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La nonviolenza e' in cammino. 468
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 468 del 6 gennaio 2003
Sommario di questo numero:
1. Nurit Peled, poiche' la morte di un bambino e' la morte del mondo
2. Norma Bertullacelli, vittime di mine
3. Ileana Montini, sguardi incrociati (ancora un contributo alla riflessione
sul "relativismo culturale")
4. Enrico Peyretti, alla guerra sempre no
5. Marina Forti, dal Forum sociale asiatico
6. Stefano D'Archino, l'esperienza di Dietrich Bonhoeffer
7. Alcune edizioni economiche di versioni italiane del Corano
8. Riletture: Tahar Ben Jelloun, L'Islam spiegato ai nostri figli
9. Riletture: Ludwig Feuerbach, L'essenza del cristianesimo
10. Riletture: Ludwig Feuerbach, L'essenza della religione
11. Riletture: Amin Maalouf, L'identita'
12. La "Carta" del Movimento Nonviolento
13. Per saperne di piu'
1. TESTIMONIANZE. NURIT PELED: POICHE' LA MORTE DI UN BAMBINO E' LA MORTE
DEL MONDO
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questo intervento di Nurit Peled (nella traduzione di Samanta
Machich e Annarita Taronna). Dal sito riportiamo anche la seguente
presentazione: "Nurit Peled-Elhanan, docente universitaria di "Linguaggio ed
educazione", e' insegnante, traduttrice, scrittrice e madre israeliana.
Attivista per la pace tra Palestina e Israele, nonostante l'assassinio di
una sua bambina in un attentato terroristico. Nel 2001 ha ricevuto dal
Parlamento europeo il Premio Sakharov per i diritti umani. L'intervento che
proponiamo e stato tenuto a Bari, nel corso dell'incontro internazionale
"Guerra e pace. Esistere oltre il terrore" organizzato dalla Societa'
italiana delle letterate e tenutosi a Santa Teresa dei Maschi nei giorni 23
e 24 novembre 2002. Allo stesso incontro hanno partecipato Hebe Bonafini e
Juana Pargament, madri di Plaza de Mayo, e Rima Hammami docente di
antropologia, attiva nel movimento delle donne palestinesi e nelle
iniziative di pace promosse con pacifiste/i israeliani e palestinesi"]
Vi ringrazio per essere qui. Sono molto felice di partecipare a questo
incontro. Anche se la mia presenza e' legata al mio percorso privato, vorrei
basare il mio contributo sulle conoscenze professionali di linguista che
lavora nell'ambito dell'educazione.
Credo che l'importanza di tali incontri sia quella di rafforzare la voce di
tutte le madri. Perche' la maternita' e' l'unico e comune denominatore che
vince sulla nazionalita', sulla razza e sulla religione.
Le madri sono le sole che riescono a far fronte ai politici e ai generali e
ci sono sempre riuscite, fin dai tempi biblici, quando le mogli ebree
riuscivano a spuntarla sul faraone sfuggendo al suo ordine di uccidere i
neonati.
Inoltre, gli studi sull'apprendimento del linguaggio indicano le madri come
le migliori insegnanti al mondo. Difatti, non c'e' mai stata alcuna madre
che abbia fallito nell'insegnare ai propri figli tutto cio' che volesse,
qualunque fosse la cultura di provenienza o quanto grave fosse l'handicap
del suo bambino. Questa e' la ragione per cui le madri possono essere le
agenti principali di un cambiamento nell'educazione.
Per educazione si intende il processo attraverso cui si insegnano al bambino
le classificazioni della societa'. Il linguaggio stesso e' un sistema di
classificazioni, classificazioni con cui diamo significato al mondo in cui
viviamo. La scuola - in quanto agente educativo primario nella societa' - ha
la responsabilita' di insegnare ai bambini le classificazioni particolari
della loro cultura.
Nel processo educativo i bambini imparano a classificare persone, cose ed
idee, per far si' che venga loro inculcato quel sapere che la loro societa'
trasmette come verita'. Gli scolari di oggi saranno i politici e i cittadini
del futuro, cosi' come i politici di oggi e i loro sostenitori furono gli
scolari di un tempo.
*
Se, dunque, il linguaggio e' un sistema di classificazione e se l'educazione
e' l'insegnamento di tale classificazione, dettare regole significhera'
imporre la tua classificazione ad altri, negando le loro.
Per esempio, quando i bambini israeliani imparano le prime cose sulla
popolazione del proprio paese, imparano a distinguere tra ebrei e non-ebrei,
imparano che la loro e' una societa' frantumata, divisa e stordita, lungi
dall'essere multiculturale. Imparano che la terra e' o fertile o non
fertile, e questo significa che il deserto potrebbe essere reso fertile
qualunque fosse il rischio per il paesaggio o per i beduini che vi
risiedono. Imparano anche che Gerusalemme e' sempre stata la nostra
capitale, tranne che per i duemila anni in cui non ci siamo stati.
In tal modo, imparano a dire l'esclusivo "noi", che include solo gli ebrei
come cittadini legittimi della terra di Israele. Lo stesso "noi" che li
relaziona con quella gente che ha vissuto li' quattromila anni fa. Quel
"noi" che li separa dai loro vicini con cui devono invece condividere la
quotidianita'. So bene che una tale situazione si trova anche nel sistema
educativo palestinese, in Kosovo e in altre aree del mondo lacerate, dove
etnicita', identita' e patriottismo sono sinonimi di "condanna a morte".
*
Probabilmente questo e' il motivo per cui i bambini israeliani imparano a
non vedere alcuna contraddizione nella loro tradizione scolastica; imparano
a celebrare ogni anno l'anniversario dell'albero, piantando alberi d'ulivo
sulle colline di Gerusalemme, della Galilea e di tutte le valli; imparano ad
obbedire come automi ai loro ufficiali che gli ordinano di sradicare gli
alberi dei loro vicini, spesso per spostare quegli stessi alberi nei parchi
giochi e perfino nel parco della Pace di Gerusalemme.
Questo annullamento dell'altro, e ancor piu', la demonizzazione dell'altro
identificato come il cattivo, l'ingiusto e colui che non dovrebbe affatto
essere li', non e' una condizione che promuove l'avvio del dialogo.
I bambini israeliani non imparano come parlare all'altro.
Poiche', come e' ben noto, il dialogo e' il luogo delle differenze, il luogo
in cui le differenze di potere, di saperi e di principi, le differenze di
desideri, in sostanza le differenze nella classificazione, vengono
costantemente negoziate.
Le persone che non accettano le differenze e non sono ancora pronte ad
aprire se stessi ad ogni tipo di conoscenza e valore, non possono parlare
all'altro. Possono continuare a prendersi in giro, ingannarsi e umiliarsi
reciprocamente, ma non riusciranno a parlare con l'altro. Le persone che non
possono - o che non accetterebbero differenze o la possibilita' di parlare
l'uno all'altro perche' siamo differenti, o che non accetterebbero quella
eterogeneita' come una benedizione - hanno un approccio monolitico al
discorso, e quindi vogliono imporre la loro conoscenza all'altro e dominare
il pensiero dell'altro.
