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La nonviolenza e' in cammino. 495
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 495 del 2 febbraio 2003
Sommario di questo numero:
1. Giovanni Scotto, contro la guerra, cambiare modello di sviluppo
2. Maria G. Di Rienzo, parlare la pace con occhi amanti
3. Suzette H. Elgin, patologie del comportamento umano nei gruppi
4. Monica Lanfranco, nei movimenti il nodo del linguaggio (e la violenza del
sessismo)
5. Amelia Alberti, negli occhi dei bambini
6. Lia Cigarini, liberta' relazionale
7. Letture: Fatima Mernissi, La terrazza proibita
8. Letture: Salwa Salem, Con il vento nei capelli
9. Letture: Tom Segev, Il settimo milione
10. Riletture: Claude Levi-Strauss, Primitivi e civilizzati
11. Riletture: Elena Pigozzi, Susi de Pretis (a cura di), Letteratura al
femminile
12. Riletture: Francesca Pozzi (a cura di), Le sante
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'
1. EDITORIALE. GIOVANNI SCOTTO: CONTRO LA GUERRA, CAMBIARE MODELLO DI
SVILUPPO
[Ringraziamo Giovanni Scotto (per contatti: e-mail:
gscotto@zedat.fu-berlin.de, sito: http://userpage.fu-berlin.de/~gscotto/)
per averci messo a disposizione come anticipazione questo suo articolo che
comparira' su "Azione nonviolenta". Giovanni Scotto e' uno dei piu'
importanti studiosi italiani nell'ambito della peace research, studioso e
amico della nonviolenza; ricercatore presso il "Berghof Research Center for
Constructive Conflict Management" di Berlino; collabora con l'"Institute for
Peace Work and Nonviolent Settlement of Conflicts" di Wahlenau e con il
"Centro studi difesa civile" di Roma. Tra le opere di Giovanni Scotto: con
Emanuele Arielli, I conflitti, Bruno Mondadori, Milano 1998; sempre con
Emanuele Arielli, La guerra del Kosovo, Editori Riuniti, Roma 1999]
Continuiamo ad augurarci che i governi degli Stati Uniti e dell'Iraq, e il
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite decidano di evitare una nuova
guerra del Golfo. Cerchiamo di mantenere la serenita', e nello stesso tempo
di trovare strade per un lavoro incisivo e costruttivo di opposizione alla
guerra.
Come in altre guerre degli anni novanta, il consenso dell'opinione pubblica
all'attacco viene garantito da un misto di retorica, disinformazione e
riscrittura del passato. A dicembre, Andreas Zumach, del quotidiano tedesco
"Tageszeitung", ha rivelato che numerose imprese statunitensi e tedesche, e
addirittura agenzie governative Usa, hanno aiutato negli ultimi venti anni
il regime iracheno a dotarsi di armi di distruzione di massa (in particolare
gli agenti chimici usati contro l'Iran e contro i curdi). Ma del fatto che
il dittatore Saddam Hussein sia stato "amico dell'occidente" per oltre un
decennio oggi non si parla.
Per fortuna nel nostro paese abbiamo gia' visto diverse manifestazioni
contro la guerra che si avvicina, e senz'altro la protesta crescera'. Essa
potra' diventare incisiva solo se nascera' un movimento capillare
genuinamente nonviolento, anzitutto nelle forme di protesta.
L'opposizione nonviolenta non puo' esaurirsi nelle manifestazioni di piazza.
La strada dell'azione diretta nonviolenta potra' forse intralciare il
funzionamento della macchina da guerra e questo sara' un segnale di
speranza. A questo proposito e' doveroso ricordare, tra le altre,
l'iniziativa delle "mongolfiere di pace", animata da Peppe Sini, che durante
la guerra del Kosovo impedi' per qualche ora la partenza dei bombardieri.
Riusciremo a ostacolare di nuovo, anche solo per poco, la macchina bellica
statunitense e i suoi aiutanti italiani?
La cultura della nonviolenza mette in primo piano la realizzazione di un
programma costruttivo, come alternativa praticabile alla violenza e alla
sopraffazione. Il collegamento tra l'opposizione alla violenza e il
programma costruttivo e' di grandissima attualita': credo che, alla vigilia
della "guerra annunciata", proprio il programma costruttivo dovrebbe
diventare il centro dell'azione politica dei nonviolenti e dei movimenti per
la pace.
Non c'e' dubbio infatti che la guerra contro l'Iraq verra' combattuta per
garantire agli Stati Uniti il controllo della materia prima oggi piu'
preziosa, il petrolio. Per depotenziare il sistema di guerra nel quale siamo
immersi la via maestra e' quindi costruire con pazienza alternative
all'attuale politica energetica e quindi al modello di sviluppo odierno nel
suo complesso.
A dimostrazione che un tale programma costruttivo non e' roba da utopisti ci
sono tanti esperimenti di nuove forme di economia e di vita. Un compendio
delle esperienze piu' interessanti e' contenuto nel volume Short circuit,
scritto gia' qualche anno fa dall'economista irlandese Richard Douthwaite
(in Germania e' uscita un'edizione ampliata con esempi di alternative
pratiche nei paesi di lingua tedesca). La tesi dell'autore e' che per
contrastare gli effetti devastanti della globalizzazione occorre costruire
forme di economia solidale a livello locale e regionale: anziche' fluire
dalla periferia al centro, le risorse possono in questo modo rimanere a
disposizione della comunita' che le produce.
Douthwaite propone esempi concreti di alternative economiche in diversi
campi: dalle banche del tempo allo sfruttamento di risorse energetiche
rinnovabili locali. Proprio quest'ultimo punto assume un'importanza centrale
per un modello di sviluppo alternativo a quello basato sul petrolio.
Douthwaite sostiene che pressoche' ogni comunita' locale puo' valorizzare
fonti energetiche proprie (ad esempio con piccoli impianti idroelettrici o
eolici).
Oggi la liberalizzazione del mercato energetico europeo permette di
realizzare questa alternativa con una certa facilita', creando societa'
locali di produzione e consumo dell'energia: in Germania i consumatori
possono scegliere la societa' da cui comprare energia elettrica.
L'elettricita' necessaria a scrivere queste righe al computer proviene dalla
rete di Berlino, la mia bolletta viene versata a una societa' di Amburgo che
vende solo energia rinnovabile.
Prevedibilmente il movimento contro la guerra in Iraq caratterizzera' la
societa' italiana nei prossimi mesi. La cultura della nonviolenza puo'
permettere all'opposizione contro la guerra un salto di qualita':
l'obiettivo e' di saldare insieme l'azione diretta nonviolenta nella
societa', la prospettiva di un'opposizione politica alla guerra nelle
istituzioni, e la costruzione di alternative locali al modello di sviluppo
basato sul petrolio.
2. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: PARLARE LA PACE CON OCCHI AMANTI
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per
averci messo a disposizione questo testo predisposto per una conferenza
nell'agosto del 1999. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali
collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista,
saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, ha svolto rilevanti
ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia
Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento
delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in
difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza]
Per riuscire a creare e a mantenere politiche di pace, pratiche nonviolente,
dobbiamo innanzitutto chiederci come la guerra nasce nelle nostre menti, in
che modi - spesso del tutto inconsapevolmente - ne siamo complici, che ruolo
recitiamo in uno scenario in cui siamo presenti comunque, al di la' delle
nostre scelte e delle nostre opinioni.
