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La nonviolenza e' in cammino. 412
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 412 dell'11 novembre 2002
Sommario di questo numero:
1. Gli stupori di Rubizzo Barbacane: televisione
2. Benito D'Ippolito, tra il settembre e il novembre del '38
3. Daniela Padoan presenta "Una figlia di Iside" di Nawal El Saadawi
4. Ida Dominijanni intervista Elena Paciotti
5. Augusto Cavadi, il primato dell'amore
6. Una bibliografia delle opere di Maria Zambrano
7. Riletture: Hannah Arendt, Tra passato e futuro
8. Riletture: Simone de Beauvoir, Le deuxieme sexe
9. Riletture: Umberto Galimberti, Psiche e techne
10. Riletture: Hans Kueng, Dio esiste?
11. Riletture: Emmanuel Levinas, Totalita' e infinito
12. Riletture: Sebastiano Timpanaro, Sul materialismo
13. Riletture: Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Anselmo d'Aosta
14. Riletture: Simone Weil, Quaderni, I-IV
15. La "Carta" del Movimento Nonviolento
16. Per saperne di piu'
1. GLI STUPORI DI RUBIZZO BARBACANE: TELEVISIONE
Non posso crederci: siamo nel ventunesimo secolo e c'e' ancora qualcuno che
guarda la televisione?
2. MEMORIA. BENITO D'IPPOLITO: TRA IL SETTEMBRE E IL NOVEMBRE DEL '38
Tra il settembre e il novembre del '38 la barbarie
razzista fu eretta a legge in Italia
dall'infame regime fascista e con l'avallo
di scienziati, ma non sapienti,
che la parte di loro oltracotata
al servizio del male miseri misero.
Oggi che su quell'orrore si pretende
l'oblio, e che nuove leggi razziste
deturpano il nostro paese e la vita di tutti minacciano,
ricordati tu di quell'infamia, e ricorda
le vittime di allora e di oggi, e chi allora
disse di no, e oggi.
Tra esse vittime, tra essi resistenti,
anche la tua tenda decidi di piantare.
3. LIBRI. DANIELA PADOAN PRESENTA "UNA FIGLIA DI ISIDE" DI NAWAL EL SAADAWI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 novembre 2002 riprendiamo questa
recensione]
"Fu mia madre a insegnarmi a leggere e scrivere. Scrissi per prima la parola
Nawal, il mio nome. Ne amavo la forma e il significato: il dono. Quel nome
divenne parte di me. Immediatamente dopo imparai a scrivere il nome di mia
madre, Zaynab, che accostavo al mio in modo da renderli inseparabili". Cosi'
inizia Una figlia di Iside (Nutrimenti, trad. di Roberta Bricchetto),
l'autobiografia che Nawal El Saadawi, intellettuale e femminista egiziana,
scrive a 64 anni nell'esilio americano di Duke Forest, North Carolina, quasi
a segnare che la narrazione della vita di una donna non puo' che inscriversi
nella genealogia materna.
"Volevo piu' bene a lei che a mio padre, finche' lui un giorno separo' i
nostri due nomi e al posto di Zaynab scrisse il proprio. Non riuscivo a
spiegarmene la ragione. Quando glielo chiesi rispose: 'E' la volonta' di
Dio'. Era la prima volta che sentivo pronunciare la parola 'Dio' e venni a
sapere che viveva nei cieli. Ma cio' nonostante non riuscivo ad amare l'uomo
che aveva separato il mio nome da quello di mia madre, che l'aveva
cancellata, come se avesse cessato di esistere. Dentro di me, il
responsabile di questo misfatto era diventato Dio".
La cifra delle 300 pagine del libro e' gia' tutta in questo attacco. Il nome
come dono e il linguaggio come opera materna, interrotta con l'entrata in
scena del padre. L'autorita' della madre spodestata da un potere dispotico,
in un racconto che sembra incarnare il momento in cui, secondo Lacan, con
l'accettazione del nome del padre, il bambino divenuto soggetto entra
contemporaneamente nell'ordine del simbolo e del linguaggio.