Il loro discorso e' totalitario, intollerante e ingiurioso ed e' proprio
questo tipo di approccio che riscontriamo durante la maggior parte delle
negoziazioni di pace tra israeliani e palestinesi.
*
La scelta di un approccio dialogico nelle relazioni implica la
consapevolezza di dimenticare o trattenere la propria conoscenza, la propria
verita' o storia personale e nazionale, per aprirsi alla verita' e alla
storia dell'altro. Le persone che parlano da una prospettiva dialogica non
credono nelle identita' fisse, in un pensiero consolidato o in realta'
eterne. Un fatto interessante e' che in ebraico i termini scoperta, realta'
ed invenzione hanno tutti la stessa radice. E dunque questo significa che la
realta' e' cio' che noi inventiamo, la realta' e' il mezzo che scopriamo per
dare significato a quello che sta accadendo intorno a noi, e di conseguenza
si puo' cambiare.
Le madri sono ben coscienti di questa relazione dialogica perche' sono
costantemente in dialogo con i loro bambini, differenti l'uno dall'altro
nell'indole, nel pensiero e nelle inclinazioni.
Fortunatamente ci sono persone, perfino in Israele, desiderose di mutare il
loro sistema di classificazione, reinventando i loro "noi". Purtroppo non e'
una volonta' molto diffusa, specialmente in quelle societa' multiculturali e
multilinguistiche che, come Israele, desiderano avere l'assetto di
stato-nazione e perpetuare un discorso estremamente monologico, che si basa
su un sistema di classificazione razzista e immutabile, e dove il messaggio
politico e' che "noi" siamo una societa' monolingue e monoculturale. In tali
luoghi, l'altro e' sempre poco apprezzato, per non dire disprezzato, e il
sangue diventa la mercanzia piu' economica nel mercato politico.
*
I nostri bambini muoiono perche' crescono secondo principi di
discriminazione tra sangue e sangue e sull'assunto che noi siamo piu' degni
degli altri.
I nostri bambini muoiono o diventano assassini di altri bambini perche' la
voce della madre e' stata soffocata e sminuita per secoli; perche' la voce
della madre e' sempre sostituita dalle voci dei politici corrotti e dei
generali assetati di sangue, di avidi uomini d'affari e dei cosiddetti
leader senza scrupoli che sono, per la maggior parte, uomini, ma che non
parlano mai come genitori.
*
Come ho detto prima, nessuna parola e' cosi' ideologicamente ed emotivamente
carica come la parola "noi". Sono cresciuta imparando che quando dicevo
"noi" intendevo il perseguitato che risorgeva dalle ceneri, che decideva di
ricostruire una nazione, di ristabilire una civilta' e di far rivivere un
lingua, sfidando un intero mondo illuminato che aveva dato prova di essere
spietatamente indifferente al destino del diseredato, del torturato e del
massacrato. Questo "noi", questa identita' collettiva che veniva fuori dalle
ceneri della Shoah, era destinata a riportare dignita' ad un popolo
logorato, per proteggere i suoi membri contro la peggior forma di razzismo
che il mondo avesse mai conosciuto, e assicurarsi che un male, come quello
inflitto agli ebrei, avrebbe cessato di ripetersi.
Ma negli ultimi trentacinque anni questo "noi" e' diventato un Golem, un
mostro che minaccia di distruggere chi l'ha creato e che ci condanna tutti.
*
Dopo che mia figlia, Smadari, e' stata uccisa perche' era una ragazza
israeliana, da un giovane uomo furioso e stravolto dall'umiliazione e dalla
disperazione, al punto da uccidere se stesso e altri solo perche'
palestinese, un reporter mi chiese come potevo accettare le condoglianze
dall'altra parte. La mia risposta, proprio spontanea, fu che io non
accettavo le condoglianze dell'altra parte, cosi' quando il sindaco di
Gerusalemme venne ad offrirmi le sue condoglianze, mi chiusi nella mia
stanza. Solo piu' tardi ho capito che per quel reporter l'altra parte era il
popolo palestinese.
Ma io non ho mai usato il "noi" nazionale e razziale. La gente che considero
la mia parte non si puo' definire con alcun criterio sociale, ne' nazionale.
Quando dico "noi", non intendo gli ebrei o gli israeliani. Intendo la gente
che vede la vita come la vedo io. E alcuni tra questa gente sono segnati
dalla morte per sempre.
Quando dico "noi", intendo i miei amici israeliani che hanno giurato di
fronte alle tombe aperte dei loro figli che nonostante avessero perso i loro
bambini non avrebbero mai perso la testa.
Mi riferisco al professor Gazawi, che si e' laureato con me e che, dopo
essere stato confinato in una cella di isolamento perche' desiderava essere
un uomo libero e dignitoso nella sua terra, dopo aver visto suo figlio
quindicenne venire ucciso nel cortile della sua scuola mentre aiutava un
compagno ferito, si rifiuta ancora di pensare che l'essere umano sia
cattivo, e dice che siamo noi a dover creare il mito della speranza per
coloro che non ce l'hanno.
Mi riferisco a Najakh, palestinese, che ha viaggiato con me verso New York
per parlare di pace, dopo aver visto suo figlio di 10 anni ucciso e che
provava un grande affetto per mio figlio di 10 anni, israeliano.
Mi riferisco a Widad Sartawi che mi chiama la sua piccola sorella e che ha
perso suo marito che aveva osato essere amico di mio padre e sognare la
pace.
Mi riferisco ad Haled che ha trovato suo figlio maggiore con 50 pallottole
nel corpo, senza che gli abbiano mai detto come sia accaduto e perche', e
che 20 giorni dopo chiamo' sua moglie e le disse di smettere di piangere per
il suo bambino e di iniziare a piangere per il mio.
Mi riferisco alle madri che si rifiutano di desiderare la vendetta per la
morte dei loro figli uccidendo i figli di un'altra donna.
*
Oggi, quando "terrore" e' il termine coniato per definire gli atti assassini
dei poveri e dei deboli, e "guerra contro il terrore" e' il termine usato
per definire gli atti assassini dei ricchi e dei forti, quando le piu'
grandi democrazie commettono i piu' terribili crimini contro l'umanita'
usando termini come "liberta'", "giustizia" e "scontro tra civilta'", per
giustificare i loro crimini, noi, gli afflitti, le vittime del terrore o del
terrorismo anti-terrore, siamo gli unici rimasti che possano dire al mondo
che non esiste alcuna uccisione civile degli innocenti ne' un'uccisione
barbarica degli innocenti, ma c'e' solo un'uccisione criminale degli
innocenti.
