elena Croce, Lo snobismo liberale
8. Riletture: Elena Croce, La patria napoletana
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. APPELLI. UN APPELLO DI DONNE CONTRO LA GUERRA
[Da Cristina Papa (per contatti: cristina@isinet.it), della redazione de "Il
paese delle donne" (sito: www.womenews.net), riceviamo e diffondiamo]
Lunedi' 27 gennaio si e' costituito a Milano il coordinamento di donne
contro la guerra all'Iraq di cui fanno parte 22 associazioni femminili e
femministe.
Pubblichiamo il testo del loro appello.
*
Noi donne di culture e provenienze diverse, impegnate in movimenti,
associazioni, sindacati, partiti avvertiamo con sgomento che mentre cresce
in tutto il mondo l'opposizione alla guerra contro l'Iraq, in pari misura i
suoi preparativi subiscono una accelerazione.
Il governo italiano dichiara di appoggiare Bush nella guerra "preventiva" e
annunciata all'Iraq, ha gia' concesso l'utilizzo delle basi militari e lo
spazio aereo e si schiera con la scelta unilaterale degli Usa, in contrasto
con il voto del parlamento europeo, rendendo cosi' piu' fragile la
possibilita' per l'Europa di svolgere un ruolo in difesa della pace.
Siamo convinte che solo un grande movimento nazionale europeo e mondiale
contro la guerra puo' impedire o limitare i disastri e frenare le dinamiche
della guerra permanente.
Non abbiamo altra possibilita' che continuare a fare cio' che abbiamo fatto
finora: moltiplicare i nostri sforzi e fare del nostro sdegno una passione
di tante.
Organizzarsi come donne e' una delle forme piu' efficaci di resistenza e di
impegno, e' uno dei contributi migliori che le donne possano dare alla causa
comune della pace, e' l'antidoto certo alla cultura militarista, al pensiero
unico, alla globalizzazione neoliberista che produce disuguaglianza,
poverta' e violenza.
Noi siamo convinte che dalle armi e dalla guerra nessuna donna, del sud e
del nord del mondo, puo' trarre alcun vantaggio; ne puo' derivare solo
emarginazione, limitazione della liberta', annichilimento dei diritti, oltre
alle distruzioni e alle sofferenze che in guerra toccano ogni essere umano.
Noi crediamo che ogni guerra porti con se' i germi dell'autoritarismo e
rafforzi percio' le relazioni di potere, compresa quella che fonda il
patriarcato.
Noi critichiamo il ricorso alle armi come strumento per risolvere i
conflitti.
Chiediamo che venga rispettato e applicato l'articolo 11 della Costituzione
italiana che vieta la partecipazione diretta del nostro paese ad azioni di
guerra.
Per questi motivi ci costituiamo in coordinamento di donne contro la guerra.
Aderiamo e invitiamo le donne a partecipare alla manifestazione del 15
febbraio a Roma. Proponiamo che nel corteo le donne si ritrovino insieme per
rendere visibile il no delle donne alla guerra in Iraq.
*
Firmano: Marcia mondiale delle donne, Arcilesbica, Libera Universita' delle
Donne, Forum delle donne del Prc, Donne in nero, Sconvenienti, Unione
femminile nazionale, Associazione Crinali, Cooperativa Crinali, Effe Rossa
PdCi, Osservatorio sul lavoro delle donne, Coordinamento Donne DS, Donne di
Italia dei Valori, Iemanja', Donne e futuro, Emily Milano, Collettivo Donne
e diritto, Donne di Miracolo a Milano, Verdi, Le Girandole, Girotondi,
Movimento cittadine dal mondo.
Per contatti e adesioni: rocalderazzi@libero.it

2. RIFLESSIONE. DANILO ZOLO: UNIVERSALISMO IMPERIALE E NUOVO PACIFISMO
[Da "La rivista del manifesto" n. 32 dell'ottobre 2002 (sito:
www.larivistadelmanifesto.it) riprendiamo questo intervento di Danilo Zolo;
nato a Fiume (Rijeka) nel 1936, illustre giurista, e' docente di filosofia e
sociologia del diritto all'Universita' di Firenze. Tra le sue opere
segnaliamo almeno: Stato socialista e liberta' borghesi, Laterza, Bari 1976;
Il principato democratico, Feltrinelli, Milano 1992; (a cura di), La
cittadinanza, Laterza, Roma-Bari 1994; Cosmopolis, Feltrinelli, Milano 1995;
Chi dice umanita', Einaudi, Torino 2000]
1. La crisi del pacifismo
I In due recenti interventi su "La rivista del manifesto" e su "Liberazione"
Raniero La Valle ha denunciato la crisi dei movimenti pacifisti in Europa,
si e' interrogato sulle ragioni della crisi e ha proposto un'alternativa
"politica" alle tradizionali forme di espressione del pacifismo militante,
incluse le forme classiche dell'obiezione di coscienza (1).
Che oggi il pacifismo, nelle sue varie espressioni e ispirazioni, sia in
crisi e' difficile negare. A partire dalla fine degli anni ottanta del
secolo scorso, dopo la conclusione della "guerra fredda", abbiamo assistito
a un ricorso crescente alla forza militare, quasi esclusivamente da parte
delle grandi potenze occidentali: l'occupazione di Panama per il controllo
del canale, la guerra del Golfo, l'invasione di Haiti, gli interventi
militari in Somalia e in Ruanda, le due guerre nei Balcani, l'Afghanistan.
Nel corso di questi conflitti centinaia di migliaia di persone innocenti
hanno perso la vita, sono state mutilate o ferite, hanno visto distrutti i
loro affetti e i loro beni. Altre centinaia di migliaia di civili sono morti
per fame o per malattie a causa di embarghi imposti dall'Occidente, primo
fra tutti quello contro l'Iraq. Quasi nulle, invece, le perdite militari
occidentali. A questo flagello vanno aggiunti l'etnocidio in atto del popolo
palestinese da parte dello Stato di Israele e delle lobbies statunitensi che
appoggiano la politica di quel governo, le continue violenze usate contro i
ceceni, i curdi e i tibetani e, infine, le atrocita' del terrorismo
internazionale. All'escalation di odio, di dolore, di distruzione e di morte
ha corrisposto l'inerzia o l'impotenza delle istituzioni internazionali che
dovrebbero operare per la pace, anzitutto delle Nazioni Unite. "Le Nazioni
Unite sono fallite", ha dichiarato senza mezzi termini Pietro Ingrao in una
recente intervista apparsa su "Liberazione" (2). Sembra difficile dargli
torto.
