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La nonviolenza e' in cammino. 490



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 490 del 28 gennaio 2003

Sommario di questo numero:
1. Giancarla Codrignani, dare "senso di genere" alla nonviolenza
2. Enrico Peyretti ricorda Domenico Sereno Regis
3. Nicoletta Landi, la campagna "Pace da tutti i balconi"
4. Riccardo Orioles: undici, ventotto e (soprattutto) novanta
5. Lidia Menapace, il mio contributo al giorno della memoria
6. Enzo Mazzi, il genocidio nazista dei rom
7. Ileana Montini, ancora sul "relativismo culturale"
8. Letture: Elena Loewenthal, Lettera agli amici non ebrei
9. Letture: Nuto Revelli, Le due guerre
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. GIANCARLA CODRIGNANI: DARE "SENSO DI GENERE" ALLA NONVIOLENZA
[Ringraziamo Giancarla Codrignani (per contatti: giancodri@libero.it) per
questo intervento che riprende e rilancia la riflessione a piu' voci
promossa dall'editoriale "Una lettera ai pacifisti dimezzati" della stessa
Giancarla apparso sul n. 437 del 6 dicembre 2002 di questo foglio. Giancarla
Codrignani, presidente della Loc (Lega degli obiettori di coscienza al
servizio militare), gia' parlamentare, saggista, impegnata nei movimenti di
liberazione, di solidarieta' e per la pace, e' tra le figure piu'
rappresentative della cultura e dell'impegno per la pace e la nonviolenza.
Tra le opere di Giancarla Codrignani: L'odissea intorno ai telai, Thema,
Bologna 1989; Amerindiana, Terra Nuova, Roma 1992; Ecuba e le altre,
Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1994]
Cari amici e care amiche che avete proseguito a ragionare sulla necessita'
di dare "senso di genere" alla nonviolenza,
sono davvero contenta del nostro dialogo.
E spero che continui nel tempo, esplicitando tutte le affinita' e le
differenze che si collegano agli interessi di chi ama - e percio' pratica -
politiche di pace, per un se' individuale che non sia solitudine, per la
societa' in cui si vive responsabilmente, per il mondo che deve cambiare e
comunque cambia.
Mi sembra che siano state dette cose non irrilevanti da parte sia di donne
che di uomini; mi sembra significativo, tuttavia, che nessuno dei documenti
formulati abbia registrato, nelle varie "scalette", un qualche riferimento a
politiche e proposte dei "due generi".
Proprio perche' la nonviolenza resta ancora inadeguata rispetto alle urgenze
della storia, non ci si dovrebbe attardare su posizioni tradizionali senza
accettare di capire qualcosa di piu' da "altri" e da "altre", da "diversi" e
da "diverse", come se quella dei nonviolenti non fosse la piu' esigua delle
minoranze e non ricusasse "per natura" aristocraticismi e settarismi.
Le donne non sono "ontologicamente" migliori, ma varrebbe la pena di
riflettere sull'utilita' di far avanzare la parita' nell'ambito militare
senza aver messo in discussione prima la violenza del modello di
riferimento. Quando donne chiedono l'uguaglianza ( che non e' la parita')
nell'esercito, nel pugilato, nella managerialita' competitiva, quella che
stronca le gambe ai/alle concorrenti, i casi - da un punto di vista generale
(e generico) - sono due: o il modello che si autodefinisce "unico" e
"universale" e' veramente tale, e le donne "emancipandosi" faranno tutto
quello che fanno i maschi (la prostituzione come diritto universale?) e
condurranno "avanti" la stessa storia di conflitti-guerre-dominio; oppure
quel modello che va dalla fionda al nucleare-chimico-batteriologico e'
arrivato al limite non piu' solo simbolico di morte globale e va modificato
in qualche modo.
Forse il tempo di recupero della dualita' dei modelli e' molto limitato e
non e' da escludere che, se la parita' adegua le donne alla competitivita',
i guai in vista possono essere notevoli, perche' le donne sono molto
determinate e, come dire?, agguerrite.
Un uomo come Amartya Sen, quando ricorda che non vi puo' essere speranza di
cambiamento nel mondo - un cambiamento ritenuto necessario da tutte le
scuole di pensiero - senza l'assunzione a tutto campo dei valori e delle
esperienze delle donne, esprima un'ovvieta'. Perche' non ha seguito ne' a
Davos ne' a Porto Alegre?
*
Anche partendo dai "ruoli" tradizionali, c'e' stata e c'e' una bella
differenza tra aver maneggiato da bambini una bambola, perfino una "Barbie",
oppure un mitra di plastica; tra chi continua a essere educata alla
domesticita' e chi a ignorare il corpo (e il rispetto dei corpi) a partire
dal proprio.
Il guerresco, l'eroico, il competitivo penetrano l'immaginario maschile e
anche chi si dichiara nonviolento o anche solo antimilitarista e pacifista,
resta sensibile ai richiami delle sfide. Anche l'incontro con una ragazza
diventa una prova da superare e secoli di letteratura testimoniano, con
l'analogia linguistica della poetica amorosa, che l'assedio, la conquista e
la vittoria aspettano la "resa".
Non fa meraviglia se questa simbologia "neutra" ha contaminato anche la
mente delle donne. La "liberta'", per esempio, non e' mai stata valida per i
due generi allo stesso modo,visto che anche dove c'e' liberta' di movimento
una donna che indugi in un luogo isolato a respirare la notte fumando una
sigaretta e fischiettando una canzone corre pericoli non di poco conto e non
per paura di uno scippo. Naturalmente il valore comune del termine la induce
a battersi "democraticamente" perche' lo stato - che non le riconosce
diritti propri ma le eroga benefici come a qualunque altro settore sociale -
mantenga le prerogative costituzionali, che, a loro volta, non le
garantiscono neppure la semplice parita' elettorale che continua a
omologarla senza riconoscerne la differenza (avete mai letto l'art. 37?).
Chi determina gli statuti delle liberta' e dei diritti? Dal codice di
Hammurabi in poi certamente non le donne.
Oggi il luogo democratico di discussione e' quello dei partiti, nei quali le
donne "militano"e dei quali perfino si compiacciono se decidono di
modificare "per loro" l'art. 51 della Costituzione, come se non ci fosse
l'art. 3 e come se l'incomprensione della Consulta sarebbe impensabile con
la presenza di qualche donna.
Naturalmente,se qualcuno approfittera' di questa inconsistente modifica (che
immagino quasi ignota: andatevela a leggere) per ritenere riformabili altri
elementi della prima parte della Costituzione, la responsabilita' sara'
delle donne,sempre scomode.
*
I piu' "idealisti", a questo punto, normalmente si chiedono che cosa
c'entrino "questi" argomenti con la violenza.