Noi siamo quelli che devono dire al mondo che non c'e' nessuno scontro tra
civilta', che giu' nel regno dei bambini morti che cresce costantemente, non
c'e' nessuno scontro tra civilta'. Al contrario: la' prevale il vero
multiculturalismo, la vera uguaglianza e la vera giustizia. E forse noi
siamo coloro che dovrebbero ricordare al mondo che l'eta' dell'oro
dell'Islam e dell'Ebraismo si e' avuta quando essi vivevano l'uno accanto
all'altro, nutrendosi a vicenda e fiorendo insieme.
*
Noi siamo coloro che devono dire al mondo che la morte di un bambino,
qualsiasi bambino, in Palestina o in Israele, in Afghanistan o in Cecenia,
e' la morte del mondo intero, che dopo la morte di un bambino, qualsiasi
bambino, non ce n'e' piu' un altro; che nessuno puo' vendicarne il sangue,
perche' il bambino si porta nella sua piccola tomba, con le sue piccole
ossa, il passato e il futuro, le ragioni della guerra e le sue conseguenze.
*
Noi siamo quelli che devono dire al mondo che termini come "liberta'" e
"onore", "Dio" e "pace", "il bene del Paese" e anche "democrazia", possono
essere armi letali.
Poiche' noi siamo quelli che sanno che non c'e' pace o liberta', nessun bene
e nessun Dio dopo la morte di un bambino.
Dunque siamo quelli che dovrebbero dire al mondo che l'unico modo per
l'umanita' di sopravvivere e' di unirsi per gridare questa antica voce, che
e' sempre stata li', la voce della maternita', gridarla fino a che renda
sorde tutte le altre voci.
Noi siamo coloro che devono chiedere che il mondo ridefinisca i propri
valori e priorita', ridefinisca il crimine, la colpa, i diritti dei bambini
e i doveri degli adulti, e quindi ridefinisca l'educazione e la giustizia, e
faccia in modo che sia ben chiaro che chiunque uccida un bambino non sara'
mai in grado di vivere in pace in questo mondo. Neanche come Caino.
Noi siamo coloro che sanno che se non alziamo la voce al piu' presto, non
rimarra' niente da dire o da scrivere o da sentire tranne il perpetuo
lamento di lutto e le voci mute dei bambini morti.
Per questo noi siamo quelli che dovrebbero finire la guerra, perche'
sappiamo che non importa quale bandiera e' posta su quale montagna, non
importa chi guarda dove quando prega, e sappiamo che niente e' piu'
importante del rendere sicura la strada che percorrera' una ragazza andando
a lezione di danza.
*
Ed e' perche' noi siamo coloro che si rendono conto, in ogni ora di ogni
giorno, che in quanto genitori e adulti abbiamo tradito i nostri figli,
perche' non siamo stati attenti, non abbiamo lottato per le loro vite con
tutta l'energia che avremmo dovuto usare, pur avendogli promesso una vita
felice e un mondo migliore.
Noi siamo coloro che hanno pianto con la poetessa russa Anna Achmatova, che
conosceva lo stesso dolore, quando abbiamo guardato la nostra piccola
bambina o il nostro piccolo bambino per l'ultima volta, prima di girare le
spalle e lasciarli nelle mani di estranei: "Perche' quella striscia di
sangue ha lacerato il petalo della tua guancia?".
2. LUTTI. NORMA BERTULLACELLI: VITTIME DI MINE
[Ringraziamo Norma Bertullacelli (per contatti: norma.b@libero.it) per
questo intervento. Norma Bertullacelli, collaboratrice di questo foglio,
insegnante, amica della nonviolenza, e' impegnata nella "rete controg8 per
la globalizzazione dei diritti"]
Tre italiani hanno trovato un'orribile morte su una mina anticarro in Niger.
Per la prima volta, per quanto e' possibile ricordare, a morire su una mina,
o a rimanere mutilati, non sono stati oscuri abitanti delle zone infestate
da questi ordigni, ma turisti italiani, la cui morte "fa notizia".
Non fa notizia invece il dato fornito da Emergency e da Intersos secondo cui
nel mondo ogni anno 26.000 persone sono ferite o uccise da una mina, una
persona ogni ventidue minuti; che oltre un milione di persone sono state
uccise o seriamente mutilate dalle mine negli ultimi 25 anni; che per la
maggior parte siano bambini; che le "azioni militari" risultano solo
all'undicesimo posto tra le attivita' che provocano vittime di mine, le
precedenti dieci essendo invece azioni civili (pascolare il bestiame,
coltivare la terra, prendere la legna o l'acqua, giocare, andare a scuola,
etc.).
Non fa notizia che gli Stati Uniti siano i maggiori produttori di queste
armi, ne' il fatto che, insieme a Russia e Cina, siano tra i pochi a non
aver ratificato il trattato di Ottawa del 1997 per la messa al bando delle
mine antiuomo (sono indispensabili, secondo Rumsfeld, a tenere sotto
controllo la Corea del Nord).
E alle perdite di vite umane vanno sommati i danni economici: aree
vastissime dei paesi poveri sono sottratte all'agricoltura perche'
infestate, o potenzialmente infestate da mine; fonti d'acqua e pascoli sono
inutilizzabili; profughi non possono far ritorno alle zone di residenza.
Pare che la mina che ha ucciso i nostri connazionali fosse anticarro; ma
esistono e mietono vittime anche le antiuomo, disseminate ai quattro angoli
del pianeta.
Costano pochissimo (da 3 a 13 euro l'una); spesso sono di plastica, per
sfuggire ai metal detector; addirittura sono progettate non per uccidere, ma
per ferire e mutilare, per creare problemi economici al nemico anche dopo la
fine delle ostilita'.
L'Italia ha sottoscritto il gia' citato trattato di Ottawa. L'embargo quindi
dovrebbe essere totale. Ma sul sito delle Nazioni Unite (www.un.org) viene
riferito quanto osservato da Human Rights Watch sulla Valsella
Meccanotecnica (ex Fiat-Borletti), che produceva mine antiuomo fino a pochi
anni fa. "La Valsella, riferisce Hrw, sta spostando la produzione off-shore
a Singapore", riporta il sito. E continua: "Hrw riferisce anche che mine
italiane sono state prodotte dietro licenza o accordi di coproduzione con
Egitto, Grecia, Portogallo, Singapore e Spagna, mentre nel passato ci sono
state notizie di vendite attraverso compagnie di comodo in Nigeria e Spagna,
produzione di mine di disegno italiano in Irak, Cipro e Sud Africa".
Per il passato, dati ufficiali in nostro possesso risalgono agli anni
'80/'85: la Valsella ha esportato per 47 miliardi di lire (in Africa al
Gabon e alla Nigeria; in Asia all'Iraq); la Misar per 55; la Tecnovar per
385 milioni (fonte: Dossier sulla produzione, il commercio e l'uso di mine
terrestri, Comune di Firenze, a cura di Giulia Innocenti Bruni).
3. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: SGUARDI INCROCIATI (ANCORA UN CONTRIBUTO
ALLA RIFLESSIONE SUL "RELATIVISMO CULTURALE")
[Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini@tin.it) per questo
intervento che ulteriormente contribuisce alla comune riflessione apertasi
con l'articolo dell'intellettuale democratica iraniana Maryam Namazie
apparso sul n. 464 del notiziario e proseguita da altri interventi, una
riflessione che vorremmo proseguisse con il contributo di altre ed altri
interlocutori ancora. Di Ileana Montini, prestigiosa intellettuale
femminista, riproduciamo qui di seguito una breve autopresentazione che ebbe
la gentilezza di scrivere su nostra richiesta nel dicembre scorso: "Sono
nata nel 1940 da genitori romagnoli. Ho studiato a Ravenna e all'Universita'
di Urbino, presso la prima scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia.
Ho cominciato tra i 23-24 anni a collaborare, come corrispondente e in terza
pagina, sul quotidiano cattolico "L'Avvenire d'Italia" che si stampava a
Bologna, diretto, negli anni sessanta, da Raniero La Valle. Sono stata, fino
al 1971, nella DC, per poi uscire e aderire al Manifesto. Nella DC ho
ricoperto cariche regionali nel Movimento Femminile e ho fatto parte del
Comitato Nazionale. Appartenevo alla sinistra di Donat Cattin. Ho
collaborato e fatto parte di varie redazioni di periodici. Per esempio:
della rivista di ricerca e studio del Movimento Femminile DC, insieme a Tina
Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo Jervolino, a Paola Gaiotti. Ho
condiviso il lavoro redazionale di "Per la lotta" del Circolo "Jacques
Maritain" di Rimini. Ho collaborato a "Nuova Ecologia" diretta da A. Poggio.
Ma ho fatto parte anche della redazione della rivista "Jesus Charitas" della
"famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle" insieme a fratel
Carlo Carretto. Ho poi collaborato al "Manifesto". Attualmente collaboro al
"Paese delle donne". Il mio primo libro, edito da Bertani, e' stato La
bambola rotta. Famiglia, chiesa, scuola nella formazione delle identita'
maschile e femminile (1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini.
Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella cultura
della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un libro
che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui avevo
fatto il progetto e curato la supervisione delle operatrici: titolo: "...
ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente
e' uscito un libro d'arte della editrice Stellecadenti di un paese della
provincia di Viterbo, che racconta (mia e' la prefazione) l'esperienza del
Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione
psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni
d'aiuto; titolo: Attraverso il silenzio, di Nicoletta Crocella. Il
Laboratorio e' nato a Brescia da un mio progetto e con alcune donne alla
fine degli anni ottanta. Era stato preceduto dalla fondazione, insieme ad
altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir".
Un'esperienza come altre all'interno dell'universo femminista. Nel 1987 sono
stata capolista alle elezioni per la Camera dei deputati per il collegio di
Brescia/Bergamo per la prima lista dei Verdi. Da anni, conclusa la
professione d'insegnante, sono psicologa-psicoterapeuta"]
1. Una premessa odierna
Qualche esempio
L'intervento di Lidia Menapace [pubblicato sul notiziario di ieri] mi
sollecita ad aggiungere altra carne al fuoco della questione, non di poco
conto, chiamata "relativismo culturale".
Lo voglio fare mettendo a disposizione l'introduzione che ho tenuto il 26
ottobre dell'anno scorso a Brescia, alla relazione dell'islamista
Biancamaria Scarcia Amoretti sul tema "Sguardi incrociati: l'Islam coniugato
secondo i generi". La relazione e' stata svolta nell'ambito di un ciclo
culturale organizzato dal Consultorio familiare di via Milano come parte
integrante di una ricerca finanziata dalla Commissione pari opportunita'
della Provincia. La ricerca, che sta per concludersi dopo due anni, ha avuto
il seguente tema: "Il desiderio e l'identita' maschile e femminile".
Lidia Menapace si dice d'accordo sui ricongiungimenti delle seconde, terze e
quarte mogli (con il loro accordo, s'intende) per evitare ripudi magari allo
scopo di evitare il mantenimento.
Aggiungo, a mo' di esempio, che sono d'accordo sul continuare a consentire
alle donne musulmane di certe etnie di chiedere e ottenere una medica. Nello
stesso tempo raccomanderei alle mediche di fare come una mia amica
ginecologa femminista che "sgrida" i mariti quando parlano al posto della
moglie-paziente.
Sono anche d'accordo sulla diffusione dell'esperienza (mi pare soprattutto
romana) di promuovere un'azione educativa nei riguardi delle madri affinche'
accettino di sostituire la pratica delle mutilazioni genitali alle figlie,
con altri rituali d'iniziazione all'eta' adulta.
Spesso mi sento obiettare che bisogna chiudere un occhio (o tutti e due)
quando si tratta di concedere ai genitori l'esonero per le figlie dall'ora
di nuoto in piscina. O, addirittura, mi si vuole convincere sulla giustezza
di un ritorno - perche' sarebbe soltanto un ritorno - alle classi per sesso
nella scuole.
Avrei qualcosa da dire anche su di un'altra considerazione: se gli uomini
musulmani molestano - con parole e gesti - le donne native, in fondo si
tratta di un comportamento ascrivibile anche al "gallismo italico". Come
dire: mal comune mezzo gaudio.
Quando iniziai a insegnare nella scuola media c'erano ancora le classi
divise per sesso. Ebbene, partecipai con molta energia scrittoria e altro,
alla lotta per le classi miste e idem per l'educazione tecnica e fisica.
Sono convinta - lo dico proprio come psicologa e sociologa - che fu un gran
passo avanti accanto a tanti altri.
Ora, sempre da un punto di vista psicologico, mi chiedo cosa puo'
significare per ragazzi e ragazze, in quanto messaggio all'inconscio
cognitivo, constatare che gli adulti fanno questa "concessione"? O sentirsi
rispondere a una legittima curiosita' da un mediatore culturale, come
ricordo nell'introduzione, che "il rispetto delle donne e' il loro coperto"?
*
La notte
Rispetto alle molestie faccio riferimento alla mia esperienza clinica di
psicoterapeuta.
Le ragazze non di sinistra reagiscono in modo un po' xenofobo, mentre le
ragazze "di sinistra" soffrono di sensi di colpa quando "istintivamente"
reagiscono in difesa, proprio in quanto fanno riferimento al "relativismo
culturale". Occorre precisare - andrebbe approfondito il motivo - che i
senegalesi in genere hanno in misura minore questi comportamenti.
Vorrei anche aggiungere che il "gallismo italico" ci ha spinte a suo tempo a
reagire con analisi e pratiche. Ricordo certe manifestazioni femministe dove
si gridava un veemente "prendiamoci la notte".
Personalmente la notte me la sono sempre presa fino a qualche anno fa. Ora,
nonostante la mia eta', non sono piu' libera di rientrare a tarda notte
senza patema d'animo.
