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La nonviolenza e' in cammino. 445



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 445 del 14 dicembre 2002

Sommario di questo numero:
1. Un profilo di Lidia Menapace
2. Lidia Maggi, fine del Ramadan a Sesto San Giovanni
3. Ileana Montini, un intervento sulle questioni poste da Giancarla
Codrignani
4. Daniela Binello, diritti e informazione nella societa' mondializzata
5. Luciana Castellina, il golpe nascosto
6. Luisa Morgantini, fermare la demolizione di case a Hebron
7. Uri Avnery, una lettera a Elyakim Rubinstein
8. Letture: Guenther Anders, Linguaggio e tempo finale (in "Micromega" n.
5/2002)
9. Riletture: Guenther Anders, L'uomo e' antiquato. I. Considerazioni
sull'anima nell'era della seconda rivoluzione industriale
10. Riletture: Guenther Anders, L'uomo e' antiquato. II. Sulla distruzione
della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale
11. La "Carta" del Movimento Nonviolento
12. Per saperne di piu'

1. MAESTRE E COMPAGNE. UN PROFILO DI LIDIA MENAPACE
[Amatissima Lidia dai doni infiniti (per contatti: menapace@tin.it)]
Ce ne ho messo di tempo per arrivare a dichiararmi una che tenta di
praticare azioni nonviolente, ce ne ho messo davvero tanto: anche perche'
sono nata in un periodo nel quale la violenza, la guerra, la forza,
l'esaltazione della temerita' erano cosa di tutti i giorni: durante il
fascismo addirittura l'obiezione di coscienza non solo era vietatissima, ma
pure dichiarata una vigliaccheria, e non veniva aiuto nemmeno dalla chiesa
che la diceva una pratica protestante. Gli unici modelli ripetuti fino alla
noia erano eroici, temerari, di sprezzo della vita ecc. ecc.
Per me avevo difficolta' ad allinearmi a simili esempi, anche perche' sono
sempre stata molto resistente ma niente affatto forte. Anche nei giochi mi
piaceva di piu' l'agilita' che la forza, e nello sport o nella ginnastica
ero brava a correre e saltare, a fare escursioni, ascensioni e camminate o
sciate di fondo, non a sollevare pesi o a fare la lotta: avevo una buona
mira e andavo bene nell'arco, ma gia' il giavellotto era troppo pesante e
non riuscivo in niente, mi piaceva molto il movimento quasi di danza col
quale ci si prepara a lanciare il disco dalla pedana, ma i risultati erano
miserevoli; arrampicarmi sulla pertica o sulla corda e - fuori di scuola -
sugli alberi era cosa non per me, non avendo forza nelle mani.
*
La prima vera prova che mi capito' fu appunto quando decisi di trasformare
il mio antifascismo di pensiero in azione diretta ed esposta ed entrai nella
Resistenza: dichiarai che non volevo portare armi, e non posso dire che
nemmeno questa fu una consapevole scelta di azione nonviolenta: piu' che
altro avevo paura di farmi male da sola e del resto ero sicura che non sarei
mai stata capace di sparare nella pancia di nessuno e che percio' mi
conveniva semmai di essere presa inerme, si' da avere la possibilita' di
raccontare qualche frottola e salvarmi la pelle.
Una scelta come quella che ho detto era pienamente accettata nella
Resistenza che era certamente anche un movimento armato, non pero' militare,
come dico sempre.
Distribuivo stampa clandestina, accompagnavo al confine svizzero ebrei e
oppositori politici, portavo plastico per attentati e medicine per i feriti.
*
Durante la Resistenza maturai una opposizione molto ferma alla violenza,
tortura, rappresaglia, sia da parte di nazi e fasci sia da parte nostra.
Ho sempre dichiarato la mia contrarieta' ad azioni come quella di via
Rasella e alla uccisione di Mussolini e della Petacci, come anche ad
operazioni di vendetta sanguinosa: una mia compagna di scuola che forse era
una spia, certo era una fascista sfegatata, fu uccisa da partigiani e
considero cio' una vergogna.
Non ho mai cercato scuse per questi errori e sono contenta che nella mia
citta' natale - Novara - fu possibile attraverso l'istituzione di un
tribunale del popolo reso legittimo dalla presenza in qualita' di pubblico
ministero dell'allora giovane magistrato Oscar Luigi Scalfaro di evitare
vendette private ed esecuzioni sommarie: non ve ne fu nessuna. Scalfaro
chiese un certo numero di condanne a morte secondo il codice vigente e
inoltro' subito domande di grazia che furono accolte.
*
Da allora cercai sempre di agire con forza, tenacia, testardaggine i
conflitti, ma senza essere violenta e via via attraverso il femminismo e la
riflessione sulla amara sorpresa della prima guerra del Golfo, di provare a
pensare un mondo che rifiutasse l'uso della forza e praticasse l'azione
nonviolenta.
Ho constatato che non esiste una cultura politica che rifiuti l'uso della
guerra tra le note e praticate: se le culture di destra spesso esaltano
addirittura la guerra, anche le culture moderate o di sinistra finiscono per
considerarla inevitabile a ristabilire un diritto violato, ad operare una
"ingerenza" umanitaria (ad esempio con l'embargo contro la popolazione
civile?), o anche giusta per la liberazione dei popoli.
*
Sono arrivata qui e considero la pace il primo fondamentale diritto umano e
l'azione nonviolenta per promuoverla e allargarla come l'impegno etico e
politico piu' straordinario che possa capitare.
Adesso sono molto contenta di vedere quali cari nomi e facce di donne,
ciascuna con i suoi tempi e modi, ci incontriamo a questo crocicchio: Ileana
Montini, Nella Ginatempo, Giancarla Codrignani, Rosangela Pesenti, Giusi di
Rienzo, Monica Lanfranco, Imma Barbarossa: naturalmente conosco bene tutte
le femministe che Peppe ospita cita e approva, ma queste mi sono piu' vicine
anche per scelte condivise nelle forme dell'azione politica: che ci
incontriamo da Peppe e' ancora piu' bello e spero che una volta o l'altra ci
inviti tutte quante a un allegro brindisi.

2. ESPERIENZE. LIDIA MAGGI: FINE DEL RAMADAN A SESTO SAN GIOVANNI
[Lidia Maggi e' pastora battista. Questa testimonianza abbiamo ripreso dal
sito de "Il dialogo" (www.ildialogo.org)]
Ho il privilegio di partecipare alla preghiera della festa di rottura del
digiuno di una delle piu' grandi realta' musulmane in Italia.
Un esperienza intensa, estremamente significativa, davanti a me migliaia di
volti di uomini che invocano il nome di Hallah. Ripetono quel nome in una
litania, una preghiera intensa che mi coinvolge mio malgrado. Osservo quelle
labbra che sussurrano un suono a loro tanto caro, gli occhi di molti sono
socchiusi, inginocchiati o seduti su piccoli tappeti per la preghiera, si
muovono discretamente. La sala e' gremita di persone. Mi dicono piu' di
quattromila. L'Imam invita l'assemblea a venire avanti, proprio come
facciamo anche noi nelle nostre chiese. La motivazione pero' e' ben diversa:
bisogna ridurre al massimo gli spazi vuoti per dare a tutti la possibilita'
di inginocchiarsi. In fondo alla sala tanti uomini non hanno spazio per
sedersi. A piedi nudi, accovacciati per terra, dei credenti invocano Dio,
quell'unico Dio che e' padre di tutti i popoli, che piange di fronte alle
divisioni, ai conflitti religiosi, alle ingiustizie.
