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La nonviolenza e' in cammino. 427



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 427 del 26 novembre 2002

Sommario di questo numero:
1. Peppe Sini, cos'e' questa cosa che chiamiamo nonviolenza
2. "Non un minuto di piu'"
3. Alberto L'Abate e Francesco Lo Cascio, un laboratorio sul metodo
nonviolento di Danilo Dolci
4. Alessandro Zanotelli, il commercio equo e solidale e' una perla preziosa
5. Giuliana Sgrena: Algeria, la verita' dei generali
6. Augusto Cavadi, il piacere secondo la Bibbia
7. Clotilde Barbarulli recensisce "Un dopoguerra ancora" di Lidia Campagnano
8. Flora Flores recensisce "Alla scuola dei taleban" di Giuliana Sgrena
9. Benito D'Ippolito, lungo il cammino
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. PEPPE SINI. COS'E' QUESTA COSA CHE CHIAMIAMO NONVIOLENZA
I. Una premessa terminologica
Scriviamo la parola "nonviolenza" tutta attaccata, come ci ha insegnato
Capģitini, per distinguerla dalla locuzione "non violenza"; la locuzione
"non violenza" significa semplicemente non fare la violenza; la parola
"nonviolenza" significa combattere contro la violenza, nel modo piu' limpido
e piu' intransigente.
Chiamiamo le persone che si accostano alla nonviolenza "amici della
nonviolenza" e non "nonviolenti", perche' nessuno puo' dire di essere
"nonviolento", siamo tutti impastati di bene e di male, di luci e di ombre,
e' amica della nonviolenza la persona che rigorosamente opponendosi alla
violenza cerca di muovere verso altre piu' alte contraddizioni, verso altri
piu' umani conflitti, con l'intento di umanizzare l'agire, di riconoscere
l'umanita' di tutti.
Con la parola "nonviolenza" traduciamo ed unifichiamo due distinti e
intrecciati concetti gandhiani: "ahimsa" e "satyagraha". Sono due parole
densissime che hanno un campo semantico vastissimo ed implicano una
concettualizzazione ricca e preziosa.
Poiche' qui stiamo cercando di esprimerci sinteticamente diciamo che ahimsa
designa l'opposizione alla violenza, e' il contrario della violenza, ovvero
la lotta contro la violenza; ma e' anche la conquista dell'armonia, il fermo
ristare, consistere nel vero e nel giusto; e' il non nuocere agli altri (ne'
con atti ne' con omissioni), e quindi innocenza, l'in-nocenza nel senso
forte dell'etimo. Ahimsa infatti si compone del prefisso "a" privativo, che
nega quanto segue, e il tema "himsa" che potremmo tradurre con "violenza",
ma anche con "sforzo", "squilibrio", "frattura", "rottura dell'armonia",
"scissura dell'unita'"; in quanto opposizione alla lacerazione di cio' che
deve restare unito, l'ahimsa e' dunque anche ricomposizione della comunita',
riconciliazione.
Satyagraha e' termine ancora piu' denso e complesso: tradotto solitamente
con la locuzione "forza della verita'" puo' esser tradotto altrettanto
correttamente in molti altri modi: accostamento all'essere (o all'Essere, se
si preferisce), fedelta' al vero e quindi al buono e al giusto, contatto con
l'eterno (ovvero con cio' che non muta, che vale sempre), adesione al bene,
amore come forza coesiva, ed in altri modi ancora: e' bella la definizione
della nonviolenza che da' Martin Luther King, che e' anche un'eccellente
traduzione di satyagraha: "la forza dell'amore"; ed e' bella la definizione
di Albert Schweitzer: "rispetto per la vita", che e' anch'essa un'ottima
traduzione di satyagraha. Anche satyagraha e' una parola composta: da un
primo elemento, "satya", che e' a sua volta derivato dalla decisiva
parola-radice "sat", e da "agraha". "Agraha" potremmo tradurla contatto,
adesione, forza che unisce, armonia che da' saldezza, vicinanza; e' la forza
nel senso del detto "l'unione fa la forza", e' la "forza di attrazione"
(cioe' l'amore); e' cio' che unisce in contrapposizione a cio' che disgrega
ed annichilisce. "Satya" viene tradotto per solito con "verita'", ed e'
traduzione corretta, ma con uguale correttezza si potrebbe tradurre in modi
molto diversi, poiche satya e' sostantivazione qualificativa desunta da sat,
che designa l'essere, il sommo bene, che e' quindi anche sommo vero, che e'
anche (per chi aderisce a fedi religiose) l'Essere, Dio. Come si vede siamo
in presenza di un concetto il cui campo di significati e' vastissimo.
Con la sola parola nonviolenza traduciamo insieme, e quindi unifichiamo,
ahimsa e satyagraha. Ognun vede come si tratti di un concetto di una
complessita' straordinaria, tutto l'opposto delle interpretazioni
banalizzanti e caricaturali correnti sulle bocche e nelle menti di chi
presume di tutto sapere solo perche' nulla desidera capire.
*
II. Ma cosa e' questa nonviolenza? lotta come umanizzazione
La nonviolenza e' lotta come amore, ovvero conflitto, suscitamento e
gestione del conflitto, inteso sempre come comunicazione, dialogo, processo
di riconoscimento di umanita'. La nonviolenza e' lotta o non e' nulla; essa
vive solo nel suo incessante contrapporsi alla violenza.
Ed insieme e' quella specifica, peculiare forma di lotta che vuole non solo
vincere, ma con-vincere, vincere insieme (Vinoba conio' il motto, stupendo,
"vittoria al mondo"; un motto dei militanti afroamericani dice all'incirca
lo stesso: "potere al popolo"); la nonviolenza e' quella specifica forma di
lotta il cui fine e' il riconoscimento di umanita' di tutti gli esseri
umani: e' lotta di liberazione che include tra i soggetti da liberare gli
stessi oppressori contro il cui agire si solleva a combattere.
Essa e' dunque eminentemente responsabilita': rispondere all'appello
dell'altro, del volto muto e sofferente dell'altro. E' la responsabilita' di
ognuno per l'umanita' intera e per il mondo.
Ed essendo responsabilita' e' anche sempre nonmenzogna: amore della verita'
come amore per l'altra persona la cui dignita' di essere senziente e
pensante, quindi capace di comprendere, non deve essere violata (e mentire
e' violare la dignita' altrui in cio' che tutti abbiamo di piu' caro: la
nostra capacita' di capire).
Non e' dunque una ideologia ma un appello, non un dogma ma una prassi.
Ed essendo una prassi, ovvero un agire concreto e processuale, si da' sempre
in situazioni e dinamiche dialettiche e contestuali, e giammai in astratto.
Non esiste una nonviolenza meramente teorica, poiche' la teoria nonviolenta
e' sempre e solo la riflessione e l'autocoscienza della nonviolenza come
prassi. La nonviolenza o e' in cammino, vale da dire lotta nel suo farsi, o
semplicemente non e'.
Esistono tante visioni e interpretazioni della nonviolenza quanti sono i
movimenti storici e le singole persone che si accostano ad essa e che ad
essa accostandosi la fanno vivere, poiche' la nonviolenza vive solo nel
conflitto e quindi nelle concrete esperienze e riflessioni delle donne e
degli uomini in lotta per l'umanita'.