La notte e' ritornata pericolosa soprattutto per le donne almeno nelle medie
e grandi citta' del Nord.
E le mie giovani pazienti mi portano la paura di rientrare a casa tardi da
sole.
Di nuovo ho la sensazione sgradevole che la differenza sessuale continui a
fare ragionare in modo diverso gli uomini e le donne, di sinistra e non di
sinistra, naturalmente.
*
2. Una relazione tenuta a Brescia
Noi e loro
Le prime parole sono queste: noi e loro.
Nel corso della ricerca ci siamo proposti di verificare un po' come ci
vedono loro, i musulmani in Italia. Come vedono la coppia media italiana
che tanto facilmente cade nello stato di crisi e, successivamente, nella
scelta della separazione.
Ci e' sembrato che poteva essere interessante uno sguardo altro, da un altro
punto di visto.
Le coppie che abbiamo intervistato non superano i quarant'anni, si trovano
in Italia solo da alcuni anni e appartengono a vari Paesi di origine. Hanno
studiato, in maggioranza sono entrambi laureati, e hanno gia' qualche
figlio.
Pero' intendo svolgere, prima, una considerazione piu' generale.
Le coppie che abbiamo intervistato sono state molto critiche rispetto
all'organizzazione, e ai comportamenti individuali e collettivi delle donne
e degli uomini occidentali; hanno ostentato un sentimento di superiorita'
per i valori e i comportamenti che loro professano, e che fanno derivare
dalla religione.
In fondo questo e' quanto succede a chi si trova nello stato d'immigrazione
e ha bisogno di affermare la propria identita' etnica, intesa come
costruzione simbolica per definire se' e l'altro.
Ma l'identita' etnica non e' pensabile se non in maniera contrastiva e
contestuale. Quanto a dire che per pensarsi come soggetto collettivo e'
necessario mettersi in opposizione a qualche altro soggetto collettivo.
Si puo' allora formulare l'ipotesi che, nello stato d'immigrazione, si
attui, spesso, l'affermazione di una identita' esternata.
C'e' anche una identita' esperita che e' un sentire implicito, una
sensazione di appartenenza comune che si riversa nella vita quotidiana e
sulla quale non c'e' bisogno di riflettere.
Invece l'identita' esternata seleziona soltanto alcuni tratti dell'identita'
esperita e, in particolare, proprio quelli piu' significativi rispetto al
bisogno di natura oppositiva e contrastiva. Questo tipo di identita', di
natura difensiva, si pone in relazione conflittuale con l'identita' imposta,
di fatto, dall'esterno.
E ovviamente, alla base dei tratti selezionati ed esibiti dai cittadini
islamici, c'e' il riferimento esplicito alla religione.
Le religioni, in fondo, sono un insieme di credenze o miti che, nel tempo,
si sviluppano in strutture dottrinali e poi si evolvono e si intrecciano con
le tradizioni sociali; si manifestano in culti, ma anche in codici di
comportamento nella vita quotidiana.
Le interviste mi hanno fatto pensare che questa ricerca di identita' un po'
oppositiva, spinga ad assumere un comportamento collettivo definibile come
integrazione dell'esclusione.
La locuzione e' stata usata in altri contesti nazionali, ma e' utile
adattarla anche al nostro.
La dinamica esclusione-inclusione puo' spingere a cercare un significato
alla propria esistenza tenendosi in disparte e, pertanto, accentuando il
"siamo diversi, cioe' superiori a voi". Viene quindi assunta la normativita'
islamica contro la presunta "superficialita'" degli occidentali, nel
tentativo di trasformare una condizione di sottovalutazione (nel lavoro,
ecc.) in una condizione di dignita' interiore. In coerenza - e dipendenza
psicologica - dal sentirsi parte integrante della Umma (la comunita' dei
fedeli).
Bassam Tibi, un intellettuale di origine siriana e musulmano, lo ha detto
bene in una recente intervista: al musulmano che emigra si presentano due
vie: diventare italiani, o francesi ecc., o rimanere estranei e alimentare
la cultura della diaspora in comunita' chiuse in se stesse (1).
Al centro di questa dinamica, da un punto di vista per cosi' dire simbolico,
ci sono le donne. I ricongiungimenti familiari spingono gli uomini - le cui
difficolta' e, a volte, le umiliazioni sono imputabili agli uomini nostrani
che il potere economico e politico detengono -, a usare le donne come
riferimento simbolico per giudicare e condannare la cultura locale,
opponendovi la propria.
Ecco che allora le donne devono, per esempio, esibire l'abbigliamento che
caratterizza l'appartenenza etnica e religiosa, mentre gli uomini vestono i
costumi tradizionali soltanto in alcune circostanze.
Le donne, come ha affermato una docente marocchina di letteratura
dell'Universita' di Casablanca (2), ovunque e sempre, almeno dove prevale la
tradizione, sono chiamate a svolgere il ruolo di guardiane della memoria o,
in altri termini, delle "radici", o dello spazio dove si nasce e si torna
morti.
*
Le interviste
E adesso proviamo a vedere come tutto questo emerge dalle interviste.
Direi che nelle interviste si manifesta soprattutto un dato inequivocabile:
viene sempre affermata la "naturale" divisione dei ruoli sessuali; la
presunta universalita' e la verita' assoluta di una serie di "valori":
- Lavorare in casa - per le donne - e' un lavoro. Se un uomo non puo'
mantenere (da solo) la famiglia, da noi non si sposa.
- L'amore, la famiglia, l'ideale della coppia e cosa deve fare un uomo e
cosa deve fare una donna, lo sanno tutti, in tutto il mondo.
- Infatti anche a Brescia sono pochi gli uomini che lavano i piatti, che
aiutano la moglie...
- Pero' ora in Occidente c'e' poco pudore e si vedono in giro uomini e
donne che si baciano e noi ci restiamo male
- In occidente c'e' molto egoismo nella coppia; non si vogliono avere dei
problemi e ci si lascia per un nulla.
- Per noi la fedelta' e' assoluta, il matrimonio e' sacro e il divorzio e'
solo una possibilita'.
- Da noi il maschio ha delle responsabilita' diverse dalla donna: ha la
responsabilita' di prendere le decisioni. Le decisioni, in famiglia, le deve
prendere uno solo. La donna, invece, e' la regina della casa.
- Le donne, in occidente, non sono piu' rispettate. Il rispetto della donna
e' il suo coperto, non il nudo. I capelli non si devono vedere. Le donne se
vogliono essere rispettate devono coprirsi. E ci vorrebbero delle leggi per
i vestiti.
- Non possiamo avere fiducia in queste donne: le usiamo; non possono essere
delle mogli, non sono affidabili.
- Noi vogliamo trasmettere ai figli la nostra cultura, le nostre leggi.