Insieme a me altri membri della delegazione cristiana per il dialogo. Al mio
fianco il sindaco di Sesto San Giovanni, Giorgio Oldrini, che salutera'
cordialmente la comunita' donando parole di accoglienza e solidarieta'. E
poi c'e' don Giampiero Alberti che porta i saluti della diocesi. Un debito
al suo lavoro va pagato. Oggi se noi siamo qui e' in parte grazie alle
relazioni di amicizia e fiducia che don Giampiero ha tessuto con la
comunita' islamica nel corso degli ultimi sette anni. Noi siamo neofiti e
lui ci introduce in questa realta' che conosce ormai intimamente.
Il discorso del presidente della casa della cultura di Sesto e di Milano e'
un invito al dialogo, un'invocazione di pace. "Non dobbiamo avere paura del
dialogo, anche il profeta lo ricercava, dobbiamo invece temere le analisi
politiche dopo l'11 settembre. Questa tragedia non e' figlia dell'Islam ne'
della nostra cultura. Ha invece origine nella poca spartizione delle
ricchezze nel mondo, nella poca diffusione della democrazia, nello
sfruttamento di popoli nel mondo. Le reazioni alle ingiustizie possono avere
qualsiasi colore e origine. L'Islam e' la religione della pace. Non puo'
essere convoglio di odio e vendetta. Noi come comunita' stabilita in Europa
lotteremo con tutte le nostre energie per educare le nostre generazioni
future ad essere sorgente di sapienza e di pace nel rispetto totale delle
leggi vigenti, delle regole dell'integrazione e della convivenza. Di fronte
ai doveri noi immigrati non dobbiamo esigere nessuna limitazione. Siamo alla
pari di qualsiasi cittadino europeo, tuttavia per quanto riguarda i diritti,
di continuo sperimentiamo limitazioni. Le leggi dovrebbero essere fatte con
meno impatto sulle popolazioni immigrate per farle sentire parte integrante
di questo Paese".
Il discorso continua sull'immigrazione. Si racconta la fatica per arrivare
ad occupare un posto sociale dignitoso.
E mentre il presidente parla, osservo gli occhi dell'assemblea, occhi
intensissimi, sguardi attenti. Alcuni volti portano il segno della fatica
descritta dalle parole dell'oratore. Molti sono precocemente invecchiati,
altri sono giovanissimi. Corpi muscolosi, generalmente magri, mani callose,
tra loro pero' ci sono anche studenti, persone perfettamente integrate,
dirigenti, non solo clandestini dunque...
Gente affabile e generosa che ci accoglie ci saluta cordialmente, ci offre
dolci, regali ed amicizia. Mi sento a casa in questo luogo accogliente e
sento su di noi il sorriso di Dio.
*
A Milano esistono due grosse realta' musulmane. Una piu' disponibile al
dialogo, l'altra piu' diffidente. Alcuni responsabili musulmani gia' da
tempo si confrontano con altre realta' religiose a Milano. Hanno contribuito
con entusiasmo e serieta' alla nascita di un'organizzazione milanese
chiamata "Religioni per la Pace". Piu' volte hanno condiviso con noi momenti
di confronto e di preghiera.
E' durante una plenaria di "Religions for Peace", che e' partita la proposta
musulmana di invitare altre realta' religiose alla loro festa di rottura del
digiuno. Un invito coraggioso e generoso che spiazza le obiezioni di chi
sembra avere difficolta' ad aderire all'appello per il dialogo promosso da
Brunetto Salvarani.
Piu' volte, negli ultimi mesi, ho sentito criticare l'iniziativa di una
giornata di dialogo con argomentazioni che vanno dalla disparita' del
dialogo (siamo sempre noi cristiani a muoverci, a fare attivita', ai
musulmani non interessa nulla) alla difficolta' di pensare ad iniziative
ufficiali laddove non ci sono esperienze locali. Obiezioni serie, che
tuttavia a volte suonano come alibi per non sentire il soffio della novita'
di Dio che interroga le nostre realta' ed apre opportunita' per costruire
davvero un contesto di pace e fiducia.
Il dialogo non e' semplice. Le difficolta' sono molteplici, la conoscenza
dell'altro e' inesistente. L'idea pero' di una giornata di dialogo era
proprio finalizzata a dedicare un preciso momento dell'anno all'incontro.
Nessuno vuole ridurre il dialogo ad una giornata.
*
Lo stadio di Sesto San Giovanni che accoglie la festa di Aid el Fitr e'
gremito di gente vestita elegantemente, allegra e sorridente. Sono i
musulmani, quei musulmani che suscitano spettri e paure in molti. Si parla
di Islam spesso dimenticando che dietro questa parola, questa realta', ci
sono volti, storie, gente che crede con passione e serieta'.
Storie a volte difficili di chi ha conosciuto la poverta' anche nel nostro
paese, ma anche tante vicende felici di chi invece e' riuscito ad integrarsi
perfettamente. Difficile identificare tutte leprovenienze presenti: alcuni
hanno i tratti orientali, altri sembrano africani, ma ci sono anche tanti
italiani. Molti non parlano bene la nostra lingua, altri invece la conoscono
perfettamente. Per alcuni ormai l'italiano e' la loro lingua materna.
Gente diversa e tuttavia unita dalla fede nel Dio unico clemente e
misericordioso.
Insieme agli altri membri della delegazione entro in quell'atmosfera di
festa. Ci salutano affettuosamente, ci presentano gli esponenti piu'
prestigiosi delle loro comunita', ci fanno sentire importanti e comprendiamo
immediatamente di essere in un luogo sacro. Sacro non per l'edificio, un
comune stadio, attrezzato per l'occasione con tappeti, ma per la sacralita'
delle relazioni che si vivono all'interno.
L'accoglienza e' squisitamente mediterranea. Ci invitano ad un tavolo e
prima ancora di prendere accordi sulle modalita' dei nostri interventi ci
mettono a nostro agio, ci fanno accomodare. Una tazza di te' bollente,
succhi di frutta esotici e tanti dolci, molti dei quali li riconosco, sono i
nostri dolci, i nostri pasticcini, la nostra biscotteria secca,
perfettamente integrata tra i mille dolci al miele e al cocco piu' esotici.
Prima della preghiera, mentre continuiamo a sorseggiare il te' e ad
ingolfarci di dolciumi, cerchiamo di decidere chi tra noi della delegazione
per il dialogo portera' i saluti alla comunita'. Vorremmo che fosse una
donna a parlare, ma ci interroghiamo sull'opportunita' di questo desiderio.
Forse potrebbe essere offensivo e noi non vogliamo offendere i nostri
ospiti. Il responsabile della casa della cultura ascolta le nostre
riflessione e poi ci rassicura. Saranno ben felici di ricevere i nostri
saluti da chiunque li voglia dare, uomo o donna che sia. Per loro non c'e'
nessun problema, se questo non crea problema a noi.
E cosi' lasciamo che Franca Ciccolo' Fabris ci rappresenti.