Nel caso della guerra per il Kosovo e della guerra in Afghanistan -
quest'ultima tuttora in corso - le potenze occidentali hanno usato la forza
militare ignorando il diritto internazionale e violando i diritti piu'
elementari delle persone. Il bombardamento della televisione di Belgrado, la
strage di Mazar-i-Sharif, il lager di Guantanamo sono esempi di un uso
criminale della forza internazionale che nessuna Corte penale internazionale
avra' mai il potere di sanzionare. E, dopo l'attentato terroristico subito
l'11 settembre, gli Stati Uniti hanno elaborato una teoria militare e
inaugurato una pratica bellica che presentano aspetti eversivi non solo
della Carta delle Nazioni Unite ma anche del diritto internazionale
generale: si pensi al carattere preventivo, unilaterale, spazialmente
indefinito e temporalmente indeterminato della "nuova guerra" contro l'"asse
del male" (3).
Di fronte a questo panorama, che la probabile aggressione contro l'Iraq
rende ancora piu' allarmante, e' doloroso registrare l'inefficacia sia dei
movimenti pacifisti ispirati alla mitezza evangelica o alla nonviolenza
gandhiana, sia del cosiddetto "pacifismo giuridico". Da Kelsen a Bobbio, a
Habermas il "pacifismo giuridico" ha puntato sul diritto e sulle istituzioni
internazionali come su strumenti decisivi, se non addirittura esclusivi, per
la realizzazione della pace e per la tutela dei diritti fondamentali. Mai
come oggi, tuttavia, la formula kelseniana - "peace through law" - e'
apparsa un nobile sogno illuministico, con il suo ottimismo normativo e il
suo candido universalismo cosmopolitico (4).
Si puo' aggiungere che la sola autorita' internazionale che nelle sue
esternazioni pubbliche usa ancora riferirsi al tema della pace e' il
pontefice romano. Ma i suoi interventi non sono che generici appelli alla
buona volonta' dei capi di Stato, e si tratta di appelli che per di piu'
mancano di coerenza e di credibilita'. Per un verso permane nella
predicazione del pontefice il riferimento alla dottrina medievale della
"guerra giusta". Durante il Giubileo dei militari e delle forze di polizia -
celebrato in San Pietro, a Roma, nel novembre del 2000 - il pontefice ha
approvato l'"ingerenza umanitaria" della Nato contro la Repubblica federale
jugoslava. Per un altro verso, dal punto di vista di gran parte delle
culture e delle religioni non occidentali, il magistero della Chiesa
cattolica viene associato alle convenienze strategiche delle potenze
occidentali e agli interessi del mondo capitalistico, al quale
l'organizzazione ecclesiastica e' legata sul piano finanziario. E' ovvio che
anche l'ecumenismo spettacolaristico dei molti viaggi del pontefice puo'
essere visto come il contrappunto "spirituale" del processo di
occidentalizzazione del mondo e dell'espansione globale dei mercati.
Se le cose stanno cosi', La Valle ha buone ragioni per sentirsi deluso dal
"vecchio pacifismo", anche se a lui, credente, non viene meno la convinzione
consolatoria - la speranza teologale - che alla fine il "piano di Dio" si
avverera' storicamente, assieme all'unificazione della "famiglia umana" e
alla pace perpetua fra gli uomini (5).
*
2. L'universalismo imperiale
Secondo La Valle il pacifismo e' in crisi perche' nel corso dell'ultimo
decennio e' mutato il fenomeno della guerra. Nella percezione di questo
mutamento i movimenti pacifisti si sono mostrati lenti di riflessi culturali
e politici. Il fenomeno della guerra e' mutato, sostiene La Valle, perche'
la guerra oggi ha assunto una funzione discriminatrice fra due mondi
contrapposti: quello dei ricchi e potenti, da una parte, quello dei poveri e
deboli, dall'altra.
Un quinto dell'umanita' globalizzata - sostiene La Valle, riecheggiando una
tesi di Zygmunt Bauman - e' schierato contro gli altri quattro quinti, in
una vera e propria "secessione" dall'unita' della famiglia umana (6). La
guerra e' necessaria alle elites del nuovo potere globale per puntellare con
la forza la loro "extraterritorialita'" secessionista. Questa e' la "grande
novita' politica dell'ultimo decennio" e tale novita' ha cancellato la
prospettiva pacifista e cosmopolitica disegnata nel secondo dopoguerra dalla
Carta delle Nazioni Unite. Assistiamo cosi' ad una inedita "rottura
dell'unita' del mondo" e questa rottura, con la sua "antropologia della
divisione", induce una trasformazione anche dei fini e delle forme della
guerra.
Lo schema dualistico proposto da La Valle pone in evidenza alcuni aspetti
vistosi delle relazioni internazionali dopo il crollo dell'impero sovietico
e la fine del bipolarismo. Sottolinea in particolare la netta polarizzazione
nella distribuzione della ricchezza oggi in atto a livello planetario. Come
ha rilevato John Galbraith nella prefazione allo Human Development Report
delle Nazioni Unite del 1998, il 20% della popolazione mondiale piu' ricca
si accaparra l'86% dei consumi mondiali, mentre il 20% piu' povero consuma
l'1,3% di tutti i beni e servizi prodotti. E la diseguaglianza di reddito
fra i due estremi della piramide della stratificazione sociale e' tuttora in
forte accelerazione, dopo che si e' piu' che triplicata negli ultimi
quarant'anni (7). Questo e' certamente un dato di grande rilievo per
cogliere le ragioni dei conflitti che oggi insanguinano il mondo, non
esclusi alcuni aspetti del "global terrorism".
E tuttavia lo schema tracciato da La Valle non coglie a mio parere la
dinamica profonda delle trasformazioni in atto. In proposito condivido
l'opinione espressa da Rossana Rossanda su questa rivista (8). Secondo
Rossanda l'attuale modello politico ed economico di "governo del mondo" e'
di natura inclusiva e non esclusiva, e' tendenzialmente monistico e non
dualistico. Questo e' un punto teorico-politico cruciale, che richiederebbe
un'ampia, accuratissima riflessione. Giulietto Chiesa, in La guerra
infinita, ha offerto alcuni elementi importanti per l'avvio di una
riflessione di questo tipo (9). Personalmente ho tentato un minimo
approfondimento del tema discutendo con Antonio Negri le tesi di Empire
(10), tesi alle quali anche Rossanda fa riferimento.
Cio' che si puo' tentare di dire in poche righe e' anzitutto che
l'istituzione delle Nazioni Unite non dovrebbe essere interpretata come una
sorta di rottura epocale rispetto all'"ancien regime" del sistema di
Vestfalia, dominato dalla logica anarchica della sovranita' degli Stati e
dalla guerra. La Valle sostiene che la Carta delle Nazioni Unite e la
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del '48 avevano avviato "la
grande costruzione della comunita' democratica delle nazioni" (11). Questa
e' secondo me una rappresentazione assai poco realistica della genesi
storica delle Nazioni Unite.