E' qui che li voglio, perche' proprio le leggi, scritte e non scritte,
consentono tutte le disparita' e discriminazioni, dallo stupro (che anche
nella civile Italia fino a pochi anni fa valeva penalmente meno di uno
scippo) ai ricatti e alle penalizzazioni in materia lavorativa, dalle botte
in famiglia al divieto di studiare, dalle clitoridectomie al rifiuto di
pensieri e proposte di un'intellettualita' a cui vengono consentiti gli
"women's studies" a patto che non incidano sulle logiche accademiche di
potere. E tutto cio' e' autentica violenza.
Puo' darsi che per qualcuno il "che c'entra?" resti. Come diceva Rosa
Luxemburg, non possiamo insegnare a essere umani.
Intanto le guerre continuano a essere giocate, i marines a partire fra le
lacrime di madri e fidanzate, il diritto - quello neutro e oggettivo - a
essere condizionato dal piu' forte, i pacifisti a firmare proclami neutri
(che firmo tutti anch'io), mentre qualcuno pensa ancora di opporsi con la
resistenza non della ragione e della prevenzione, ma della clava, - pardon -
della spranga.
Ciao, amici e amiche, alla prossima.

2. MEMORIA. ENRICO PEYRETTI RICORDA DOMENICO SERENO REGIS
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti@tiscalinet.it) per
questo affettuoso intenso ricordo di Domenico Sereno Regis inviatoci in
forma di lettera personale.
Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno
dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di
nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere",
Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998;
La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe
Grande, Torino 1999. E' diffusa attraverso la rete telematica (ed abbiamo
recentemente ripresentato in questo notiziario) la sua fondamentale ricerca
bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte
nonarmate  e nonviolente.
Domenico Sereno Regis (Torino, 1921-1984), limpido e tenace promotore della
nonviolenza, prese parte alla Resistenza, fu presidente del Movimento
Internazionale della Riconciliazione. Alla sua memoria e' intitolato il
centro studi dei movimenti nonviolenti di Torino. Opere su Domenico Sereno
Regis: cfr. la serie di interventi di autori vari (Beppe Marasso, Enrico
Peyretti, Gian Enrico Ferraris, Pietro Polito, Rodolfo Venditti)  sotto il
titolo complessivo Ricordo di Domenico Sereno Regis, in "Azione
nonviolenta", n. 1-2, gennaio-febbraio 1991; cfr. anche la testimonianza di
Angela Dogliotti Marasso in AA. VV., Le periferie della memoria, Anppia -
Movimento Nonviolento, Torino-Verona 1999. Riferimenti utili: Centro Studi
"Domenico Sereno Regis", via Garibaldi 13, 10122 Torino, e-mail:
regis@arpnet.it]
Chiedevi un ricordo di Sereno. Non saprei dire piu' di quel che scrissi in
quel libretto a piu' mani. Ma qualcosa forse si'.
Ha scritto pochissimo. Quel che c'e' ora di visibile, di lui, e' l'impegno
che ci ha comunicato e i movimenti che ha avviato a Torino, particolarmente
quel centro di documentazione diventato ora la bella struttura del "Centro
Studi Sereno Regis". Il suo ruolo era di animatore e collegatore tra
persone, movimenti, gruppi. La sua idea forte era la democrazia dal basso,
che si realizzava nei comitati spontanei di quartiere, poi purtroppo
ridottisi a strutture ufficiali, piu' concentrate e molto meno partecipate
dalla base della cittadinanza.
Quando lo conobbi ero ancora relativamente giovane, lui non aveva ancora
sessant'anni, gli diedi del lei, ricordo con quale semplicita' e insieme
autorita' convincente volle che gli dessi del tu (che non usava allora
immediato come oggi).
Ricordo il suo dolore, nella malattia, per non poter piu' lavorare nei
movimenti. Lo vidi piangere per questo, immobilizzato nel letto. Diceva:
"facevo anche tre riunioni per sera, per collegare tra loro le iniziative".
Gli tocco' morire a 61 anni, poco dopo essere andato in pensione, proprio
quando sperava di poter dedicare tutto il suo tempo al volontariato civile.
Uno dei miei primi impegni fu una manifestazione di poche persone, per
solidarieta' con un obiettore processato (erano gli anni '60), guidata da
lui nelle vie di Torino. Di quel gruppetto un giornale pubblico' una
fotografia di cui ero orgoglioso, perche' vi comparivo insieme a lui.
Come si sa, fu anche presidente del Movimento Internazionale della
Riconciliazione (Mir). Tenne importanti contatti internazionali,
dall'America Latina ai paesi dell'est europeo, sulla pace e la nonviolenza.
Godeva di aver avuto ospite in casa Perez Esquivel, premio Nobel per la
pace.
Era un cattolico di fede robusta e sobria, di quella tradizione religiosa
torinese fatta di azione piu' che di proclamazioni. L'opera in cui si
traduceva la sua fede era appunto l'impegno per la pace, per la dignita' di
tutti, degli ultimi, realizzata nella partecipazione popolare alla vita di
tutti, alla vita della polis, nello spirito della onnicrazia di Capitini.
Per questo mi e' sempre sembrato il tipo del vero "politico", nel senso di
"cittadino", contro l'immagine dominante e riduttiva del politico delegato,
dotato di potere.
Scusa questi ricordi di poco conto. Non credo che meritino spazio. L'anno
prossimo, nel ventennale della morte, speriamo di creare un'occasione di
memoria degna di questo amico creatore di amicizia.
Lo chiamavamo tutti solo Sereno, la prima parte del suo cognome. Come hai
pubblicato in poesia, un "nomen omen", la serenita' di fondo, che rende
attivi per gli altri, che si mantiene forte anche nei tormenti e nella
lotta, e che si comunica in dono di serenita'.

3. ESPERIENZE. NICOLETTA LANDI: LA CAMPAGNA "PACE DA TUTTI I BALCONI"
[Ringraziamo Viviana Vivarelli (per contatti: viviana_v@libero.it) per
averci inviato questo intervento di Nicoletta Landi. Nicoletta Landi,
volontaria di Unimondo, insieme a Diego Cozzuol e Alex Zanotelli e' tra i
primi promotori della campagna "Pace da tutti i balconi" (sito:
www.bandieredipace.org)]
La campagna "Pace da tutti i balconi" ha soli cinque mesi.
E' nata silenziosa, con un tam tam tra le associazioni e le ong, ma ora che
le bandiere cominciano a vedersi, ecco che sta sfondando il muro del
silenzio dei media.
Cosa e' successo in questi cinque mesi per aver raggiunto il risultato
straordinario di circa 130.000 bandiere (stimate per difetto), in crescita
continua, vendute in tutta Italia?
Il primo passo del gruppo di coordinamento che ha creato il sito web
(www.bandieredipace.org) fu di evitare che ci fossero paternita' specifiche,
o leader, neanche in Diego (di "Cem Mondialita'") il suo ideatore.
Il lavoro che facemmo cerco' invece di concentrarsi sugli strumenti che
avrebbero permesso a chiunque di portare avanti la campagna, in modo
orizzontale ed autonomo.