*
III. Tante visioni della nonviolenza quente sono le persone che ad essa si
accostano
Ogni persona che alla nonviolenza si accosta da' alla sua tradizione un
apporto originale, un contributo creativo, un inveramento nuovo e ulteriore,
e cosi' ogni amica e ogni amico della nonviolenza ne da' una interpretazione
propria e diversa dalle altre. Lo sapeva bene anche Mohandas Gandhi che
defini' le sue esperienze come semplici "esperimenti con la verita'", non
dogmi, non procedure definite e routinarie, non ricette preconfezionate, ma
esperimenti: ricerca ed apertura.
*
IV. La nonviolenza come insieme di insiemi
Io che scrivo queste righe propendo per proporre questa definizione della
nonviolenza cosi' come a me pare di intenderla e praticarla: la nonviolenza
e' cosa complessa, un insieme di insiemi, aperto e inconcluso.
IV. 1. E' un insieme di concetti e scelte logico-assiologici, ovvero di
criteri per l'azione: da questo punto di vista ad esempio la nonviolenza e'
quell'insieme di scelte morali che potremmo condensare nella formula del
"principio responsabilita'" in cui ha un ruolo cruciale la scelta della
coerenza tra i mezzi e i fini (secondo la celebre metafora gandhiana: tra i
mezzi e i fini vi e' lo stesso rapporto che c'e' tra il seme e la pianta).
IV. 2. E' un insieme di tecniche interpretative (il riconoscimento
dell'altro, ergo il rifiuto del totalitarismo, della cancellazione o della
sopraffazione del diverso da se'), deliberative (per prendere le decisioni
senza escludere alcuno) ed operative (per l'azione di trasformazione delle
relazioni: interpersonali, sociali, politiche); come esempio di tecnica
deliberativa nonviolenta potremmo citare il metodo del consenso; come
esempio di tecniche operative potremmo citare dallo sciopero a centinaia di
altre forme di lotta cui ogni giorno qualcuna se ne aggiunge per la
creativita' di chi contro la violenza ovunque si batte.
IV. 3. E' un insieme di strategie: e ad esempio una di esse risorse
strategiche consiste nell'interpretazione del potere come sempre retto da
due pilastri: la forza e il consenso; dal che deriva che si puo' sempre
negare il consenso e cosi', attraverso la noncollaborazione, contrastare
anche il potere piu' forte.
IV. 4. E' un insieme di progettualita' (di convivenza, sociali, politiche):
significativo ad esempio e' il concetto capitiniano di "omnicrazia", ovvero:
il potere di tutti. La nonviolenza come potere di tutti, concetto di una
ricchezza e complessita' straordinarie, dalle decisive conseguenze sul
nostro agire.
*
V. Un'insistenza
Insistiamo su questo concetto della nonviolenza come insieme di insiemi,
poiche' spesso molti equivoci nascono proprio da una visione riduzionista e
stereotipata; ad esempio, e' certo sempre buona cosa fare uso di tecniche
nonviolente anziche' di tecniche violente, ma il mero uso di tecniche
nonviolente non basta a qualificare come nonviolenta un'azione o una
proposta: anche i nazisti prima della presa del potere fecero uso anche di
tecniche nonviolente.
Un insieme di insiemi, complesso ed aperto.
Un agire concreto e sperimentale e non un'ideologia sistematica e astratta.
Un portare ed agire il conflitto come prassi di umanizzazione, di
riconoscimento e liberazione dell'umanita' di tutti gli esseri umani; come
responsabilita' verso tutte le creature.
La nonviolenza e' in cammino. La nonviolenza e' questo cammino. Il cammino
vieppiu' autocosciente dell'umanita' sofferente in lotta per il
riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani.
*
VI. Una grande esperienza e speranza storica
Non patrimonio di pochi, la nonviolenza si e' incarnata in grandi esperienze
e speranze storiche, due sopra tutte: la Resistenza, e il movimento delle
donne; ed e' il movimento delle donne, la prassi nonviolenta del movimento
delle donne, la decisiva soggettivita'  autocosciente portatrice di speranza
e futuro qui e adesso, in un mondo sempre piu' minacciato dalla catastrofe e
dall'annichilimento della civilta' umana.

2. INIZIATIVE. "NON UN MINUTO DI PIU'"
[Dall'utilissimo sito di "Femmis" (www.femmis.org) riprendiamo questo
appello]
Dal 25 novembre al 10 dicembre: campagna per l'abolizione della violenza
contro le donne.
Donne e violenza:"Non un minuto di piu'"
Da questa settimana fino al 10 dicembre proponiamo un approfondimento sul
tema "donne e violenza" aderendo cosi' alle campagne in corso contro questa
realta'.
Cominciamo con uno sguardo generale alla situazione e alle iniziative in
programma.
* Donne e conflitti armati: quale sicurezza?
Negli ultimi anni le vittime dei conflitti sono state almeno per il 70%
civili. La violenza, in particolare nelle guerre etniche, ha colpito
soprattutto le donne e le ragazze. L'Unifem denuncia che "i corpi delle
donne sono diventati campi di battaglia sui quali le forze opposte
combattono".
Lo stupro e' utilizzato per umiliare anche i parenti che spesso sono
costretti ad assistere. Un esempio: durante i quattro anni del conflitto
congolese decine di migliaia di donne congolesi sono state soggette a stupro
e a tortura e fonti vicine a "Femmis" confermano affermando che la richiesta
dei combattenti, all'arrivo nei villaggi e': cibo, donne e denaro.
"Prima di tutto bisogna ridefinire la questione della sicurezza globale
concentrandola sulla dimensione umana - ha affermato Noeleen Heyzer,
direttore esecutivo di Unifem -. Nei rapporti degli esperti la sicurezza e'
vista soprattutto come una questione militare. Le donne insistono su una
visione piu' ampia, nella quale i diritti umani e il rispetto della vita
siano messi al primo posto".
* Violenza domestica
Spesso il rischio piu' grande, secondo un recente rapporto
dell'Organizzazione Mondiale della Sanita' (Oms), e' all'interno delle
famiglie. Circa la meta' delle donne assassinate risultano uccise da mariti,
o fidanzati, e in alcuni paesi la percentuale sale al 70%. In Giordania i
"delitti d'onore" colpiscono le donne il cui comportamento e' giudicato dai
familiari immorale o indecoroso. In Pakistan la giustizia non persegue la
violenza domestica. Tra l'altro, non e' facile raccogliere dati esatti in
particolare sulla questione della violenza sessuale domestica di cui si
stima siano vittime una donna su quattro. In alcuni paesi, per piu' di un
terzo delle adolescenti la prima esperienza sessuale e' stata frutto di una
violenza.
* Le iniziative "Non un minuto di piu'"
"Not a minute more", ovvero "Non un minuto di piu'" e' l'appello ai governi
e alle comunita' internazionali rivolto da Unifem, il Fondo delle Nazioni
Unite per la promozione della donna, in occasione del 25 novembre, Giornata
per l'eliminazione delle violenze contro la donna. Istituzioni e comunita'
saranno invitati a dare il via ad azioni concrete per eliminare la violenza
basata sul genere. A New York il 25 novembre in una conferenza e' stato
lanciato l'appello e si sono messe a confronto le strategie gia' adottate.
Dal 25 novembre al 10 dicembre,16 giorni di attivismo per l'eliminazione
delle violenze contro la donna. La proposta parte dal Center for Women's
Global Leadership (http://www.cwgl.rutgers.edu/16days02/index.htm) e mira a
coinvolgere gruppi e individui provenienti da qualsiasi parte del mondo.
