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Perché quella striscia di sangue ha lacerato il petalo della tua guancia?



Nurit Peled è insegnante, traduttrice, scrittrice e madre israeliana.
Attivista per la pace tra Palestina e Israele, nonostante l'assassinio di
una sua bambina in un attentato terroristico. Nel 2001 ha ricevuto dal
Parlamento europeo il Premio Sakharov per i diritti umani. L'intervento che
proponiamo e stato fatto da lei a Bari, nel corso dell'incontro
internazionale Guerra e pace-Esistere oltre il terrore organizzato dalla
Società italiana delle letterate e tenutosi a Santa Teresa dei Maschi nei
giorni 23 e 24 novembre 2002. Allo stesso incontro hanno partecipato Hebe
Bonafini e Juana Pargament, madri di Plaza de Majo, e Rima Hammami docente
di antropologia, attiva nel movimento delle donne palestinesi e nelle
iniziative di pace promosse con pacifiste/i israeliani e palestinesi.

Nurit Peled-Elhanan, Israele, Docente di "Linguaggio ed educazione" presso
la Hebrew University

http://www.libreriadelledonne.it/news/articoli/contrib040103.htm

Vi ringrazio per essere qui. Sono molto felice di partecipare a questo
incontro. Anche se la mia presenza è legata al mio percorso privato, vorrei
basare il mio contributo sulle conoscenze professionali di linguista che
lavora nell'ambito dell'educazione.

Credo che l'importanza di tali incontri sia quella di rafforzare la voce di
tutte le madri. Perché la­ maternità è l'unico e comune denominatore che
vince sulla nazionalità, sulla razza e sulla religione. Le madri sono le
sole che riescono a far fronte ai politici e ai generali e ci sono sempre
riuscite, fin dai tempi biblici, quando le mogli ebree riuscivano a
spuntarla sul Faraone sfuggendo al suo ordine di uccidere i neonati.
Inoltre, gli studi sull'apprendimento del linguaggio indicano le madri come
le migliori insegnanti al mondo. Difatti, non c'è mai stata alcuna madre che
abbia fallito nell'insegnare ai propri figli tutto ciò che volesse,
qualunque fosse la cultura di provenienza o quanto grave fosse l'handicap
del suo bambino. Questa è la ragione per cui le madri possono essere le
agenti principali di un cambiamento nell'educazione. Per educazione si
intende il processo attraverso cui si insegnano al bambino le
classificazioni della società. Il linguaggio stesso è un sistema di
classificazioni, classificazioni con cui diamo significato al mondo in cui
viviamo. La scuola - in quanto agente educativo primario nella società - ha
la responsabilità di insegnare ai bambini le classificazioni particolari
della loro cultura. Nel processo educativo, i bambini imparano a
classificare persone, cose ed idee per far sì che venga loro inculcato quel
sapere che la loro società trasmette come verità. Gli scolari di oggi
saranno i politici e i cittadini del futuro, così come i politici di oggi e
i loro sostenitori furono gli scolari di un tempo. Se, dunque, il linguaggio
è un sistema di classificazione e se l'educazione è l'insegnamento di tali
classificazione, dettare regole significherà imporre la tua classificazione
ad altri, negando le loro. Per esempio, quando i bambini israeliani imparano
le prime cose sulla popolazione del proprio paese, imparano a distinguere
tra ebrei e non-ebrei, imparano che la loro è una società frantumata, divisa
e stordita, lungi dall'essere multiculturale. Imparano che la terra è o
fertile o non fertile, e questo significa che il deserto potrebbe essere
reso fertile qualunque fosse il rischio per il paesaggio o per i beduini che
vi risiedono. Imparano anche che Gerusalemme è sempre stata la nostra
capitale, tranne che per i 2000 anni in cui non ci siamo stati. In tal modo,
imparano a dire l'esclusivo "noi", che include solo gli ebrei come cittadini
legittimi della terra di Israele. Lo stesso "noi" che li relaziona con
quella gente che ha vissuto lì 4000 anni fa. Quel "noi" che li separa dai
loro vicini con cui devono invece condividere la quotidianità. So bene che
una tale situazione si trova anche nel sistema educativo palestinese, in
Kosovo e in altre aree del mondo lacerate, dove etnicità, identità e
patriottismo sono sinonimi di "condanna a morte".