Dira' poche parole, per non rubare troppo tempo, parole incisive di chi ha
fatto del dialogo, dell'incontro con l'altro, la ragione profonda della sua
vita. Franca parlera' della necessita' di conoscersi, di parlarsi, di
scoprire che dietro ad ogni volto c'e' una storia. Verra' applaudita e
l'Imam richiamera' amorevolmente l'assemblea a ritrovare il contegno dovuto
in un momento di preghiera. Franca dira' anche che siamo un gruppo di
cristiani promotori del famoso appello per il dialogo cristiano-islamico
lanciato lo scorso anno.
(Qualche limite viene posto al suo discorso, non certo pero' dai musulmani,
ma dal mondo cattolico. Ci fanno capire che non e' opportuno menzionare la
giornata di dialogo cristiano-islamico. Intuisco che dietro questo
"consiglio" ci sono delle spaccature all'interno della Cei, delle
difficolta' in ambito cattolico a promuovere una giornata di dialogo. Di
fatto a Milano il 29 di novembre, giorno stabilito per le attivita', non
siamo riusciti ad organizzare nulla. La curia, con l'ufficio per
l'ecumenismo, non si e' dichiarata disponibile. Le ragioni non sono state
chiare, tantomeno e' stato chiaro il temporeggiare per darci infine una
risposta negativa. Non ci scoraggiamo pero', le difficolta' non ci
spaventano e non vogliamo "affrettare i tempi", tuttavia non possiamo
evitare di sollecitare le nostre realta' a creare momenti di condivisione e
conoscenza, un modo necessario per abbattere pregiudizi e fantasmi).
*
Il presidente della casa della cultura islamica, l'Imam, come i vari
responsabili, si informano sui loro ospiti, ci sorridono amabilmente. Ci
spiegano qualcosa della loro festa e noi siamo li' curiosi di apprendere:
"Ogni festa islamica viene dopo un periodo di adorazione. Il nostro digiuno
e' una modalita' con cui noi ci mettiamo in completo ascolto di Dio. E' un
tempo per ricordare i pilastri della nostra fede, per concentrarci nella
carita' e nella preghiera. Ci ricordiamo che il tempo non e' nostro, ma di
Hallah, a lui appartiene ogni giorno della nostra vita. Alla fine del mese
di digiuno tutte le famiglie islamiche si ritrovano per una preghiera di
ringraziamento. Ecco, voi vi trovate qui. Per noi oggi e' un giorno di
festa. Vedrete che la preghiera sara' molto breve, come se Hallah volesse
lasciare spazio alle famiglie per festeggiare, per stare con i bambini per
riposarsi e distendersi".
Altre informazioni le apprenderemo dalle donne. Incontreremo dopo la
preghiera Fatima Abdellhokem, presidente dell'associazione Donne musulmane
in Italia, accompagnata da Souheir, la segretaria.
Ci spiegheranno che questa festa e' dai loro bambini attesa con
trepidazione, come i nostri bimbi attendono il Natale. La mattina i bambini
ricevono un regalo e poi per tutta la giornata sono coccolati ed al centro
dei festeggiamenti. Le bambine portano una piccola borsa dove molti adulti
fanno scivolare qualche moneta e poi ci sono i dolci, il pranzo comune. Ci
spiegano che qui in Italia le famiglie per ritrovarsi assieme, vivendo in
case modeste, prenotano un locale, un ristorante dove si riuniscono per
festeggiare. Si prepara il cibo fino dalla sera prima per essere totalmente
libere quel giorno. Ci descrivono alcuni dei loro piatti tradizionali e si
dichiarano disponibili ad organizzare un corso di cucina araba per le donne
cristiane.
Ci parlano poi di un'associazione, una specie di Caritas musulmana. E'
l'associazione che si occupa di gestire la rete di aiuti per coloro che
vivono disagi in Italia. Oggi, per tutti coloro che qui in Italia non hanno
la famiglia ci sara' la possibilita' di mangiare la' nello stadio. Anche per
loro le donne hanno provveduto a cucinare.
Ci raccontano anche che ogni persona dona alla comunita' un contributo di 5
euro per la fine del digiuno. Quei soldi serviranno per aiutare i bisognosi.
Sono un'offerta diversa dalla carita' dovuta.
Queste donne parlano perfettamente l'italiano.
Scopriamo che molte, le piu' giovani, sono nate in Italia. Alcune sono
cittadine italiane. Ripenso ad una frase infelice della lettera del
cardinale alla comunita' islamica: "la festa di Id al Fitr, con la quale
concludete il mese di Ramadan, mi offre l'opportunita' di salutarvi in
qualita' di Vescovo della terra che vi ospita". Quanto poco conosciamo di
questa realta'. Molti tra loro sono cittadini e noi li consideriamo ancora
stranieri, ospiti.
Salutiamo le donne scambiandoci i rispettivi recapiti e promettendoci di
ricercarci per promuovere assieme altre attivita'.
Stringo la mano di Fatima, mentre l'abbraccio. La sua ruvidezza mi rivela la
fatica di una vita di lavoro.
I saluti si prolungano. Nessuno sembra aver voglia di andar via.
Piu' tardi in metropolitana, con Franca Fabris e Vittorio Bellavite (un
cattolico del movimento "Noi siamo Chiesa", anche lui parte della
delegazione) commentiamo l'esperienza appena vissuta. Ci raccontiamo alcune
delle tante sensazioni provate. Ci scopriamo un po' piu' ricchi e ci
accompagna lo sguardo sorridente di Dio.

3. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: UN INTERVENTO SULLE QUESTIONI POSTE DA
GIANCARLA CODRIGNANI
[Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini@tin.it) per questo
intervento nella riflessione proposta da Giancarla Codrignani col suo
editoriale di alcuni giorni fa. Ileana Montini e' maestra grande di
maieutica (e quindi di liberazione, che e' un altro nome della
responsabilita')]
Nel n. 437 del notiziario Giancarla Codrignani  si dice un po' stanca per i
decaloghi e le lezioni su nonviolenza e pace da parte degli uomini, e
soltanto da loro.
Sono andata, allora, a ripescare nella  mia libreria un vecchio libro
intitolato La donna non aggressiva (La Tartaruga, Milano 1992) della
psicoanalista Margarete Mitscherlich.
Il libro comincia cosi':
"In tutte le epoche storiche a noi conosciute, le guerre sono sempre state
condotte dagli uomini. Gli uomini le hanno preparate, macchinate e
combattute, hanno distrutto armate nemiche e catturato prigionieri, hanno
devastato intere regioni, conquistato continenti, hanno "colonizzato" o
cancellato intere culture massacrando anche vecchi, donne e bambini.
Sono gli uomini a inventare e a produrre strumenti di guerra, a ideare piani
di battaglia che poi hanno messo in pratica (...). In tutte le guerre a noi
note, le donne hanno sempre avuto una funzione di servizio o di
sostentamento, seguivano i soldati con le salmerie, si preoccupavano del
loro stato fisico, a letto e in cucina, nei lazzaretti e nei bordelli erano
quasi sempre vittime, sia che fossero violentate, torturate, ammazzate,
fatte schiave o catturate come bottino di guerra, sia che si  ritrovassero
vedove per la perdita dei loro capi famiglia e dei loro figli (...). In
tutte le epoche a noi note, sono stati soprattutto gli uomini a commettere
crimini" (p.13).