* Fonti dei dati citati: Oms (Organizzazione mondiale della sanita'), Unifem
(Fondo delle Nazioni Unite per la promozione della donna), Hrw (Human Right
Watch).

3. ESPERIENZE. ALBERTO L'ABATE E FRANCESCO LO CASCIO: UN LABORATORIO SUL
METODO NONVIOLENTO IN DANILO DOLCI
[Questo testo abbiamo estratto da "Appunti per gli amici" n. 3 del
gennaio-giugno 2002, periodico del  Centro per lo Sviluppo Creativo "Danilo
Dolci". Il laboratorio sul metodo nonviolento in Danilo Dolci si e' svolto
nell'ambito della "Giornata maieutica: il metodo nonviolento nell'esperienza
di Danilo Dolci", tenutasi a Palermo il 19-20 aprile 2002. Ringraziamo Vito
La Fata (per contatti: vitofata@inwind.it) per averci inviato questo ed
altro utilissimo materiale anche in formato elettronico. Alberto L'Abate e
Francesco Lo Cascio sono due tra i piu' infaticabili e prestigiosi amici
della nonviolenza operanti in Italia. L'indimenticabile Danilo Dolci e' una
delle figure piu' grandi della nonviolenza]
Il metodo di attuazione di questo laboratorio e' stato un misto tra quello
maieutico di Danilo e il metodo training, che prevede una maggiore
direttivita' da parte dei conduttori, con alcuni momenti di chiarimento di
concetti. La partecipazione degli iscritti e' stata molto attiva e animata,
ed ha apportato contributi molto ricchi e originali.
*
Il laboratorio e' iniziato con una breve relazione di Alberto L'Abate sul
metodo nonviolento in Dolci, nella quale si sottolinea come il lavoro di
Danilo corrisponda perfettamente a quelli che da Pontara vengono indicati
come i principi della nonviolenza.
Da una parte si sottolinea l'importanza della nonviolenza nella sua azione
diretta, cioe' nella lotta verso le ingiustizie della societa' attuale;
dall'altra il progetto costruttivo, cioe' la ricerca di soluzioni a queste
ingiustizie con progetti fatti con la gente che subisce le ingiustizie
stesse. Progetti che pero' trascendano dai particolari interessi di questi
gruppi emarginati e che possano servire all'intera collettivita' (un esempio
tipico in questo senso: la diga sul fiume Jato).
Dall'altra parte ritroviamo in Danilo la corrispondenza dei cinque principi
della nonviolenza:
1) Scelta cosciente dei metodi nonviolenti;
2) Accettazione del sacrificio di se' (digiuno, sciopero allo rovescia);
3) Diritto alla ricerca (che questa sia obiettiva, per andare al fondo dei
problemi);
4) Allargamento della partecipazione ai progetti costruttivi;
5) Passaggio verso strumenti di lotta che servano non tanto per chiedere
interventi ma per promuovere i progetti produttivi fatti con la gente.
Francesco Lo Cascio ha poi chiarito alcuni concetti di base del metodo
nonviolento e sulle tecniche di lotta nonviolenta, esponendo una definizione
di nonviolenza e cinque atteggiamenti di fronte alla violenza: accettarla;
contrastarla con la forza; scendere a patti; fuggire; fermezza, nonviolenza
(atteggiamento nonviolento e' quello di chi mira ai cambiamenti sociali e
personali profondi).
A livello di metodo le esperienze e le iniziative nonviolente di Danilo sono
tutte ammirabili; si puo' partire dal primo livello con diverse forme di
passione, informazione e coinvolgimento della collettivita', fino ad
arrivare a varie forme di obiezione di coscienza, al rifiuto di collaborare
con quanto  pensiamo sia ingiusto, alla disobbedienza civile.
La contrapposizione al male deve avere un momento costruttivo in senso
positivo. Spesso chi insegna la tolleranza usa atteggiamenti dogmatici,
bisogna invece considerare lo scambio reciproco; non ha senso l'azione di
chi si sacrifica se non c'e' una vera riflessione sulle potenzialita' che
ogni essere umano possiede.
*
Il laboratorio vero e proprio e' iniziato con la presentazione di ciascuno
dei partecipanti che erano stati sollecitati a rispondere a queste domande:
hai mai sofferto di situazioni che consideri violente? hai mai pensato alla
nonviolenza come strumento per superare queste situazioni?
I partecipanti, nel rispondere a queste domande, hanno sottolineato (durante
un momento di pausa) in un cartellone le frasi che li avevano piu' colpiti
durante la discussione: Reagire... non rassegnarsi; Incidere nel cambiamento
in sinergia con gli altri; Consapevolezza del potere di ognuno; Si rischia
davvero di diventare conduttori di violenza?; Come si puo' invertire la
tendenza?; Rapporto tra etica ed arte; Violenza quotidiana; Io-Altro;
Affermazione-Negazione; Imposizione-Violenza; Come non diventare un soggetto
schizoide tra il pensare e l'agire/non agire con metodo nonviolento?;
Praticare il silenzi; Ascoltare e ascoltarsi prima di parlare; Propaggine di
pensieri; Pensiero-sentimento ed espressione-parola.
Alberto L'Abate e Francesco Lo Cascio hanno poi cercato di riassumere ed
individuare quei sottotemi considerati importanti dai partecipanti, facendo
poi assegnare dai partecipanti stessi un punteggio a seconda dell'interesse
dei temi; ne e' cosi' venuta fuori questa tabella in 18 punti:
Sottotema e punteggio: Indifferenza (9); Rabbia (4); Isolamento (3);
Imposizione (1); Degrado (1); Cestino della violenza (6); Formazione (4);
Violenza sull'ambiente (2); Ascolto / non ascolto (6); Assuefazione alla
violenza (2); Violenza a scuola (3); L'uso della conoscenza e'
un'imposizione? (3); Servizio civile (2); Violenza in tv (0); Consapevolezza
del potere di ognuno (4); Non rassegnarsi (2); Distacco tra pensiero e
azione (9); Silenzio, meditazione (1).
*
La successiva discussione si e' poi incentrata sulle cause della continua e
sempre piu' grande assuefazione alla violenza e all'atteggiamento della
maggioranza della popolazione a non considerarla come un problema
(indifferenza), e ai metodi per non rassegnarsi a cio' e come suscitare la
consapevolezza del potere personale di ognuno.
Un quesito al centro della discussione e' stato: e' il potere che genera la
passivita' della maggioranza della popolazione? o e' la passivita' della
gente che genere il potere dei pochi? (Un potere autoritario e non
autorevole). La risposta e' stata che questi due processi sono collegati tra
loro dall'alto verso il basso e viceversa, in un processo dinamico se
riusciamo a dinamizzarlo, cioe' se non accettiamo l'imposizione.