In realta', si e' trattato di una vicenda che ha visto le potenze vincitrici
del secondo conflitto mondiale impegnate nel tentativo di concentrare nelle
proprie mani la totalita' del potere internazionale. Esse si sono attribuite
le prerogative di un'amplissima sovranita', nel momento stesso in cui
limitavano la sovranita' degli Stati deboli e periferici. Come ha osservato
Hans Morgenthau, la Carta delle Nazioni Unite, grazie alla sua stretta
parentela con i principi della Santa Alleanza, e' stata l'espressione e il
compimento di una visione gerarchica e autoritaria dei rapporti
internazionali (12). E' stata un compimento anche nel senso che per la prima
volta un documento internazionale, attribuendo alle cinque potenze
vincitrici del conflitto mondiale il plusvalore giuridico del potere di
veto, ha sancito in termini formali la diseguaglianza fra gli Stati e fra i
loro cittadini. In questo modo e' stato violato un principio fondamentale
del diritto moderno, quello della eguaglianza dei soggetti di diritto.
Se si condivide il giudizio di Pietro Ingrao, secondo il quale le Nazioni
Unite sono una istituzione ormai fallita, allora sarebbe prova di lucidita'
intellettuale e di coraggio politico domandarsi, assieme a lui, se nella
loro struttura "c'era uno sbaglio in radice" e se ha ancora senso "porsi la
questione di un'assemblea e di una dirigenza mondiale" (13). Meno lucido e
coraggioso e', a mio parere, continuare a riferirsi alle Nazioni Unite come
a una sorta di patto fondativo fra i popoli per la creazione di un ordine
mondiale universale e pacifico, e magari attardarsi nell'accademico
esercizio delle proposte di una loro "riforma democratica", che realizzi
"l'unita' della famiglia umana".
In secondo luogo, e questo e' il punto centrale, la storia del diritto e
delle relazioni internazionali mostra che l'ordine internazionale ha sempre
presentato - nell'area mediorientale e mesopotamica, in Europa, in
Occidente - un carattere "spazialmente discriminatorio", ben lontano
dall'idea dell"unita' morale e dell'eguaglianza giuridica dei membri della
specie umana. A partire dagli ordinamenti internazionali antichi sino allo
jus gentium romano, al sijar islamico e alla dottrina cattolica del bellum
justum, la regolazione giuridico-consuetudinaria dei rapporti
internazionali - e la limitazione della guerra - e' stata applicata soltanto
entro lo spazio della "civilta'" (ebraica, greca, imperiale, cristiana,
arabo-islamica, moderna, ecc.) con l'esclusione rigorosa dei "barbari"
(gentili, idolatri, infedeli, turchi, neri, selvaggi, cannibali, pirati,
ecc.) (14). I "barbari" erano considerati estranei all'ordinamento giuridico
ed erano quindi privi di qualsiasi diritto. In caso di guerra la loro vita,
i loro beni e le loro istituzioni non meritavano alcun rispetto.
A questa regola "spaziale" non ha fatto eccezione la seconda scolastica,
inclusa la troppo celebrata dottrina di Francisco de Vitoria (15). La
scolastica spagnola ha giustificato lo sterminio dei nativi americani o
riproponendo la dottrina aristotelica del carattere naturale della
schiavitu' - il francescano Juan Gines de Sepulveda, fra gli altri - o
qualificando come justa causa belli il diritto degli imperi iberici di
diffondere la verita' cattolica nel nuovo mondo.
E neppure lo jus publicum europaeum, come Carl Schmitt ha contribuito a
mostrare, ha fatto eccezione a questa regola di "rottura" politica e
giuridica dell'unita' del mondo. Anzi. Il carattere spaziale-territoriale
del sistema vestfaliano degli Stati sovrani diviene, fra Ottocento e
Novecento, il fondamento del "diritto coloniale". Fonda cioe' il "doppio
standard" normativo, praticato da tutti gli "Stati di diritto" europei nei
territori coloniali con il beneplacito della Chiesa cattolica e delle chiese
riformate, impegnate nella loro secolare opera di proselitismo missionario
all'ombra delle armi. Questa situazione discriminatoria - "secessionista",
direbbe La Valle - tende a mutare soltanto con il declino dell'Europa come
potenza coloniale e come centro riconosciuto della terra. Muta, cioe', con
la dissoluzione dello jus publicum europaeum e con l'espansione della
cosiddetta "societa' internazionale' in nome dell'universalismo ginevrino
(16).
Tutto cio' accade a partire dai primi decenni del secolo scorso, grazie ad
una serie molto complessa di fattori politici ed economici, fra i quali
spiccano l'emergere della potenza degli Stati Uniti e del Giappone, la
diffusione della tecnologia, dell'informazione e degli stili di vita
occidentali, la liberta' dei commerci e del traffico marittimo e, non
ultima, l'introduzione delle armi di distruzione di massa. In sintonia con
questi processi il diritto internazionale assume le caratteristiche di un
ordinamento giuridico indifferenziato e le istituzioni internazionali -
politiche ed economiche - si aprono ad una spazialita' generale-universale.
Questo vale per la Societa' delle Nazioni e varra' soprattutto per le
Nazioni Unite, che affermeranno nello stesso tempo il loro universalismo
cosmopolitico - despazializzato - e l'intento di gestire l'ordine globale in
forme gerarchico-autoritarie.
E' nel corso di questi decenni che gli Stati Uniti, sull'onda dell'idealismo
wilsoniano, rilanciano la nozione di "guerra giusta", propongono l'idea
della responsabilita' individuale per i crimini di guerra e scoprono la loro
vocazione all'intervento universalistico-umanitario in tutto il globo (17).
Alla fine del secolo questa vocazione trovera' una formulazione teorica
nella negazione del principio vestfaliano del rispetto della sovranita'
degli Stati e della non ingerenza nella loro "domestic jurisdiction", e si
esprimera' concretamente nelle guerre balcaniche e in particolare nella
guerra per il Kosovo.
E' nel contesto di questo complesso di fenomeni che, a mio parere, ha inizio
il processo che oggi chiamiamo "globalizzazione" e che riteniamo abbia
conosciuto una forte accelerazione nell'ultimo decennio del secolo scorso,
dopo il collasso dell'impero sovietico e l'affermazione degli Stati Uniti
come la sola super-potenza del pianeta, dotata in ogni campo di una
supremazia soverchiante rispetto al resto del mondo. Ebbene - ecco il punto
cruciale - a mio parere non si puo' sostenere che il processo di
globalizzazione egemonica, guidato dagli Stati Uniti, sia un processo
"discriminatorio e secessionista", nel senso che La Valle sembra attribuire
a questi termini: nel senso, cioe', che saremmo in presenza di una "nuova
guerra" condotta da una potente elite di privilegiati contro il resto del
mondo. La guerra sarebbe motivata dalla elementare constatazione che, data
la scarsita' delle risorse globali, solo una piccola parte dell'umanita'
(solo i ricchi e forti) puo' trovare uno "spazio vitale" sul pianeta, mentre
tutti gli altri - e sono miliardi - dovrebbero essere uccisi o lasciati
morire, visto che non e' stato possibile impedirne la nascita (18).