Ma poi si chiede:
"Possiamo davvero pensare  che soltanto una parte dell'umanita' possieda
questa disposizione distruttiva e l'altra no? Non possiedono forse entrambi
le stesse disposizioni? E se le cose stanno cosi', che cosa fa l'altra parte
dell'umanita', ovvero la donna, con le sue disposizioni, come le elabora,
come evita che esse si manifestino in modo distruttivo verso se stessa e
verso gli altri come avviene nell'uomo?"
Da una parte ci sono gli uomini che, o fanno le guerre, o se ne tirano fuori
con proclami, associazioni, manifestazioni ecc., dichiarandosi nonviolenti,
pacifisti eccetera. Dall'altra ci sono, ancora, donne che seguono i
guerrieri come madri solerte o puttane, e nei  tempi moderni, si dichiarono
biologicamente estraneee alla violenza.
Sembra quasi che la tendenza a polarizzare, a creare gli opposti sia ancora
una modalita' del fare politica, o militanza.
C. G. Jung sosteneva che dove c'e' la luce, bisogna cercare l'ombra; e
viceversa.
Creano gli opposti gli uomini quando, in nome della pace o della
nonviolenza, accusano i propri simili guerrafondai.
Lo fanno  soprattutto nella lunga tradizione "di sinistra", che,
pervicacemente, si e' sottratta dal fare, veramente, i conti con quella
corrente culturale e scientifica iniziata alla fine dell'Ottocento e che si
e' chiamata psicoanalisi.
E allora potrei dire che i nonviolenti "si tirano fuori" in quanto
inconsciamente preferiscono evitare di analizzare - da un punto di vista
psicologico - le radici dell'aggressivita' maschile, le cui manifestazioni
storiche la Mitscherlich cita in apertura del suo libro.
Come mai il genere maschile e' cosi' "portato" a forme di aggressivita'
sugli altri? E come mai, storicamente, le donne l'aggressivita' l'hanno
invece rivolta preferibilmente contro se stesse? Diventando, sulla scia di
questa tendenza, complici delle forme maschili di aggressivita'?
Scrive a p. 23 la psicoanalista: "Noi donne siamo tuttora inclini a
trasformare la nostra aggressivita' latente in atteggiamenti di sacrificio o
di recriminazione esercitando cosi' una forma passiva di aggressione poco
soddisfacente per noi e per chi ne e' oggetto".
Alcuni anni fa alcuni giovani, docenti dell'universita' di Palermo,
studiarono il ruolo delle donne nella mafia.
Lo studio rivelo' una situazione assai interessante anche da un punto di
vista piu' generale.
Nell'organizzazione mafiosa c'e' una sorta di centralita' sommersa della
donna che ha acquisito progressivamente una centralita' comunicativa.
La donna-madre e' considerata donna di pace e di guerra, anello di
congiunzione fra famiglie in lotta e merce di scambio. Ha un ruolo di
sottomissione all'uomo, ma in tale ruolo detiene fette di potere e di
controllo, perche' e' compito suo donare i codici di significazione
dell'esistente.
Le donne oscillano tra l'essere estranee e complici silenti. Ma nel
linguaggio gergale di Cosa Nostra il capomafia si chiama Mammasantissima.
Emerge dalla ricerca che le figlie hanno una tendenza replicativa rispetto
al ruolo della madre, a causa della paura, forse, a operare nel senso del
cambiamento?
Sembra che le donne tendano a ritagliarsi, per sopravvivere, una nicchia
d'ombra per alimentare i codici del sentire mafioso e darsi significato.
E' sicuramente un esempio dei comportamenti femminili nell'intreccio,
complementare, con i comportamenti maschili.
Non ci si puo' scrollare dalle spalle questo studio come presentazione di
una situazione unica, originale e regionale: e' invece una realta'
emblematica.
Ci sono mutamenti culturali che meritano un'attenta considerazione, perche'
modificano la percezione collettiva e le identita' individuali e collettive
e ci portano, forse, in nuovi luoghi.
Per esempio, come giudicare il fenomeno delle giovani donne palestinesi  (e
non soltanto loro) che  aderiscono ai programmi per il martirio suicida? Una
prima considerazione: la figura del padre non si pone, come quella della
madre, nella linea evolutiva, tanto e' vero che in occidente conosciamo da
tempo la crisi del ruolo paterno cosi' come si era stabilizzata nei secoli.
La madre e' colei che contiene e da' la vita: che significato ha per le
donne, prima di tutto, un corpo femminile giovane che si uccide uccidendo
altri corpi non precisamente di guerrieri, bensi' di inermi donne, bambini,
vecchi, ecc. sottraendosi cosi' al compito biologico?

4. RIFLESSIONE. DANIELA BINELLO: DIRITTI E INFORMAZIONE NELLA SOCIETA'
MONDIALIZZATA
[Ringraziamo Daniela Binello (per contatti: blusole.db@flashnet.it) per
averci messo a disposizione il testo della sua relazione al convegno su
"Identita' e cittadinanza nella mondializzazione" svoltosi a Palermo il 13
dicembre 2002. Daniela Binello e' giornalista e saggista di forte impegno
morale e civile, impegnata per la pace e i diritti umani]
Tutti abbiamo visto, o almeno crediamo di avere visto, la guerra in diretta.
Mi riferisco a una delle date che rappresenta una pietra miliare nella
storia dell'informazione: la guerra del Golfo quando, nella notte fra il 18
e il 19 gennaio del 1991, la Cnn ci mostro' le immagini di Desert Storm,
l'operazione militare contro l'Iraq iniziata 24 ore prima.
Cosa vedevamo in realta'? Una sequenza di luci verdastre che lasciavano una
scia luminosa nel cielo di Tel Aviv e, successivamente, analoghe immagini
che sfavillavano nel cielo di Baghdad. I commentatori ci spiegarono che, nel
primo caso, si trattava di missili iracheni su Tel Aviv e, nel secondo caso,
di missili angloamericani su Baghdad.
Era la prima volta che i media mainstream facevano vedere in diretta la
guerra al villaggio globale.
Nel frattempo, dai telex arrivavano i take d'agenzia, di Ansa, Reuter, AP o
AFP, le piu' importanti casse di risonanza di notizie del mondo. Ma le
immagini avevano comunque surclassato le notizie scritte. Che fossero otto i
missili Scud iracheni su Israele o che le radio locali stessero avvisando la
popolazione di non uscire di casa o di andarsi a rifugiare nei sotterranei
aveva poca importanza.
La guerra era li', bastava accendere la televisione e stare a guardare le
dirette che gli inviati di guerra facevano trasmettere.
A proposito degli inviati di guerra: dove si trovavano esattamente? Per il
divieto militare assoluto d'entrare in Kuwait gli inviati di guerra avevano
occupato tutte le stanze e le suite dei grandi alberghi di Amman, in realta'
seguivano la guerra quasi come la seguivamo noi da casa.
Quella pietra miliare che era parsa come una grande conquista per la ricerca
della verita', segno' invece uno smacco per l'informazione. Le immagini
dicevano molto poco, nulla sapevamo sulle condizioni della popolazione, sui
civili colpiti, sulle infrastrutture distrutte, a proposito delle perdite di
vite umane anche fra le forze militari, o di come stessero funzionando o no
i servizi sanitari d'emergenza, gli ospedali, le camere operatorie e gli
aiuti alimentari.
Il tempo per queste riflessioni e approfondimenti venne molto dopo. Intanto,
mentre le immagini preponderavano, la figura del mediatore fra l'immagine e
la notizia, cioe' il giornalista, scompariva.