Nawal El Saadawi vive in Egitto fino all'eta' di 60 anni. Laureata a pieni
voti, viene nominata direttore del ministero della sanita' con delega
all'assistenza per le donne ma, nel '72, in seguito alla pubblicazione del
libro Women and Sex in cui si schiera contro la circoncisione femminile,
perde il lavoro. Nell'81 viene incarcerata senza processo per crimini contro
lo stato, nel corso di una retata che coinvolge 1.600 intellettuali. La
prigionia dura un mese perche' Sadat viene assassinato e Mubarak, appena
eletto presidente, concede a tutti la grazia. Nel '92, viene messa sulla
lista nera della jihad islamica. La sua condanna a morte e' scandita dai
muezzin dall'alto dei minareti. Non restandole che l'esilio, si trasferisce
negli Usa con il marito. Di tutto questo, pero', Una figlia di Iside non
parla, se non per brevissimi cenni; la narrazione abbraccia l'infanzia e
l'adolescenza - quasi che quel periodo sia la chiave di tutto cio' che
accade in seguito - per fermarsi sulla soglia segnata dai due momenti che
concludono l'"educazione sentimentale" di Nawal, facendosi passaggio per la
vita adulta: la scoperta della scrittura come continuazione dell'opera
materna e l'incontro con la politica.
"Se provo a ricordare che cosa e' successo quando sono venuta al mondo tutto
quello che so e' che sono nata donna. Sentivo dire che Dio crea il maschio e
la femmina, e che, molto prima che nascessi, le neonate venivano sepolte
vive... Ma i miei erano tempi migliori. Quando veniva alla luce una bambina
non le si faceva niente: semplicemente la vita si fermava". Tuttavia Nawal
si rende presto conto che nascere segnata dalla differenza costituita
dall'essere donna non vuol dire necessariamente un destino di
subordinazione. Nel libro si sviluppa un orizzonte di liberta' reso
possibile dalla forza femminile, in cui sono centrali le relazioni con la
madre, la nonna, le compagne di studi. Gli uomini - eccetto il padre
schierato contro l'occupazione inglese, figura circonfusa da un alone
eroico - sono poco piu' che comparse. La presenza maschile e' invece
immanente nell'ordine sociale, nelle prescrizioni e nei divieti religiosi,
nelle angustie e nelle sofferenze volute da Dio. Il maschile e' il fato, il
destino, la punizione che si abbatte dal cielo, l'ordine divino. La vita
visibile delle donne ruota attorno al matrimonio, parola avvolta da molti
segreti. Ogni volta che risuona nell'aria, la zia divorziata impallidisce,
la zia zitella torce le labbra in segno di disprezzo, sul viso della madre
passa una tristezza impalpabile. "La nonna smetteva di bisbigliare e di
girare i grani del rosario tra le dita, gli occhi si fissavano e assumevano
il colore dell'acqua melmosa e stagnante... La sentivo mormorare: 'Sia lode
a Lui, perche' solo Lui va lodato per le sofferenze che ci toccano'". Nawal
comincia a capire che quella terza persona cui le donne della famiglia si
riferiscono con "Lui" e' Dio, colui dal quale provengono tutte le disgrazie
che si abbattono sulla sua casa. E, per quanto piccola e incapace di
comprendere il significato condiviso della parola "Dio", mentalmente
l'associa a "disgrazia", a sua volta legata all'oscura parola "matrimonio".
Nonostante provenga da una famiglia di mentalita' aperta, in cui il marito
rispetta le opinioni della moglie e l'istruzione e' tenuta in gran conto, a
6 anni una daya - l'ostetrica - le si avvicina con un rasoio e, dopo averla
immobilizzata insieme ad altre tre donne della famiglia, le asporta il
clitoride. Sara' una ferita dell'anima, insanabile. E' il destino di tutte
le bambine, cosi' come e' normale che a 10 anni venga scelto per loro un
marito. Il futuro sposo attende Nawal in salotto, seduto in poltrona accanto
al padre, lo scacciamosche in mano, il fez rosso sulle ventitre. Nawal sta
per entrare reggendo il vassoio del caffe', bambina travestita da donna
dalle zie delle due famiglie, i denti sbiancati a forza col sale, gambe e
braccia depilate col miele, guance e labbra truccate, il passo malfermo sui
tacchi alti indossati per la prima volta. Ha gia' preso in considerazione
l'ipotesi di tagliarsi le vene, di dare fuoco alla casa, e invece si ferma
davanti allo specchio nel corridoio, si strofina via il rossetto, affonda i
denti in una melanzana cruda che fa venire le macchie sui denti, avanza fin
davanti al pretendente e gli rovescia addosso il vassoio, inciampando nel
tappeto. Non sara' che il primo matrimonio mandato a monte. Nawal non vuole
saperne di seguire il destino della madre, cacciata da scuola dal padre a
bastonate e data in sposa a un uomo di sedici anni piu' vecchio, che aveva
incontrato solo sul letto nuziale, dove si era lasciata ingravidare del
primo figlio senza nemmeno togliersi i vestiti o guardarlo. "Anno dopo anno,
nell'oscurita' della notte, mia madre resto' incinta dieci volte e diede
alla luce nove bambini. Subi' un aborto con il decimo, prima di raggiungere
il trentesimo anno di eta', e il tutto senza aver mai provato cio' che viene
definito 'piacere sessuale'. Poi mori', era ancora giovane, stringendo la
mia mano nella sua, con gli occhi di bambina color miele che mi guardavano
con meraviglia".