*
Alla fine del laboratorio si e' cercato di elaborare tutti insieme la
scaletta della relazione finale:
- non considerare il conflitto come qualcosa di negativo: il conflitto in
se' puo' contenere aspetti positivi se riusciamo ad utilizzarli,
trasformandolo in un confronto e in una crescita personale;
- uno dei punti fondamentali per questo e' l'ascolto empatico: il
condividere la vita della gente, mettersi nei panni degli altri, soprattutto
degli ultimi (come faceva Danilo);
- questo comporta un mettersi in gioco, cioe' non considerare le proprie
idee come qualcosa di assolutamente vero;
- altro punto fondamentale e' uscire dagli schemi binari bianco/nero,
cattivo/buono, etc.;
- la coscientizzazione e' il primo elemento per fare uscire le persone che
subiscono la violenza dall'assuefazione, dall'accettazione passiva di questo
tipo di cultura;
- l'informazione e la comunicazione fanno parte della formazione maieutica
reciproca;
- l'importanza di due punti, cioe' la teoria di una strategia
defeudalizzante (proposta da Galtung, che ha anche lavorato con Danilo) e il
lavoro di rete.
La teoria proposta da Johan Galtung dice che il modello feudale e' quello
(in cui purtroppo siamo ancora) il cui centro trasmette, non comunica; manda
la sua trasmissione verso le periferie che subiscono questa imposizione
senza reagire.
Mentre invece nel modello defeudalizzato le periferie cominciano a
collegarsi tra loro, si attivano delle frecce bidirezionali, cominciano a
crearsi dei punti, sempre di periferia ma che riportano gli elementi della
periferia verso il centro e che trasformano percio' il rapporto da
unidirezionale in bidirezionale.
Questo e' il primo punto di una strategia generale che ci deve portare a
reagire a questo stato di cose; l'altro che e' stato sottolineato, e'
l'importanza del lavoro di rete: tutte le organizzazioni lavorano, ma spesso
lo fanno isolatamente e il lavoro isolato spesso porta a pochi risultati,
mentre l'importanza di un lavoro di rete dal basso crea quella che Danilo
chiamava la "struttura di strutture", per dare a questo peso dal basso una
strutturazione tale da permettere di trattare con il potere con un rapporto
di equilibrio, e quindi di confronto, necessario per crescere.
*
Inoltre, sono emersi alcuni "pensieri sparsi":
Nella societa' in cui viviamo ognuno di noi e' sollecitato alla violenza (a
partire dai mass media e passando dalle istituzioni), alla competitivita',
l'incentivazione a fare sempre meglio e piu' degli altri. Viviamo in un
mondo sempre piu' controllato. La crescita personale puo' contribuire a
cambiare direzione, a bloccare certi atteggiamenti e ad andare
controtendenza. Per trovare una soluzione alla violenza dobbiamo forse
cercare altri mezzi, avvicinandoci di piu' agli altri piuttosto che
sfidandoli.
Psicologi e sociologi sono arrivati alla conclusione che nell'uomo non
esiste solo l'aggressivita', ma anche il senso di collaborazione e di
comprensione.
Dobbiamo cercare di educare i giovani ad andare controcorrente. In loro si
stabilisce un senso di alienazione, l'incapacita' di modificare l'ambiente
in cui viviamo. I giovani impegnati che fanno parte di associazioni o che
collaborano con esse sono circa il 23-24%. Se ognuno di questi convincesse
un altro giovane ad impegnarsi in qualche attivita', potremmo avere una
forza maggiore ed arrivare a risultati migliori.
La nonviolenza senza la lotta non puo' essere costruttiva.
Manca l'educazione alla collaborazione.
Se non riusciamo ad essere uniti saremo sempre sconfitti, anche se dentro di
se' ognuno scoprira' il proprio valore.
Il dolore e l'assuefazione puo' essere cosi' grande che si arriva ad essere
passivi.
Il potere autoritario si basa proprio sulla passivita' degli altri.
Il consenso e la passivita' sono due elementi fondamentali utilizzati da chi
detiene il potere.
Non serve creare il cambiamento solo in campo sociale. Ci deve essere un
cambiamento a livello educativo, di  formazione e anche autoformazione.
I giovani non sono abituati a fare sentire la propria voce, ma soprattutto
non hanno occasioni in cui potere essere ascoltati. L'importanza
dell'ascolto, il  mettersi nei panni degli altri, immedesimarsi con gli
ultimi, cercando di capirsi, e' fondamentale.

4. DIBATTITO. ALESSANDRO ZANOTELLI: IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE E' UNA
PERLA PREZIOSA
[Riprendiamo questa lettera di padre Alex Zanotelli dell'11 novembre 2002
agli amici impegnati nel commercio equo e solidale dal sito di Peacelink
(www.peacelink.it) che a sua volta la riprende dal sito di Unimondo
(www.unimondo.org). Alessandro Zanotelli e' una delle figure piu' vive della
nonviolenza. Tra le sue opere: La morte promessa. Armi, droga e fame nel
terzo mondo, Publiprint, Trento 1987; Il coraggio dell'utopia, Publiprint,
Trento 1988; I poveri non ci lasceranno dormire, Monti, Saronno 1996;
Leggere l'impero. Il potere tra l'Apocalisse e l'Esodo, La meridiana,
Molfetta 1996; Sulle strade di Pasqua, Emi, Bologna 1998; Inno alla vita,
Emi, Bologna 1998; Ti no ses mia nat par noi, Cum, Verona 1998; La
solidarieta' di Dio, Emi, Bologna 2000; R...esistenza e dialogo, Emi,
Bologna 2001]
Carissimi, jambo!
E' da tempo che volevo condividere con voi la mia riflessione sul commercio
equo e solidale, che nasce da lontano, da quando, agli inizi degli anni '90,
avevo inviato una lettera aperta a tutti voi a questo riguardo.
Nasce anche dal confronto serrato e prolungato negli anni con Transfair, che
ha portato alla richiesta di togliere il mio nome da quella organizzazione;
una decisione, questa, che ha molto offeso Transfair, i cui dirigenti
sostengono che alcune centrali di importazione non si comportano in maniera
molto differente da loro.
Nasce infine da lunghe ed appassionate conversazioni con tanti responsabili
del commercio equo, nonche' dalla mia esperienza diretta con lo stesso a
Korogocho.
Tutto questo mi ha portato a maturare una serie di riflessioni.
Noi parliamo di commercio equo, ma siamo proprio sicuri che i nostri prezzi
siano equi? I produttori di Korogocho, per esempio, guadagnano il minimo per
poter sopravvivere. Eppure so che e' stato chiesto alla cooperativa Bega Kwa
Bega di Korogocho di abbassare i prezzi. Vogliamo ridurli a prezzi da fame?
Lo stesso presidente di Ctm, al suo passaggio a Korogocho, si e' sentito
rivolgere queste medesime domande, che ha inserito nella sua lettera "Dov'e'
il commercio equo e solidale". Sono domande che rivolgo a tutti voi.
Per questo mi preoccupa che il commercio equo stia lentamente entrando nei
parametri del mercato (scelta di edifici costosi e/o di grande visibilita',
consulenze di marketing etc.). Non si rischia cosi' di entrare nel giro del
business a spese dei piu' poveri del pianeta? Non si rischia anche di
marginalizzare il grande perno del volontariato?
Dopo dodici anni vissuti a Korogocho, emblema di un continente "sbolognato"
e violentato, mi domando se anche il commercio equo stia mettendo l'Africa
in disparte a favore degli altri continenti. Forse perche' e' piu' difficile
lavorare con l'Africa? O e' solo un'impressione mia?
Questo mi porta ad una altra domanda: il commercio equo e' veramente in
appoggio alle strutture piu' povere? State almeno sostenendo seriamente quei
progetti in ambienti molto difficili, ma che proprio per questo ne avrebbero
ancor piu' bisogno?
La mia impressione e' che questo non avvenga.