*
Dalla Guerra del Golfo in avanti e' diventato molto difficile realizzare dei
buoni servizi dai teatri della guerra. La stampa non vi e' ammessa,
soprattutto se indipendente; i giornalisti devono rimanere vicino alla
guerra, ma ai margini, non devono interferire, non devono dare fastidio, non
devono soprattutto fare domande. I briefing per la stampa si susseguono piu'
volte al giorno per dare la sensazione di comunicare qualcosa. In realta' i
giornalisti che si limitano a questi riti bevendosi come oro colato le
veline dei generali pubblicheranno o trasmetteranno ben poche e miserevoli
notizie.
Paradossalmente riuscivano a scrivere formidabili diari di viaggio,
reportage da terre lontane e misteriose, sulle loro macchine da scrivere da
vecchia ferraglia, molto piu' di noi, con i nostri Macintosh e
sofisticatissimi palmari, i columnists-nomadi, i viaggiatori alla Bruce
Chatwin o alla Ryszard Kapuscinski.
Di quest'ultimo si veda il libro che s'intitola Il Cinico non e' adatto a
questo mestiere. In un passaggio del libro Kapuscinski scrive: "Il nostro
lavoro e' sul campo, e' un lavoro con la gente. Senza l'aiuto delle persone
non si puo' scrivere un reportage. Se percepiscono che siete arroganti, non
interessati realmente ai loro problemi, se scoprono che siete andati la'
solo per fare qualche fotografia o raccogliere un po' di materiale, le
persone reagiscono in modo negativo. Non vi parleranno, non vi
risponderanno, non vi aiuteranno, non saranno amichevoli. E certamente non
vi forniranno il materiale che cercate".
Chatwin, invece, nel 1975 scrive un telegramma di dimissioni al suo editor
del "Sunday Times":  "Andato in Patagonia per sei mesi. Stop". Lo fa mentre
e' gia' partito. Poi scrivera', forse, uno dei suoi libri piu' affascinanti.
In un suo articolo per "Vogue", pubblicato nel 1970, scrive dal Mali: "Gli
abitanti di Timbuctu' sono arabi, berberi, songhai, mossi, touscouleurs,
bambara, bela, malinke, fula, mauri e tuareg. Piu' tardi vennero gli
inglesi, i francesi, i tedeschi, i russi e poi i cinesi. Molti altri
verranno e se ne andranno e Timbuctu' rimarra' sempre la stessa".
S'impiegherebbero solo cinque secondi a pronunciare una  frase come questa,
che comunica una sintesi ideale della realta' sociale di un luogo. Ricordate
di avere mai sentito in un servizio di un tg una cosa del genere? In genere,
si adduce alla mancanza di tempo l'incapacita' di riferire le notizie,
quelle vere, e spesso si preferisce utilizzare una di quelle veline di cui
abbiamo gia' detto. Che peccato.
*
Nel "caso" che ho citato era stato il generale Schwarzkopf a proibire alla
stampa di seguire sul terreno le azioni militari e in compenso aveva
istituito un efficiente Centro di news management. Non informazioni fornite
col contagocce, ma esattamente l'opposto, un mare di notizie, una quantita'
impressionante di press release preconfezionati. Tutti redatti dalla Public
Information militare che si prodigava per diffonderli a piene mani ai
giornalisti, Erano fornite anche le videocassette con filmati tematici del
formato e della durata in secondi che occorre agli standard televisivi. I
media stazionavano a circa mille chilometri di distanza dai luoghi delle
operazioni di guerra e l'unica cosa che era loro permesso di fare era:
attendere.
Saddam Hussein copio' il metodo e permise alla sola Cnn di avere qualche
immagine della guerra su Baghdad. Come sappiamo la Cnn e' americana, era
quindi la voce del nemico dell'Iraq, la voce della propaganda americana, ad
avere ricevuto, seppure in maniera parziale, l'invito del Rais.
Dieci anni piu' tardi, solo ieri per noi, Osama bin Laden sceglie Al
Jazeera, che trasmette da Doha, nel deserto del Qatar.
L'uso politico della stampa risale alla notte dei tempi. E' una costante del
modo in cui il potere comunica con la societa' civile. Omissioni,
deformazioni, manipolazione dei contenuti, silenzi, overdose di immagini
sempre piu' ripetitive, dichiarazioni cotte e mangiate, poi artatamente
smentite, mistificazioni dell'uso del linguaggio, fanno parte di quello che
potrebbe definirsi il grande Circo Barnum del mondo dell'informazione.
Difficile per un lettore o un radiotelespettatore medio orientarsi,
distinguere, elaborare un suo proprio giudizio critico. E praticamente
impossibile, oggi come oggi, scegliere in piena autonomia e liberta' da
un'offerta ampia e diversificata di programmi di qualita', in orari e tempi
accessibili, che non vengano dilatati a dismisura da televendite e
siparietti per gli acquisti.
Per inciso: non voglio dire che debba essere vietata la pubblicita', ma non
necessariamente un programma deve essere drogato, oltre che da spot entro le
percentuali consentite dalle norme, anche da quelli in surplus, quasi sempre
camuffati "da altro" per non incappare nello sforamento pubblicitario. E non
voglio dire che non esistano programmi di buon giornalismo, ideati e
condotti da bravi giornalisti, ma non necessariamente si deve essere
costretti, per vederli, a fare una corsa a ostacoli per arrivare a casa in
tempo o a puntare la sveglia alle due della mattina per goderseli. O ancora,
come abbiamo dovuto fare con "Articolo 21.Liberi di", organizzare appelli e
petizioni del "popolo dei fax e di Internet" per salvare dall'oscuramento
programmi e redazioni graditi a un pubblico molto grande di telespettatori,
i cui gusti interessano poco o niente agli attuali vertici della Rai. Lotta
che per fortuna e' servita a qualcosa.
*
Tornando alle notizie in tempo di guerra, il potere ha compreso che
l'informazione non e' solo uno strumento di propaganda, ma anche di tattica,
con lo stesso valore, se non l'effetto, di un bombardamento o di un attacco
con i carri armati. Il potere ha compreso anche che se l'informazione e'
lasciata libera di vedere, come lo fu in Vietnam, e di raccontare tutto
(soprattutto in televisione), una guerra si puo' anche perdere con, in piu',
del disonore.
Una notizia falsa trasmessa dai media che non la controllarono - si
trattava, dissero, di uno sbarco di marines nell'isola di Faylakah - indusse
proprio Saddam a indebolire il fronte. Una volta scoperto il tranello, i
media iracheni divulgarono una notizia, altrettanto inventata di sana
pianta, e cioe' che lo sbarco dei marines era stato respinto "con forti
perdite per il nemico".
E allora ripeschiamo dalla nostra memoria quei fotogrammi dei missili
iracheni su Tel Aviv. Possiamo essere assolutamente sicuri che la tv ci
mostro' delle immagini in tempo reale?
Le agenzie scrissero che quegli otto Scud, di cui tre caduti sulla citta',
portavano ciascuno una carica di trecento chili di esplosivo. Il bilancio
delle vittime fu di quattro morti soffocati per non avere indossato in tempo
le maschere antigas, dodici feriti dalle schegge e cinquanta persone
ricoverate per attacchi cardiaci. Tuttavia, noi ricordiamo uno spettacolo
della Cnn con scie luminose che rischiarano a lungo tutto il cielo di Tel
Aviv.