Nawal, incoraggiata dalla madre riesce a iscriversi alla Scuola Superiore
Femminile Helwan, dove spicca tra le allieve migliori. A 17 anni, in
occasione dei festeggiamenti per la Eid Al-Hajira, le viene chiesto di
tenere un discorso sulla vita di Maometto. Fino al giorno prima non ha fatto
che pregare Dio perche' le faccia terminare le mestruazioni, di modo che
l'offesa del sangue non la colpisca proprio in quel frangente, vietandole di
citare i versi del Corano. Il flusso si ferma e Nawal, dritta come un fuso,
inizia a declamare il discorso con un tono simile a quello di suo padre.
Quando conclude pronunciando il nome di Allah l'Onnipotente, la voce
vibrante di sacro fervore, nel salone rimbombano gli applausi.
Inizia cosi' ad addentrarsi, affascinata, in quell'ordine simbolico fatto di
assoluti, di universali, che vuole condurre il tutto a Uno. "Nella mia mente
la letteratura araba comincio' a legarsi all'Islam. Il credo religioso,
insieme all'amore per mio padre, divenne parte dei miei sentimenti piu'
radicati. Non so come, ma mi dimenticai dell'infanzia. Da bambina dubbiosa
della giustizia di Dio mi trasformai in una ragazza profondamente
religiosa... Iniziai cosi', con il passo sicuro di mio padre, la discesa
verso un credo assoluto, diventando un modello di pieta' e virtu' morali per
le altre ragazze".
Ma alla fine le domande della bambina riprendono il sopravvento sovvertendo
la realta' data, e la scrittura, che si presenta irruente e necessaria,
diventa riunione alla madre. E' proprio la scrittura a far si' che
l'influenza del padre, creduta in quel momento piu' significativa, si
stemperi. Da allora sara' sempre figlia di Zaynab e, simbolicamente, di
Iside, la dea luna che ha impersonato in una recita scolastica e che ha
costituito la sua prima apparizione nel mondo. Le parole che Noot dice a
Iside prima di morire, le resteranno impresse come cifra dell'esistenza
femminile: "Figlia mia, tu che erediterai il trono dopo la mia morte,
governerai con giustizia e clemenza e non dipenderai dal sacro potere per
esercitare la tua autorita'".
L'altro passaggio che, parallelamente, fa da soglia all'ingresso nella vita
adulta, e' la partecipazione al Cairo, il 14 novembre 1951, alla cosiddetta
"manifestazione silenziosa" che fu una delle ultime spallate contro il
dominio coloniale inglese. In quell'occasione Nawal incontra l'uomo di cui
si innamora, colui che, chiamandola tra la folla, le restituisce il nome.
"Di nuovo quel nome, ma adesso mi arrivava alle orecchie con un suono
diverso... Era davvero il mio nome? E perche' riecheggiava cosi'
nell'universo? Perche' aveva un suono nuovo?". L'autobiografia termina con
queste parole, con il nome nato a una vita nel mondo, con quell'esistenza
pubblica che sola, secondo Hannah Arendt, racchiude l'apparizione della
liberta', resa possibile, pero', in virtu' dell'autorizzazione materna e
della relazione d'amore con l'altro.