E siamo sicuri che il sostegno finanziario dato ai progetti vada veramente a
loro favore?
E la scelta fatta da alcune botteghe e centrali di entrare nella grande
distribuzione e' la via migliore per aiutare i poveri? E se fosse invece
un'altra maniera con cui il mercato cerca di cooptare questa perla che e' il
commercio equo e solidale?
Ho paura che il commercio equo abbia finito di sognare e di pensare alla
grande.
Ogni bottega, oltre che vendere, dovrebbe essere un luogo di ritrovo, di
riflessione, di analisi, di cambiamento di stili di vita. Dovrebbe
recuperare il senso della comunita', del far festa, dell'interculturalita',
del danzare la vita.
Dovrebbe essere un luogo di resistenza al sistema.
Per questo ritengo fondamentale la riflessione di Serge Latouche quando
afferma che "il pericolo della maggior parte delle iniziative alternative
volontarie infatti e' quello di rinchiudersi nella fortezza che ha permesso
loro di nascere e di svilupparsi".
La conseguenza di questo e' che "riuscire ad imporre i prodotti del
commercio equo negli scaffali dei supermercati a fianco dei prodotti non
equi non e' un obiettivo in se' e va iscritto piu' in una strategia di
fortezza. E' piu' importante assicurarsi del carattere equo della totalita'
del processo dal trasporto alla commercializzazione, cosa che esclude in
prima battuta il supermercato ed allarga il tessuto organizzativo".
Sono parole dure di Latouche, ma non meno duro e' il nostro Tonino Perna:
"La sfida del commercio equo consiste non nel far entrare nel circuito della
moda i prodotti del Sud del mondo ma far diventare un bisogno la scelta
etica del consumatore. Cio' significa che e' necessario pensare piu' in
termini di innovazione sociale che di innovazione di prodotto".
Per questo ritengo fondamentale che il commercio equo trovi la capacita' di
uscire dai propri circuiti e fare rete con quelle realta' locali che tentano
la creazione di spazi economici locali con mercati locali, orientati al
bisogno, sostenibili dal versante ecologico e che promuovono il lavoro. Per
questo l'eccessivo strutturarsi del commercio equo potrebbe ucciderlo come
movimento.
Ritengo infatti importante sottolineare che il commercio equo non e' una
catena commerciale, ne' una associazione (men che meno una mega
associazione) ma un movimento popolare. Guai a noi se tradiamo questa
intuizione originale.
"Si tratta dunque - afferma di nuovo Serge Latouche - di coordinare la
protesta sociale con la protesta ecologica, con la solidarieta' verso gli
esclusi del nord e del sud con tutte le iniziative associative per
articolare resistenza e dissidenza. E per sboccare alla fine in una societa'
autonoma. E' cosi' che all'inverso di Penelope si ritesse di notte il
tessuto sociale che la mondializzazione disfa durante il giorno".
Dopo quelle splendide giornate di Firenze, queste parole diventano ancora
piu' pregnanti. Il commercio equo e solidale e' una perla preziosa. Non
buttiamola via.
Buon lavoro! Sijambo.
Alex

5. MONDO. GIULIANA SGRENA: ALGERIA, LA VERITA' DEI GENERALI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 21 novembre 2001]
L'Algeria ha pagato il prezzo piu' alto al terrorismo islamista: 100.000
vittime secondo i dati ufficiali, avallati dal presidente Abdelaziz
Bouteflika nel 1999 quando fu eletto, 200.000 secondo gli islamisti, 37.000
civili uccisi negli attentati, ai quali vanno aggiunti 15.200 terroristi
abbattuti, ovvero 55.200 algerini morti "durante il decennio rosso", secondo
il bilancio fornito dall'esercito che, per la prima volta, ha preso la
parola in un convegno internazionale  - su "il precedente algerino" -
organizzato dal capo del governo Ali' Benflis sotto gli auspici dell'Onu,
alla fine di ottobre ad Algeri.
A oltre dieci anni dall'inizio della tragedia algerina, consumata
nell'indifferenza della comunita' internazionale, a piu' di un anno dall'11
settembre che con l'attentato alle torri gemelle ha fatto scoprire
all'occidente la ferocia del terrorismo islamico, perpetrato in nome del
jihad (guerra santa) che Ali Benhadj, numero due del Fronte islamico di
salvezza (Fis), aveva lanciato gia' prima di essere arrestato (il 30 giugno
del 1991, sei mesi prima delle famose elezioni annullate), come ha rivelato
un documentario trasmesso il 18 novembre da Canal+ in Francia, oggi
l'Algeria si interroga sulle radici di questo fenomeno, mentre e' passata in
secondo piano la domanda "chi uccide chi".
Con l'avvio della campagna antiterrorismo lanciata dopo l'11 settembre,
infatti, anche l'occidente non va piu' tanto per il sottile sulla questione
dei diritti umani - basti guardare le condizioni dei detenuti di Guantanamo
o le fosse comuni di Mazar-i Sharif - e ora l'Algeria puo' risultare persino
utile alla coalizione per fornire informazioni sui terroristi, molti dei
quali addestrati in Afghanistan. E l'Algeria puo' esercitare un ruolo
persino in vista della guerra all'Iraq.
Comunque, ora i militari algerini hanno deciso di prendere la parola per
rispondere alle accuse, soprattutto dell'occidente, per l'intervento nel
gennaio del 1992 che, per ammissione del generale Touati, considerato il
"cervello" dell'esercito oltre ad essere il consigliere per la sicurezza del
presidente Bouteflika, "ancora oggi e' motivo di valutazioni opposte, per
alcuni: l'interruzione del processo elettorale = colpo di stato =
interruzione del processo democratico, al contrario, per altri: interruzione
del processo elettorale = salvaguardia del pluralismo democratico". E hanno
deciso di parlare di fronte a una platea internazionale. Certo, con un
pubblico selezionato di esperti: storici (anche se alcuni come Mohammed
Harbi e Addi Lahouari, che avrebbero potuto fornire una diversa
interpretazione dei fatti, avevano declinato l'invito, cosi' come la
Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell'uomo), sociologi,
giornalisti, giuristi, religiosi, filosofi, deputati (anche islamisti, ma in
netta minoranza), ma soprattutto ufficiali dell'esercito, in carica o in
pensione.
E non c'e' dubbio, sono stati loro - i militari - ad occupare la scena:
hanno voluto dare la loro versione dei fatti degli ultimi dieci anni che
hanno sconvolto il paese (anche se la relazione del generale Mohamed Touati
aveva un tono molto difensivo), hanno fornito dati, analisi del terrorismo,
delle sue radici compresi i legami con l'islam.
Negati da molti, incluso il presidente Bouteflika: "Il primo obiettivo di
tutte le religioni e' l'umanizzazione degli uomini. Dunque non possiamo che
deplorare gli amalgami a cui si fa ricorso per stabilire un legame
qualsiasi, diretto o indiretto, tra islam e terrorismo, tra islam e
violenza, tra islam e intolleranza". Tuttavia, sono proprio i gruppi armati
a cercare una legittimazione nei precetti dell'islam. "I crimini dell'ultimo
decennio in Algeria sono stati commessi in nome dell'islam facendo ricorso a
versetti coranici malinterpretati", sostiene il gran mufti di Marsiglia,
l'algerino Soheib Bencheikh. E d'altro canto gli ulema algerini non hanno
certo condannato il terrorismo. Perche'? "Finche' l'islam dipende da una
decisione amministrativa, avremo solo dei funzionari di culto, non dei veri
imam... Il silenzio di coloro che pretendono di avere la missione di
chiarire il messaggio religioso rappresenta un vero tradimento", accusa il
mufti.