Otto anni piu' tardi (il 13 aprile del 1999) il generale Clark, comandante
supremo per le operazioni in Kosovo, dichiaro' nella quotidiana press
conference al quartier generale della Nato a Bruxelles che due aerei
americani F15 avevano bombardato il treno Salonicco-Belgrado sul ponte
ferroviario di Gredicka, in Serbia. Si era trattato di un disgraziato
"incidente". Doveva essere distrutto solo il ponte e invece era stato
colpito il treno con i suoi passeggeri, il quale sarebbe stato visto sbucare
da una boscaglia "all'ultimo momento e ad altissima velocita'". Era
disponibile perfino l'immancabile videocassetta, dove si vedeva il treno
sfrecciare come una saetta e raggiungere il ponte. Due reporter del
"Frankfurter Rundschau" non erano rimasti convinti e guardando e riguardando
il filmato calcolarono che se quelle immagini fossero state reali voleva
dire che il treno andava a una velocita' di trecento chilometri all'ora. Un
po' troppo per un antiquato treno della linea Salonicco-Belgrado che al
massimo raggiunge ancora oggi gli ottanta chilometri orari.
*
Le tecniche della comunicazione, insieme all'informazione stessa, oggi
rappresentano un pilastro di quel processo di trasformazione della societa'
mondializzata.
Da almeno vent'anni questo processo, tecnologico e di contenuti informativi,
e' insieme la causa e l'effetto di questa grande mutazione.
Il passaggio alla multimedialita', dal computer ai programmi in analogico e
in digitale, sono il motore di questo progresso, riservato ancora a un
numero troppo esiguo d'individui.
Lo aveva intuito Marshall McLuhan e la sua intuizione, nel 1964, aveva
individuato soprattutto nel medium televisivo l'oggetto che si fa messaggio
e il messaggio che si fa medium in se stesso.
Norberto Bobbio, il mio illustre concittadino al quale devo in forma
indiretta parti importanti della mia formazione laica, ha scritto che quanto
piu' oggi si parla e si firmano Carte e Trattati di diritto internazionale,
piu' i diritti delle persone, siano esse cittadini e lavoratori o, nel
nostro caso, fruitori di notizie e informazione, divengono paradossalmente
piu' deboli.
I diritti proclamati sono sostenuti esclusivamente dalla pressione sociale,
ma laddove essa e' in grado di esprimersi, tuttavia sono ripetutamente
violati senza che le violazioni siano perlopiu' punite e abbiano altra
risposta da quella morale, che - come dire - e' sempre meglio di niente.
Nel sistema internazionale mancano attualmente alcune condizioni necessarie
affinche' possa avvenire quella trasformazione dei diritti in senso debole
in diritti in senso forte.
*
L'11 settembre del 2001 abbiamo visto cambiare la nostra storia attraverso
la tv. Abbiamo visto le Twin Towers prima colpite a morte, e poi crollare
sotto i nostri occhi: non ci sono stati commenti significativi fino a molte
ore dopo. Le immagini parlavano da sole, la presenza dei giornalisti negli
studi televisivi era, in quel frangente, una presenza non indispensabile,
con il forte rischio di lasciare in balia della sola spettacolarizzazione
tutto l'elaborato. E' precisamente questo il fenomeno che da vent'anni a
questa parte caratterizza la televisione, un medium che pratica la
commistione di piu' prodotti in uno: informazione, pubblicita', spettacolo,
varieta', comunicazione.
Ha un ruolo il telespettatore in tutto questo? C'e' il forte rischio e il
sospetto che il telespettatore sia considerato solo un consumatore, senza
altro ruolo se non quello di accendere il televisore e acquistare merci, fra
cui l'informazione.
Ma, secondo questa ipotesi, se il telespettatore e' un consumatore, come mai
allora il suo giudizio, le sue scelte, le sue preferenze, non contano nulla
quando si devono decidere i palinsesti e i programmi?
Per fortuna c'e' la carta stampata, ma bisogna avere soldi per acquistare
giornali tutti i giorni, libri ogni tanto, e bisogna avere cultura per
leggere e capire cio' che si legge. E bisogna anche dedicare da 30 minuti a
un'ora e mezza al giorno per leggere non solo i titoli dei quotidiani.
Guardare la televisione, in un  certo senso, faciliterebbe le cose per una
fascia piu' significativa della popolazione mondiale, che pero' abita nelle
savane, nella pampa, nella tundra, nei deserti, nelle montagne, nelle
regioni dei grandi laghi e l'antenna satellitare non ce l'ha.
Umberto Eco ha detto che la ripetizione infinita in tv e sui giornali delle
immagini dell'incendio e del crollo delle Torri Gemelle ha fatto vincere a
bin Laden la prima manche della battaglia, provocando terrore e disperazione
in milioni di persone. I media, spiego' Eco, hanno di fatto regalato a bin
Laden una fama mondiale che in pubblicita' vale migliaia di dollari.
La Cnn ha parlato allora di "America's new war", frase tradotta pero' in
"nuova guerra americana" e non, come sarebbe stato piu' consono, "la guerra
nuova dell'America". Poi e' venuta la "psicosi da antrace" (dapprima
ritenuto "senza dubbio" di fabbricazione islamica e poi, come si sa,
prodotto da efficientissimi laboratori statunitensi), che ha di poco
anticipato l"invio delle lettere all"antrace.
Si sa che la posta, anche negli Stati Uniti, e' un po' piu' lenta delle
parole profuse da televisioni e giornali. O no?
Per settimane siamo rimasti in sospeso in attesa dell'attacco imminente
sull'Afghanistan. Persino Christiane Amanpour, della Cnn, si e' stufata di
aspettare per settimane fra il Pakistan e Kabul questo evento ed e'
ritornata a New York per riposarsi e tornare in Pakistan appena in tempo per
l'attacco. Ellekappa si e' forse ispirata a questo episodio per la sua
famosa vignetta dove dice "Bisognera' che gli americani si decidano ad
attaccare: la pazienza dei media ha un limite".
Nel frattempo, ai giornalisti veniva diramato il decalogo di Condoleeza
Rice. Un'insieme di norme su cosa non si deve mai fare o dire onde evitare
di mettere a repentaglio la sicurezza dell'impero americano. La
locuzione"guerra al terrorismo" ha, dunque, imperversato per ogni genere di
bombardamento a tappeto da circa cinquemila metri d'altezza con i B52, con
gli elicotteri Apache e persino con gli aerei-spia telecomandati da Tampa,
in Florida, dove dirige le operazioni di "Enduring Freedom" da quindicimila
chilometri di distanza il generale Tommy Franks.
Oggi, siamo in attesa della guerra contro l'Iraq e la frase che ci sta
martellando da alcuni giorni e' "Gli Usa non escludono l'uso delle armi
atomiche". Ma il motivo dell'attacco all'Iraq non era proprio per punirlo
per una presunta dotazione di armi di distruzione di massa?
Due pesi e due misure, dunque.
*
Come fare a stabilire una parvenza di verita' fuori dalla propaganda e
scandagliare una mole di notizie e informazioni, meno mainstream e forse, in
alcuni casi, piu' attendibili?