Se, in Una figlia di Iside, il succedersi dei ricordi segue il corso
accidentato della memoria, in un qui americano visitato da momenti del
passato - immagini, suoni, colori, resi preziosi dalla distanza
dell'esilio - il lettore percorre parallelamente un'altra biografia narrata
dalle foto in bianco e nero. La prima ritrae Nawal a due mesi, i grandi
occhi gia' curiosi del mondo; nel '56 con la madre a Giza; nel '70
all'inaugurazione dell'Associazione delle scrittrici egiziane; nell'82 nello
Yemen con Arafat; nel '96 all'universita' dell'Illinois dove riceve il
dottorato ad honorem, l'espressione commossa, il tocco posato sulla criniera
leonina ormai candida. In quel profilo che sembra racchiudere infinite
emozioni e' impressa l'impronta di un'intera esistenza, e forse anche
quell'albero solitario davanti alla sua casa di Giza: "Un giorno aprii la
finestra: l'albero solitario non c'era piu'. Era arrivata una ruspa e lo
aveva sradicato... Al disopra di un muro si erge il minareto di una nuova
moschea, immersa nel biancore delle luci al neon. Sul muro opposto era
cresciuta un'insegna di McDonald's... Mi abituai a tenere chiuse finestre e
imposte di giorno e di notte, ma il frastuono e le luci pulsanti non
smettevano di attraversarmi il corpo, mescolati all'odore di hamburger, al
rimbombo della discoteca e alle grida: 'Allah e' il grandissimo... Venite
alla preghiera'. Durante quelle dolorose notti insonni mi chiedevo se Allah
e McDonald's non avessero stretto un patto per allontanare il sonno che mi
pesava sulle palpebre e mandarmi via dal posto in cui vivevo".
4. DIBATTITO. IDA DOMINIJANNI INTERVISTA ELENA PACIOTTI
[Ancora dal quotidiano "Il manifesto" del 6 novembre 2002]
Gia' protagonista della Convenzione che diede vita alla Carta europea dei
diritti, Elena Paciotti, europarlamentare Ds, fa parte ora della Convenzione
che sta lavorando al progetto di Costituzione europea, e che dovrebbe
portare a termine il suo compito a marzo del 2003 (anche se il calendario
prevede riunioni almeno fino a giugno). Non sara' a Firenze, come annunciato
dal programma di uno dei seminari a tema europeo previsti per giovedi'
("L'ho saputo solo ora e casualmente - precisa - , e quel giorno c'e' una
riunione plenaria della Convenzione"), ma non e' certo poco sensibile allo
svolgimento di un Social Forum a dimensione europea.
"Spero davvero - dice Paciotti - che il Social Forum capisca che quello
europeo e' l'unico terreno possibile di una politica reale, non di pura
protesta, contro la logica di mercato e di potenza che domina la
globalizzazione. Se c'e' uno spazio per influire in qualche modo sui destini
del mondo globale, quello spazio e' l'Europa. Perche' sulla scena mondiale
ci vuole un soggetto abbastanza forte che si faccia portatore di valori non
conformi a quella logica. E l'Unione europea ha nel suo dna i valori della
solidarieta', della tolleranza, della tutela dei diritti umani e sociali, di
una economia sociale di mercato". Non solo: per un fortunato caso, le
giornate fiorentine coincidono con un passaggio importante dei lavori della
Convenzione, che comincia a lasciar intravedere, nel bene e nel male, i suoi
possibili esiti. Discutibili, come emergera' nel corso di questa
conversazione.
- Ida Dominijanni: Pochi giorni fa Giscard e' andato in visita dal papa.
Perche'? Pare che abbia assicurato che la Convenzione terra' conto dei
valori cristiani...
- Eena Paciotti: Giscard e' il presidente della Convenzione sul futuro
dell'Europa. Il Santo Padre e' il capo dell'unico stato teocratico
europeo-occidentale, uno stato che non rispetta i principi fondamentali di
democrazia e stato di diritto dell'Unione europea, che non aderisce alla
Convenzione europea dei diritti dell'uomo e che solo nel 2000 ha preso
posizione contro la pena di morte. Giscard non e' certo andato in Vaticano a
titolo personale, ma non ha dichiarato nella Convenzione gli scopi della sua
visita, ed e' stupefacente che nessuno gliene chieda conto. Se si trattava
di consultare un autorevolissimo capo spirituale, analoghe visite dovrebbero
essere programmate nei confronti di altre autorita' spirituali di altre
religioni.
- I. D.: C'e' un contenzioso esplicito su questo punto, all'interno della
Convenzione?
- E. P.: Le autorita' religiose cattoliche chiedono alla Convenzione di
inserire nella Costituzione quello che avrebbero gia' voluto e non hanno
ottenuto nella Carta dei diritti, un richiamo alle radici giudaico-cristiane
dell'Europa. E la maggior parte dei rappresentanti italiani nella
Convenzione - Fini, Tajani, Follini, Dini - si sono dichiarati favorevoli.