Ma dopo dieci anni di massacri il terrorismo e' stato sconfitto? "Oggi si
puo' sostenere che il pericolo di talebanizzazione dell'Algeria e'
seriamente allontanato anche se permangono serie minacce", sostiene il
generale Touati. Mentre il generale Maiza, capo della prima regione
militare, che nei giorni scorsi ha lanciato "una guerra totale contro questi
criminali" che continuano a compiere stragi nelle campagne, sostiene che
alla macchia sarebbero rimasti solo 650 islamisti armati contro i 27.000 -
terroristi e loro sostenitori - dell'inizio degli anni Novanta, ma "se il
terrorismo e' vinto, l'integralismo rappresenta ancora una minaccia". La
questione del terrorismo e dell'integralismo restano al centro del dibattito
politico algerino in vista delle elezioni presidenziali del 2004, una
scadenza che puo' apparire lontana ma che e' gia' all'ordine del giorno, per
le candidature e soprattutto per il ruolo che intendono giocare i militari.
Alla vigilia dell'incontro di Algeri, il generale Touati in un'intervista
alla tv francese Lci aveva dichiarato che "nel 2004 l'esercito non avra' il
proprio candidato, ma se lo stato nazionale sara' minacciato come e'
successo nel 1991, non posso garantire le reazioni".
I generali e gli ufficiali non sono piu' quelli dell'Esercito di liberazione
nazionale (Aln) che aveva guidato la guerra per l'indipendenza. Si tratta di
una nuova leva di ufficiali, convinti nazionalisti, alcuni musulmani
praticanti e altri laici, un'elite che si confronta con i politici e che si
vuole riscattare dopo i fatti del 1992, non senza aver assunto la
responsabilita' dell'interruzione del processo elettorale che lo stesso
presidente Bouteflika ha definito "una violenza". Con quale obiettivo? E
qual e' il loro modello? Non e', come si tenderebbe a pensare, l'esercito di
Ataturk (modernizzazione autoritaria), questi ufficiali si ispirano
piuttosto alla rivoluzione dei garofani portoghese, secondo uno degli
intellettuali algerini che seguono da vicino questa evoluzione
dell'esercito.
E per rifarsi un'immagine occorre rispondere a tutte le domande, anche alle
piu' insidiose. Come quella sugli abusi commessi dall'esercito. Che il
generale Touati ammette, ma ne circoscrive l'ampiezza e le responsabilita':
chi ha commesso questi abusi e' stato perseguito in base alla legge.
Tuttavia, il nodo centrale su cui anche il generale Touati e' piuttosto
reticente e' la "concordia civile". Che su questo tra il presidente - eletto
nel 1999 con l'appoggio dei militari - e l'esercito vi siano contrasti non
e' certo un mistero. I dissidi sono emersi da tempo e li ha ammessi lo
stesso Bouteflika: "Alcuni di voi non sono d'accordo sulla concordia
civile". Ma non per questo rinuncia a perseguire quel "processo globale" che
va oltre la concordia civile per sfociare nella concordia nazionale dai
contorni ancora vaghi ma che, secondo molti, lascia presagire una
rilegalizzazione del disciolto Fis, magari con un'altra sigla e questo
proprio alla vigilia della liberazione di quelli che erano stati i capi e
gli ispiratori, Abassi Madani e Ali Benhadj.
Lo scontro non e' sulla concordia civile ma sulla sua applicazione. E' lo
stesso generale Touati, che rivendica la paternita' dell'accordo raggiunto
dall'esercito con l'Ais (il braccio armato del Fis) e ne apprezza il
risultato. 6.386 sono i militanti dei gruppi armati che si sono arresi, di
cui 6.000 con Zeroual e 386 con Bouteflika. Evidentemente in vista del 2004
Bouteflika, che non rinuncera' facilmente a una sua candidatura anche se
l'esercito dovesse abbandonarlo, punta sulla conquista del voto islamista.
Continuano invece ad essere ignorate le ragioni della rivolta che in Kabylia
dura da oltre un anno. E Touati, che in Kabylia e' nato, non ha risparmiato
critiche: "Le rivolte sono state duramente represse".
Le divergenze tra presidente ed esercito non sono un segreto, ma perche'
questa mediatizzazione e con la benedizione di Bouteflika? Una glasnost
all'algerina? Comunque Bouteflika, per ora, mantiene anche l'incarico di
ministro della difesa, non l'ha ceduto, come si diceva, al capo di stato
maggiore, generale Lamari. Bouteflika preferisce tenere sotto controllo la
situazione.

6. RIFLESSIONE. AUGUSTO CAVADI: IL PIACERE SECONDO LA BIBBIA
[Ringraziamo Augusto Cavadi (per contatti: acavadi@lycos.com) per averci
messo a disposizione questo intervento gia' apparso giorni fa nell'edizione
palermitana del quotidiano "La repubblica". Augusto Cavadi, docente di
filosofia, storia ed educazione civica, impegnato nel movimento antimafia e
nelle esperienze di risanamento a Palermo, collabora a varie qualificate
riviste che si occupano di problematiche educative e che partecipano
dell'impegno contro la mafia; e' autore di molti utili libri]
La chiesa di S. Giovanni dei Napoletani, all'angolo fra Corso Vittorio
Emanuele e piazza Marina, e' piu' gradevole dall'esterno che all'interno.
Ma se una sera vi capita di vederla aperta, e gremita di gente, vi consiglio
di entrare: da alcuni anni, infatti, un lunedi' al mese, ospita degli
incontri davvero insoliti.
Sono incontri di teologia: organizzati da preti, ma non per preti. Anzi,
neppure solo per credenti. Sono incontri di studio, di riflessione, di
dialogo in cui alcuni dei migliori specialisti italiani di scienze religiose
mettono a fuoco, a partire dalla Bibbia (considerata come codice culturale,
non necessariamente Libro divino), alcuni temi di rilevanza esistenziale e
sociale.
All'interno della problematica scelta per quest'anno - "Il corpo e la
bellezza" - lunedi' scorso, ad esempio, una pastora protestante ha avviato
un dibattito sul "piacere".
Che si tratti di un argomento non particolarmente prediletto dalla
riflessione cristiana, lo ha notato gia' Rosario Giue' nelle poche parole di
presentazione della serata: se sfogliamo i dizionari di teologia in
circolazione, cerchiamo invano - tra "penitenza", "peccato" e "poverta'" -
la voce "piacere".
Ma la Bibbia e' molto meno puritana dei suoi cultori.
Come ha ampiamente mostrato la relatrice, il testo piu' bistrattato
dell'Occidente ha una vasta gamma di termini per indicare i piaceri della
vista, del mangiare, del bere e del sesso. Si', anche del sesso: basti
pensare alle difficolta' che ebrei prima, e anche cristiani dopo, hanno
avuto nel recepire come parte integrante della Rivelazione il Cantico dei
cantici, e al fatto che, sino a tempi recenti, molte edizioni della "Bibbia
per le famiglie" lo censuravano cassandolo del tutto. Con qualche ragione,
dal punto di vista della morale borghese: non vi si racconta la passione
erotica fra un ragazzo e una ragazza, i dettagli delle loro carezze e dei
loro baci - non solo sulla bocca -, senza citare mai nessuna istituzione
matrimoniale?