Internet e' l'altra parte della medaglia, non certo senza trabocchetti, ma
che offre un plus di potenzialita' indiscutibile. Su Internet chi produce
informazione si integra anche con chi la diffonde, e il fruitore delle
notizie puo' riceverle in tempo reale senza altri costi che quelli di un
abbonamento, una linea telefonica e un computer. Pero', c'e' un pero':
Internet non e' accessibile a tutti e forse non lo sara' mai.
Oltre a questo enorme problema dell'accesso all'informazione, che e' un
diritto, la conclusione e' paradossale: quanto piu' progrediscono le
tecniche della comunicazione e quanto piu' diventa facile trasmettere
informazioni al "villaggio globale", tanto piu' il potere - potremmo meglio
individuarlo in certi organismi militari a cui la politica s'inchina -
interviene per limitare i contenuti e la diffusione della verita'. "Taci, il
nemico ti ascolta" e... forse anche il premier Berlusconi, e poi non ti fa
piu' lavorare ne' alla Rai ne' altrove.
Per quanto riguarda l'informazione pluralista e il diritto a essere
informati e' quindi il caso di dirlo: siamo in guerra ed e' appena
incominciata.
*
Testi consultati
- Sergio Lepri, L'informazione e la guerra e la guerra dell'informazione,
"Nuova Antologia", n. 2221, gennaio-marzo 2002;
- Norberto Bobbio, L'eta' dei diritti, Einaudi, Trino 1992;
- Bruce Chatwin, Anatomia dell'irrequietezza, Adelphi, Milano 1996;
- Ryszard Kapuscinski, Il cinico non e' adatto a questo mestiere, Edizioni
e/o, Roma 2000.

5. MONDO. LUCIANA CASTELLINA: IL GOLPE NASCOSTO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 dicembre 2002. Luciana Castellina e'
una grande ed autorevolissima figura di militante politica, promotrice
dell'esperienza del "Manifesto", gia' parlamentare italiana ed europea, tra
le figure piu' significative dell'impegno pacifista in Europa. La gran parte
degli scritti di Luciana Castellina, testi di intervento politico e di
giornalismo militante, e' dispersa in giornali e riviste, atti di convegni,
dibattiti parlamentari; in volume segnaliamo Che c'e' in Amerika?, Bertani,
Verona]
Mi sento colpevole, credo che tutti dovremmo sentirci colpevoli. Di
disattenzione grave. Nonostante i reiterati appelli che da mesi ci arrivano
dagli aggrediti. Gli ultimi in ordine di tempo nel continente che non
consente alcuna sospensione dell'attenzione: l'America del sud.
E' vero che siamo tutti impegnati ad impedire l'aggressione all'Iraq (che
peraltro e' gia' in atto, visto che centinaia di aerei americani gia'
bombardano il paese un giorno si' e uno no). Questa non e' tuttavia una
giustificazione al nostro silenzio sulla vicenda che si sta consumando da
mesi in Venezuela e sta purtroppo per giungere a un fatale esito: la
defenestrazione tramite golpe diluito del presidente democraticamente e
regolarmente eletto dal popolo, Hugo Chavez.
Colpi di stato da qualche tempo in America latina non ce ne erano piu'
stati. Il sub continente sembrava vaccinato dopo le tragedie degli anni '60
e '70. E pero' l'astensione era evidentemente dovuta solo al fatto che ne'
Washington ne' i suoi clienti locali sembravano averne piu' bisogno: in
tutte le capitali salvo L'Avana le redini del potere erano state collocate
in mani sicure e le popolazioni tramortite dalla cura del Fmi.
Poi le cose hanno cominciato a cambiare: da un lato la catastrofe argentina
e il fiasco di Cardoso, l'"assennato" presidente brasiliano, assai amato
anche dal miope riformismo europeo; dall'altro, e di conseguenza, la
vittoria di Chavez in Venezuela, un anno dopo di Lula in Brasile, un mese fa
di Lucio Gutierrez in Ecuador.
I protagonisti non sono certo uguali: l'ex metalmeccanico di San Paolo ha
alle spalle decenni di militanza sindacale ed e' sostenuto da un grande
partito popolare di sinistra. Gli altri due sono espressione di movimenti
populisti, ma anche popolari, perche' alla direzione dei rispettivi paesi
sono stati portati dalla rabbia e dalle aspirazioni dei diseredati che per
ora - Chavez e' la' da ormai quasi quattro anni - non sono stati delusi ne'
ingannati. Pur fra mille difficolta' - prima fra tutte quella dovuta
all'assenza a proprio sostegno di una forza politica organizzata e
sperimentata - le prime scelte compiute sono state quelle giuste. E in
particolare in Venezuela hanno provocato subito scintille, perche' hanno
toccato gli interessi di chi ha a che fare con quella cosa per cui si stanno
oggi facendo tutte le guerre: il petrolio.
Certo, bin Laden non si puo' cercarlo, con tutta la buona volonta' e
nonostante la fantasia dell'Istituto che il Pentagono gestisce a Los Angeles
in collaborazione con un pezzo di Hollywood, a Maracaibo. Ma Iraq,
Afghanistan, Cecenia, e Venezuela sono in definitiva legati fra loro da
questo filo di olio nero. Ed e' per questo che Chavez non e' sopportabile.
Soprattutto e' necessario bloccare, ricattandolo e intimidendolo, il
processo iniziato in America Latina subito, prima che diventi contagioso.
Il golpe alla cilena che si sta preparando a Caracas, animato dalla
mobilitazione dei ceti privilegiati e dalle corrotte organizzazioni
sindacali (e, purtroppo, persino da antichi compagni comunisti - quelli del
Mas - a tal punto convertiti da non sapere piu' distinguere fra populismo e
popolare, da non saper piu' vedere la sostanza della posta in gioco in
Venezuela) non e' ancora arrivato all'ultimo atto.
Gli Stati Uniti, immersi fino al collo nel primo tentativo di rovesciare
Chavez, un anno fa (furono i primi a "riconoscere" il nuovo governo
golpista, assieme alla Spagna), questa volta sembrano piu' cauti. Non solo
perche' hanno al momento gatte piu' urgenti da pelare ma perche' sono
finalmente un po' intimiditi da quello che sta accadendo in America Latina,
da Lula innanzitutto. E poi perche' lo sciopero ad oltranza che i golpisti
hanno promosso e' tutt'ora minoritario, il grosso del popolo di Caracas, e
ancor piu' della provincia, non solo non partecipa ma e' sceso e scende in
strada (due milioni di persone l'altro giorno) a sostegno del suo
presidente. Non e' facilissimo gridare "nuove elezioni" quando quelle che
hanno eletto l'attuale parlamento e governo sono state libere e
regolarissime. Ma proprio per questo sarebbe anche piu' grave che
prevalessero: si tratterebbe di un altro e durissimo colpo portato alla
legalita', ottenuto col ricatto del blocco della produzione e del trasporto
petrolifero - base di sopravvivenza per il Venezuela -, un atto analogo a
quello dei camionisti cileni.
Non voglio aggiungere un'altra manifestazione al gia' lungo elenco di quelle
che stiamo facendo in queste settimane. Si tratta solo di ricordarsi della
vicenda venezuelana, delle implicazioni generali che quel che la' sta
accadendo comporta. Non possiamo lasciare che avvenga nel silenzio dei
media, dei partiti, dei parlamenti, della chiesa; e anche dei nostri
movimenti.