Per prima cosa individuammo una segreteria centrale (i "Beati i costruttori
di pace" di Padova) a cui tutti potessero fare riferimento per richiedere
bandiere da tutte le parti d'Italia.
Carlo di Mani Tese, il grafico del coordinamento, creo' nelle prime 24 ore
il logo ed il nome "Pace da tutti i  balconi", e dopo la prima settimana
avevamo gia' i  primi manifesti, che adesso sono in tutta Italia,
raffiguranti gli amici ed i parenti di Carlo, con la bandiera alla finestra.
Ricordo che Carlo in quei giorni ci disse: "Guarda che l'idea e' veramente
potente. Tutti coloro a cui ho chiesto di posare per le foto sono stati
entusiasti, ed anche i vicini hanno voluto partecipare".
L'idea, portata avanti insieme a padre Alex Zanotelli e poi con i
sostenitori della campagna "Fuori l'Italia dalla guerra" (Emergency, Tavola
della pace, Lilliput, Libera), prese piede nei gruppi; fu pensando a loro
che creammo la sezione del sito che indicava come creare un banchetto, quali
volantini stampare e come diffondere la  campagna.
Usufruendo dell'ospitalita' del server di Lilliput e del suo webmaster
(Andrea), creammo un sistema automatico per registrare l'elenco dei punti di
distribuzione in Italia. Dovevamo rapidamente far circolare la voce e creare
un collegamento tra chi cercava le bandiere e chi voleva distribuirle.
Sarebbe stato impossibile per noi, lo sapevamo, tenere dietro ad una mappa
in tutt'Italia. L'unica possibilita' era che la mappa si creasse da sola.
Nel mese di novembre, il sito web cominciava a ricevere centinaia di accessi
al giorno (gia' un risultato incredibile per un sito appena nato e
sconosciuto che ora viaggia sull'ordine dei 4.000 accessi quotidiani) e le
adesioni cominciavano a fioccare.
Il primo segnale di forza lo abbiamo capito quando comparvero adesioni di
gruppi paralleli, ma non appartenenti alla societa' civiile tradizionale,
come i gruppi CentoMovimenti o gruppi animalisti. Da questi siti, che
puntavano alla campagna, arrivavano molti degli accessi. Capimmo che la
campagna stava sfondando.
Il secondo lo vedemmo quando, nelle manifestazioni di autunno, con il
tendersi della situazione internazionale, le bandiere risultarono essere un
segno riconosciuto, comune a tutto il movimento e a diversi sindacati.
Firenze, all'European social forum, fu ricoperta di bandiere della pace.
Gli amici di Peacelink offrirono la loro disponibilita' per raccogliere in
un database le segnalazioni di chi appendeva la bandiera.
Questo ci permise di sapere ed emozionarci. La gente da tutta Italia
scriveva, raccontandoci l'entusiasmo per l'iniziativa, offrendoci aiuto,
idee, e anche indicando problemi a noi sconosciuti.
Fu cosi' che cercammo un aiuto legale, per incoraggiare coloro che avevano
subito pressioni intimidatorie dall'amministratore di condominio.
Poi e' arrivato Natale, e li' la campagna ha cominciato a volare da sola.
Infatti, ancora col silenzio degli organi di stampa, e' successo cio' che
tutti noi speravamo ma che non osavamo credere: la gente comune, quella che
internet non sa cos'e' o non gli interessa, anche quella che non viene nelle
piazze, la gente della periferia e dei piccoli paesi, ha cominciato ad
esporsi: anziani, squadre sportive, scuole, enti locali...
Le bandiere stavano uscendo dalle manifestazioni del movimento e finalmente
entravano nella vita di tutti i giorni.
Perche' la bandiera piace?
Perche' e' cromaticamente vincente, bella, un segnale positivo contro i
segni neri e negativi della guerra.
Perche' e' un'idea semplice, che non ha bisogno di essere spiegata.
Perche' veramente la maggioranza degli italiani detesta a tal punto la
guerra preventiva da agire anche con un'azione che appare molto banale.
A gennaio abbiamo visto l'argine rompersi. Le scorte erano esaurite in tutta
Italia,  gruppi si moltiplicavano, comparivano le prime interviste, i primi
articoli... Le bandiere erano visibili nelle citta', non si potevano piu'
ignorare.
Dopo che i primi sfondano l'argine, poi vi e' l'effetto fiume in piena,
passa il timore e arriva la voglia  di essere presenti.
Nel corso dell'ultima settimana, i soli "Beati i costruttori di pace" di
Padova hanno distribuito circa 40.000 bandiere; non sappiamo (anche se ci
piacerebbe) niente di preciso degli altri distributori, possiamo solo fare
stime approssimative.
L'onda ha toccato anche l'Ansa; quando se ne accorge l'Ansa, vuol dire che
la notizia ha assunto carattere nazionale.
Bene, e ora che fare? Dove andare?
Per ora, il coordinamento, composto da una decina di persone, riflette e
tace. La grande onda deve ancora arrivare in tutt'Italia, e siamo tutti col
fiato sospeso guardando all'Irak.
Percio' stiamo ancora lavorando dal basso, pensando come pubblicare le foto
che ci arrivano, raccogliere le idee, preparare comunicati stampa per i
giornalisti.
L'onda prendera' la sua direzione, ma e' troppo prematuro intuirla.
In noi, rimarra' per sempre l'emozione di aver toccato cosa significhi
riuscire a tessere una rete, composta di decine di migliaia di persone in
tutto il paese.
Sentire e leggere le storie di chi ci ha creduto, attivisti o casalinghe,
insegnanti o genitori, ci ha dato l'idea di un'umanita' che non e' sola e
isolata come il sistema liberista ci dipinge.
Abbiamo riscoperto una umanita' variegata, di diverse fasce d'eta', cultura
e esperienza politica, unita dal disdegno per questa guerra, con la voglia
di uscire dal silenzio e di entrare in azione.
Abbiamo verificato cio' che per scherzo ci siamo detti inizialmente: "Voi
avete le televisioni, noi abbiamo i balconi".
Senza soldi, senza stampa, senza tv, senza radio, senza leader, ma solo
credendoci, si puo' creare qualcosa di grande se si ha fede e fiducia negli
uomini.
Ancor piu' crediamo che, lavorando con costanza, un'altra pace sia
possibile.

4. RIFLESSIONE. RICCARDO ORIOLES: UNDICI, VENTOTTO E (SOPRATTUTTO) NOVANTA
[Dal n. 162 del 20 gennaio 2003 della rivista diffusa per posta elettronica
"Tanto per abbaiare", redatta da Riccardo Orioles (per contatti:
ricc@libero.it), riprendiamo il seguente testo. Riccardo Orioles,
giornalista eccellente, militante antimafia tra i piu' lucidi e coraggiosi,
ha preso parte con Pippo Fava all'esperienza de "I Siciliani", poi e' stato
tra i fondatori del settimanale "Avvenimenti", ha formato al giornalismo
d'inchiesta e di impegno civile moltissimi giovani. Tra le persone che
abbiamo avuto la fortuna di conoscere e' un esempio pressoche' unico di
rigore morale e intellettuale (e quindi di limpido impegno politico).