E' una richiesta molto preoccupante: significa voler dare all'Europa
un'identita' fondata su una religione o una tradizione religiosa, che la
contrapporrebbe di fatto ad altre identita' religiose. E significa
confondere la storia di un popolo con le radici della sfera pubblica. La
storia dell'Europa e' insanguinata di conflitti motivati su base religiosa,
dalla strage degli Ugonotti alle guerre civili di religione fino alla
vicenda dell'Irlanda. Ma le radici della costruzione europea, i valori a cui
si ispira, stanno nella tradizione illuminista e nella Rivoluzione francese:
difesa dei diritti fondamentali, liberta' della scienza e della ricerca,
laicita' delle istituzioni. Se c'e' un tratto specifico della civilta'
europea occidentale, sta proprio nella separazione fra sfera pubblica e
sfera religiosa. Dunque le istituzioni non possono richiamarsi a radici
religiose. Non solo: un'Europa laica e di pace dev'essere rispettosa di
tutte le religioni, ma anche degli atei e degli agnostici. Il che non
significa, ovviamente, che le religioni non abbiano una dimensione sociale,
peraltro ben individuata nella Carta dei diritti, che riconosce a ciascuno
liberta' di fede e di pratica pubblica del rito.
- I. D.: Ed e' banale osservare che in questo momento il richiamo alle
radici giudaico-cristiane suonerebbe quasi come una provocazione agli occhi
dei paesi islamici...
- E. P.: Ovviamente. Prendi la Turchia, dove dopo la vittoria del partito
islamico non sappiamo se prevarra' la conferma dello Stato laico o la sua
islamizzazione. Di fronte a queste situazioni, l'Unione deve ribadire il
valore della laicita' delle istituzioni, contro ogni tentazione di far
prevalere l'una o l'altra tradizione religiosa.
- I. D.: La Convenzione e' arrivata ormai a piu' di meta' del suo cammino.
Intravedi l'esito, e come lo valuti?
- E. P.: La Convenzione sta lavorando intensamente e si cominciano a vedere
i primi risultati. Alcuni sono positivi, altri no, anzi direi che sono
allarmanti.
- I. D.: Cominciamo da quelli positivi.
- E. P.: Intanto si e' fatta strada l'idea, all'inizio tutt'altro che
pacifica, che sia necessaria una vera e propria Costituzione dell'Europa. Un
testo che contenga diritti, principi fondamentali e poteri sovranazionali
dell'Unione, rigido e distinto dai trattati, che, a loro volta unificati e
semplificati, dovrebbero contenere i dettagli delle politiche comuni ed
essere piu' flessibili, cioe' piu' facilmente modificabili. Si fa strada
anche l'idea che, per colmare il deficit democratico dell'Unione, ogni
decisione del Consiglio dovrebbe sempre essere accompagnata da una
co-decisione del Parlamento, in modo da avere una legislazione europea
emanata sia dai rappresentanti dei governi sia dai rappresentanti del
popolo. Ancora, si fa strada la necessita' di ampliare i casi di decisione
del Consiglio a maggioranza qualificata. Infine, si fa strada la convinzione
che e' necessaria una competenza dell'Unione nella politica estera.
- I. D.: Quale competenza? Questione delicata e dirimente, di questi tempi.
- E. P.: Non c'e' alcuna disponibilita' a far diventare la politica estera
una politica comune. Dunque le linee strategiche di politica estera
continuerebbero a essere decise dal Consiglio all'unanimita', ma la loro
attuazione dovrebbe essere affidata a un rappresentante dell'Unione, non dei
governi, che secondo il parlamento dovrebbe essere un vicepresidente della
Commissione, magari con rapporti speciali con il Consiglio. Quello che
succede oggi, invece, e' che anche l'attuazione e' affidata all'unanimita'
del Consiglio, si' che gli stessi governi che in Consiglio danno il loro
assenso alle linee strategiche, quando si tratta di attuarle pongono i loro
veti nazionali e le bloccano.
- I. D.: Passiamo ai risultati negativi dei lavori della Convenzione.
- E. P.: Il rischio e' questo: che si arrivi a soluzioni istituzionali non
abbastanza nette, a compromessi ambigui o contraddittori, che possono
favorire una deriva di ri-nazionalizzazione dei poteri. Tendenza questa che
all'inizio pareva solo britannica ma che ora rischia di generalizzarsi.
L'esempio piu' rilevante e' quello della Carta dei diritti. La Convenzione
si e' pronunciata a grandissima maggioranza per il suo inserimento, senza
modifica alcuna, nella Costituzione. Senonche', su richiesta dei britannici
sono state inserite alcune clausole finali che non sono minacce dirette
all'effettivita' della Carta, ma hanno l'effetto di sminuirne il valore,
sottolineando la necessita' che essa sia interpretata tenendo conto delle
tradizioni costituzionali, della legislazione e delle pratiche degli stati
membri. Si tenta cosi' di demandare l'attuazione dei principi a scelte
politiche discrezionali.