Probabilmente questo è il motivo per cui i bambini israeliani imparano a non
vedere alcuna contraddizione nella loro tradizione scolastica; imparano a
celebrare ogni anno l'anniversario dell'albero, piantando alberi d'ulivo
sulle colline di Gerusalemme, della Galilea e di tutte le valli; imparano ad
obbedire come automi ai loro ufficiali che gli ordinano di sradicare gli
alberi dei loro vicini, spesso per spostare quegli stessi alberi nei parchi
giochi e perfino nel parco della Pace di Gerusalemme.

Questo annullamento dell'altro, e ancor più, la demonizzazione dell'altro
identificato come il cattivo, l'ingiusto e colui che non dovrebbe affatto
essere lì, non è una condizione preludere l'avvio del dialogo. I bambini
israeliani non imparano come parlare all'altro. Perché come è ben noto, il
dialogo è il luogo delle differenze, il luogo in cui le differenze di
potere, di saperi e di principi, le differenze di desideri, in sostanza le
differenze nella classificazione, vengono costantemente negoziate. Le
persone che non accettano le differenze e non sono ancora pronte ad aprire
sé stessi ad ogni tipo di conoscenza e valore, non possono parlare
all'altro. Possono continuare a prendersi in giro, ingannarsi e umiliarsi
reciprocamente, ma non riusciranno a parlare con l'altro. Le persone che non
possono - o che non accetterebbero differenze o la possibilità di parlare
l'uno all'altro perché siamo differenti, o che non accetterebbero quella
eterogeneità come una benedizione - hanno un approccio monolitico al
discorso, e quindi vogliono imporre la loro conoscenza all'altro e dominare
il pensiero dell'altro. Il loro discorso è totalitario, intollerante e
ingiurioso ed è proprio questo tipo di approccio che riscontriamo durante la
maggior parte delle negoziazioni di pace tra israeliani e palestinesi. La
scelta di un approccio dialogico nelle relazioni implica la consapevolezza
di dimenticare o trattenere la propria conoscenza, la propria verità o
storia personale e nazionale, per aprirsi alla verità e alla storia
dell'altro. Le persone che parlano da una prospettiva dialogica non credono
nelle identità fisse, in un pensiero consolidato o in realtà eterne. Un
fatto interessante è che in ebraico i termini scoperta, realtà ed invenzione
hanno tutti la stessa radice. E dunque questo significa che la realtà è ciò
che noi inventiamo, la realtà è il mezzo che scopriamo per dare significato
a quello che sta accadendo intorno a noi, e di conseguenza si può cambiare.
Le madri sono ben coscienti di questa relazione dialogica perché sono
costantemente in dialogo con i loro bambini, differenti l'uno dall'altro
nell'indole, nel pensiero e nelle inclinazioni. Fortunatamente ci sono
persone, perfino in Israele, desiderose di mutare il loro sistema di
classificazione, reinventando i loro "noi". Purtroppo non è una volontà
molto diffusa, specialmente in quelle società multiculturali e
multilinguistiche che, come Israele, desiderano avere l'assetto di
stato-nazione e perpetuare un discorso estremamente monologico, che si basa
su un sistema di classificazione razzista e immutabile, e dove il messaggio
politico è che "noi" siamo una società monolingue e monoculturale. In tali
luoghi, l'altro è sempre poco apprezzato, per non dire disprezzato, e il
sangue diventa la mercanzia più economica nel mercato politico.

I nostri bambini muoiono perché crescono secondo principi di discriminazione
tra sangue e sangue e sull'assunto che noi siamo più degni degli altri.