Attualmente svolge la sua attività giornalistica scrivendo e diffondendo una
e-zine nella rete telematica: "Tanto per abbaiare" (richiedibile
gratuitamente scrivendo una e-mail a: ricc@libero.it). Opere di Riccardo
Orioles: i suoi scritti e interventi sono pressoche' tutti dispersi in
periodici e varie piccole e piccolissime pubblicazioni; e sarebbe invece di
grande utilita' raccoglierne in volume una adeguata scelta e dare ad essi
un'ampia diffusione (costituirebbe un valido strumento di riflessione e di
lotta per tutte le persone impegnate per la democrazia e i diritti); per gli
utenti della rete telematica vi e' la possibilita' di leggere una raccolta
dei suoi scritti (curata dallo stesso autore) nel libro elettronico
Allonsanfan. Storie di un'altra sinistra. Sempre in rete e' possibile
leggere una sua raccolta di traduzioni di lirici greci, ed altri suoi lavori
di analisi (e lotta) politica e culturale, giornalistici e letterari.
Attendiamo ancora che un editore ne faccia un libro - come dire: cartaceo -
che possa raggiungere una concretamente piu' vasta area di lettori (i tanti
non utenti di internet); come "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo
abbiamo ristampato in opuscolo anni fa due suoi interventi: Gattopardi e
garibaldini, Viterbo 1992; e L'esperienza de "I Siciliani", Viterbo 1998.
Opere su Riccardo Orioles: due ampi profili di Riccardo Orioles sono in due
libri di Nando Dalla Chiesa, Storie (Einaudi, Torino 1990), e Storie
eretiche di cittadini perbene (Einaudi, Torino 1999)]
Undici. "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta'
degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali. Consente, in condizioni di parita' con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranita' necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace
e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo".
Ventotto. "I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici
sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e
amministrative, dagli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi
la responsabilita' civile si estende allo Stato e agli enti pubblici".
Novanta. "Il Presidente della Repubblica non e' responsabile degli atti
compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o
per attentato alla Costituzione. In tali casi e' messo in stato di accusa
dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri".
*
Sono tre articoli della Costituzione italiana: una legge, buona o sbagliata,
ancora formalmente in vigore e dunque produttrice - almeno quanto i
regolamenti della Regione Lombardia - di effetti giuridici.
Chi viola la legge commette reato ed e' dunque punito con le pene previste
dalla legge. I reati commessi dai presidenti della Repubblica sono previsti
con precisione: si chiamano attentato alla Costituzione.
Cioe' fare o permettere qualcosa che la Costituzione proibisce.
Se guerra ci sara' - e sara' una guerra con morti, non un gioco - dopo la
guerra il governo nuovo per prima cosa dovra' chiamare chi l'ha permessa a
rispondere delle sue responsabilita' penali, ai termini della legge (in
questo caso la Costituzione) che e' molto chiara. Non deve finire con un
balletto politico: e questo si deve sapere gia' ora.
*
Ora, la Costituzione italiana non e' che vieti la guerra. Non la proibisce.
Non dice che e' sbagliato farla. Non dice che bisogna pensarci due volte.
No: usa una parola selvaggia: la "ripudia".
A fare una guerra, ordina formalmente la Costituzione, non ci dovete pensare
nemmeno. Non vi deve passare neanche per l'anticamera del cervello. Dovete
provare schifo rabbia e disgusto alla sola idea di una guerra: ripudiare
significa esattamente questo.
E la Costituzione e' tirannica: vuol essere ubbidita.
"Ripudia".
*
Il povero contadino siciliano, all'epoca dei Savoia, fu preso dallo stato e
mandato a conquistare la Libia. "Vai Brasi! Ammazza quei mussulmani
beduini!". Era l'alba del secolo: l'Europa viveva in pace, fra Belle Epoque
e riforme. Ma degli stronzi maledetti, per sentirsi un po' meno straccioni,
scatenarono la prima guerra del secolo. Quegli stronzi eravamo noi italiani.
La guerra italo-libica, nel 1912 (l'Italia non guadagno' mai un cazzo dalla
Libia: butto' milioni e miliardi, mentre a Caltanissetta l'acqua arrivava
una volta al mese) scateno' una dopo l'altra le quattro guerre balcaniche
(croati e serbi hanno cominciato a scannarsi giusto li'). E alla fine delle
guerre balcaniche, e in diretta conseguenza di esse, arriva l'attentato di
Sarajevo e la Grande Guerra.
Noi non abbiamo idea neanche lontanamente di che apocalisse sia stata quella
guerra. Mio nonno ce la faceva appena a raccontare. La prima guerra grossa
dai tempi di Napoleone, la prima in cui tutti dovevano stare in trincea
senza eccezioni: e questo in un mondo pacifico fino a un istante prima.
Immaginate una guerra a morte fra America ed Europa, una Croazia in
tutt'Europa che duri cinque anni.
L'Italia, fra tutti i paesi europei, era l'unico che poteva evitare la
guerra. Ma gli intellettuali italiani, gli Sgarbi e i Ferrara di allora,
insorsero: "La guerra e' bella! Viva il sangue rigeneratore! Viva la
morte!". E vai, Brasi! Il re - il Parlamento non voleva - mando' la
cartolina e il contadino siciliano parti' un'altra volta. E sono due.
*
Dalla guerra i giovani - che erano partiti cristiani - tornarono inferociti.
Ci fu il fascismo.
L'impero!  Non si poteva assolutamente stare senza un impero (a
Caltanissetta l'acqua continuava ad arrivare una volta al mese).
Guerra fra selvaggi e civili, fra italiani e abissini. I civili si difesero
a colpi di lancia, i selvaggi buttarono gas velenosi sui villaggi. I
selvaggi eravamo noi, gli italiani.
Fra di loro, per ordine del podesta' del paese, in prima fila marciava il
contadino siciliano. "Vedrai, Brasi! Alla fine ti daremo la terra!". E tre.
*
Poi i contadini votarono (ma lontano, in Ispagna: da noi era vietato) e
cambiarono il governo.
Chiedevano, pensa un po', di coltivare le terre.
E i padroni fremevano, perche' la legge e il governo non erano piu' loro.
Allora, non sapendo che fare, chiamarono dei banditi: "Vi pagheremo bene! Ma
aiutateci ad ammazzare quei contadini". E i banditi arrivarono, e ci fu un
massacro: un milione di morti, per lo piu' fucilati. Chi erano quei banditi?
Noi italiani.
La Spagna fu la nostra quarta guerra (nessun altro, in Europa, ne aveva
ancora fatte cosi' tante). E Brasi, a due euri al giorno, sparava
"volontario" contro gli altri contadini. E quattro.
*
Poi la Francia, la Grecia, l'Albania... Il conto delle guerre si perde.