6. DIRITTI. LUISA MORGANTINI: FERMARE LA DEMOLIZIONE DI CASE A HEBRON
[Da Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini@europarl.eu.int) riceviamo e
diffondiamo. Luisa Morgantini, parlamentare europea, e' una delle figure
piu' vive dei movimenti pacifisti e di solidarieta']
Carissimi tutte e tutti,
la situazione ad Hebron si fa di giorno in giorno piu' drammatica. Il 29
novembre l`esercito israeliano ha emesso un decreto per spianare una strada
larga da 6 a 12 metri, che connette la colonia di Qiriat Arba con la moschea
di Abramo a Hebron, luogo di culto per musulmani ed ebrei.
Il decreto comporta la demolizione di un gruppo di abitazioni storiche nel
quartiere Jaber, porta meridionale della citta' vecchia di Hebron. Il Comune
di Hebron ha pubblicato una dichiarazione in risposta alla emissione del
decreto militare israeliano, per mettere in guardia sulla gravita' delle
conseguenze di tale atto, evidenziando tre punti in particolare:
1. Il grande valore storico delle case che verrano demolite (mammalucche e
ottomane);
2. Il fatto che molte famiglie perderanno la loro unica sistemazione
abitativa in seguito alla demolizione;
3. Il fatto che il piano per costruire la nuova strada impedira' ai
cittadini che vivono in alcune zone coinvolte e in aree adiacenti di usare
la strada in questione, complicando ulteriormente le loro vite.
Sin dall'inizio degli insediamenti israeliani a Hebron nel 1968, la citta'
non ha mai conosciuto un solo giorno di tranquillita'. Moshe Dayan, 20 anni
fa, dichiaro' che lo scopo degli insediamenti era quello di espellere gli
abitanti dalla citta', come prima tappa di una piu' generale espulsione del
popolo palestinese dal paese. Lewinger, Goldstein e i loro successori non
hanno mai mancato di eseguire una lunga serie di provocazioni per realizzare
quello scopo. Oggi Sharon dichiara finiti gli accordi e si appropria
dell'area limitrofa al luogo di culto.
Il decreto 2/61/T del 29 novembre scorso, arrivato in risposta all'attentato
della Jihad islamica in cui sono state uccise 12 persone - tra soldati e
personale delle sicurezza dei coloni - costituisce la punta dell'iceberg di
questo piano.
Vi invio la lettera (tradotta da Lucia Maddoli) che Uri Avnery, attivista di
Gush Shalom ed ex membro della Knesset, ha indirizzato a Elyakim Rubinstein,
consulente legale del governo israeliano, cosi' che tutti ne possiate
riprendere il testo e spedirla a vostra volta per fare pressione sul governo
israeliano affinche' il decreto venga immediatamente annullato.
Giovedi 19 dicembre, durante la sessione plenaria del parlamento europeo a
Strasburgo, presenteremo una risoluzione di urgenza in cui chiediamo al
governo israeliano l'immediata sospensione del decreto di demolizione;
questo tipo di azione risulterebbe senza dubbio piu' efficace se
parallelamente si riuscisse ad attivare una pressione anche sui parlamenti e
sui governi nazionali, cercando di coinvolgere anche le associazioni che si
occupano di salvaguardia del patrimonio culturale.
Per una documentazione piu precisa e' dipsonibile la lista completa degli
edifici palestinesi che, secondo il decreto, dovrebbero essere demoliti, una
documentazione fotografica degli stessi e un breve rapporto dell' Hebron
Rehiabilitation Committee inviatoci in italiano da morgana@gmx.it
Grazie a tutte/i.
Vi abbraccio,
Luisa  Morgantini

7. DIRITTI. URI AVNERY: UNA LETTERA A ELYAKIM RUBINSTEIN
[Uri Avnery, scrittore, gia' parlamentare, militante per i diritti umani e
la riconciliazione, e' una delle figure piu' prestigiose dei movimenti
pacifisti israeliani]
Al signor Elyakim Rubinstein, consulente legale del governo di Israele.
Siamo a conoscenza del decreto 61/02/T, firmato dal Generale Moshe
Kaplinsky, del comando militare generale della Cisgiordania.
Tale decreto ordina l'esproprio di 61 particelle, con le seguenti parole:
"Dichiaro che queste terre saranno espropriate per necessita' militari. Per
questo ordino la demolizione degli edifici per necessita' militari".
Sulla base delle nostre conoscenze, non ci risulta che ci sia alcuna
necessita' militare che giustifichi questo atto, che comportera' la
distruzione di un intero quartiere.
Lo scopo reale del decreto e' di creare una contiguita' territoriale tra gli
insediamenti di Kiryat-Arba e quelli nel centro di Hebron. In assenza di una
urgente necessita' militare, questo atto puo' essere considerato a tutti gli
effetti un crimine di guerra secondo il diritto internazionale. Non c'e'
bisogno di aggiungere che la reale esistenza di un insediamento israeliano
in Hebron costituisce gia' di fatto una violazione del diritto
internazionale.
Come movimento pacifista israeliano siamo seriamente preoccupati per la
situaizone morale e la reputazione internazionale del nostro Stato. Per
questo vi chiediamo di:
- informare il Primo Ministro e il Ministro della Difesa che la suddetta
azione e' manifestamente illegale e chiedere che venga annullata
immediatamente;
- avvisare il generale Kaplinsky, che ha firmato l'ordine di demolizione,
che un simile atto potra' essere considerato un crimine di guerra, con tutte
le conseguenze che questo potrebbe comportare per lui a livello personale
in qualsiasi momento.
Siamo convinti che, cosi' facendo, agirete per il bene dello Stato e
dell'esercito.
Crediamo che sia  dovere di ogni cittadino, all'interno di uno stato
democratico, vigilare sulle azioni che possono costituire dei crimini di
guerra, e intraprendere tutti i provvedimenti legali necessari per prevenire
simili atti. E' quello che stiamo facendo.
In fede,
Uri Avnery, ex membro della Knesset, rappresentante di Gush Shalom

8. LETTURE. GUENTHER ANDERS: LINGUAGGIO E TEMPO FINALE
Guenther Anders, Linguaggio e tempo finale, in "Micromega" n. 5/2002, pp.
97-124. Alcuni dei materiali che sarebbero dovuti apparire nel terzo volume
de L'uomo e' antiquato, restato incompiuto, pubblicati nel 1989 dalla
rivista viennese "Forum".

9. RILETTURE. GUENTHER ANDERS: L'UOMO E' ANTIQUATO. I
Guenther Anders, L'uomo e' antiquato. I. Considerazioni sull'anima nell'era
della seconda rivoluzione industriale, Il Saggiatore, Milano 1963, pp. 338.
La prima volta che leggi Guenther Anders, ti toglie il fiato. Continuo a
chiedermi perche' questo volume non sia stato piu' ristampato, perche' non
sia libro di testo nelle scuole.

10. RILETTURE. GUENTHER ANDERS: L'UOMO E' ANTIQUATO. II
Guenther Anders, L'uomo e' antiquato. II. Sulla distruzione della vita
nell'epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino
1992, pp. VI + 430. Ogni volta che lo rleggi, Guenther Anders ti toglie il
fiato. E ti convoca alla lotta contro l'inumano.

11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

12. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 445 del 14 dicembre 2002