Nonostante il suo realismo radicale questa interpretazione non mi sembra
soddisfacente. In realta', la dinamica economica e politica dei processi di
globalizzazione mi sembra quella dell'integrazione universalistica, e non
del trinceramento bellicista e dell'esclusione. Persino la Cina e' in questo
momento oggetto piu' di strategie diplomatiche di carattere inclusivo (di
accoglienza nel Wto, ad esempio) che non di esclusione, nonostante che molti
analisti statunitensi avvertano sempre piu' il rischio di un suo prossimo
"secessionismo". Il mondo intero e' coinvolto in processi di integrazione
regionale e globale, e in generale la deriva strategica che accomuna sia i
grandi potentati economici, sia le centrali politiche della governance
statunitense va in una direzione "umanitaria" e cosmopolitica, all'insegna,
appunto, dell'unita' del genere umano.
Certo, la "nuova guerra" deve essere usata dalla superpotenza americana come
una protesi indispensabile della "stabilita' egemonica globale". La guerra
non e' tuttavia concepita dall'opinione pubblica statunitense come un valore
o come un fine: la vita - e il successo nella vita - e' al vertice
dell'individualismo americano. Non si puo' neppure parlare, a rigore, di una
vocazione bellicista delle elites politiche statunitensi, per quanto esse si
mostrino sempre piu' inclini, come ha disinvoltamente riconosciuto Robert
Kagan, a usare la forza senza scrupoli etici o vincoli giuridici in un mondo
che essi giudicano "hobbesianamente anarchico" (19). In realta', come
Michael Hardt e Antonio Negri hanno sostenuto in Empire, sia pure in termini
a mio parere largamente criticabili (20), si tratta di chiedersi se non ci
troviamo in presenza della reincarnazione globalista di un sistema politico
"imperiale". Questo e' secondo me il punto decisivo.
I grandi imperi del passato hanno sempre definito un'area geografica per la
quale rivendicavano "speciali interessi" e che andava molto oltre il loro
stretto ambito territoriale. Questo spazio era politicamente e
giuridicamente precluso all'ingerenza e all'influenza di altre potenze. Oggi
il potere "globale" degli Stati Uniti presenta una gravitazione espansiva di
tipo analogo: con la differenza che in questo caso l'area degli "special
interests" coincide con il pianeta e include, oltre al territorio terrestre,
gli oceani, il cielo e, sempre piu', anche lo spazio extraterrestre, oggetto
di una graduale militarizzazione.
L'universalismo potenziale degli imperi classici sembra assumere oggi
un'attualita' concreta. Gli Stati Uniti, impegnati come sono a promuovere,
in quanto global power, l'ordine politico e lo sviluppo economico mondiale,
svolgono un ruolo realmente "universale". Essi adempiono funzioni di
pacificazione armata, di arbitrato e di diplomazia coercitiva che riguardano
il mondo intero. E per assicurare lo sviluppo e l'espansione globale
dell'economia di mercato, gli Stati Uniti garantiscono a tutte le potenze
industriali l'accesso alle risorse energetiche, si fanno garanti della
generale liberta' degli scambi e della stabilita' dei mercati finanziari e,
infine, fanno della propria moneta la valuta di riserva di tutti i paesi del
mondo (21).
Che poi l'economia di mercato, pantografata a livello globale, produca
effetti di crescente sperequazione economica e' del tutto ovvio, perche' -
come ha osservato puntualmente Rossana Rossanda (22) - cio' e' intrinseco ad
un modo di produzione che deve la sua innegabile efficienza proprio al fatto
di fondarsi sulla diseguaglianza e sulla competizione asimmetrica. La
poverta', le malattie epidemiche, le catastrofi ambientali sono, come
direbbe il Presidente del consiglio italiano, "inconvenienti" non voluti e
non desiderati, sia a livello mondiale, sia all'interno dei paesi piu'
ricchi e potenti. Cosi' come non e' certo auspicato l'uso dell'armamento
nucleare, al quale pure gli Stati Uniti continuano a destinare imponenti
risorse finanziarie nel quadro di un costante aumento della spesa militare.
Il bilancio preventivo per il 2003 ha raggiunto il vertice di circa 380
miliardi di dollari, cifra che corrisponde a due volte e mezzo la spesa
militare complessiva di tutti gli altri paesi del mondo. Questo dato puo'
essere assunto come il piu' vistoso indice empirico del carattere egemonico
del presente "ordine mondiale" (23).
La coercizione politica e militare viene esercitata dall'amministrazione
statunitense non contro i paesi poveri e deboli (non viene certo usata
contro l'Africa subsahariana, ad esempio), ma contro i possibili fautori di
una destabilizzazione secessionistica, contro i paesi che attorno all'idea
di uno sviluppo nazionale o regionale si propongano di sfidare l'"America's
global leadership role". Su questo punto il recente documento del
Dipartimento di Stato, Quadriennial Defence Review Report, redatto molto
probabilmente sotto la direzione di Paul Wolfowitz, e' del tutto esplicito
(24). Sostiene la necessita' di irrobustire e aumentare di numero le basi
militari statunitensi, che sono gia' quasi un migliaio, sparse in tutto il
mondo. E' necessario soprattutto concentrarle nelle aree in cui possono
emergere potenze ostili agli Stati Uniti: "precluding hostile dominations of
critical areas". Queste "aree critiche" vengono individuate nel continente
asiatico: dal Medio Oriente all'Asia centrale, al Golfo del Bengala, al Mar
del Giappone e alla Corea, lungo quello che il documento chiama East Asian
Littoral, includendovi la Cina e l'Asia del Sud-est.
La stessa sistematica violazione del diritto internazionale, l'emarginazione
delle Nazioni Unite, la creazione e il controllo di Tribunali penali
internazionali ad hoc, il sabotaggio della nuova Corte penale
internazionale, l'oppressione del popolo palestinese corrispondono a precise
esigenze funzionali: l'autorita' "imperiale" degli Stati Uniti amministra la
giustizia globale, definisce i torti e le ragioni dei sudditi, pone le
condizioni dell'inclusione degli Stati nel novero dei vassalli fedeli o,
invece, dei "rogue states", svolge funzioni di polizia internazionale contro
il terrorismo, appiana le differenze e gestisce le controversie locali
(persino la contesa fra Spagna e Marocco per l'"isoletta del prezzemolo"!).
In poche parole: gli Stati Uniti operano per la pace e la giustizia
internazionale. Il loro potere "imperiale" e' addirittura invocato dai
sudditi per la sua capacita' di risolvere i conflitti da un punto di vista
universale, e cioe' imparziale e lungimirante. D'altra parte le
differenziazioni spaziali proprie del sistema politico e giuridico
vestfaliano sono ormai superate, inclusa la discriminazione colonialista e
lo stesso "diritto coloniale". Al suo posto, l'Occidente celebra
l"universalita' della dottrina dei diritti dell'uomo e giunge, in suo nome,
persino a organizzare "guerre umanitarie" e a dar vita a Tribunali penali
internazionali ad hoc.