Innanzitutto, dobbiamo prendere atto che il nostro pensiero non possiede la
qualita' del "neutro"; stante l'impossibilita' manifesta di una separazione
corpo/mente, noi pensiamo con un cervello parte integrante e non divisibile
di un corpo sessuato.
Per di piu', il nostro pensiero non si forma in un nulla iperuranio, non e'
sospeso e libero in orizzonti metafisici (anche se ci piace, e' consolatorio
pensare che lo sia), ma si forma in un "framework", una cornice o struttura
concettuale gia' data all'interno della quale noi impariamo a parlare e a
pensare.
Essa consiste nelle credenze, valori, attitudini di base che danno forma e
riflettono il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri: e' una sorta di
"lente sociale" attraverso la quale i nostri occhi guardano.
La struttura concettuale a cui faro' riferimento e' ovviamente quella
occidentale/patriarcale, stante non solo il fatto che si tratta della
cornice in cui il mio pensiero ed il vostro si sono necessariamente formati,
ma anche perche' si tratta di una cornice estremamente invasiva che - con
maggior o minor fortuna, e di questo potremo magari dibattere un'altra
volta - sta interessando e inglobando, oggi come in passato, cornici
formatesi in differenti segmenti spazio-temporali dei nostro pianeta.
*
La struttura che ci interessa, quindi, e' quella che ha prodotto il
linguaggio attraverso il quale stiamo comunicando; il linguaggio umano e'
sostanzialmente "tecnica", una tecnica che deriva da un accordo logico fra
comunicanti: ogni parola ha il significato o i significati che noi abbiamo
desiderato dare ad essa. Questa tecnica non e' limitata alla mera
descrizione del reale, ma crea continuamente il "mondo immaginato" nel quale
viviamo: noi immaginiamo confini, ad esempio, decretando che qui finisce uno
Stato e ne inizia un altro; immaginiamo "comunita'" basate sulla presenza o
l'assenza di determinate caratteristiche nelle persone che fanno parte della
comunita' stessa; immaginiamo che tutto cio' che esiste su questo pianeta
sia relativo a noi, e lo descriviamo mediante un florilegio di
aggettivazioni arbitrarie, che valutano esseri viventi e ambiente in base al
tornaconto ed al godimento umano. In poche parole, il linguaggio che stiamo
parlando, a causa della struttura in cui prende forma, e' attraversato da
quello che gli studiosi e le studiose chiamano "bias", ovvero un "rumore di
fondo", una serie di "errori tendenziosi" costituiti da supposizioni
imprecise ed interpretazioni illogiche e/o arbitrarie.
Se volete formularvi una visione della cornice occidentale/patriarcale
pensatela come una piramide: la sua forma e' gerarchica e si basa
sull'attribuzione di minor o maggior valore a cose e persone; il suo modo di
procedere funziona per polarizzazioni ed opposizioni concettuali (viene
infatti definito "il pensiero o... o"), in cui i termini si sostengono e si
definiscono reciprocamente, ma senza poter entrare ne' in relazione, ne' in
commistione. Ad esempio, la pretesa razionalita' ascritta al sesso maschile
come innata, puo' esistere solo quando il femminile incarni l'emotivita'
pura, la cecita' pulsionale.
*
La forma gerarchica funziona cosi':
a) gli esseri umani hanno, e le piante non hanno, la capacita di cambiare
radicalmente secondo il proprio volere la comunita' in cui vivono;
b) chiunque abbia la capacita di cambiare radicalmente, secondo il proprio
volere, la comunita' in cui vive e' moralmente superiore a chi non ce l'ha;
c) percio', gli esseri umani sono moralmente superiori alle piante;
d) essendolo, sono moralmente giustificati se subordinano le piante al
proprio volere.
E la struttura patriarcale prosegue:
a) le donne sono identificate con la natura e la fisicita'; gli uomini sono
identificati con l'"umano" ed il regno del "mentale";
b) chiunque sia identificato con 1'"umano" ed il "mentale" e' moralmente
superiore a chi sia identificato con la natura e la fisicita';
c) percio' gli uomini sono moralmente giustificati se subordinano le donne
al proprio volere.
La composizione, come vedete, funziona nello spiegare e mantenere un sistema
di "dominanti" e "dominati"; le caratteristiche che si intersecano
all'interno di tale cornice sono le seguenti:
- la valutazione gerarchica, che conferisce valore a particolari categorie:
uomini, "razza bianca", eterosessualita', ecc.;
- il costituirsi del pensiero per dicotomie concettuali, ovvero tramite un
dualismo esasperato che costruisce la realta' in coppie di opposti
escludenti (anziche' ad esempio in coppie complementari); ogni ramo della
coppia presentera' caratteristiche univoche che non possono entrare in
commistione con le caratteristiche dell'altro ramo, ma solo uno di essi
presentera' caratteristiche desiderabili: avra' quindi maggior status il
ramo "mente, ragione, maschile" rispetto al ramo "corpo, emozione,
femminile";
- la concezione del potere come mantenimento delle relazioni gerarchiche;
- il conferimento di privilegi al ramo dominante;
- la giustificazione "in se stesso" del ramo dominante: alla domanda sul
perche' sia dominante, come abbiamo visto, viene risposto che esso possiede
caratteristiche desiderabili e superiori; alla domanda sul perche' queste
caratteristiche siano desiderabili e superiori, la risposta sara'... perche'
appartengono al ramo dominante. Se codesto ramo domina, e' ovviamente
superiore!
*
All'interno di tale quadro concettuale, persino molti di quelli che dicono
di combattere il sistema inferiori/superiori contribuiscono a perpetuarlo,
usando le medesime logiche delle quali il sistema si sostenta (una di esse
e' la violenza, termine in cui comprendo ovviamente la guerra).
Voi potete verificarlo semplicemente ascoltando cosa dice e cosa non dice
chi afferma di rigettare la logica del dominio: a volte dice, per esempio,
che la superiorita' non giustifica la subordinazione... continuando
esplicitamente a mantenere il concetto di "superiorita'" che ritiene solo
dislocato sul gruppo "sbagliato"; dice anche che le differenze vanno
ricomprese in un universale (fate attenzione al significato delle parole:
universale e' cio' che va in una direzione unica), un universale che di
fatto le annulla, comprime, assimila e gerarchizza, giacche la
uni-versalita', l'unico verso in cui si puo' andare, produrra' giocoforza
"differenze piu' importanti" e "differenze meno importanti"; dice che per
ottenere l'accesso alle risorse ed ai privilegi dislocati sul gruppo
dominante, chi appartiene al gruppo subordinato puo' e deve usare gli stessi
mezzi che il gruppo dominante usa per mantenerli avocati a se', e quindi,
una volta raggiunto l'accesso a risorse e privilegi, potra' usare delle
discriminanti per negarli ad un gruppo inferiore.