- Chiediamo per le figlie a scuola (puberi) di non andare in piscina. In
moschea c'e' la separazione tra uomini e donne: non mescoliamo maschi e
femmine.
*
Cosa vede di noi l'altrui sguardo
Che cosa "vedono" di noi che deve indurci a riflettere?
Vedono l'individualismo estremo, il consumismo ormai senza freni; l'avere al
posto dell'essere.
Vedono la tendenza a rendere prodotto di consumo, di facile usura, anche le
relazioni sessuali ed amorose, il matrimonio stesso.
Se li ascoltiamo ci costringono anche a fare i conti con il nostro latente
conflitto tra evoluzione dei costumi e permanere della tradizione.
Nei documenti ufficiali dell'Unione Europea, all'inizio degli anni '90, si
usa il termine conciliazione a proposito del bisogno delle donne di
armonizzare tempi e responsabilita' della vita familiare con i tempi della
vita lavorativa.
In realta' c'e' ancora molta tradizione e la donna regina della casa e' una
locuzione che conosciamo. L'identificazione dell'essere donna con la
maternita' e' ancora molto forte, persino tra le giovani donne (Rapporto
Iard 2002). Il lavoro domestico in Italia permane prevalentemente femminile
ed e' fonte di disagio per le donne e motivo di scontro all'interno della
coppia.
La rappresentazione del desiderio sessuale invade la nostra vita quotidiana
attraverso la tv, i giornali, internet. Le immagini di donne nude, ma ormai
a volte anche di uomini, in posizioni sexy stimolano il desiderio erotico.
Scrive una giornalista, dopo i fatti di Leno, che bisogna fare i conti con
il messaggio che va sempre in onda: le donne "sono belle, sono vicino, sono
in vetrina, sono libere, cioe' ve le potere prendere. E se resiste? Se non
ci sta? Ci stara' per forza, non s'e' mai vista una cosa resistere" (3).
I migranti che professano il Corano e la tradizione, ci invitano a coprire
le donne, a rimetterle nella totale cura del privato, ma anche noi, in
fondo, ci sentiamo nella morsa del cambiamento e, contemporaneamente, nella
forza della tradizione.
Gli occhi dei musulmani sul nostro universo comportamentale, severi e
giudicanti, ci svelano anche questa nostalgia.
*
Felici? Nient'affatto
Leggiamola in queste parole: "Libere, disinvolte, forti di una nuova vita
che le avvicina, finalmente, al potere. Queste sono le donne di oggi.
Felici? Nient'affatto. Ingoiate in una nuova, tremenda solitudine, costrette
dentro le gabbie della razionalita' produttiva, patiscono, impreparate, una
straniante sofferenza psichica. Cosa e' successo? Si sono allontanate dalle
energie del femminile naturale, dalla loro 'selvatica interiore'. Depredate
delle eterne risorse del femminile profondo, della spontaneita' e della
naturalezza, hanno finito con il negare la loro essenza piu' autentica e la
loro relazione con la natura, con le primordiali forze della vita, in cambio
del denaro, del potere. Dello 'status'" (4).
Sono state scritte da Claudio Rise', uno psicoanalista junghiano. Uno che
fa degli archetipi - come ci ha detto il professor Carlo Sini - delle cose
eterne, come le idee platoniche.
C'e' di che riflettere.
*
Note
1. Nira Furstenberg, Islam, "La Repubblica", 18 ottobre 2002.
2. Anissa Benzakour-Chami.
3. Ida Dominijanni, L'eta' dell'amore, "Il manifesto", 13 ottobre 2002.
4. Claudio Rise', Moidi Paregger, Donne selvatiche, Frassinelli.
4. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: ALLA GUERRA SEMPRE NO
[Enrico Peyretti (per contatti: peyretti@tiscalinet.it) e' uno dei
principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi
della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a
cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei
giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella,
Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999. E' diffusa
attraverso la rete telematica (ed abbiamo recentemente ripresentato in
questo notiziario) la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza
guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente]
Traballano i motivi, gia' evidentemente pretestuosissimi, accampati da Bush
per fare la guerra.
Aumentano le volonta' contrarie alla guerra, nel cuore dei popoli, ma anche
di personaggi autorevoli o famosi. Mai visto tanto pacifismo di fronte a
tanta arroganza.
Sono pacifisti oggi anche tanti che hanno giustificato le guerre degli anni
'90, il decennio orribile. Quelle guerre strumentali hanno progressivamente
stabilito la guerra inperiale come disumano criterio di dominio.
Noi, cercatori della nonviolenza, le abbiamo condannate tutte, con solide
ragioni. Per la riconciliazione - che e' l'unica vera pacificazione - hanno
fatto e fanno di piu' i nonviolenti dei militari.
Che cosa succederebbe oggi se quei motivi di Bush riprendessero consistenza?
Che cosa succederebbe se gli ispettori trovassero sotto il letto di Saddam
un po' di quelle armi dategli dagli Stati Uniti?
Il richiamo di Ciampi, con voce scandita, all'art. 11 della Costituzione che
ripudia la guerra, giusto ed opportuno contro chi intende superarlo, e'
stato seguito immediatamente da un oscuro richiamo alle missioni militari e
agli impegni nelle alleanze, quindi a questo crimine finora voluto da Bush
con la volonta' del lupo di Fedro.
L'art. 11 impegna l'Italia alle organizzazioni di pace e giustizia, non alle
alleanze militari aggressive.
Tradire un'alleanza criminale, come fece l'Italia tardivamente l'8 settembre
1943, e' un dovere e un onore.
Bisogna dire che motivi per le guerre non ce ne sono. Non ce ne sono mai.
Senza se e senza ma, alla guerra sempre no.
Si puo' ammettere una difesa diretta del territorio e delle istituzioni da
aggressioni dirette, ma anche questa forma di difesa puo' e deve evolvere
dal monopolio militare, cioe' omicida, alla difesa sociale, civile,
nonarmata e nonviolenta, che diverse esperienze storiche dimostrano
possibile.
Ma una guerra in casa d'altri, preventiva, in difesa del dominio e del
privilegio nel prelievo energetico (letteralmente cosi' e' concepita la
"difesa" nei documenti strategici di vari paesi, in primis Usa, ma anche
Italia), e' esclusivamente criminale.
L'ingerenza umanitaria, data l'interdipendenza dei popoli e il dovere di
solidarieta' universale, e' doverosa e giusta, ma per essere umanitaria deve
essere civile e previdente, non militare e tardiva.
La coscienza umana parla chiaro: chi ordina la guerra e' un assassino. Chi
l'approva, approva l'assassinio. Chi la ripudia salva l'umanita'.
5. INCONTRI. MARINA FORTI: DAL FORUM SOCIALE ASIATICO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 gennaio 2003. Marina Forti, esperta di
questioni ecologiche globali, e' inviata al Forum sociale asiatico in corso
a Hyderabad in India]
L'anziana giapponese parla con voce flebile e saluta la platea con profondi
inchini: la signora Hibakusha parla a nome dei sopravvissuti di Hiroshima,
il primo olocausto nucleare della storia umana.