Ha mandolini e chitarre, l'italiano, e poesie e statue antiche e chiese e
cose belle dappertutto. Eppure questo popolo cosi' gentile fu quello che
fece piu' guerre. I suoi re, i suoi duci, i suoi generali, i suoi preti!
"Vai Brasi!". E Brasi partiva ad ammazzare dappertutto: i greci che
difendevano le loro montagne, i francesi che gia' erano a terra e noi li
accoltellavamo, gli inglesi ("Reclamo l'onore di bombardare Londra!") che ci
avevano aiutato a fare l'Italia e tutti gli altri.
Alla fine, poiche' l'odore del sangue fa sentire leoni pure gli sciacalli,
eravamo in guerra con tutti quanti: i russi, gli americani, i cinesi, i
canadesi, i polacchi, persino il Brasile. Gli unici amici che avevamo erano
i tedeschi feroci e neri, loro i padroni e noi i servi.
Brasi, quando finalmente torno' al paese, non aveva piu' fucile. E mai piu'
voleva vederne uno. E questo gli disse ai politici: a tutti i politici,
d'ogni tipo e partito. Allora, i partiti erano due: o la falcemmartello dei
poveri, oppure la croce del Signore. E ciascuno sceglieva. Ma una cosa era
certa: nessuno dei due voleva guerra. Tutto potevano fare: rubare, fare
intrallazzi, litigarsi gli avanzi. Ma guerra no: perche' Brasi era vivo, e
lui la guerra - fin troppo - la sapeva.
*
Adesso, in questo preciso momento, i nipoti di Brasi - chi veneto, chi
siciliano, chi abruzzese: tutti belli puliti, ma ognuno con un nonno soldato
che sorride impacciato dalla foto ingiallita - stanno sbarcando
dall'aeroplano della guerra. E questi sono i primi (gli alpini, come
sempre), ma tutto e' gia' preparato anche per gli altri.
Sette guerre in un secolo non gli sono bastate, ai re e ai duci (che ora si
chiamano politici e manager, ma sono sempre la stessa razza). Vogliono
battere il record, col secolo nuovo: siamo ancora allo zerotre', e loro gia'
sono pronti per la prima guerra.
Rubate, cacciate i giudici, promettete imbrogliando ponti e stretti, fate
tutto quel che volete e magari ogni tanto (ma questo non c'e' bisogno che ve
lo diciamo noi) fate anche un po' i mafiosi: siamo uomini di mondo e non ci
scandalizziamo. Una cosa sola, a qualunque costo, non vi lasceremo fare:
un'altra guerra. (L'acqua a Caltanissetta, fra l'altro, d'estate arriva
ancora una volta al mese).

5. TESTIMONIANZE. LIDIA MENAPACE: IL MIO CONTRIBUTO AL GIORNO DELLA MEMORIA
[Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: lidiamenapace@virgilio.it) per
questo intervento. Lidia Menapace e' nata a Novara nel 1924, ha preso parte
alla Resistenza, e' tra le voci più significative e autorevoli della cultura
e del movimento delle donne, dei movimenti di pace, solidarieta' e
liberazione, della vita civile italiana degli ultimi decenni. Opere di Lidia
Menapace: la maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia
Menapace e' dispersa in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di
autori vari; tra i suoi libri cfr. (a cura di), Per un movimento politico di
liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana,
Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina,
Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa
ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le
donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il
dito e la luna, Milano 2001]
Siamo sempre a Novara, la mia citta' natale: ho 14 anni, mia sorella Isa 11
e il mio fratellino Aldo 4 (ed e' fuori dalla storia); con noi a scuola ci
sono due sorelle delle nostre rispettive eta', che si chiamano Esther e
Ruth: Isa e io siamo molto invidiose dei loro bellissimi nomi "esotici" che
attribuiamo a niente altro che alla fantasia dei loro genitori.
Un giorno non vengono a lezione e - come si usava - Isa e io andiamo a
portare i compiti. Alla porta viene la domestica e ci dice: "I compiti non
servono, tanto non vengono piu' a scuola", e al nostro "perche'?" risponde:
"perche' sono ebree".
Mia sorella e io non riusciamo a capire, cioe' una parola dietro l'altra
si', ma il senso niente affatto. E nel tornare, poiche' essendo la maggiore
mi compete di dare spiegazioni alla sorellina, dico: "Che ragazza di
campagna ignorante quella la', non sara' mica una malattia infettiva essere
ebrei!", dato  che l'unico motivo che potevo immaginare per restare a lungo
via da scuola era il morbillo o la tosse canina.
A tavola domandiamo e mio padre ci dice: "Si', una legge vieta agli ebrei di
andare a scuola, possono iscriversi  solo gli ariani". "E chi sono?"
domando, e mio padre: "Mi vergogno, ma siamo noi". Allora io veemente dico:
"E io mi vergogno di un paese dove una perche' si chiama Esther deve restare
ignorante", dato che il massimo che potessi immaginare era che non potessero
piu' andare a scuola: considero queste parole il mio primo sentimento di
antifascismo personale.
Alla fine dell'anno portiamo le pagelle e mia madre dopo aver constatato che
siamo state promosse ci dice: "Strappatele: c'e' scritto: di razza ariana e
io conosco solo razze equine, bovine, suine, e non voglio sentir parlare di
razza per noi".
In effetti sulla pagella veniva scritto che eri della razza giusta. E non
solo non poterono iscriversi Esther e Ruth, ma furono cacciati dalle
universita' studiosi come i Momigliano (lo storico e il letterato), il
matematico Enriquez e molti fisici e scienziati; furono espropriati editori
come Loescher e Treves. Si disse che era scampato Hoepli perche' era
fascista e in piu' aveva pagato ingenti mazzette. Qualche ebreo fascista
c'era, anche il vignettista Pitigrilli, inventore della Signorina Grandi
Firme, una figura di pin up molto ardita per i tempi.
Abitava nel nostro stesso edificio una signora torinese molto bella,
elegante e altera, di cognome - da ragazza - Terracini, e moglie di un
farmacista non ebreo di Novara: dall'oggi al domani divento'
irriconoscibile, camminava rasente i muri a capo basso: poi scomparve. Anche
la famiglia Tedeschi con Esther e Ruth fuggi' in Svizzera. Altri si
nascosero in campagna o in  conventi. Altri piu' fiduciosi o meno dotati di
risorse rimasero, quasi indisturbati, a parte che non potevano andare a
scuola ne' insegnare, avere impieghi pubblici, iscriversi ad associazioni
culturali, avere domestiche "ariane", perche' la razza "superiore" non
poteva fare servizi a quella "inferiore".
Ma quando arrivarono i nazi nel 1943 non ci fu scampo: ad Arona furono
buttati nel lago vivi e con le mani legate molti ebrei, anche una signora
incinta.