- I. D.: Nessuno si e' opposto all'inserimento di queste clausole?
- E. P.: Solo il politologo francese Duhamel e io. Il fatto e' che i
britannici restano attestati sulla loro posizione sostanzialmente
anticomunitaria, che concepisce l'Unione solo come un grande mercato con
qualche competenza politica saldamente nelle mani dei governi, e nei gruppi
di lavoro non mollano mai. Cosi', la necessita' di trovare mediazioni e
compromessi con le loro resistenze finisce col prevalere. Tuttavia nel
gruppo di lavoro della Convenzione sul governo dell'economia c'e' una
spaccatura netta, fra chi si orienta con la bussola del libero mercato e chi
con quella dei diritti sociali.
- I. D.: Altri punti di contenzioso?
- E. P.: La Presidenza dell'Unione. Che dev'essere della Commissione, non
del Consiglio. Chi vuole metterla in capo al Consiglio, nella persona di un
ex-premier nazionale autorevole, punta a ridurre la Commissione a mero
organismo esecutivo delle volonta' degli Stati e dei governi, secondo la
deriva alla ri-nazionalizzazione di cui sopra. E poi, i governi cambiano
rapidamente colore politico, e il Consiglio di conseguenza.
- I. D.: A proposito di colori politici. Quanto ha pesato la fine
dell'Europa di centro-sinistra nella deriva di ri-nazionalizzazione che
descrivi?
- E. P.: Moltissimo ovviamente - basta pensare che nella Convenzione sulla
Carta dei diritti il rappresentante del governo italiano era Rodota', mentre
nella Convenzione sulla Costituzione e' Fini. Ma proprio per questa ragione
sono assai sorprendenti e allarmanti il silenzio e l'inerzia del
centrosinistra italiano sui lavori della Convenzione. E si' che la
Costituzione europea non e' oggetto di divisioni all'interno dell'Ulivo,
mentre potrebbe essere il terreno di una opposizione unitaria contro la Casa
delle liberta' che in materia e' invece eclatantemente divisa fra le
posizioni di Bossi e quelle dei centristi. La verita' e' che nella
costruzione europea quello che sta mancando e' la politica, e in primo
luogo il ruolo di mediazione dei partiti nei confronti dell'opinione
pubblica. Se salta questo ruolo, la politica diventa pura protesta, le
istituzioni diventano tecnocratiche quando non autoritarie, e il populismo
e' in agguato. Anche l'esperienza di scrittura della Costituzione europea
insegna che il compito piu' urgente, nelle democrazie occidentali di oggi,
e' reinventare la politica.
5. RIFLESSIONE. AUGUSTO CAVADI: IL PRIMATO DELL'AMORE
[Ringraziamo Augusto Cavadi (per contatti: acavadi@lycos.com) per averci
messo a disposizione il testo della sua relazione (il cui titolo originale
e': "Distruggere le religioni: e dopo?") al convegno promosso dal Cepes
svoltosi a Palermo il 4 novembre 2002, relazione in cui riflette in fraterno
dialogo con grandi e cari maestri. Augusto Cavadi e' docente di filosofia,
storia ed educazione civica, impegnato nel movimento antimafia e nelle
esperienze di risanamento a Palermo, collabora a varie qualificate riviste
che si occupano di problematiche educative e che partecipano dell'impegno
contro la mafia, tra le opere di Augusto Cavadi: Per meditare. Itinerari
alla ricerca della consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con occhi nuovi.
Risposte possibili a questioni inevitabili, Augustinus, Palermo 1989; Fare
teologia a Palermo, Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza confini,
Paoline, Milano 1990; trad. portoghese 1999; Ciascuno nella sua lingua.