Ma perche' tutto questo si realizzi occorre che il "potere imperiale" sia
legibus solutus: un imperatore decide di volta in volta i singoli casi, ma
non fissa regole generali, ne' si impegna al rispetto di regole generali. Il
potere imperiale e' incompatibile sia con il carattere generale e astratto
della legge, sia con l'eguaglianza formale dei soggetti dell'ordinamento
internazionale. Ed e' significativo, che oggi venga riproposta con forza nel
mondo anglosassone la dottrina del bellum justum. Si tratta di una dottrina
medievale, tipicamente imperiale, che suppone l'esistenza di un potere e di
una autorita' al di sopra delle parti. Esemplare in questo senso e' il
documento dei sessanta intellettuali statunitensi, guidati dal filosofo e
sostenitore della politica israeliana militante Michael Walzer, che ha
sponsorizzato come just war la guerra degli Stati Uniti contro l'"asse del
male" (25). L'attivita' di polizia internazionale che la potenza egemone
svolge usando mezzi di distruzione di massa - "police bombing" - richiede un
potenziamento della persuasione comunicativa, fondata su argomenti morali e
umanitari.
In poche parole: l'attuale costituzione del mondo e' tendenzialmente
inclusiva, omologante e universalistica, ed e', almeno in linea di
principio, pacifista e cosmopolitica, non "secessionista" (come lo era
invece, ad esempio, il nazionalista, bellicista e razzista Terzo Reich).
Cio' non esclude, naturalmente, che gli Stati Uniti siano "costretti" a
usare la forza delle armi per garantire un ordine pacifico, stabile e
universale: contro il global terrorism, contro i rogue states, contro le
"forze del male" che rifiutano la democrazia, lo Stato di diritto e
l'economia di mercato. E tutto cio' non esclude, altrettanto ovviamente,
l'"inconveniente" globale della crescente sperequazione nella allocazione
della ricchezza. La grande novita" dell'ultimo decennio, insomma, e' la
tendenziale unificazione del mondo sotto l'egemonia "imperiale" degli Stati
Uniti e non, come sostiene Raniero La Valle, la "rottura dell'unita' del
mondo".
*
3. Un pacifismo "secessionista"
Se lo schizzo analitico che ho sopra proposto e' minimamente plausibile,
allora sono chiare le ragioni che hanno messo in crisi il vecchio pacifismo
e i suoi metodi di lotta. Per i movimenti pacifisti tradizionali la pace era
minacciata dalla sovranita' degli Stati nazionali, a causa del loro
nazionalismo e militarismo. Penso ad esempio all'obiezione di coscienza
contro la leva militare obbligatoria. Durante la fase della guerra fredda e
dell'"equilibrio del terrore" sotto accusa erano soprattutto gli Stati
dotati di armamento nucleare, schierati con l'uno o con l'altro dei due
blocchi contrapposti. Oggetto di contestazione era il loro crescente
armamento missilistico e nucleare (e i loro esperimenti atomici), che
sottraeva irrazionalmente risorse allo sviluppo civile dell'umanita'. Si
denunciava la loro riluttanza a stringere accordi internazionali per il
disarmo, la coesistenza pacifica, la collaborazione fra i popoli. Si
trattava essenzialmente di una testimonianza morale - di una "obiezione di
coscienza", appunto - per lo piu' legata a convinzioni religiose di tipo
universalistico, rivolta contro il particolarismo bellicista degli Stati.
Sia in pensatori laici come Aldo Capitini, Johan Galtung o Norberto Bobbio,
sia in autori religiosi come Ernesto Balducci, Lorenzo Milani o Giorgio La
Pira - per non parlare dei "maestri" come Tolstoi e Gandhi - l'idea della
pace aveva un'intonazione cosmopolita e messianica, normalmente poco incline
a calarsi nella lotta politica quotidiana. Coincideva in sostanza con il
progetto kantiano del superamento di ogni conflitto e di ogni guerra
interstatale e della realizzazione di una pace perpetua e universale che
rispecchiasse l'unita' spirituale del genere umano.
Se le cose stanno cosi', allora La Valle ha, nello stesso tempo, ragione e
torto. Ha ragione nel criticare il vecchio pacifismo per il suo debole
spessore politico e per il suo ambiguo neutralismo nel valutare le
responsabilita' dei singoli conflitti armati (le marce della pace
Perugia-Assisi con la partecipazione di Massimo D'Alema sono state davvero
un esempio clamoroso in questo senso). Ma a mio parere La Valle, nonostante
la bonta' di molti suoi argomenti, ha torto perche' propone un "nuovo
pacifismo" che si differenzia troppo poco dal "vecchio". La Valle muove da
una visione dell'attuale situazione mondiale - "la rottura dell'unita' del
mondo" -, che mi sembra ancora troppo ancorata ad una filosofia della storia
di tipo etico-metafisico e religioso.
Io penso che un pacifismo "politico" e "laico" - in una parola, realistico -
non dovrebbe avere piu' nulla a che fare con il paradigma, mistico e
imperiale nello stesso tempo, della "pace perpetua" e dell'"unita'
spirituale dell'umanita'". E sono queste assunzioni "ecumeniche", per cosi'
dire, che a mio parere impediscono a La Valle di percepire la profonda
novita' che si e' affermata a livello globale dopo la fine della guerra
fredda: l'avvento di una costituzione del mondo tendenzialmente "imperiale"
e la subordinazione degli Stati nazionali (medi e piccoli), un tempo
sovrani, al potere globale degli Stati Uniti.
Secondo La Valle il nuovo pacifismo dovrebbe impegnarsi in una sistematica
obiezione di coscienza "politica" contro ogni forma di "secessionismo": fare
"obiezione contro tutto cio' che divide, che discrimina, che rompe l'unita'
della societa' umana". A contrario, ogni processo di integrazione -
politica, economica, culturale - andrebbe assecondato come prodromo della
realizzazione della meta ultima e del valore supremo dell'unita' della speci
e umana. La proposta e' suggestiva e non manca di alcune implicazioni
importanti, come l'idea di una obiezione di coscienza "politica" contro le
leggi razziste e segregazioniste, che in Italia e altrove discriminano gli
stranieri extracomunitari.
In generale, tuttavia, il progetto di La Valle non mi sembra persuasivo se,
come io penso, operare per la pace in termini realistici oggi significa
perseguire due finalita' essenziali: a. creare le condizioni politiche ed
economiche generali che impediscano - o rendano poco conveniente - agli
Stati Uniti (e alle potenze occidentali loro alleate) l'uso arbitrario della
forza; b. bloccare e invertire gradualmente il processo in atto, che porta
ad un aumento costante della sperequazione distributiva della ricchezza a
livello globale.