Durante l'estate del 1943 mio padre viene richiamato e rimane in citta'. Il
12 settembre arriva a Novara la Wehrmacht e lo porta via con tutti i
militari italiani che riescono a prendere: quelli che hanno le famiglie
lontane scappano, ma i novaresi, quelli di Vercelli e MiIano no, perche'
attraverso manifesti firmati Kesselring veniamo avvisati di una cosa fino ad
allora a noi ignota e cioe' che per "rappresaglia" avrebbero preso le
famiglie. Mio padre con decine e decine di migliaia di militari italiani
catalogati IMI (internati militari italiani) si fa i suoi due anni di campo
di concentramento perche' - come quasi tutti - non accetta di  aderire alla
Repubblica di Salo'.
Io mi butto nella Resistenza e faccio la staffetta nella zona di Arona, in
Valdossola e in Valsesia. Benche' abbia sempre rifiutato di portare armi
vengo alla fine "congedata" col brevetto di "partigiano
combattente"(ovviamente al maschile) e col grado di sottotenente e divento
furiosamente antimilitarista.
Mio padre torna, magrissimo stremato fuori dalla vita, ci mette due anni a
recuperare l'equilibrio e a riprendere a lavorare. Ma appena arriva ci dice
"La Germania e' tutta una rovina, i tedeschi banno pagato abbastanza,
bisogna vivere in pace". Credo che anche quelli come lui abbiano diritto di
essere considerati parte della Resistenza e degni di una citazione nel
giorno della memoria.
*
Passano anni e per me gli Ebrei sono il simbolo dei popoli perseguitati e ho
sentimenti di colpa verso di loro, anche se ne' io ne' la mia famiglia
abbiamo mai fatto niente contro, anzi durante la Resistenza abbiamo ospitato
e nascosto alcuni, fatto scappare altri e io ho anche accompagnato a Luino
un ragazzo Senigaglia. E ancora non so come siamo scampati alle ronde
nazifasciste: figuravamo essere una coppietta di studenti pendolari, ma lui
era talmente riconoscibile; aveva tutte le "caratteristiche" del caso,
capelli rossi e ricci naso aquilino. Per fortuna anche i nazi erano
distratti ogni tanto.
Passano altri anni e comincia la questione palestinese verso la quale ho
sentimenti ambivalenti: se un popolo vuole avere un nome penso sia giusto
riconoscerglielo, anche perche' quando ero stata in Israele con  una
delegazione di amministratori locali avevo visto "il deserto fiorire" sia
per le ricerche sui toponimi antichi che indicavano valle verde, acque
limpide, valle fresca, fontana candida ecc., e per le tecniche di raccolta
della piu' piccola goccia di rugiada, ma anche per il lavoro dei contadini
"arabi". In quel viaggio rimasi affascinata dai Kibbutzim (Degania B) con
quella vita collettiva estrema e ricca culturalmente; pensavo invece che
fosse solo folklore che numerosi osservanti stessero seduti di sabato sui
cordoli dei marciapiedi a tirare sassate contro le automobili di quellli
che non rispettavano il sabato. Ma avevamo anche avuto un ricevimento dal
ministro dell'agricoltura che ci aveva detto che loro erano capaci di far
piovere, ma non lo facevano e ai nostri perche' rispose che non conoscevano
ancora abbastanza bene il regime dei venti e avrebbe potuto piovere anche in
Giordania.
Raccogliendo le mie memorie della Scrittura avevo detto:"ma il Signore piove
sul buono e sul cattivo" e avuta la folgorante risposta: "ma io non sono il
Signore" e da quel giorno evito di avere contese con rabbini per di piu'
ministri. I Palestinesi del resto fanno atti di terrorismo (dirottamenti)
fino a sparare sugli atleti delle Olimpiadi di Monaco e questo non lo
accetto. Quando lanciano la prima Intifada penso che hanno fatto una scelta
giusta, quella di una forma di difesa popolare nonviolenta: "naturalmente"
noi, i popoli dell'occidente che ci riteniamo il meglio che ci sia al mondo,
non facciamo il puro niente perche' quella scelta frutti una via d'uscita. E
quando Sharon fa la trappola della Spianata delle Moschee e Arafat ci casca
o pensa di sfruttarla o viene costretto da chi e' piu' potente di lui e fa
partire una seconda Intifada militarista e armata e poi partono gli
attentati suicidi sempre piu' numerosi mi do' quasi per disperata: nei due
popoli le persone disposte a ragionare sembrano sempre piu' isolate e il
fondamentalismo sempre piu' diffuso: i palestinesi erano noti per essere i
piu' laici della regione tra gli arabi ed ecco le donne, state politicamente
attive in prima persona, anche contro Arafat quando occorreva, scompaiono e
perdono identita' e diventano ruoli, cioe' le madri e vedove degli Eroi, un
vero pianto. Credo che i popoli non coinvolti direttamente nella vicenda
dobbiamo diventare capaci di tenere alcune distanze politiche etiche ed
emotive in modo da poter fare da ponte tra chi nei due popoli invischiati e'
ancora capace di essere ragionevole, tollerante, aperto, critico. Non vedo
altra strada ne' altra funzione possibile per evitare coazioni a ripetere.
*
Intanto a giugno dello scorso anno prendo parte a un seminario in
preparazione del Social forum europeo di Firenze. La riunione si tiene in un
centro sociale occupato che si trova nel ghetto di Roma, luogo nel quale ero
sempre andata con grande sicurezza e tranquillita'. Siamo li' che discutiamo
e veniamo assediati da una banda di giovani ebrei romani urlanti come
fossero allo stadio, curva sud, che ci vogliono cacciare. Nell'intervallo di
pranzo andando a cercare un bar, avevo visto che su tutti i bar e le
trattorie erano affissi volantini inneggianti ad Israele che vincera', ha
sempre vinto ecc., che avevano suscitato echi funesti in me, ma non ci avevo
fatto caso piu' di tanto. Dopo trattative condotte anche abbastanza male da
noi, possiamo uscire e Rossana Rossanda, Ferrajoli e io veniamo accolti
insieme a tutti gli altri al grido di "terroristi!", che non mi era ancora m
ai capitato. Nel ghetto alle ultime elezioni ha vinto la destra.
*
Intanto insieme ad altre ho dato vita a una Convenzione permanente di donne
contro le guerre che ha una articolazione teorica di nome Associazione "Rosa
Luxemburg": vogliamo costruire una cultura politica che escluda la guerra
come strumento per il governo dei conflitti. Rosa con i suoi scritti e la
vita ci fornisce tracce di pensiero e pratiche di azione di grande respiro e
attualita', anche per una ipotesi rivoluzionaria non leninista-militarista
ma sociale e quasi senza stato. E anche molti suggerimenti di analisi
economica ecc.
Rosa era ebrea come si sa e quando fuggi' dalla Polonia nativa che era sotto
gli Zar per andare in Germania fu preceduta dai suoi compagni del partito
socialista polacco con una lettera ai compagni del partito socialdemocratico
tedesco in cui si diceva: "Arrivera' da voi Rosa Luxemburg, non lascatevi
sedurre da quella ragazzotta ebrea polacca": carini, no?