Ieri mattina, in uno dei due giganteschi padiglioni allestiti nel campus del
Nizam College, a Hyderabad, e' stata la sua testimonianza ad aprire la
conferenza su "pace e sicurezza" - ovvero sulla guerra che incombe, e che e'
uno dei fili conduttori principali nei lavori del Forum sociale asiatico.
Non l'unico, certo, perche' parallela si svolgeva una conferenza sui
"diritti sociali nel contesto della globalizzazione", mentre tra tendoni,
sale e auditorium sparsi per la citta' si parlava di saperi indigeni e di
biodiversita', di lotta all'Aids, di lavoro infantile (gia', e quei
ragazzetti che girano con thermos e bicchieri di plastica a vendere te'
caldo?), di diritti dei dalit (i fuoricasta, "intoccabili"), e di dighe, e
di come purificare l'acqua in modo economico perche' non sia un lusso fuori
dalla portata della maggioranza (l'organizzazione zero waste, "zero
sprechi", insegna a riciclare in modo sicuro e disseta tutto il Forum a
pochi centesimi la bottiglia).
Ma guerra, pace e sicurezza ricorrono in molti dei seminari e per la verita'
con parole diverse: quelle di un signore di mezza eta' che viene da una zona
montagnosa dell'Himalaya indiano e ha studiato tutto sugli effetti delle
radiazioni perche' vive accanto a Jadugodha, la maggiore miniera di uranio
in India, o quelle di una giovane donna di Seul che mostra la foto di due
bambine schiacciate da un carro blindato Usa - un incidente che ricorda la
funivia del Cermis, e infatti anche in Corea i militari responsabili hanno
evitato la condanna e non saranno processati da autorita' civili in virtu'
della loro giurisdizione extraterritoriale. O ancora, con le testimonianze
impaurite di donne venute dallo stato del Gujarat, in India occidentale,
dove all'inizio dell'anno i musulmani sono stati l'obiettivo di un pogrom e
da allora vivono - per dirla con le parole di un attivista di la' - "a loro
agio come gli ebrei nella Germania nazista".
*
Il "secondo fronte" della guerra
E questi discorsi rimandano uno all'altro: e' "il nesso tra guerra e
fondamentalismi, guerra e dominio globale dell'economia, guerra e controllo
delle risorse" evocato dall'economista filippino Walden Bello, direttore
della rete Focus on the Global South, nell'introdurre la conferenza della
mattinata - sponsorizzata dalla "Alleanza asiatica per la pace", rete di
gruppi contro la guerra e per il disarmo nucleare.
Il giapponese Kinhide Mushokoji fa notare che la "guerra al terrorismo"
lanciata dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001 ha acceso i riflettori
prima sull'Asia meridionale (l'Afghanistan) e poi su quella occidentale, con
l'imminente attacco all'Iraq, "ma ha un secondo fronte nell'Asia orientale e
del sud-est" e sarebbe grave dimenticarlo. Quel secondo fronte include gli
esperti militari americani mandati nelle Filippine cosi' come la ripresa di
tutela militare sull'Indonesia, o il progetto di installare un grande centro
antiterrorismo a Kuala Lumpur, fa notare Chandra Muzzafer (Malaysia), che fa
risalire la presa militare americana nell'Asia-Pacifico proprio alle bombe
di Hiroshima e Nagasaki e i loro quattro milioni di morti. Ora, aggiunge, la
"guerra al terrorismo" e' servita a rafforzare la presenza militare
statunitense. Per il movimento pacifista e' una sfida difficile, anche
perche' "ci sono gruppi nel sudest asiatico che pensano di combattere
l'imperialismo americano mettendo bombe come quella di Bali. Dobbiamo
combattere anche loro, l'unica risposta all'espansione Usa sono movimenti
pacifici e di massa".
E' parte del "secondo fronte" anche la Corea, ovviamente, con le minacce
nucleari nel Nord e le manifestazioni contro la presenza militare americana
nel Sud. Mushokoji riprende la definizione americana di "asse del male" e
sbotta: "Il vero asse del male sono le Cia e i servizi di intelligence Usa,
sudcoreano, giapponese, nordcoreano, che tengono alta la tensione per
perpetuare occupazione militare e confronto". Per questo bisogna schierarsi
con le "colombe" ovunque emergano, e che sollievo - conclude il giapponese -
vedere che in Corea del Sud ha conquistato la presidenza un uomo del
dialogo, "uno che rappresenta coloro che hanno sofferto gli effetti del
militarismo giapponese".
*
La pace e la giustizia sociale
Le nozioni di pace e sicurezza pero' non rimandano solo a eserciti e guerre
guerreggiate. E' Nighat Said Khan a mettere la questione in altri termini:
pakistana, direttrice di un'organizzazione di donne (Ars) e impegnata
nell'Istituto di Women's studies di Lahore, Nighat torna indietro alla
formazione dei confini nazionali nel subcontinente indiano.
"Pensate alla 'pacifica' conquista dell'indipendenza indiana e ricordate che
la divisione tra India e Pakistan e' stata accompagnata da massacri,
migrazioni di massa, e da donne che sono state violentate, uccise, spinte a
suicidarsi, rapite".
La storia ufficiale sorvola sul trauma che ha accompagnato la divisione, il
travaso di popolazione (una volta tracciato un confine i musulmani si
spostarono verso il Pakistan, e gli hindu verso l'India) e l'ondata di odio
e sangue, e la particolare violenza che si e' abbattuta sulle donne.
Nighat Said passa in rassegna la storia del "Pakistan maschile e
patriarcale", tra regimi militari e influenze del fondamentalismo saudita e
relazioni militari con gli Usa, e il Kashmir oggetto di contendere con
l'India, e le donne vittimizzate. E tutto questo per arrivare a dire che
"bisogna rivedere i concetti di pace e sicurezza in termine di classe e di
oppressione patriarcale": "Le classi oppresse, le minoranze religiose o
sociali o etniche sono spesso minacciate e insicure all'interno del proprio
paese, e chi nega loro sicurezza e pace sono le classi o caste o elites
dominanti".
6. MEMORIA. STEFANO D'ARCHINO: L'ESPERIENZA DI DIETRICH BONHOEFFER
[Ringraziamo Stefano D'Archino (per contatti: s.darchino@bluewin.ch) per
questo intervento che estraiamo da una sua preziosa lettera personale.
Stefano D'Archino e' pastore evangelico in Val Bregaglia, in Svizzera.