Se, sulla base di questi due semplici criteri, dovessi proporre a mia volta
uno schema elementare - un'esile traccia congetturale da sottoporre a severi
controlli - direi che si tratterebbe di mettere a fuoco una strategia
pacifista in qualche modo inversa a quella indicata da La Valle: una sorta
di "pacifismo secessionista". Occorrerebbe opporsi a tutto cio' che, entro
la "logica imperiale", ha l'effetto di omologare, unire, sedare,
"pacificare", orientare verso una meta cosmopolitica e universalistica.
L'obiettivo dovrebbe essere quello di sottrarre consenso alla prospettiva di
un "governo imperiale" del mondo e, nello stesso tempo, di operare perche'
alla gerarchia unipolare delle relazioni internazionali si sostituisca
gradualmente un assetto pluralistico: un "pluriverso" di grandi aree di
civilta' in interazione il piu' possibile pacifica, anche se competitiva,
fra di loro. Un regionalismo multipolare, ad esempio, potrebbe essere capace
di ridurre - se non certo di bilanciare perfettamente ed eliminare -
l'asimmetria delle forze oggi in campo e sconfiggere l'aggressivo
unilateralismo degli Stati Uniti.
Andrebbe fra l'altro tenuto presente che un assetto mondiale policentrico e'
la condizione perche' il diritto internazionale possa svolgere una minima
funzione di contenimento delle conseguenze piu' distruttive delle "nuove
guerre". Perche' un sistema normativo internazionale possa esercitare
effetti di ritualizzazione e di contenimento dell'uso della forza - di una
sua sottomissione a procedure predeterminate e a regole generali - la
condizione e' che nessun soggetto dell'ordinamento possa, grazie alla sua
potenza soverchiante, considerarsi ed essere considerato dalla comunita'
internazionale legibus solutus. Occorre, in altre parole, impedire che si
affermi una "costituzione imperiale" del mondo.
Per rendere piu' esplicita e, mi auguro, piu' plausibile la mia posizione
aggiungo un solo esempio concreto: quello del rapporto fra il processo di
unificazione europea e la pesante influenza che su questo processo gli Stati
Uniti esercitano da decenni. La realizzazione di un mondo meno violento,
meno spietato e discriminatore passa probabilmente (anche) per la
"secessione europea" dalla sua attuale lealta' e subalternita' atlantica. Su
questo tema, come e' noto, e' in corso un dibattito di estremo interesse,
recentemente ravvivato da un saggio molto aggressivo del politologo
statunitense Robert Kagan. A parere di Kagan, e di molti osservatori europei
e statunitensi, stanno aumentando le ragioni di un "dissenso strategico" fra
le due sponde atlantiche. Stati Uniti ed Europa si dividono su un numero
crescente di questioni, soprattutto su temi come il dissesto ecologico del
pianeta, il rispetto del diritto internazionale, le forme di lotta da
adottare contro il terrorismo internazionale, i rischi connessi alla guerra
contro l'Iraq, la nuova Corte penale internazionale (Icc). Se il dissenso
transatlantico si fara' piu' acuto, minaccia con toni imperiali Robert
Kagan, gli Stati Uniti saranno costretti a svolgere la loro funzione di
guardiano armato del mondo senza tenere in minimo conto le opinioni dei
leader politici europei (26).
Personalmente non ho dubbi che il primo compito di un movimento pacifista
europeo davvero "nuovo" e "politico" sarebbe quello di mostrare come
un'Europa affrancata dal soffocante abbraccio atlantico - un'Europa
"secessionista", e cioe' meno occidentale, piu' "orientale" e soprattutto
piu' mediterranea - potrebbe svolgere una funzione di ridimensionamento
della supremazia degli Stati Uniti. Una forte autonomia e identita' europea
potrebbe alla fine favorire una riduzione dell'uso arbitrario della forza
internazionale e attenuare l'oppressione dei popoli piu' deboli e poveri, a
cominciare da quello palestinese.
*
Note
Desidero ringraziare Orsetta Giolo, Gustavo Gozzi, Stefano Pietropaoli,
Eugenio Ripepe e Filippo Ruschi per i loro commenti critici a una prima
versione di questo mio testo.
1. Raniero La Valle, Un nuovo pacifismo, "La rivista del manifesto", n. 29,
giugno 2002, pp. 30-34; R. La Valle, La secessione dal mondo, "Liberazione",
9 giugno 2002.
2. Pietro Ingrao, Il potere delle armi e le armi del potere, "Liberazione",
2 giugno 2002.
3. Giulietto Chiesa, La guerra infinita, Feltrinelli 2002.
4. Hans Kelsen, Peace trough Law, The University of North Carolina Press,
1944.
5. Raniero La Valle, La secessione, cit.
6. Zygmunt Bauman, Voglia di comunita', Laterza 2001. Bauman definisce
l'atteggiamento dell'elite internazionale come "la secessione dell'uomo
affermato", caratterizzato da "territorialita' mentale e morale", ivi, p.
49.
7. Luciano Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza 2001, pp.
67-94.
8. Rossana Rossanda, Pacifismo: il nodo del politico, "La rivista del
manifesto", n. 30, luglio 2002.
9. Giulietto Chiesa, La guerra infinita, cit., particolarmente il primo
capitolo, pp. 7-31.
10. Toni Negri, Danilo Zolo, L'impero e la moltitudine. Un dialogo sul nuovo
ordine della globalizzazione, "Reset", settembre 2002.
11. Raniero La Valle, Un nuovo pacifismo, cit., passim.
12. Hans Morghenthau, Politics Among Nations. The Struggle for Power and
Peace, Kopf 1960, (trad. it. Il Mulino, 1997), pp. 480 ss.
13. Pietro Ingrao, Il potere delle armi e le armi del potere, cit.
14. Si possono vedere: David J. Bederman, International Law in Antiquity,
Cambridge University Press 2001; Mario Bretone, Storia del diritto romano,
Laterza 1992; M. Kadduri, The Nations: Shaybani's Siyar, Johns Hopkins'
University Press, 1966; B. Paradisi, Storia internazionale nel Medioevo,
Giuffre', Milano 1940; F. H. Russell, The Just War in the Middle Age,
Cambridge University Press 1975.
15. L. Hanke, Aristotle and the American Indians, Indiana University Press
1959.
16. H. Bull, A Watson (a cura di), The Espansion of International Society,
Oxford University Press 1984 (trad. it. Jaca Book, 1993).
17. Su questi sviluppi sono ancora di attualita' le pagine di Carl Schmitt,
in Nomos der Erde im Voelkerrecht des Jus Publicum Europeum,trad. it. cit.,
pp. 335-367. Per la letteratura piu' recente: J. B. Elshtain (a cura di),
Just War Theory, Basil Blackwell 1992.
18. Raniero La Valle, La secessione dal mondo, cit.
19. Robert Kagan, Power and Weakness, "Policy Review", giugno-luglio 2002.
Disponibile anche nella rete telematica
20. Michael Hardt, Toni Negri, Empire, Harvard College 2000, trad. it.
Rizzoli, 2001.