I nostri bambini muoiono o diventano assassini di altri bambini perché la
voce della madre è stata soffocata e sminuita per secoli; perché la voce
della madre è sempre sostituita dalle voci dei politici corrotti e dei
generali assetati di sangue, di avidi uomini d'affari e dei così detti
leader senza scrupoli che sono, per la maggior parte, uomini ma che non
parlano mai come genitori.

Come ho detto prima, nessuna parola è così ideologicamente ed emotivamente
carica come la parola "noi". Sono cresciuta imparando che quando dicevo
"noi" intendevo il perseguitato che risorgeva dalle ceneri, che decideva di
ricostruire una nazione, di ristabilire una civiltà e di far rivivere un
lingua, sfidando un intero mondo illuminato che aveva dato prova di essere
spietatamente indifferente al destino del diseredato, del torturato e del
massacrato. Questo "noi", questa identità collettiva che veniva fuori dalle
ceneri dell'Olocausto, era destinata a riportare dignità ad un popolo
logorato, per proteggere i suoi membri contro la peggior forma di razzismo
che il mondo avesse mai conosciuto, e assicurarsi che un male, come quello
inflitto agli ebrei, avrebbe cessato di ripetersi.

Ma negli ultimi 35 anni questo "noi" è diventato un Golem, un mostro che
minaccia di distruggere chi l'ha creato e che ci condanna tutti.

Dopo che mia figlia, Smadari, è stata uccisa perché era una ragazza
israeliana, da un giovane uomo furioso e stravolto dall'umiliazione e dalla
disperazione, al punto da uccidere sé stesso e altri solo perché
palestinese, un reporter mi chiese come potevo accettare le condoglianze
dall'altra parte. La mia risposta, proprio spontanea, fu che io non
accettavo le condoglianze dell'altra parte, così quando il sindaco di
Gerusalemme venne ad offrirmi le sue condoglianze, mi chiusi nella mia
stanza. Solo più tardi ho capito che per quel reporter l'altra parte era il
popolo palestinese.

Ma io non ho mai usato il NOI nazionale e razziale. La gente che considero
la mia parte non si può definire con alcun criterio sociale, né nazionale.
Quando dico "noi", non intendo gli ebrei o gli israeliani. Intendo la gente
che vede la vita come la vedo io. E alcuni tra questa gente sono segnati
dalla morte per sempre. Quando dico "noi", intendo i miei amici israeliani
che hanno giurato di fronte alle tombe aperte dei loro figli che nonostante
avessero perso i loro bambini non avrebbero mai perso la testa.

Mi riferisco al professor Gazawi, che si è laureato con me e che, dopo
essere stato confinato in una cella di isolamento perchè desiderava essere
un uomo libero e dignitoso nella sua terra, dopo aver visto suo figlio
quindicenne venire ucciso nel cortile della sua scuola mentre aiutava un
compagno ferito, si rifiuta ancora di pensare che l'essere umano sia
cattivo, e dice che siamo noi a dover creare il mito della speranza per
coloro che non ce l'hanno.

Mi riferisco a Najakh, palestinese, che ha viaggiato con me verso New York
per parlare di pace, dopo aver visto suo figlio di 10 anni ucciso e che
provava un grande affetto per mio figlio di 10 anni, israeliano.

Mi riferisco a Widad Sartawi che mi chiama la sua piccola sorella e che ha
perso suo marito che aveva osato essere amico di mio padre e sognare la
pace. Mi riferisco ad Haled che ha trovato suo figlio maggiore con 50
pallottole nel corpo, senza che gli abbiano mai detto come sia accaduto e
perché, e che 20 giorni dopo chiamò sua moglie e le disse di smettere di
piangere per il suo bambino e di iniziare a piangere per il mio.