Dietrich Bonhoeffer, nato a Breslavia nel 1906, pastore e teologo, fu ucciso
dai nazisti il 9 aprile del 1945; non e' solo un eroe della Resistenza, e'
uno dei pensatori fondamentali del Novecento. Tra le opere di Dietrich
Bonhoeffer: Resistenza e resa (lettere e scritti dal carcere), Paoline,
Cinisello Balsamo (Mi) 1988; Etica, Bompiani, Milano 1969; presso la
Queriniana di Brescia sono stati pubblicati molti degli scritti di
Bonhoeffer (tra cui ovviamente anche Sanctorum Communio, Atto ed essere,
Sequela, La vita comune). Tra le opere su Dietrich Bonhoeffer: Eberhard
Bethge, Dietrich Bonhoeffer, amicizia e resistenza, Claudiana, Torino 1995;
Italo Mancini, Bonhoeffer, Morcelliana, Brescia 1995; AA. VV., Rileggere
Bonhoeffer, "Hermeneutica" 1996, Morcelliana, Brescia 1996; Ruggieri (a cura
di), Dietrich Bonhoeffer, la fede concreta, Il Mulino, Bologna 1996]
L'esperienza di Bonhoeffer e' significativa. Dopo secoli di lealta' verso le
autorita', di chiesa in se' - solo in se' - pacifica, ecco il dittatore.
Abbatterlo e' nella tradizione greco-romana, ma non in quella evangelica
luterana tedesca. Compiere un omicidio e' peccato - per un evangelico - e
nello stesso modo e' peccato lasciare che un altro commetta un omicidio.
Come ogni buon evangelico nessuno puo' dirgli cosa sia meno sbagliato nella
sua situazione, fa parte della sua responsabilita' (pur alla luce
dell'evangelo) decidere: non far niente, fuggire e salvarsi, intervenire?
Il teologo tedesco decidera' di intervenire contro il tiranno partecipando
attivamente alla struttura che prepara gli attentati. E nella sua
valutazione etica interviene la riflessione molto attuale sulle generazioni
future.
In Dieci anni dopo, del 1942, Dietrich Bonhoeffer infatti scrive: "Chi parla
di soccombere eroicamente davanti ad una inevitabile sconfitta fa in realta'
un discorso molto poco eroico, perche' non osa levare lo sguardo al futuro.
Per chi e' responsabile la domanda ultima non e': come me la cavo
eroicamente in quest'affare, ma: quale potra' essere la vita della
generazione che viene".
Credo che questa non possa essere una scorciatoia - che molti usano - per
passare subito sciaguratamente alla scelta violenta. Ma anzi si porta piu'
rispetto alla scelta nonviolenta avendo ascoltato il dramma di persone come
Dietrich Bonhoeffer.
*
Dietrich Bonhoeffer nasce nel 1906. Brillante studente diviene pastore
evangelico e teologo.
Nel 1933 Hitler, che e' salito al potere cerca di controllare le Chiese
evangeliche tedesche. Bonhoeffer partecipa alla difesa dell'indipendenza
delle Chiese evangeliche, insieme ad altri mille pastori e moltissime
persone. Pero' una volta respinte le pretese piu' forti, l'opposizione si fa
meno compatta. Agisce la paura e l'idea che si stia facendo politica
indebitamente.
Nel 1935 Bonhoeffer inizia ad insegnare presso Finkenwalde, un seminario
segreto, per preparare i pastori della Chiesa Confessante, la parte della
Chiesa che rifiuta nettamente il nazismo.
Nel 1939 allo scoppio della guerra non rimane in salvo all'estero, dove era
andato per motivi di studio, ma inizia a collaborare con l'Abwehr, il
servizio segreto dell'esercito che in realta' tenta prima di deporre Hitler
e poi di ucciderlo. Bonhoeffer grazie alle sue conoscenze, anche di illustri
teologi, va all'estero a trattare con i rappresentanti degli Alleati. Vive
nel sospetto degli amici e dei nemici. Un attentato ad Hitler non funziona.
Organizzano con successo un salvataggio di ebrei in Svizzera.
Nell'aprile del 1943 viene arrestato insieme ad altri dell'Abwehr. Completa
in carcere varie opere che saranno fondamentali nel dopoguerra, per la
ricostruzione delle Chiese evangeliche tedesche. Nel luglio 1944 fallisce
l'ultimo attentato ad Hitler.
Deportato in un campo di concentramento Bonhoeffer l'8 aprile del 1945,
quando la guerra sta per concludersi in Germania, viene impiccato. I nazisti
tentano cosi', pur nella sconfitta, di influenzare cio' che verra' dopo,
eliminando un possibile edificatore di una nazione rinnovata.
7. STRUMENTI. ALCUNE EDIZIONI ECONOMICHE DI VERSIONI ITALIANE DEL CORANO
Esistono varie versioni italiane del Corano, alcune con commenti di notevole
valore. Qui ne segnaliamo, ancora una volta, tre delle migliori, ai cui
pregi si aggiunge anche quello di essere disponibili in edizioni economiche
e quindi alla portata di tutti i lettori.
- Il Corano, con introduzione, traduzione e commento di Alessandro Bausani,
del 1955, riedito da Sansoni nel 1978 e disponibile nella collana economica
della Biblioteca Uiversale Rizzoli e costantemente ivi ristampato;
- Il Corano, con introduzione, traduzione e commento di Federico Peirone, in
due volumi, del 1979, nella collana economica degli Oscar Mondadori;
- Il Corano, a cura e nella traduzione di Hamza Roberto Piccardo, revisione
e controllo dottrinale dell'Unione delle comunita' ed organizzazioni
islamiche in Italia, pubblicato nel 1994 nelle Edizioni Al Hikma, e dal 1996
in edizione economica nella collana dei Grandi Tascabili Economici Newton,
della Newton & Compton.
Per motivi diversi tutte queste edizioni hanno caratteristiche e pregi
peculiari che rendono particolarmente proficua una lettura incrociata.
8. RILETTURE. TAHAR BEN JELLOUN: L'ISLAM SPIEGATO AI NOSTRI FIGLI
Tahar Ben Jelloun, L'Islam spiegato ai nostri figli, Bompiani, Milano 2001,
pp. 112, euro 6,20. Un piccolo libro che potrebbe essere utilmente
utilizzato nelle scuole, ed una lettura di quelle che fanno bene a tutti.
9. RILETTURE. LUDWIG FEUERBACH: L'ESSENZA DEL CRISTIANESIMO
Ludwig Feuerbach, L'essenza del cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1960,
1975, pp. 296. Il capolavoro del 1841 del grande pensatore. Una lettura
utile a tutti, credenti e non credenti.
10. RILETTURE. LUDWIG FEUERBACH: L'ESSENZA DELLA RELIGIONE
Ludwig Feuerbach, L'essenza della religione, Einaudi, Torino 1972, 1976, pp.
L + 156. L'altro capolavoro del 1846.
11. RILETTURE. AMIN MAALOUF: L'IDENTITA'
Amin Maalouf, L'identita', Bompiani, Milano 1999, pp. 192, euro 8,26. Un
saggio contro tutte le ideologie dell'esclusione, contro ogni totalitarismo.
12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
13. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 468 del 6 gennaio 2003