21. Giulietto Chiesa, La guerra infinita, cit., pp. 18-20.
22. Rossana Rossanda, Pacifismo: il nodo del politico, cit.
23. P. Bergamaschi e L. Morgantini, La Nato e la sfida del riarmo. I
pacifisti, che cosa fanno?, "Il manifesto", 6 agosto 2002, p. 5 (gli autori
fanno riferimento alla relazione di Guenter Burghardt, ambasciatore della
Unione Europea negli Stati Uniti, tenuta al Parlamento europeo il 19
febbraio 2002); Giulietto Chiesa, La guerra infinita, cit., p.170.
24. Lo si puo' consultare nella rete telematica.
25. Il testo lo si trova nel sito Jura gentium, nella rubrica Guerra,
diritto e ordine globale.
26. Robert Kagan, Power and Weakness, cit., pp. 17-21 del testo, disponibile
anche nella rete telematica.

3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: O LA GUERRA O LA LEGGE
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti@tiscalinet.it) per
questo intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno
di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999. E' diffusa attraverso la rete telematica
(ed abbiamo recentemente ripresentato in questo notiziario) la sua
fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica
delle lotte nonarmate  e nonviolente]
Sulle notizie del 6 e 7 febbraio 2003: Bush ricatta l'Onu: "Devi decidere
come dico io, altrimenti ti scavalco. Devi autorizzare la mia guerra".
La guerra, tra i tanti suoi motivi veri, non quelli accampati, ha anche
questo: sopraffare l'Onu, sopraffare la legge internazionale. Gia' nel
gennaio 1999, davanti alla guerra per il Kosovo, scrivevamo: "Guerra
Usa-Onu: stiamo con l'Onu" ("Il foglio", mensile di Torino, n. 255).
La guerra oggi annunciata e' fuori-legge, e' contro il mondo, e' eversiva
della legge piu' saggia che la comunita' dei popoli si sia mai data nella
storia umana, cioe' del vigente diritto internazionale di pace.
*
Il governo italiano si dichiara allineato a Bush ma si rimette alla
decisione dell'Onu. Cosa fara' il governo italiano se l'Onu dira' no alla
guerra di Bush?
Cosa fara' l'Europa se l'Onu dira' no alla guerra di Bush?
Saranno, l'Italia e l'Europa, piu' amici di Bush o piu' fedeli alla legge
internazionale?
*
E cosa fara' l'opposizione parlamentare italiana se chi dirige attualmente
l'Onu diro' si' alla guerra di Bush? Sara' piu' fedele alla pace o al
formalismo di una decisione illegittima?
Infatti, l'Onu non puo' ne' promuovere ne' autorizzare una guerra. Lo
dimostra con la massima limpidezza e rigore logico Luigi Ferrajoli ("La
rivista del manifesto", n. 34, dicembre 2002). Se l'Onu fa la guerra
aggredisce la propria costituzione, che e' lo Statuto delle Nazioni Unite,
in vigore dal 24 ottobre 1945, e quella decisione e' illegittima.
*
Aspettare la guerra e' come assistere a un delitto.

4. AFGHANISTAN. GIULIANA SGRENA: ALPINI IN GUERRA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 febbraio 2003. Giuliana Sgrena,
prestigiosa giornalista e saggista, e' anche una delle principali esperte
della situazione afghana]
Sara' una "missione da combattimento", quella che attende i mille alpini che
da meta' marzo saranno dislocati nella zona di frontiera tra Afghanistan e
Pakistan, in quella che viene definita "Sanctuary denial area".
L'affermazione fatta dal portavoce americano di Enduring freedom a Bagram,
il colonnello Roger King, non e' certo una rivelazione. Enduring freedom,
nonostante il nome ingannevole - liberta' duratura - e' la guerra al
terrorismo. E in quanto tale pericolosa, anche perche' il terrorismo,
purtroppo, e' tutt'altro che sconfitto in Afghanistan. E, anzi, potrebbe
subire una nuova impennata se dovesse partire l'attacco all'Iraq. Lo
sostiene da tempo il generale Hilmi Akin Zorlu, il comandante turco
dell'Isaf. E lo ammettono ormai anche gli americani. "Se ci fosse un'azione
in qualche parte del mondo che (quelli che combattono contro la presenza di
forze straniere oltre che contro il governo Karzai, ndr) pensano possa
essere associata alla loro causa, certamente la userebbero come ragione per
aumentare la loro attivita'" in Afghanistan, ha ammesso ieri il colonnello
Roger King. Tanto che la Germania, che insieme all'Olanda assumera' il
comando dell'Isaf il 10 febbraio, ha gia' messo in allerta i suoi soldati
rispetto all'aumento del rischio di attacchi terroristici. Come hanno del
resto dimostrato gli attacchi dei giorni scorsi.
All'Isaf partecipano circa 450 soldati italiani con una missione di
peacekeeping che non ha nulla a che vedere con il contingente arruolato in
Enduring freedom. Per gli alpini della Nibbio infatti non si tratta di
peacekeeping come ha cercato di far credere anche ieri con la sua
dichiarazione da New Delhi il ministro della difesa italiano Antonio
Martino. "Non e' una missione di peacekeeping - ha sostenuto il colonnello
King - la missione delle forze internazionali di Endurgin freedom in
Afghanistan non e' cambiata, e' ancora essenzialmente di combattimento". E
gli alpini italiani sono particolarmente benvenuti perche' si tratta di dare
la caccia ai terroristi - taleban, militanti di al Qaeda e milizie dell'ex
capo mujahidin Gulbuddin Hekmatyar che li sta riorganizzando - che stanno
rientrando in Afghanistan dalle zone tribali pakistane e che si nascondono
nelle caverne delle zone montuose ed impervie di Khost, situazioni che
dovrebbero essere congeniali ai militari addestrati in montagna. Loro
compito non sara' solo inseguire gli "infiltrati" ma anche scovare i ribelli
che si nascondono in un terreno infido e dove le truppe straniere non sono
molto apprezzate dopo i bombardamenti americani.
E le regole di ingaggio? Il "transfer of authority" sotto il comando Usa
avverra' a meta' marzo, quando sara' completato il contingente, finora sono
arrivati a Bagram solo una quarantina di alpini, e in seguito "ad attenta
valutazione e definizione dei compiti, delle regole di ingaggio e dei limiti
di impiego", aveva detto Martino in parlamento il 17 dicembre. Come
facilmente prevedibile non sara' cosi'. Le regole sono gia' decise e
"corrisponderanno a quelle in vigore per le forze che stanno operando nella
zona, ha detto il colonnello King, innanzitutto c'e' il diritto alla difesa
personale, poi ci potrebbero essere operazioni specifiche che comporteranno
il confronto con il nemico". Saranno le stesse che hanno guidato i ranger
americani e britannici.