Questo e' l'effetto che la struttura concettuale del patriarcato (poiche' la
primissima distinzione in superiori/inferiori riguarda la relazione fra i
sessi) ha sui nostri cervelli e sulle nostre logiche discorsive. Il nostro
linguaggio ne e' pesantemente informato: persino una discussione si
trasforma in una guerra; pensate, per esempio, a come viene definito un
"buon ragionamento" all'interno di una discussione. Un "buon ragionamento",
una "ragione valida", sono cose che spezzano, distruggono, cancellano le
argomentazioni diverse dalle loro. I "buoni ragionatori" sono quelli che
battono l'avversario, che travolgono le opinioni altrui. I "cattivi
ragionatori", viceversa, sono quelli le cui parole vengono definite in
termini di non durezza: fanno ragionamenti sfilacciati ed il loro
argomentare e' pieno di buchi.
Soffermatevi solo un attimo, ora, a riflettere sulle parole che vengono
usate per descrivere le donne e le armi. Le prime hanno a disposizione:
1. termini "animali";
2. termini "sessuali;
3. termini "di gioco".
Queste parole suggeriscono che le donne sono come animali o bambini; queste
parole dicono che donne, animali e bambini sono esseri irrazionali e
inferiori. Queste parole ci indicano come le donne vengano costantemente
"naturalizzate" all'interno del processo discorsivo. E la natura, la cui
equivalenza femminile e' ormai un classico (anche se storicamente tale
equivalenza ha assunto significati differenti), lo sapete, va: violata,
dominata, assoggettata, conquistata, sottomessa. Nei segreti della natura si
penetra ed essi vengono svelati. Nel framework occidentale/patriarcale la
connessione e' donna - bimbo - animale - natura, fusi in una condizione di
inferiorita'.
Non si tratta di semplici associazioni, di metafore senza significato, di
note a margine alle quali possiamo permetterci di non prestare attenzione:
la terminologia suddetta indica un clima culturale ed informa i modi in cui
ci si avvicina alle donne, ai bambini, agli animali ed alla natura: non si
desidera entrare in relazione con essi, si desidera dominarli.
Veniamo alle armi. Esse sono descritte principalmente come potenza sessuale
e secondariamente con termini che esprimono l'esatto opposto delle loro
funzioni.
Per il primo caso, potete pensare alla forza di penetrazione delle bombe,
alla potenza di fuoco di un'arma, all'erezione di una batteria missilistica,
al potenziale nucleare rilasciato in un'esplosione orgasmica (queste ultime
sono le precise parole di un consigliere militare al Consiglio nazionale di
sicurezza statunitense); pensate ai giornali che scrivono, quando l'India fa
esplodere la sua prima bomba nucleare, che tale nazione ha perso la
verginita'.
Per il secondo caso, potete riflettere sul nome dato al missile Mx, ovvero
"Peacekeeper" (mantenitore della pace) oppure sul fatto che il Pentagono
definisce "effetto collaterale" di un'esplosione la morte di esseri umani,
perche' le bombe hanno per bersaglio gli edifici.
Le parole usate per descrivere le armi sono estatiche, trionfalistiche (e lo
spostamento di senso nel chiamare "pacificatore" un missile e' prova di una
cecita' idolatra che va oltre il nostro sorriso ironico); non a caso alcuni
studiosi - in particolare Robert Lifton e Richard Falk - hanno classificato
il rapporto che gli esseri umani hanno con le armi come una malattia o una
dipendenza: "le bombe - essi dicono - diventano fondamento del discorso,
nonche' la soluzione a qualsiasi problema: nel contempo, restaurano il
nostro perduto senso d'immortalita'". E difatti, aggiungo, dare la morte non
e' forse sentirsi un po' Dio?
*
Quindi: abbiamo visto che la violenza ha la sua radice primaria nel
linguaggio con cui parliamo, nella struttura in cui si formano i nostri
pensieri; una struttura che funziona come un sistema di dissociazione
attraverso il quale gli esseri umani tentano di separarsi dalle relazioni
che hanno con gli altri e con l'ambiente. La percezione dell'altro come
inferiore e della differenza come gerarchia permette la presa di distanza
dall'altro e giustifica la sua subordinazione.
Se vogliamo dare una definizione concreta della violenza, essa ci appare
come effetto di una mancanza di risorse o come una manifesta
incapacita'/impossibilita' di usare risorse non violente.
Vi faccio alcuni esempi:
1. sono un membro di una minoranza oppressa; non ho modo di farmi ascoltare:
divento un terrorista;
2. sono un dittatore, eppure non ho modo di forzarvi a pensare cio' che io
voglio pensiate: vi metto in prigione, affamo i vostri figli, vi torturo;
3. sono una donna che vive un matrimonio con un uomo autoritario e
tradizionale; mi sento inferiore e priva di potere rispetto al continuo
disprezzo di cui mi fa oggetto mio marito: percio' comincio a minare la sua
sicurezza, rendendolo ridicolo agli occhi dei suoi figli;
4. sono una bambina alla quale e' impossibile far cessare i continui
alterchi fra i miei genitori e difendermi dagli improvvisi scoppi di rabbia
che mia madre ha verso di me: rompo qualcosa di prezioso e fuggo; comincio a
rubare; posso arrivare ad uccidermi;
5. sono il Presidente degli Usa: nonostante tutte le forze a mia
disposizione, non conosco un modo per essere sicuro che le nazioni in via di
sviluppo, soprattutto quelle produttrici di petrolio, ballino alla mia
musica; percio' uso il cibo come arma politica, provoco un crescendo di
armamenti incrementando il potenziale bellico delle nazioni confinanti,
finanzio un golpe.
*
Trovare risorse nonviolente, offrire ad altri tali risorse, o insegnare ad
altri l'uso di tali risorse e' il cardine primo su cui costruire una
politica di pace.
Per attuare strategie nonviolente di opposizione al sistema del dominio (che
fa di tutti e tutte noi dei pre-giudicati - giudicati prima che noi ci si
mostri quali sentiamo e sappiamo di essere - e ci suggerisce di continuo
l'impossibilita' di abbandonare o modificare la struttura concettuale di
riferimento) dobbiamo necessariamente passare per stadi di "riconoscimento":
L'individuazione del framework ed il suo smascheramento; l'individuazione
della connessione tra i vari tipi di violenza (compresa la violenza su di
se'); il riconoscimento che la violenza e' una questione globale e sistemica
e che si alimenta, prima di tutto, nelle nostre teste.
Quando ridiamo ad una battuta sessista, o quando copriamo di apprezzamenti a
sfondo sessuale una sconosciuta per strada noi stiamo nutrendo il futuro
violentatore del nostro apprezzamento; stiamo giustificando i bordelli
etnici dell'ex Jugoslavia, stiamo affilando il coltello che sgozzera' la
prossima donna algerina. La destrutturazione del sistema dominatori/dominati
passa inevitabilmente per un cambiamento radicale dei rapporti fra i sessi.
Vorrei fosse chiaro che quest'ultimo punto vi riguarda tutti, femmine e
maschi, se il vostro desiderio sara' (o e') il poter formare il vostro
pensiero e le vostre azioni all'interno di una cornice concettuale
differente: vorrei fosse chiaro, cioe', che non sto trattando di una "lotta
rivendicativa" delle donne, o del desiderio di passare a far parte del
gruppo dei dominatori, o di una pretesa "uguaglianza" che conferisca alle
donne gli stessi privilegi ascritti arbitrariamente al sesso maschile. Io,
come tutte e tutti voi, sono uguale solo a me stessa e non intendo affatto
diventare "uguale" a un maschio reale o ipotetico.