6. RIFLESSIONE. ENZO MAZZI: IL GENOCIDIO NAZISTA DEI ROM
[Ringraziamo Enzo Mazzi (per contatti: emazzi@videosoft.it) per questo
intervento. Ci e' molto caro questo intervento, poiche' per chi redige
questo foglio l'amicizia, la solidarieta', gli incontri e le iniziative
comuni con le sorelle e i fratelli rom e sinti costituiscono da decenni una
delle esperienze piu' belle ed intense. Enzo Mazzi, sacerdote, e' impegnato
nell'esperienza della comunita' dell'Isolotto a Firenze. Tra le opere di
Enzo Mazzi e della Comunita' dell'Isolotto: Isolotto 1954/1969, Laterza,
Bari 1969; Ernesto Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma
2002]
Carissimi,
alla "ricerca della pace" manca sempre qualche cosa. Non puo' che essere
cosi'. La pace e' sempre "oltre". Pero' feriscono le nostre, sottolineo
"nostre" poiche' mi sento dentro, feriscono le nostre "mancanze" perche'
rallentano il cammino della nonviolenza fino a bloccarlo.
Alla memoria di Turoldo mancavano le formiche e spiccava solo il maestro.
Alla memoria di Auschwiz mancano i rom. Per i rom un doppio "Porrajmos" (che
in lingua rom significa "divoramento", equivalente di "shoah").
Il 27 gennaio 1945 all'appello sul piazzale del lager liberato risposero
soltanto quattro zingari. Ne erano stati uccisi in vari lager mezzo milione.
Non mancano i dati storici. Manca la volonta' politica di fare memoria.
Molti studi documentano lo sterminio zingaro. Ultimo in ordine di tempo il
libro di un giovane studioso, Luca Bravi: Altre tracce sul sentiero per
Auschwiz, il genocidio dei Rom sotto il Terzo Reich", Cisu, Roma 2002.

7. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: ANCORA SUL "RELATIVISMO CULTURALE"
[Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini@tin.it) per questo
intervento. Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, gia'
insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta. Nata nel 1940 a Pola da genitori
romagnoli, studi a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima
scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia; giornalista per
"L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle; di forte impegno
politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e fatto parte di, varie
redazioni di periodici: della rivista di ricerca e studio del Movimento
Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo
Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain"
di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della rivista "Jesus
Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle"
insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il manifesto"; ha
collaborato anche, tra l'altro, con la rivista "Testimonianze" diretta da
padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come "Reti", "Lapis", e alla
rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora al "Paese delle donne".
Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita' di Base; e preso parte
ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non solo genericamente
politico ma gramscianamente intellettuale e morale della sinistra critica in
Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa,
scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (Bertani,
Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini (Bertani,
Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella
cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un
libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui ha
redatto il progetto e  curato la supervisione delle operatrici: titolo: "...
ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente
ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta Crocella, Attraverso il
silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che racconta l'esperienza del
Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione
psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni
d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un progetto di Ileana Montini e con
alcune donne alla fine degli anni ottanta, preceduto dalla fondazione,
insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir".
Su Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica, la sua riflessione, hanno
scritto pagine intense e illuminanti, anche di calda amicizia, Lidia
Menapace e Rossana Rossanda]
Giuseppe Mantovani e' professore di Psicologia degli atteggiamenti nella
facolta' di Psicologia di Padova. Ha scritto, tra l'altro, un libro
bellissimo intitolato L'elefante invisibile (Giunti, 1998). Sul primo numero
del 2003 di "Pisicologia Contemporanea" ha pubblicato un articolo  sul caso
di Amina e le altre, ovvero sulla lapidazione delle donne adultere in
Nigeria (ma anche altrove) dove dodici dei trentasei paesi applicano la
sharia come legge dello stato.
Amina Lawal e' stata accusata di adulterio dall'ex suocero e il tribunale
islamico locale ha di conseguenza emesso in primo grado la condanna a morte.
L'uomo con il quale ha concepito Wasila, e che aveva promesso di sposarla,
per non incorrere nelle pene severissime dichiaro' di non essere il padre
della bambina.
Il tribunale, clementissimo, ha prorogato la condanna al gennaio del 2004,
quando la piccola non avra' piu' bisogno del latte materno.
Si sa che la lapidazione tiene conto della differenza sessuale: le donne
vengono sotterrate lasciando fuori soltanto il capo, mentre gli uomini fino
alla cintola. Se i condannati riescono a liberarsi , buon per loro perche'
vengono graziati.
Mantovani e' competente in psicologia culturale e quindi interpreta questo
caso, come altri analoghi, rispetto al "relativismo culturale".
Come tanti si pone una domanda: "Cosa possiamo fare? Che cosa dobbiamo fare?
Ma, soprattutto, che diritto abbiamo di intervenire in faccende che
riguardano altri stati , altri popoli e altre culture? Un qualsiasi
intervento non sarebbe  da parte nostra un atto di prepotenza,
un'interferenza di stampo post-coloniale?".
E ancora: "La nostra difesa non puo' ridursi ad un gesto che costa poco, una
firma in calce ad un documento, una e-mail scritta ed inviata in due minuti,
qualcosa che non ci coinvolge davvero in una vicenda che avviene lontano da
noi, in Africa".
Ormai abbiamo una tradizione consolidata di interventi a base di firme
apposte ai piu' svariati documenti e appelli, che ci aiutano a mettere a
posto la coscienza continuando, peraltro, l'inconscia difesa per mezzo del
diniego.
*
Prima di proseguire sul caso Amina, vorrei citare un altro autore, questa
volta un sociologo ebreo di origine australiana un cui libro recente tratta
proprio le forme universali di diniego.
Il libro s'intitola: Stati di negazione. La rimozione del dolore nella
societa' contemporanea (l'autore e' Stanley Cohen, l'editore e' Carocci,
Roma 2002) e  risponde a una domanda semplicissima: cosa facciamo della
nostra conoscenza della sofferenza altrui e cosa fa, a noi, questa
conoscenza?
Il diniego, insieme alla rimozione, fa parte dei "meccanismi di difesa
dell'io" che soprattutto la figlia di Freud, Anna, studio' ancora negli
trenta.
Mentre la rimozione indica un atto con il quale il soggetto cerca di
mantenere inconsci i pensieri disturbanti, con diniego si indica il rifiuto
di riconoscere una realta' traumatizzante per il soggetto stesso.
I gruppi, gli stati eccetera, operano dei veri dinieghi culturali.
L'individuo, o il gruppo o la gente , fingono di credere alle informazioni
che sanno essere false.
I dinieghi culturali camminano, a mio avviso, sulle gambe della differenza
sessuale. Spesso diventano negazione dell'interconnessione.