Il "lavoro" e' duro e pericoloso, sebbene i soldati americani morti in
Afghanistan non vengano fatti rientrare negli States con tanti onori come in
passato, sono gia' piu' di cento e oltre 400 i feriti. Quelli della Nibbio
non sono i primi soldati italiani impegnati in Enduring freedom, ma i primi
cinquanta dell'aeronautica erano stati impiegati solo nella costruzione
delle piste dell'aeroporto di Bagram, e le forze speciali delle missioni li
vedevano solo partire e tornare. Ma loro si sentivano in guerra e si
vantavano rispetto ai peacekeers perche' non rischiavano a Kabul.

5. MEMORIA. IL PREMIO "GRAZIA ZERMAN"
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)]
Maria Grazia Zerman e' nata a Verona e si e' laureata in filosofia
all'Universita' di Milano. Ha insegnato lettere partecipando anche
all'esperienza dei corsi delle 150 ore per casalinghe e lavoratrici.
Negli anni Settanta ha fatto parte di Lotta Femminista di Milano, ed e'
stata una delle prime di quel gruppo ad entrare nei gruppi di autocoscienza
che si riunivano in via Cherubini, inaugurando un passaggio alla pratica
dell'autocoscienza che poi sarebbe stato proprio di altri gruppi politici e
di singole donne. Grazia Zerman ha fatto parte del "gruppo 4" del collettivo
dei gruppi femministi di Col di Lana, ed e' stata una delle voci
fondamentali per la discussione e la scrittura del "Sottosopra" verde "Piu'
donne che uomini" (1983). Lia Cigarini ricorda il lavoro del "gruppo 4" sul
"Sottosopra" (forse il testo che e' stato piu' discusso e che e'
maggiormente circolato nel movimento delle donne in Italia e all'estero) con
queste parole: "si parlava esplicitamente, si giudicava, si confliggeva, e
quindi si produceva pensiero e scelte. Grazia era stata tra le piu'
composte, sapeva ascoltare, sapeva mettere un tempo di riflessione tra
l'ascoltare e il giudicare".
Grazia e' stata tra le fondatrici del Circolo della Rosa, a cui lavoro'
materialmente e che sostenne anche finanziariamente, e ha partecipato
attivamente alla vita della Libreria delle donne, legata alla comune pratica
della differenza.
Grande lettrice di saggi e di romanzi, amava la scrittura e la riflessione
sulla pratica politica delle donne.
Prima di morire precocemente nel 1995 ha espresso ai familiari il desiderio
di promuovere e sostenere economicamente la ricerca delle donne. Gli eredi
si sono fatti portatori di questa richiesta e hanno fondato un'associazione
a lei intitolata.
L'Associazione Maria Grazia Zerman, fondata nel 1996, si impegna cosi' ogni
anno, in due iniziative: una borsa di studio annuale per una giovane
studiosa che voglia approfondire temi o specializzarsi in conoscenze
interessanti per la cultura delle donne e un premio per una tesi di laurea
dello stesso tipo.
L'Associazione spiega l'iniziativa con queste parole: "La lotta politica
delle donne e' sempre stata legata all'amore degli studi, alla cui radice
c'e' il desiderio di sapere unito alla volonta' di essere libere. E' una
stupida banalita' interpretare l'aspirazione femminile alla cultura come
voglia di parita'. Una decisione coerente con la vita di Maria Grazia
Zerman, con il suo impegno politico, le sue scelte di vita".
I soci dell'Associazione Zerman sono: Giaito Daghini, Alberto Magnaghi, Lia
Cigarini e Luisa Muraro.
Il comitato scientifico del Premio e' composto da: Laura Boella, Marisa
Caramella, Giovanni Cesareo, Ida Fare', Angela Putino, Bianca Tarozzi e
Chiara Zamboni.
Possono concorrere le studenti delle Universita' di Milano, Verona, Salerno,
Lecce e Palermo.
I temi della ricerca sono discussi annualmente in una riunione aperta.
Per informazioni: "Borsa di studio Maria Grazia Zerman" c/o Zamboni,
dipartimento di filosofia, facolta' di Lettere e Filosofia, Universita' di
Verona, Via San Francesco 22, 37129 - Verona, tel. 0458028384 (giovedi' ore
14,45-16,45).
Il 15 febbraio scade il bando del premio 2003.
*
Bandi
Le tesi hanno come argomento: "La filosofia, la storia, la politica e la
letteratura di donne nel passato e nel presente".
Borse:
- 1996: "Quando una donna ricorda e pensa una donna: cambiano le forme e il
senso della memoria?";
- 1997: "Lavoro autonomo e esperienza di relazioni: presenza e originalita'
delle donne";
- 1998: "Lingua materna come potenza simbolica per far esistere il
presente".
Tesi vincitrici del premio:
- "Autobiografia e differenza femminile ne Lo specchio delle anime semplici
di Margherita Porete", di Antonietta De Vita. Universita' degli Studi di
Verona, Facolta' di Magistero, relatrice: Luisa Muraro;
- "Muri di parole. Alle radici del sentimento femminile della casa", di
Katrin Cosseta. Politecnico di Milano, Facolta' di Architettura, relatrice:
Ida Fare'.
Pubblicazioni:
- Katrin Cosseta, Prigioniere del nido. Alle radici del sentimento femmilile
della casa, Firenze Libri Atheneum, Firenze 2001;
- Sandra Endrizzi, Pesci piccoli. Donne e cooperazione in Bangladesh,
Bollati Boringhieri, Torino 2002.

6. RILETTURE. ELENA CRAVERI CROCE: POETI E SCRITTORI TEDESCHI DELL'ULTIMO
SETTECENTO
Elena Craveri Croce, Poeti e scrittori tedeschi dell'ultimo Settecento,
Laterza, Bari 1951, pp. 230. Rileggere come Elena Croce (1915-1994) sa
leggere figure e voci cosi' lontane e cosi' vicine, da Jean Paul a
Lichtenberg, e' una gioia dello spirito, e ancora una lezione di
comprensione, di umanita'.

7. RILETTURE. ELENA CROCE: LO SNOBISMO LIBERALE
Elena Croce, Lo snobismo liberale, Adelphi, Milano 1964, 1990, pp. 92, lire
8.000. Un quadro nitido e prezioso nutrito di vivide memorie e di una acuta
capacita' di sguardo, di profonda meditazione, e di severo, rigoroso
giudizio.

8. RILETTURE. LA PATRIA NAPOLETANO
Elena Croce, La patria napoletana, Adelphi, Milano 1974, 1999, pp. 142, lire
15.000. Un limpido e appassionante volumetto che nell'allineare "riflessioni
sui ritratti di alcuni personaggi maggiori e minori della storia e della
societa' napoletana" muovendo da una ricognizione sulla figura e
sull'ambiente di Gaetano Filangieri ci restituisce non solo un'atmosfera, ma
anche una capacita' di visione critica, di lettura interpretante (che sa
decantare le opacita' e le confusioni, e dai garbugli ritrovare il bandolo),
e una lezione di metodo.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 501 dell'8 febbraio 2003