Il pensiero delle donne, nella costruzione di processi di pace come in
quella di democrazia non sta chiedendo nulla: sta offrendo qualcosa. Ma
questo sara' piu' chiaro al termine del mio intervento.
*
Una delle risorse nonviolente che possiamo trovare in noi stessi e' l'uso
appropriato delle nostre emozioni.
Persino la rabbia puo' essere una risorsa nonviolenta. Pensate per un attimo
ad una situazione in cui vi siete arrabbiate o arrabbiati; forse la vostra
rabbia stava dicendo "Io merito di essere trattato meglio di cosi!", oppure
stava dicendo "No, fermati! Questo causa dolore a me, ad altri". L'uso della
rabbia e' una risorsa quando produce un cambiamento necessario rifiutandosi
nel contempo di adottare comportamenti oppressivi o privi di rispetto. L'uso
della rabbia e' inappropriato quando vuol coprire di vergogna un altro
essere vivente, dominarlo, manipolarlo o controllarlo.
Le studiose ecofemministe chiamano l'uso della rabbia come risorsa
nonviolenta "rabbia con compassione", ovvero l'offerta di rispetto verso noi
stessi e verso chi ci opprime, unita al rifiuto di cooperare con
l'oppressore o di adottare i suoi metodi. Focalizzarci unicamente sulla
rabbia esaurisce le nostre forze e ci obbliga a fare concessioni ai metodi
della violenza e della distruzione; viceversa, focalizzarsi unicamente sulla
compassione ci rende impotenti e ci seduce ad un indifferenziato
umanitarismo.
*
Una politica di pace puo' funzionare in misura direttamente proporzionale al
grado in cui riesce a sottrarsi al quadro concettuale
(occidentale/patriarcale) che vi ho precedentemente descritto.
Puo' funzionare se viene costruita come un "quilt", ovvero una di quelle
coperte formate da quadretti diversi; si tratta di "cucire", all'interno di
una nuova cornice, "quadretti" che mantengono la propria specificita':
poiche' ognuno di essi rimanda a persone umane di sesso diverso, di eta'
diversa, di appartenenza geografica diversa, di orientamenti sessuali ed
affettivi diversi, di condizioni socioeconomiche diverse, e via discorrendo.
Ma come cucire la coperta?
1. Opponendoci a qualunque pratica comporti dolore e danno agli esseri
umani, agli animali e all'ambiente;
2. rendendo visibile che razzismo, classismo, sessismo, militarismo,
eccetera si generano e sono mantenuti e rinforzati dalla struttura
concettuale del patriarcato e che quindi ignorano il sapere delle donne o le
considerano naturalmente inferiori e bisognose di aiuto: i disastri
ambientali causati dagli "esperti" dell'occidente nei paesi del sud del
mondo non si contano piu'; ne sanno qualcosa le contadine dell'India
(inferiori) che hanno visto il proprio ecosistema devastato dagli scienziati
occidentali (superiori);
3. riconducendo la teoria politica a processo in costruzione che interagisce
con cornici storiche, socioeconomiche, ambientali: basta con le
teorizzazioni statiche e astoriche, "buone per qualunque epoca", e
falsamente "neutre" rispetto ai generi sessuati;
4. conferendo ai processi di pace una struttura plurale, incoraggiando la
presa di parola di una molteplicita' di voci, ognuna delle quali
riconosciuta ed ascoltata nella sua prospettiva particolare: dare voce
significa effettivamente dare potere, aprire scenari, offrire possibilita';
5. riconoscendo competenza a chi ce1'ha: non coinvolgere le donne nelle
problematiche relative alla produzione ed al consumo di alimenti significa
escludere dalla discussione chi produce piu' del 60% del cibo in tutto il
mondo; non coinvolgere le donne e i bambini quando si disegnano sistemi di
irrigazione nei paesi in via di sviluppo significa escludere dalla
discussione chi ha l'assoluta maggioranza nel ruolo di raccoglitore e
distributore di acqua potabile;
6. riconoscendo che la struttura di dominio si basa anche sul consenso,
poiche' la dicotomia concettuale dominatori/dominati offre a segmenti di
dominati di dominare a loro volta, e percio' essi consentono tacitamente od
esplicitamente alla continuazione della struttura;
7. cominciando a concepire gli esseri umani per cio' che essi sono
effettivamente ovvero esseri in relazione, e non in modo accidentale o
fortuito. La relazione e' la "conditio sine qua non" grazie alla quale non
solo essi sopravvivono, ma che li crea come esseri umani. Considerare,
percio', che ogni donna ed ogni uomo sono un nodo unico ed irripetibile
della rete della vita e che non esistono categorie "superflue" ne' fra gli
esseri umani, ne' fra gli animali o le piante;
8. focalizzando le nostre azioni sulla cura, la reciprocita', l'amicizia, le
relazioni affettive, la fiducia e l'amore: cioe' lo spostamento di valore,
energie e risorse dall'impersonale al relazionale, ove per relazionale si
intende anche la relazione con esseri non umani;
9. sorvegliando il nostro linguaggio ed i modi con cui comunichiamo;
nominare i due generi (maschile e femminile), interrogare gli stereotipi e i
ragionamenti basati su opposizioni binarie, bandire la nostra approvazione
agli atti di violenza, rifiutare la mistica dell'"eroe", riconoscere che
senza la cura e l'affetto degli altri e delle altre non potremmo vivere ne'
saremmo quali siamo (ma gli esempi potrebbero continuare all'infinito).
*
Una studiosa ecofemminista, Marilyn Frye, ha provato ad immaginare un
framework basato piu' o meno sui presupposti suddetti ed ha coniato, per lo
sguardo che tale struttura produrrebbe sul mondo, un termine che mi piace
molto: "occhi amanti".
Lo sguardo di tali occhi viene a sapere parecchie cose: sa la complessita'
dell'altro, e cioe' che chiunque l'altro sia, egli o ella o esso/a mi
presentera' sempre cose nuove da conoscere; questo sguardo sa che per vedere
l'altro non serve ridurlo ai propri voleri, interessi, paure ed
immaginari... "riducendolo", essi lo vedrebbero meno bene.
Gli "occhi amanti" sono pieni d'attenzione, quasi concentrassero in se
stessi tutti i sensi: vedere, ascoltare, esaminare diventano inseparabili.
Questo sguardo non tenta di assimilare l'altro o di formarlo secondo lo
stampo del proprio desiderio. Non c'e' fusione di due ma sempre relazione
fra due. Le entita' sono riconosciute come differenti, indipendenti e pur
sempre in relazione.
Questo e' cio' che il pensiero delle donne sta offrendo a tutti; donne ed
uomini.
Non ci interessa produrre un "quilt" di un solo colore, basato sull'univoco
(tante voci, ma che dicono la stessa cosa nello stesso tono); la coperta che
cuciamo vuol dare conto di tutto cio' che la struttura
occidentale/patriarcale assimila, gerarchizza o nega. Noi sappiamo che non
esiste qualcosa come una "percezione oggettiva" da parte del genere umano e
che non esiste una struttura concettuale priva di "bias"; da cio' sappiamo
che non esiste alcuna azione umana ed alcun pensiero umano che non sia
responsabile di se', proveniente da qualcuno che appartiene ad un genere
sessuato, ad un sistema familiare, ad una societa' specifica e cosi' via, e
che ne riflette necessariamente i valori dati.