Mi riferisco alle madri che si rifiutano di desiderare la vendetta per la
morte dei loro figli uccidendo i figli di un'altra donna. Oggi, quando
"terrore" è il termine coniato per definire gli atti assassini dei poveri e
dei deboli, e "guerra contro il terrore" è il termine usato per definire gli
atti assassini dei ricchi e dei forti, quando le più grandi democrazie
commettono i più terribili crimini contro l'umanità usando termini come
"libertà", "giustizia" e "scontro tra civiltà", per giustificare i loro
crimini, noi, gli afflitti, le vittime del terrore o del terrorismo
anti-terrore, siamo gli unici rimasti che possano dire al mondo che non
esiste alcuna uccisione civile degli innocenti né un'uccisione barbarica
degli innocenti, ma c'è solo un'uccisione criminale degli innocenti. Noi
siamo quelli che devono dire al mondo che non c'è nessuno scontro tra
civiltà, che giù nel regno dei bambini morti che cresce costantemente, non
c'è nessuno scontro tra civiltà. Al contrario: lì prevale il vero
multiculturalismo, la vera uguaglianza e la vera giustizia. E forse noi
siamo coloro che dovrebbero ricordare al mondo che l'età dell'oro dell'Islam
e dell'Ebraismo si è avuta quando essi vivevano l'uno accanto all'altro,
nutrendosi a vicenda e fiorendo insieme.

Noi siamo coloro che devono dire al mondo che la morte di un bambino,
qualsiasi bambino, in Palestina o in Israele, in Afghanistan o in Cecenia, è
la morte del mondo intero, che dopo la morte di un bambino, qualsiasi
bambino, non ce n'è più un altro; che nessuno può vendicarne il sangue,
perché il bambino si porta nella sua piccola tomba, con le sue piccole ossa,
il passato e il futuro, le ragioni della guerra e le sue conseguenze.

Noi siamo quelli che devono dire al mondo che termini come "libertà" e
"onore", "Dio" e "pace", "il bene del Paese" e anche "democrazia", possono
essere armi letali. Poiché noi siamo quelli che sanno che non c'è pace o
libertà, nessun bene e nessun Dio dopo la morte di un bambino. Dunque siamo
quelli che dovrebbero dire al mondo che l'unico modo per l'umanità di
sopravvivere è di unirsi per gridare questa antica voce, che è sempre stata
lì, la voce della maternità, gridarla fino a che renda sorde tutte le altre
voci. Noi siamo coloro che devono chiedere che il mondo ridefinisca i propri
valori e priorità, ridefinisca il crimine, la colpa, i diritti dei bambini e
i doveri degli adulti e quindi ridefinisca l'educazione e la giustizia, e
faccia in modo che sia ben chiaro che chiunque uccida un bambino non sarà
mai in grado di vivere in pace in questo mondo. Neanche come Caino. Noi
siamo coloro che sanno che se non alziamo la voce al più presto, non rimarrà
niente da dire o da scrivere o da sentire tranne il perpetuo lamento di
lutto e le voci mute dei bambini morti. Per questo noi siamo quelli che
dovrebbero finire la guerra, perché sappiamo che non importa quale bandiera
è posta su quale montagna, non importa chi guarda dove quando prega, e che
niente è più importante del rendere sicura la strada che percorrerà una
ragazza andando a lezione di danza.

Ed è perché noi siamo coloro che si rendono conto, in ogni ora di ogni
giorno, che in quanto genitori e adulti abbiamo tradito i nostri figli,
perché non siamo stati attenti, non abbiamo lottato per le loro vite con
tutta l'energia che avremmo dovuto usare, pur avendogli promesso una vita
felice e un mondo migliore. Noi siamo coloro che hanno pianto con la poeta
russa Anna Akhmotova, che conosceva lo stesso dolore, quando abbiamo
guardato la nostra piccola bambina o il nostro piccolo bambino per l'ultima
volta, prima di girare le spalle e lasciarli nelle mani di estranei:

Perché quella striscia di sangue ha lacerato il petalo della tua guancia?



(Traduzione di Samanta Machich e Annarita Taronna)