Mantovani fa notare che il mondo ormai e' fortemente interconnesso, ma non
unificato. L'interconnessione piu' evidente e' quella dell'informazione che
ci impone la conoscenza di fatti accaduti molto lontano. Ma, secondo questo
autore, l'interconnessione entra in crisi nei punti in cui si incontrano e
si scontrano  le culture, le mentalita' e le religioni: sulle frontiere fra
culture, di fronte a differenze di valutazione che molte volte appaiono
incolmabili, di fronte a visioni inconciliabili della vita, della morte,
della donna o dei diritti della persona, non e' difficile incontrare
imbarazzo, separazione e chiusura. A monte c'e' il concetto di cultura e
allora frasi come: "dobbiamo rispettare le altre culture... non abbiamo il
diritto di giudicare altri modi di pensare e legiferare sui rapporti tra
uomini e donne... in fondo anche da noi c'e' la poligamia  mascherata,
eccetera", svelano una sorta di razzismo inconscio.
Mantovani cita proprio  questo tipo di razzismo che consiste nel "pensare
che l'"altro" vada lasciato alla sua "alterita'", a vivere in una sorta di
"parco naturale" in cui, in nome del rispetto delle diverse "culture", si
perpetuano le mutilazioni genitali femminili, la segregazione domestica
delle donne, la loro esclusione dall'istruzione, le condanne alla
lapidazione delle "donne immorali" o "scostumate". Negando,
contemporaneamente, la necessit? del confronto tra culture.
Le differenze culturali non sono fenomeni statici ma occasioni di scambio e
di negoziazione.
Mantovani fa un esempio: i nostri antenati combatterono una delle peggiori
tradizioni: la caccia alle streghe, la tortura degli accusati nei processi
penali e la persecuzione dei dissidenti religiosi. Si trattava di tradizioni
radicate e condivise e persino autorevoli. In Francia cesso' la persecuzione
alle streghe quando venne accolta la posizione di pochi medici che vedevano
disturbi mentali e ignoranza nelle situazioni in cui gli esorcisti cattolici
vedevano la possessione del diavolo.
Cosa sta a indicare tutto cio'? Che anche noi, gli occidentali, abbiamo
molti scheletri celati negli armadi che non permettano di sentirci
superiori, ma semmai ci autorizzano a formulare critiche. Siamo anche noi
"societa' difettose".
*
Scrive Mantovani: "Difendendo Amina noi difendiamo, nella sua persona, una
concezione della vita, della donna, della liberta' personale che e' stata
conquistata con lacrime  e sangue e che costituisce il nostro tesoro piu'
prezioso. Un tesoro che siamo disposti a condividere, ma non ad abbandonare.
Come le mutilazioni sessuali femminili (piaga che nasce in altre aree del
pianeta, ma che ci riguarda ormai direttamente in seguito ai processi
migratori), cosÏ anche la condanna di Amina ( che e' solo un aspetto del
piu' generale problema della discriminazione della donna in varie aree del
pianeta) ci riguarda direttamente, se non accettiamo di vivere in un paese
in cui in futuro alcuni cittadini potranno chiedere che le donne 'immorali'
siano lapidate".
*
E' molto probabile che la disponibilita' di tanti a sinistra nei riguardi
delle culture e delle religioni , abbia un segno di genere e la difesa del
diniego.
Il diniego si manifesta nel sostenere, per esempio, che il passato
occidentale di subordinazione delle donne, dal trattamento violento delle
isteriche con il ferro rovente sul clitoride ancora in uso nell'Ottocento in
Europa,  al delitto d'onore ancora praticato negli anni sessanta in Sicilia,
al diverso trattamento dell'adulterio nel diritto di famiglia precedente al
1976, all'obbligo per le ragazzine della scuola media di portare il
grembiule nero a scuola ancora negli anni settanta in Veneto, ci
costringerebbe a 'rispettare' le altrui convinzioni.
Come dire: poiche' siamo stati cattivi soprattutto con le donne, dobbiamo
limitarci a non essere d'accordo con il pensiero. Rispettando gli uomini,
nostri simili, nell'esercizio del potere legittimo su donne e bambini.
Naturalmente il concetto andrebbe esteso anche alla schiavitu'. Il mondo
occidentale e' stato schiavista fino in tempi recenti e ha praticato il
genocidio degli indios. Ma solitamente su questi aspetti non si esercita la
comprensione che permette di applicare le proprie norme, mentre viene
concessa se riguarda conseguenze soprattutto sulle donne.
Recentemente  un giovane marocchino che abita a Bologna, ben inserito nel
tessuto sociale e produttivo, ha chiesto all'Italia di riconoscere il
diritto a sua madre di ricongiungersi al marito. La mamma e' la seconda
moglie del padre che gia' si trova nel nostro Paese con la prima moglie.
Il ragazzo ha trasmesso, grazie a un bel primo piano televisivo, un grande
affetto per sua madre e un desiderio legittimo. Dal suo punto di vista la
seconda moglie deve avere il diritto della prima (lo dice anche il Corano);
ma dal nostro?
Ed e' probabile che questi problemi ci riguarderanno assai diffusamente nel
futuro. Dobbiamo accettare i ricongiungimenti delle quattro (eventuali)
mogli di un emigrato in nome del relativismo culturale?
Si', per evitare alle povere donne una vita grama, di abbandono, nel loro
paese. Ma se gli emigrati useranno questa possibilita' per ritornare
temporaneamente nel loro Paese per sposare una seconda o terza donna e poi
chiederne il ricongiungimento?
E se in seguito anche i maschi italiani aderiranno alle obiezioni che i
musulmani ci fanno di mascherare con l'adulterio la poligamia e chiederanno
la revisione della Costituzione?
Il film di Faenza Prendimi l'anima racconta il primo tentativo di C. G. Jung
di farsi una seconda moglie. Il primo, perche' il secondo riusci' benissimo
quando l'amante-moglie si chiamo' Toni Wolf.
Ricordo che uno psicoanalista junghiano italiano nel corso di uno stage
affermo' candidamente che i maschi sono naturalmente portati alla poligamia.
Di fatto imitava Jung con una seconda moglie imposta alla prima.

8. LETTURE. ELENA LOEWENTHAL: LETTERA AGLI AMICI NON EBREI
Elena Loewenthal, Lettera agli amici non ebrei, Bompiani, Milano 2003, pp.
96, euro 6,20. Un libro prezioso che vivamente raccomandiamo alle
meditazione; vi sono anche alcune pagine aspre e forse ingenerose, ed anche
alcuni giudizi su cui si puo' discutere, ma anche esse ed essi sono comunque
utili, e nutrienti una riflessione onesta e necessaria.

9. LETTURE. NUTO REVELLI: LE DUE GUERRE
Nuto Revelli, Le due guerre, Einaudi, Torino 2003, pp. XVI + 198, euro
12,50. Ancora un dono meraviglioso di Nuto Revelli, uno dei maestri piu'
grandi che abbiamo; una lucida e appassionata testimonianza e meditazione
sulla guerra fascista e sulla guerra partigiana.

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 490 del 28 gennaio 2003