Poiche' riconosciamo le differenze, la nostra visione e' paradossalmente
piu' inclusiva e piu' unitaria di chi non le riconosce o le annulla nel
concetto di "universale".
*
Voi sapete che le donne Chipko, per salvare il proprio ecosistema dalla
deforestazione voluta dalle multinazionali hanno abbracciato gli alberi.
Era l'unico gesto dotato di senso, poiche' sfuggiva alla struttura
concettuale che vi ho descritto, e che prevede il combattere una violenza
solo usando un'altra violenza. La logica del dominio separa e non prevede
l'abbraccio. Tanto peggio, concludo io, per chi ha scelto la logica del
dominio: perche', fatte salve tutte le altre considerazioni, e' veramente
molto bello stare abbracciati.
*
Sono debitrice, per questo intervento, agli "occhi amanti" ed alle sagge
parole di: Carol Adams, Stacy Alaimo, Chris J. Cuomo, Francoise d'Eaubonne,
Evelyn Fox-Keller, Marilyn Frye, Marija Gimbutas, Luce lrigaray, Gloria
Orenstein, Vandana Shiva, Starhawk, Karen J. Warren.
3. RIFLESSIONE. SUZETTE H. ELGIN: PATOLOGIE DEL COMPORTAMENTO UMANO NEI
GRUPPI
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo per averci messo a disposizione la
traduzione di questo testo di Suzette H. Elgin. Abbiamo adattato la
terminologia proposta per la tipizzazione (rinunciando conseguentemente alla
brillantezza metaforica) al fine di evitare possibili equivoci. Suzette H.
Elgin, cristiana, femminista, linguista e amica della nonviolenza, e'
autrice di sf e dell'apprezzato, in ambito anglosassone, La gentile arte
della difesa verbale (ma ha scritto un'altra dozzina di interessanti libri
sulle relazioni umani e il linguaggio)]
Ci sono circa mezza dozzina di atteggiamenti sociali patologici nel
comportamento umano: conoscerli significa avere uno strumento importante per
risolvere i conflitti ad ogni livello. Come metafora per spiegarli, ho usato
denominazioni di gruppi e pratiche correnti in culture antiche e la loro
interazione. Gli stessi schemi si ripetono al giorno d'oggi e si sono
ripetuti in ogni tempo e luogo, ma ho trovato la metafora particolarmente
calzante per gli odierni rapporti nei gruppi.
*
Primo: Il "detentore della verita'"
L'essenza di questo approccio e' l'uso dei propri sofismi per estirpare
l'errore e la superstizione da "cio' che conta veramente". Spesso le persone
che usano questo modulo sono violente verso chi non e' d'accordo con loro e
reagiscono violentemente (in modo fisico o verbale) alle "superstizioni".
Cio' che e' patologico e' il derivare il proprio senso di identita' dallo
schernire le masse ignoranti e dal sentirsi "troppo intelligente" per
accettare qualsiasi altro ragionamento che non sia il proprio. Spesso il
moderno "detentore della verita'" si sente investito di una missione,
sentimento che deriva dall'aver abbracciato cio' che l'elite sociale o
accademica di sua scelta ha deciso essere la verita'. La richiesta che il
"detentore della verita'" pone al gruppo e' di avere la precedenza, in nome
e per conto della superiore corrente di pensiero a cui appartiene.
*
Secondo: Lo scriba
L'approccio di questa persona e' di tipo "legale", basato su molteplici
regole che vengono usate per giudicare gli altri. Sono capaci di cercare
l'ago nel pagliaio ma non di usare giustizia, compassione e fiducia. Cio'
che e' patologico e' il derivare il proprio senso d'identita' dalla condanna
degli altri, colpevoli di non riuscire a rispondere al proprio irrazionale
"legalismo". La missione di cui il moderno scriba si sente spesso investito
e' il richiedere rispetto ed onore per i valori del passato, per
nessun'altra ragione che si tratta di valori del passato e lui li ha
abbracciati. La discussione degenera spesso in aperto conflitto quando sono
presenti i "detentori della verita'" da una parte e gli scribi dall'altra
*
Terzo: Lo squadrista
Il vero squadrista si distingue dal convincimento che ogni disaccordo o
conflitto possa e debba essere risolto con l'uso della forza. Generalmente,
prima tenta di usare la forza e poi tutti gli altri metodi. Gli squadristi
sono assuefatti alla scarica di adrenalina che producono in loro le azioni
che promuovono o comportano violenza. Questa patologia e' rintracciabile in
ogni gruppo dall'estrema destra all'estrema sinistra (e in tutte le
sfumature intermedie). Dalla distruzione di oggetti alla rapina, dal crimine
di strada all'avventurismo militare, la missione dei moderni squadristi e'
l'uso della forza fisica. Molti gruppi pacifisti o nonviolenti scoprono
spesso con sorpresa di avere un significativo numero di squadrista fra i
loro membri.
*
Quarto: Il riscossore
I riscossori sono coloro che invece di tentare di cooperare con gli altri,
di assimilare sapere dal gruppo, sono in grado solo di assimilare "cose". La
forma piu' comune di questa patologia e' il ritenere che il denaro abbia
maggiori diritti degli esseri umani, e che i diritti umani derivino
direttamente dal possesso di denaro. Quando vi capita di sentire un
ragionamento del tipo: "Sono autorizzato a fare questo perche' devo/voglio
guadagnare dei soldi", avete incontrato un riscossore in azione.
*
Quinto: Il prostituto
Questa e' una persona che sta al mondo unicamente per ricercare
soddisfazione ai propri piaceri, senza limiti di sorta. I prostituti sono
spesso sfruttati dagli altri o diventano loro vittime. Questo comportamento
e' patologico in quanto si concentra esclusivamente sulla gratificazione
immediata e non ne considera alcuna conseguenza. "Ma ne avevo bisogno", e'
il ritornello di questo tipo di persone. Molto spesso, altri individui
affetti da patologie comportamentali insisteranno di avere il diritto di
abusare di un prostituto o di sfruttarlo solo in ragione della sua
appartenenza al loro medesimo gruppo, o in ragione del suo essere
prostituto.
*
Sesto: L'escapista
Gli escapisti sono la figurazione di quelli che usano la fuga come strategia
risolutiva del conflitto. I gruppi che organizzano campi di sopravvivenza a
destra e i collettivi utopisti a sinistra sono un buon esempio per la
patologia degli escapista. I problemi sorgono quando questo tipo di persone
si trova in una situazione in cui non puo' fuggire; ogni gruppo contiene la
sua parte di escapista come contiene le altre tipologie: il punto e'
riuscire a capire come e dove i comportamenti patologici si reiterano.
*
Queste sei classificazioni di massima sono quelle che maggiormente si
ripetono nel lavoro di gruppo. La loro evidenza diviene manifesta nei tipi
di negoziazione che vengono proposti: gli scribi useranno "la legge", i
"detentori di verita'" le loro analisi; gli squadristi mostreranno i propri
schemi aggressivi; i riscossori discuteranno, ma trattando le persone come
cose e le cose come persone; I prostituti tremeranno ed esiteranno; gli
escapisti fuggiranno via.