"Noi siamo abituati a ritenere che il vincolo giuridico coniugale sia il
valore centrale da difendere e l'amore interpersonale un contorno gradito ma
non necessario: e' esattamente il contrario di cio' che pensa la Bibbia. Per
essa ogni istituzionalizzazione ha senso non come gabbia, ma come sostegno
della passione". Tutto cio' non e' da intendere come istigazione al
libertinismo, ma come riscoperta dell'essenziale e risistemazione dei valori
nel loro ordine oggettivo. L'eros (eterosessuale o omosessuale, canalizzato
all'interno di un progetto pattuito o esplosivo nella sua imprevedibilita')
e' contraddistinto infatti dalla fragilita'; tende, come il dolore, a
chiuderci nella soggettivita'; qualche volta alimenta persino il nostro
egoismo. Come fare per mantenerlo vivace nel tempo, per farne uno stimolo
all'apertura sociale ed alla generosita' nei confronti dei piu' sfortunati?
Secondo le Scritture, la ricetta migliore e' di esporlo al soffio
vivificatore dello Spirito. E' di sperimentarlo come dono e consolazione del
Creatore.
Ma un eros "spiritualizzato" lo si riconosce dai frutti: esso e' autentico
quando - anziche' sminuire il godimento - preserva e intensifica le
sensazioni piacevoli. La riprova storica, secondo la relatrice, viene
proprio dalla testimonianza di Gesu' di Nazareth, cosi' poco ascetico da
attirarsi le ingiurie di "beone, mangione e amico di prostitute". Il Maestro
non ha mai prescritto ai discepoli la moderazione per motivi di
autocontrollo: ai suoi occhi la rinunzia ha senso solo quando e' necessaria
alla condivisione fraterna. Consumare meno e' utile solo come condizione
perche' si consumi tutti. Nel rispetto dell'ottica della solidarieta' con
chi ha meno di noi, i piaceri della vita vanno accolti senza complessi di
colpa, anzi con gratitudine verso il Padre: "se essi sono l'antipasto
dell'eternita' che Dio stesso ci apparecchia in questo mondo, non sarebbe da
maleducati rifiutarli?".
Forse la teologia affrontata con questa liberta' critica, con questo respiro
ecumenico e con questa fedelta' esegetica a cio' che veramente dicono i
Testi, e' un po' diversa dalle pillole che ci somministrano da bambini in
preparazione alla prima comunione: e potrebbe rivelarsi un fattore di
crescita intellettuale e civile per tutta la citta'. Dimenticavo: per chi
fosse incuriosito, il prossimo appuntamento sara' con don Cosimo Scordato,
docente presso la Facolta' teologica di Palermo.

7. LIBRI. CLOTILDE BARBARULLI RECENSISCE "UN DOPOGUERRA ANCORA" DI LIDIA
CAMPAGNANO
[Questa recensione abbiamo estratto dall'utilissimo sito di "Donne in
viaggio" (www.donneinviaggio.it) animato da Mary Nicotra ed Elena Vaccarino.
La recensione e' stata pubblicata dapprima sulla rivista "Leggere Donna" del
novembre-dicembre 2000]
La guerra, con gli allarmi, i bombardamenti, le morti, provoca sofferenza a
Sibilla Aleramo ("Dolorosa vita, punteggiata dalle notizie dei bombardamenti
lungo le coste della penisola, sempre piu' gravi", 1943): si sente come
"muta", non riesce piu' a scrivere, perche' "e' donna, con voce non fatta
per la cantica marziale". Cosi' il 13 maggio 1945, si chiede: "Percepisco a
tratti qualcosa di diverso, di nuovo, nell'aria. La pace, la pace? Gli
uomini non si uccidono piu' fra loro? Non romba piu' il cannone? Non
crollano piu' citta'?".
Il senso di angoscia di Sibilla mi torna in mente di fronte al testo di
Lidia (Un dopoguerra ancora, Ed. Erga, Genova) che, pero', va oltre: infatti
il suo e' un libro dettato non solo dal dolore, ma anche dalla collera, ed
esprime l'indignazione verso l'indifferenza con cui i piu' ormai si sono
adattati alla vulgata della "guerra umanitaria": e' un sentimento di lutto
che sembra riassumere sia tutti i lutti di una vita sia il lutto per una
cultura ed una civilta'. Il lutto si collega infatti ad una perdita, nel
momento in cui un mondo di riferimenti culturali e' esploso, e valori ed
ideali sono cancellati da governi di centrosinistra. Cosa e' successo, si
chiede Lidia, "Siamo noi, le stesse donne?", "Che cosa abbiamo fatto al bel
corpo della democrazia?": niente ormai e' piu' "innocente", ne prendere un
aereo, ne' nuotare nell'Adriatico.
Dopo la guerra nei paesi jugoslavi, niente e' piu' come prima, e dobbiamo
scendere a patti con gli odori, con la disperazione, con le bombe. Si tratta
di dare forma "al sentimento piu' desolato", "alla rottura piu' drastica"
provocati da una repubblica democratica che arriva a bombardare un altro
paese: quale vicinanza con quei fratelli e sorelle della sinistra che hanno
accettato la guerra? Da qui perdita del sentimento di appartenenza ad una
comunita' politica, e senso del debito verso le vittime: "Con questo Noi
semimorto bisogna trattare": occorre distruggere il legame con "il logos
comune, con la storia comune". Alcune donne, compagne, invece di dire "no",
hanno seguito i politici e governanti nella scelta della guerra, mettendosi
a ripetere "le loro parole, anche le piu' insensate", mentre quelle parole
"non sono le nostre, non possono essere le nostre, quelle parole sono le
loro" (Alice Rivaz).
Il libro esprime anche il rifiuto a lasciar azzerare nella morte e nella
sofferenza, donne, uomini, bambini/e, senza visibilita' proprio nell'era
della comunicazione globale. Siamo state invase/i infatti da suoni, immagini
e tecnicismi tramite i massmedia, forse perche' e' mancata la parola, cioe'
la parola ha rinunciato ad essere atto di ragione e di confronto e di
critica, nella ricchezza delle differenze: la parola cosi' degenera nel solo
rumore confuso degli eventi bellici, ed il termine "guerra" viene declinato
dai politici e dai massmedia con voci come "deterrente", "effetti
collaterali", "bombe intelligenti", ottenendo un effetto straniante ed una
specie di addomesticamento dell'orrore.
E' dunque uno scontro anche attraverso il linguaggio, perche' si cerca di
sottrarre le parole della guerra al loro significato originale, e di
utilizzare le parole della pace svuotandole semanticamente. Percio' il
flusso linguistico di Lidia, che sente e sottolinea la "responsabilita'"
della parola, realizzando la necessita' di "lottare con la mente" (Virginia
Woolf) e di ridare un senso alle parole. "Noi, donne d'Occidente, insieme a
Voi, uomini d'Occidente, al vostro fianco, parlando la stessa lingua. Lingua
raffinata nello sforzo dell'inganno". Percio' il ritmo anaforico e
martellante di Lidia che sente/vede/patisce la tragedia, avverte
l'impotenza, ma non rinuncia ad indignarsi, ad interrogarsi: e' qui che
prende forma la piccola Milica, "l'Angelo della Storia". Dando un nome ed
una storia anche ad uno solo dei tanti morti, la scrittura offre un'immagine
insostenibile: chi legge avra' cosi' per sempre davanti agli occhi
l'immagine della bimba, che, in un villaggio serbo, seduta sul vasetto
canticchiava giocando con un coniglio di stoffa. "L'Angelo delle Storie e'
piegato in due sul suo vasino. Nel cielo e' passato un bel ragazzo": "Piu'
l'Uomo finge di fare la sua storia, piu' noi torniamo a raccogliere bambine
stracciate in due mentre intrecciano i primi racconti".