Tracce per un'altra preghiera, Augustinus, Palermo 1991; Pregare con il
cosmo, Paoline, Milano 1992, trad. portoghese 1999; Le nuove frontiere
dell'impegno sociale, politico, ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi
dal dominio mafioso. Che cosa puo' fare ciascuno di noi qui e subito,
Dehoniane, Bologna 1993, II ed.; Il vangelo e la lupara. Materiali su chiese
e mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia. Materiali
di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro siciliano di
documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Essere profeti oggi. La
dimensione profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane, Bologna 1997;
trad. spagnola 1999; Jacques Maritain fra moderno e post-moderno, Edisco,
Torino 1998; Volontari a Palermo. Indicazioni per chi fa o vuol fare
l'operatore sociale, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato", Palermo 1998, II ed.; voce "Pedagogia" nel cd- rom di AA. VV.,
La mafia. 150 anni di storia e storie, Cliomedia Officina, Torino 1998, ed.
inglese 1999; Ripartire dalle radici. Naufragio della politica e indicazioni
dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie del Novecento,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2001]
Non so a che titolo sono stato invitato a questo seminario, se come
intellettuale o come animatore sociale, ma, se proprio dovessi esibire un
biglietto di presentazione, preferirei qualificarmi quale socio
dell'Associazione Teologica Italiana e membro della redazione palermitana
della rivista nazionale "Filosofia e teologia".
Questa precisazione, che rischia di ingabbiarmi in un'etichetta riduttiva,
serve a giustificare il taglio specifico del mio intervento che, grosso
modo, potrebbe sintetizzarsi in una domanda: a quali condizioni le religioni
potrebbero trasformarsi da occasioni di conflitto in strumenti di
pacificazione?
*
Per rispondere, sia pur sommariamente, alla questione, vorrei prendere le
mosse da un articolo di Enzo Mazzi, gia' parroco dell'Isolotto di Firenze,
che molti di voi avranno letto perche' apparso sul "Manifesto" il 10 agosto
di quest'anno. L'autore, ignoto ai piu' giovani ma non a chi ha vissuto il
'68 in Italia, parte dalla constatazione di un dato di fatto: "Nel ricco
programma proposto per il Forum sociale europeo che si terra' a novembre a
Firenze manca completamente ogni riferimento ai temi riguardanti il rapporto
fra religioni e globalismo, religioni e sistema mondiale di dominio e di
guerra, religioni e fondamentalismo, religioni e pace. A differenza di Porto
Alegre dove questi temi furono invece oggetto di importanti
approfondimenti". Quali le ragioni di questa assenza? Mazzi non ha dubbi: da
una parte significa che i cristiani progressisti europei, cattolici e
protestanti, sono poco significativi quantitativamente e qualitativamente;
ma, dall'altra, significa anche che tutta la cultura europea laica, anche la
piu' progressista, e' "ancora ferma ai paradigmi dell'Ottocento". Che
intendeva asserire l'autore?
Probabilmente, mi pare di leggere fra le pieghe del suo intervento, che la
cultura odierna e' ancora ferma ad una disastrosa divisione dei compiti: i
credenti (soprattutto i preti) si occupano di religione, i laici
(soprattutto i noncredenti) si occupano di politica. Quasi che la religione
non avesse conseguenze, e pesanti, in campo politico e la politica non
avesse implicazioni, e notevoli, in ambito religioso. La sua convinzione, e
la riprendo perche' la condivido perfettamente, e' di segno opposto: la
questione religiosa e' talmente intrecciata con quella politica che i
politologi non la possono ignorare proprio come i teologi non possono
ignorare i risvolti politici delle pratiche religiose. Ma dire questo
significa andare dove i nuovi movimenti non dovrebbero avere paura di
andare: "oltre tutte le ortodossie". Significa fare propria la tesi del
sociologo Franco Ferrarotti che "la fame di sacro e il bisogno di religione
vanno sottratti all'abbraccio mortifero della religione-di-chiesa,
burocratica e gerarchicamente autoritaria" - e che cio' va fatto con una
lotta su pi? fronti, "dentro ma anche fuori della chiesa". Insomma: "I laici
non possono piu' continuare a chiamarsi fuori dai problemi religiosi,
ecclesiali e perfino teologici. (...) Ci si scalda quando gli interventi
ecclesiastici ci toccano negli interessi diretti e immediati:
contraccettivi, aborto, omosessualita', ingerenza politica, scuola
cattolica, violenza psicologica sui bambini a base di colpevolizzazioni. Ci
si esalta e giustamente quando i prelati o i preti condannano la guerra o
denunciano la ingiustizia o vivono da eroi fra i poveri. Il resto e'
considerato questione interna alla religione. Questo giocar di rimessa con
le religioni e' una caratteristica congenita del laicismo. Cent'anni fa,
quando era 'certo' che la religione, considerata residuo dell'eta' infantile
dell'umanita', sarebbe stata superata dal progresso, poteva apparire
razionale lasciar sopravvivere la teocrazia come gioco da riserva indiana.