Non c'e' nulla di sbagliato in alcuni meccanismi di base per affrontare le
situazioni: dedicarsi alla verita' e all'analisi non e' patologico in se'.
Ma ogni meccanismo puo' "andare a male", dando un esito patologico
all'interno del gruppo. Riconoscere come questo limiti le attivita' e la
coesione del gruppo puo' aiutare a capire la natura dei conflitti e puo'
essere un utile primo passo sulla strada della soluzione e della
riconciliazione.
4. RIFLESSIONE. MONICA LANFRANCO: NEI MOVIMENTI IL NODO DEL LINGUAGGIO (E LA
VIOLENZA DEL SESSISMO)
[Ringraziamo Monica Lanfranco (per contatti: e-mail: mochena@village.it,
siti: www.marea.it, www.village.it/lanfranco/) per averci messo a
disposizione questo suo articolo scritto per il settimanale "Carta". Monica
Lanfranco, giornalista professionista, nata a Genova il 19 marzo 1959, vive
a Genova; collabora con le testate delle donne "DWpress" e "Il paese delle
donne"; ha fondato il trimestrale "Marea"; dirige il semestrale di
formazione e cultura "IT - Interpretazioni tendenziose"; dal 1988 al 1994 ha
curato l'Agendaottomarzo, libro/agenda che veniva accluso in edicola con il
quotidiano "l'Unita'"; collabora con il quotidiano "Liberazione", i mensili
"Il Gambero Rosso" e "Cucina e Salute"; e'' socia fondatrice della societa'
di formazione Chance. Nel 1988 ha scritto per l'editore PromoA Donne di
sport; nel 1994 ha scritto per l'editore Solfanelli Parole per giovani
donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi, ristampato in due
edizioni. Per Solfanelli cura una collana di autrici di fantasy e
fantascienza. Ha curato dal 1990 al 1996 l'ufficio stampa per il network
europeo di donne "Women in decision making". Nel 1995 ha curato il libro
Valvarenna: nonne madri figlie: un matriarcato imperfetto nelle foto di fine
secolo (Microarts). Nel 1996 ha scritto con Silvia Neonato, Lotte da orbi:
1970 una rivolta (Erga): si tratta del primo testo di storia sociale e
politica scritto anche in braille e disponibile in floppy disk utilizzabile
anche dai non vedenti e rintracciabile anche in Internet. Nel 1996 ha
scritto Storie di nascita: il segreto della partoriente (La Clessidra). Cura
e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati (politici,
sindacali, scolastici) sulla storia del movimento delle donne e sulla
comunicazione]
"Una parola e' morta quando viene detta, dicono alcuni. Io dico che comincia
a vivere soltanto allora". E' in una poesia di Emily Dickinson, che di
parole, e del loro uso, si intendeva.
Ma se preferite ecco quello che affermava Ann Godin, pedagogista: "Le parole
sono i chiodi per attaccare le idee".
Ci sara' un motivo per il quale in moltissime, le storiche, le antropologhe,
le studiose femministe centrano l'attenzione sull'uso delle parole, e
mettono in guardia sulla stretta connessione tra violenza del linguaggio
comune e violenza reale, nelle relazioni quotidiane come nella politica e
quindi nel tessuto sociale.
Rilevando una banale ma rilevante falla nel buonsenso, falla che pero'
diventa baratro se si riflette piu' a fondo sulla cancellazione della
realta' anche quando questa e' evidente agli occhi, la filosofa Adriana
Cavarero spiegava come persino all'universita' ci fossero docenti che,
dinanzi ad un auditorio di sole ragazze, o con pochissimi maschi presenti,
continuassero imperterrite a parlare al maschile: la frase "buongiorno
ragazzi" pronunciata ad un pubblico evidentemente a maggioranza femminile
non appare affatto quello che e', ovvero una straordinaria bugia.
Proviamo a riflettere sulla neutralita' del linguaggio, e su come la sua
non sessuazione, il non dichiarare il maschile e il femminile includendo
quest'ultimo nel neutro sia una porta aperta sul sessismo. "Uffa, che barba,
che vuoi che conti se diciamo uomo intendendo anche le donne? Insomma
sappiamo bene che vogliamo dire tutti, no?". Centinaia di volte ho sentito
questo argomento, trasversale si badi bene a ambienti culturali,
generazionali e politici, e centinaia di volte mi sono impuntata, spostando
l'asse del ragionamento su altri versanti, che evidentemente fanno meno
paura, o aprono meno conflitti.
Per esempio sul fronte geopolitico. Se diciamo male degli americani, non
stiamo forse generalizzando a scapito anche dei cileni, o dei messicani?
Nordamericani si dovrebbe allora dire, e ancor meglio si dovrebbe parlare di
statunitensi, ma forse sarebbe ancora meglio definire di chi abbiamo cosi'
nausea, perche' dentro il popolo americano ci sono milioni di brave persone.
E questo vale per ogni neutra generalizzazione.
Parlo di questo argomento perche' nei movimenti il nodo del linguaggio
(quindi della comunicazione, quindi dei contenuti che attribuiamo alle
parole, quindi della nostra politica, at last) e' un tema difficile: come
per la sessualita', dove i comportamenti sbagliati sono sempre attribuiti
agli altri, cosi' l'uso della parola, che e' poi il tramite simbolico, la
moneta di scambio dei propri contenuti reali sembra essere un terreno
infimo, un fastidioso tormentone ("nel documento va aggiunto donne,
cittadine, etc.") che certe femministe moraliste noiose e poco
rivoluzionarie tendono a tirar fuori, come se non ci fossero altre cose ben
piu' importanti delle quali occuparsi.
Eppure, se e' vero che la lingua batte dove il dente duole, anche nel
simbolico doloroso conflitto della contraddizione di genere, fare attenzione
al perche' si insiste nell'uso del neutro non e' poi cosi' secondario:
l'identita' e' il principio attraverso il quale si affermano le differenze.
Per essere detta, e valorizzata, la differenza va nominata, anche nel
discorso minuto della quotidianita', senza il quale la grande politica e'
poca cosa.
5. RIFLESSIONE. AMELIA ALBERTI: NEGLI OCCHI DEI BAMBINI
[Ringraziamo Amelia Alberti (per contatti: lambient@tiscalinet.it) per
questo intervento. Amelia Alberti e' presidente del circolo verbano di
Legambiente, e collaboratrice di questo foglio]
Da "La Stampa" del primo febbraio: "Eric Hoskins, capo della delegazione
canado-norvegese e direttore della ong War Child Canada, che lavora
regolarmente in Iraq da dodici anni... pensa che 'se si traggono le
conclusioni da cio' che ha insegnato la guerra del Golfo, si vede che i
tredici milioni di bambini iracheni nel caso di un nuovo attacco,
rischieranno la morte, la malnutrizione e gravi traumi psichici'. A suo
parere 'L'Iraq ha riserve di cibo e di medicinali sufficienti appena per un
mese' e, considerato come un decennio di sanzioni economiche abbia devastato
il paese di Saddam Hussein, 'la popolazione infantile oggi e' molto piu'
esposta alle conseguenze drammatiche di una guerra di quanto lo fosse nel
1991'".