Lidia traduce nella pagina scritta quello che sembra indicibile, traduce
nelle parole cio' che per molti e' un dato statistico, una cifra: e' una
voce di donna, la sua, che nomina e denuncia, si pone/ci pone interrogativi,
soffre la rottura, senza rinunciare a leggere in modo addolorato ma
implacabile le vicende della ex-Jugoslavia, pur nella "ripetizione della
fiaba", come "una ciotola da portare nel deserto" per un altro futuro, per
un'altra convivenza. Continuare a dire no e ad interrogarsi su quelle bombe
che sono anche "la nostra proprieta' collettiva", per riguadagnare il
diritto a dialogare: l'uso della domanda, implicita o esplicita, vuole
creare un'antitesi al linguaggio che sostiene la guerra, ma, nello stesso
tempo, e' la forma del dialogo che, nel presupporre un interlocutore, evita
cosi' qualsiasi autoreferenzialita'.
La scrittura di Lidia diventa il luogo dove far liberamente giocare e
portare in primo piano interrogativi, problemi e conflitti di una donna che
non addolcisce ne' smussa gli spigoli della Storia e anzi indica, nomina le
"ferite". E' un testo pero' in cui la consapevolezza della differenza e'
anche la ricerca di una necessaria relazione, nell'esigenza di costruire un
nuovo senso. Nel dialogo fra passato e presente, tra frammento ed insieme,
fra cultura e violenza, la parola - che si racconta e interroga - s'incontra
con quella sedimentata nella politica ufficiale. E' questo scarto, il
perdurare di domande e di inquietudini che non riescono a placarsi, a
determinare la radicalita' del testo. Questa radicalita', espressa con
ripetizioni, alternanza fra monologhi interiori e narrazione, ne fa una
scrittura poetica, corposa, ridondante e sinuosa, dal ritmo spezzato e
tuttavia articolato ed intenso: e' una scansione che sembra ricondurre al
ritmo di un pianto, di un componimento medievale come il Contrasto tra la
Croce e Maria.
Ed e' in questo ritmo, nel quale predominano i sostantivi (ciotola di latte,
tuffo nell'azzurro, bicchiere di limonata, odore di salvia ecc.) - i
componenti lessicali chiari nel loro rapporto significante-significato - che
si passa poi ad altri tratti dove la funzione, il potere di collocare quelle
parole in una situazione, in una dimensione esistenziale e politica,
conferiscono un ulteriore significato al segno. Si produce cosi' una
correlazione, una connotazione immanente al testo, nel passaggio fra
materialita' e concettualizzazione, tendente a rappresentare il grado
secondo di scrittura che e' anche, come dice Barthes, un "modo diverso di
vivere": differenti modalita' di esistenza fra chi ad esempio privilegia la
"parola che dialoga e sorride al lavoro che offre saperi e dignita' alle
mani", e chi diventa "Mostro", "un fratello, una sorella", che preferisce
disegnare "diagrammi di morte e vi include la tua finestra, la tua cucina,
il bricco del caffe'". Lidia tende cosi', per uscire dall'inganno della
"bombe intelligenti", a ricollocare nel contesto le parole, a ripristinare
la percezione del referente propria di ogni termine, nella ricerca della
materialita' e della quotidianita', e nel raccontarci la storia di Milica
Rakic: le immagini e le parole di vita e di morte, presenti nel testo,
impediscono cosi' quella destrutturazione semantica che vorrebbe togliere
crudelta' alla guerra. Nel momento in cui riusciremo a pensare Milica senza
parlare di "effetti collaterali", solleveremo "il desiderio fino al cielo"
per cercarla, e questa forma di preghiera puo' creare nuovamente un "noi".

8. LIBRI. FLORA FLORES RECENSISCE "ALLA SCUOLA DEI TALEBAN" DI GIULIANA
SGRENA
[Anche questa recensione abbiamo estratto da "Donne in viaggio"
(www.donneinviaggio.it)]
E' un viaggio in paesi che appaiono spesso sui media televisivi di tutto il
mondo, ma che, forse proprio per questo, conosciamo molto poco.
E' il mondo del fondamentalismo islamico, che attraversa tanti paesi, arabi
e non, e che rappresenta oggi una speranza per centinaia di milioni di
persone.
Il libro di Giuliana Sgrena (La scuola dei taleban, manifestolibri, 174
pagine, 9,50 euro) racconta non solo le storie di paesi o popoli, ma pone
una domanda fondamentale per capire il perche' di quanto accaduto negli
ultimi mesi prima e dopo l'attentato alle twin towers dell'11 settembre.
Come mai il "talebanismo", un'ideologia che trae origine
dall'interpretazione piu' conservatrice dell'islam, basata su valori
oscurantisti, che assumono forme aberranti di repressione di diritti e di
liberta', soprattutto contro le donne, esercita una tale attrazione su tanti
musulmani, anche giovani e istruiti?
La risposta ipotizzata da Sgrena e' insieme suggestiva e inquietante: il
talebanismo rappresenta oggi per il mondo islamico l'unica credibile
risposta globale, culturale, politica e ideologica alla globalizzazione
imposta dall'occidente ed e' per questo che viene vissuto come speranza per
i piu' poveri o come riscatto per generazioni di giovani frustrate dal
fallimento del panarabismo socialisteggiante dei movimenti di liberazione.
Una risposta "moderna", quindi, che non va sottovalutata per l'uso che fa di
arcaismi o di aberrazioni ideologiche.
E la risposta dell'occidente, che equipara ormai ogni lotta di liberazione o
rivendicazione di diritti al terrorismo, alimenta questa visione del mondo.
Sgrena racconta di come in molti paesi la presenza di queste organizzazioni
fondamentaliste sostituisca le funzioni dello stato nell'istruzione o
nell'assistenza e rappresenti una vera e propria alternativa di "governo".
L'unica speranza, secondo Sgrena, viene dal ruolo e dai movimenti delle
donne che in molti paesi rappresentano il baluardo piu' solido ed efficace
contro il talebanismo, uniche a porre con forza la discriminante tra
laicita', secolarismo e teocrazia e a rivendicare la separazione tra
religione e politica.

9. RIFLESSIONE. BENITO D'IPPOLITO: LUNGO IL CAMMINO

Per narcisismo o per disperazione
si lotta un giorno o forse per dieci anni
ma quella lotta non arriva all'orlo
del pozzo e non ne trae l'acqua per tutti.

Spinti dall'ira e spinti dallo studio
molte gesta si compiono, le grandi
gesta si compiono, ma non si apre
via alla salvezza, di tutti, per tutti.

Altro bisogna, e quell'altro e' l'amore
che scava pozzi e costruisce strade
alla sete, all'andare di tutti
verso quel luogo che e' il luogo ove tutti
abbiano il loro luogo, e il buon cammino
e il sorso d'acqua e la gioia dell'ombra.

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 427 del 26 novembre 2002