La nostra coscienza si ritrae dalla pre-visione del terrore negli occhi dei
bambini iracheni, nei giorni apocalittici in cui le bombe pioveranno dal
cielo come grandine impazzita. Guardiamo con amore impotente i nostri
bambini felici e spensierati, chiedendoci disperati di che cosa e' impastata
mai la natura umana, se ancora l'odore del sangue e della carne straziata
sollecita la bramosia degli uomini fino a dimenticare l'istinto primordiale
della perpetuazione della specie.
6. RIFLESSIONE. LIA CIGARINI: LIBERTA' RELAZIONALE
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il testo della relazione di Lia Cigarini al decimo simposio
dell'Associazione internazionale delle filosofe, svoltosi a Barcellona dal 2
al 5 ottobre 2002. Lia Cigarini e' una delle piu' prestigiose intellettuali
femministe italiane]
Vorrei fare una premessa: penso che la liberta' sia un'esperienza e un'idea
non riducibile ad un insieme di diritti costituzionali civili e politici in
capo ad una individua e ad un individuo.
Anzi penso che la cristallizzazione in diritti finisca con l'essere un
ostacolo all'esperienza e al processo infinito della liberta', all'infinita'
della liberta'.
Per me materialista ed atea liberta' e' l'unico nome che mi da' l'emozione
dell'infinito come il mare e il deserto.
Credo, percio', sia necessario spiegare che cosa io intendo per liberta'
femminile.
*
Insieme ad altre ho pensato che la questione prioritaria da porsi fosse
quella di trovare un senso al mio essere donna. Questa e' stata la rottura
(fatta dai primi gruppi femministi) con la precedente politica piu' o meno
tormentata dell'assimilazione al mondo maschile, politica che aveva un nome
e uno statuto ben preciso: l'emancipazione delle donne.
Ponendo dall'inizio la questione dell'essere donna, abbiamo cominciato a
lottare sul terreno della liberta' femminile perche' la liberta' ad una
donna spetta a causa del suo essere una donna e non a prescindere dal suo
sesso come recitano le varie Costituzioni e tutte le leggi di parita' che ne
sono seguite.
Se io dico sono una donna e a partire da questa materialita' affermo la mia
liberta', e' cosa diversa che dire: i principi di uguaglianza e di liberta'
elaborati dal mondo maschile devono valere per uomini e donne.
Da queste premesse mi pare chiaro che io e molte altre, ci siamo collocate
in un luogo di pratiche di relazione tra donne. Considerando, quindi la
relazione, quale via e modalita' della liberta'.
Viene cosi' a configurarsi un "luogo" (di rapporti e di pratiche) che
precede o supera l'ordine delle leggi e da cui dipende a mio parere che vi
sia generazione di liberta' femminile.
*
La liberta' e' un'esperienza in comune. Io preferisco usare questo termine -
in comune - piuttosto che dire, come fa Hannah Arendt, che liberta' e
politica coincidono o che la politica non e' separabile dalla liberta'. Per
me la relazione duale o piu' relazioni duali sono gia' politica, perche' la
questione sostanziale in politica sono le mediazioni che si mettono in atto,
piu' che le forme finali (Parlamenti, ecc.).
Il problema, dunque, e' la relazione, o meglio la relazione di differenza,
come mediazione per l'agire delle donne. Relazione di differenza da
intendersi come relazione con l'altro, senza arrivare a un noi, a un
soggetto collettivo.
Il sopra la legge e' in questa prospettiva il luogo dell'esistenza
simbolica, dell'esperienza messa in parola del rapporto con l'altro/a.
Questa figura del sopra la legge, e le pratiche di relazione che abbiamo
creato, mi sembra sia coerente con la politica della differenza nel suo
insieme: e' stata efficace per quel che riguarda l'opposizione alla politica
di parita'.
Infatti le stesse sostenitrici e i gli stessi sostenitori della politica
della parita' hanno presentato le leggi di parita' come una mediazione al
ribasso tra differenza ed uguaglianza con gli uomini.
Cio' lascia uno spazio vuoto all'agire della liberta' femminile.
*
Vorrei tornare sulla rottura di cui parlavo prima tra la politica
dell'emancipazione che si trascinava stancamente da circa cento anni e
l'imprevista apparizione o piu' precisamente esperienza per alcune, poi
molte, della liberta' femminile.
Riflettendo su quel momento imprevisto, siamo nel 1967, posso dire che il
mio io politico di giovane donna comunista, che insieme a quella operaia
voleva la liberazione delle donne, si e' dileguato, e' defluito da me in
brevissimo tempo. Ho riflettuto molto su quella radicale trasformazione.
Non c'e' stato un particolare trauma bensi' un assommarsi di coincidenze:
avevo deciso di iniziare un'analisi perche' mi sentivo stordita, in sostanza
senza parole, muta, anche di fronte agli accadimenti politici che fino
allora mi avevano tanto coinvolto e alla fraterna amicizia con i tanti
uomini che frequentavano la politica comunista; nel contempo ho incontrato
una donna che si aggirava insieme a me nelle piu' svariate riunioni del
pre-sessantotto milanese, anche lei senza parlare ma con in mano un
documento un po' contorto dove si parlava di trascendenza femminile.
Fatto sta che la mia decisione dopo quell'incontro di aggregare un gruppo di
donne per parlare e riflettere su di noi, e' stata repentina.
Cio' significa, - e qui sono d'accordo con il testo di Luisa Muraro "Vita
passiva", dove Luisa sottolinea che nella capacita' di agire vi e' sempre
una parte di passivita' e accetta la coincidenza delle liberta' con il
potere agire a patto che si tenga conto del non potere agire - che io c'ero
gia' passivamente dove la presa di coscienza mi ha poi collocato.
E significa, inoltre, che l'esperienza della mia giovanile emancipazione, di
fare cioe' tutte le imprese che facevano gli uomini, che ora ricordo come un
incubo fallico, era in realta' una vera anche se contraddittoria esperienza
femminile dove la mancanza di senso della differenza sessuale in questo
mondo metteva silenziosamente ma positivamente in scacco i miei piu'
baldanzosi progetti.
E significa, infine, che la tensione conflittuale tra liberta' ed
emancipazione sara' permanente nella esperienza delle donne, perlomeno di
quelle occidentali.
D'altra parte la liberta' non segue un ordine cronologico: io mi accorgo
quando c'e' liberta' e poi poco tempo dopo sento la ripetizione o il
prevalere della legge.
La vicenda della liberta' femminile non puo' essere pensata come conclusa e
progressiva. Non puo' essere storicizzata.
La separazione, dunque, dalla politica maschile e in molti casi dagli uomini
in carne ed ossa - coi gruppi di sole donne - e' stata un'azione attraverso
la quale la liberta' femminile ha parlato.
Un gesto dirompente: un mio amico psicanalista, acuto osservatore della
realta' che cambia, diceva che le donne, quelle che conosceva,
all'improvviso erano entrate in clandestinita'. Non sapeva cosa succedesse
in quei gruppi. Non poteva osservarle. E cio' lo metteva in ansia.
Attraverso i suoi pazienti donne e uomini aveva capito che quel fatto aveva
colpito l'inconscio ma non poteva interpretarlo perche' in preda alla sua
stessa angoscia.
Racconto questa vicenda per dire - e sottolineo che e' uno scherzo della
liberta' e della asimmetria dei sessi - che da allora e' iniziato il
silenzio maschile, l'incapacita' a capire e la loro evasione dal conflitto
tra i sessi. Da allora, gia' dagli anni settanta (e so di andare
controcorrente), io penso che la politica degli uomini ha cominciato a
restringersi, a ridursi all'economia e alla guerra che e' quello che abbiamo
sotto gli occhi.
Con la separazione, le donne, si sono prese una grande liberta'. Il tempo,
ad esempio, di narrare la propria esperienza piu' intima mai prima detta.
*
Il luogo. La relazione sentita e nominata, anche quella duale, come
pubblica, ha fatto si' che attraverso le relazioni tra donne sempre piu'
articolate e ampie, attraverso la narrazione, la filosofia, la storia,
l'arte, il linguaggio insomma, attraverso le relazioni di differenza con
alcuni uomini, si sia formata un'altra agora' (di cui anche questo incontro
e' la prova) costituita da molte donne e pochissimi uomini. Si e' spaccata
la "scena pubblica".
In questi trent'anni io mi sono mossa, ho pensato e parlato per
l'essenziale, in questa altra agora' di cui intuisco molte caratteristiche.
Per esempio la sua forma non-finita, il privilegio della prossimita'.
A mio parere non bisogna avere esitazione a dire che la polis, la scena
pubblica, l'agire politico, e' spaccato. Tali figure non possono piu' essere
usate come figure significative in presenza della politica delle donne.
Tuttavia il simbolico che stiamo creando e che a sua volta sta creando noi,
si basa sull'esperienza dell'alterita' (anche questa riflessione e'
soprattutto di Luisa Muraro).
Cio' ci ha impedito fortunatamente di identificarci con le donne. Mantenendo
vive, con la consapevolezza della differenza sessuale e il conflitto tra i
sessi, anche le differenze tra noi e il senso della singolarita'.
Un'agora' aperta, dunque, anche agli uomini perche' costituita da relazioni,
scambi, pensiero, arte, saperi, linguaggio, il cui significato anche un uomo
puo' afferrare e condividere.
D'altra parte il pensiero maschile piu' critico ha sottolineato che la
liberta' non e' riducibile alla democrazia che conosciamo, al sistema
elettorale, al dominio della maggioranza; neppure ai diritti, alla politica
dei partiti e degli Stati.
Un esempio per tutti, un giurista-filosofo della scuola di Vienna che io
apprezzo, Kelsen, che ha cercato gia' ottanta anni fa di superare il
conflitto tra liberta' e democrazia con la formulazione della "liberta'
democratica", ha scritto "la democrazia e' una societa' senza padre. Essa
vuole essere una societa' di equiordinati, possibilmente senza capi. Il suo
principio e' il coordinamento e la fratellanza matriarcale la sua forma
primitiva".
Per questo pensatore quindi la liberta' democratica non era affidata alle
regole ne' all'apparato della democrazia rappresentativa. La sua posizione
si avvicina alla pratica politica della differenza che si rifiuta di ridurre
l'insieme delle relazioni dell'agora' di cui parlavo prima, al politico.
Naturalmente Kelsen che era un geniale giurista ha trovato nel formalismo
giuridico, nel diritto una qualche soluzione, tralasciando tuttavia la
questione che aveva posto.
*
Oggi che la democrazia e' franata nelle dittature delle maggioranze ottenute
per pochi voti di elettori frastornati dai media, o illegalmente come negli
Stati Uniti, e nelle decisioni di enti bancari internazionali non eletti per
definizione da nessuno, si apre un vuoto pratico-teorico enorme davanti a
tutte e tutti.
Certo l'agora' dove ci muoviamo e' fragile ma ampia, comprende paesi
lontanissimi, (penso al mio speciale rapporto con le artiste e in genere le
donne dell'Iran) e ha gia' un grande pensiero e ulteriore potenzialita'. Le
donne, la' dove non possono agire, possono pensare ed esercitarsi a farlo in
comune.
La liberta' resta affidata, nella prospettiva che io qui avanzo, alla forza
delle pratiche politiche. E prima, ancora, alle coincidenze e all'infinita'
del desiderio di liberta' delle singole e dei singoli.
7. LETTURE. FATIMA MERNISSI: LA TERRAZZA PROIBITA
Fatima Mernissi, La terrazza proibita, Giunti, Firenze 1996, 2001, pp. 236,
euro 9,50. La grande intellettuale marocchina rievoca la sua infanzia e la
vita di allora in un harem di Fez. Fatima (ma il nome puo' essere
traslitterato anche in Fatema) Mernissi e' nata a Fez, in Marocco, nel 1940,
docente di sociologia, studiosa del Corano, narratrice; tra i suoi libri
disponibili in italiano: Le donne del Profeta, Ecig, 1992; Le sultane
dimenticate, Marietti, 1992; Chahrazad non e' marocchina, Sonda, 1993; La
terrazza proibita, Giunti, 1996; L'harem e l'Occidente, Giunti, 2000; Islam
e democrazia, Giunti, 2002.
8. LETTURE. SALWA SALEM: CON IL VENTO NEI CAPELLI
Salwa Salem, Con il vento nei capelli, Giunti, Firenze 1993, 2001, pp. 190,
euro 8,50. Un libro di vibrante intensita': l'autrice (1940-1992),
intellettuale palestinese, gia' colpita dalla malattia che la portera' alla
morte racconta la sua vita con passione di verita' e finezza grandi. Con una
testimonianza di Elisabetta Donini e una postfazione di Laura Maritano.
9. LETTURE. TOM SEGEV: IL SETTIMO MILIONE
Tom Segev, Il settimo milione, Mondadori, Milano 2001, 2002, pp. 540, euro
9. Un libro di grande interesse del prestigioso giornalista e saggista, su
"come l'olocausto ha segnato la storia di Israele".
10. RILETTURE. CLAUDE LEVI-STRAUSS: PRIMITIVI E CIVILIZZATI
Claude Levi-Strauss, Primitivi e civilizzati, Rusconi, Milano 1970, 1997,
pp. 128, lire 20.000. La trascrizione delle conversazioni radiofoniche del
grande antropologo con Georges Charbonnier nel 1959.
11. RILETTURE. ELENA PIGOZZI, SUSI DE PRETIS (A CURA DI): LETTERATURA AL
FEMMINILE
Elena Pigozzi, Susi de Pretis (a cura di), Letteratura al femminile,
Demetra, Colognola ai Colli (Vr) 1998, pp. 112, lire 12.000. Una sintetica,
agile "storia delle scrittrici e dello scrivere al femminile".
12. RILETTURE. FRANCESCA POZZI (A CURA DI): LE SANTE
Francesca Pozzi (a cura di), Le sante, Demetra, Colognola ai Colli (Vr)
1999, pp. 96, euro 6. Nella collana di agili monografie introduttive
"Atlante al femminile" un volume su "i modelli della santita' femminile
dall'antichita' a oggi". Nei limiti di una esposizione di scorcio ed a
carattere cursorio e di primo accostamento, una lettura interessante e non
banale.
13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 495 del 2 febbraio 2003