Oggi tale atteggiamento e' chiaramente distruttivo. Perche' il liberismo sta
cavalcando la ripresa delle religioni a livello mondiale con una capacita'
di penetrazione i cui effetti si vedranno a lunga scadenza. Il sistema di
dominio globale se ne fa un baffo delle condanne ecclesiastiche. Le mette
nel conto come pedaggio. A lui serve che l'abbraccio materno delle
religioni, contribuendo a rassicurare e consolare, stabilizzi il potere".
Sulla stessa lunghezza d'onda alcune dichiarazioni che leggo in
un'intervista, su "Repubblica" del primo novembre, a Regis Debray, di cui e'
stato tradotto recentemente Dio, un itinerario: "Le mie posizioni politiche
non sono cambiate, appartengo a quella che in Francia viene chiamata 'la
sinistra della sinistra', ma cio' non mi impedisce di occuparmi della
religione da un punto di vista culturale. (...) La dimensione religiosa
della storia (...) e' fondamentale per comprendere l'attualita'. Oggi, ad
esempio, per capire la realta' americana e' bene ricordare che sui dollari
c'e' scritto In God we trust e che Bush inizia e conclude i suoi discorsi
dicendo sempre God bless America. Solo Bin Laden fa lo stesso".
*
Cio' premesso sul piano metodologico, proviamo a entrare nei contenuti.
Sul piano dei contenuti si impone una constatazione storica che possiamo
condensare con le parole di Ernesto Balducci, un altro prete cattolico,
amico di Mazzi, morto dieci anni fa: "Le religioni sono sempre religioni di
guerra, anche quando predicano a parole la pace". E, per essere sicuro di
essersi espresso bene, altrove Balducci ribadisce che la violenza e'
iscritta nel codice genetico delle religioni. Questo e' il fatto, questa e'
la diagnosi. E un romanziere come Jose' Saramago l'ha saputa di recente
rappresentare plasticamente nel suo Il Vangelo secondo Gesu', soprattutto
nelle pagine dedicate ai sacrifici rituali degli animali nel Tempio di
Gerusalemme: "L'interno e' una fucina, una macelleria e un mattatoio. Sopra
due grandi tavoli di pietra si preparano le vittime, le piu' grandi, buoi e
vitelli soprattutto, ma anche montoni e pecore, capre e capretti. Accanto ai
tavoli vi sono degli alti pilastri ai quali sono appese, con ganci
conficcati nella pietra, le carcasse degli armenti, e si nota la frenetica
attivita' dell'arsenale dei macelli, coltelli e coltellacci, accette e
seghe, l'aria e' impregnata dei fumi della legna e dell'afrore delle
interiora bruciate, del vapore di sangue e di sudore, qualunque anima, che
non dovra' neppure essere santa, un'anima normale trovera' difficile capire
come Dio possa sentirsi felice in mezzo a una simile carneficina, essendo,
come dice di essere, il padre degli uomini e delle bestie" (pp. 77-78).
Quale terapia e' possibile ed auspicabile?
La risposta che don Mazzi riprende da padre Balducci, a sua volta preceduto
e influenzato dal pastore protestante tedesco antinazista Dietrich
Bonhoeffer, puo' suonare demagogica, fatta apposta per attirare il consenso
di un pubblico laicista (specie se lettore di Marx e di Lenin): bisogna
distruggere le religioni. Per vivere come fattore di crescita umana esse
devono morire.
Sarebbe possibile fermarsi a questa "pars destruens" senza chiedersi che
cosa ci attenderebbe, se pure riuscissimo ad estirpare il bisogno di
religione dal cuore dell"umanita', dopo?
Sarebbe possibile, ma ingenuo.
Non si puo' essere critici a meta'. Anche se non riesce agevole, occorre
provare a immaginare - e giudicare - gli scenari eventuali. Che, per
comodita' dialettica, potremmo ridurre a due.
Primo scenario: la religione si estingue e trionfa l'ateismo nel senso piu'
radicale del termine. Questo perfetto ateismo e', nell'accezione letterale
ed etimologica, alfa-teismo: totale cancellazione di ogni interrogativo
religioso. Ma si tratta di uno scenario realizzabile? E, ammesso che lo
fosse, sarebbe anche auspicabile per l'umanita'?
Che non sia realizzabile, ce lo insegna la storia. Quando sono stati
abbattuti gli altari nella Francia illuministica della Rivoluzione Francese
si e' instaurato il culto della Dea Ragione cosi' come, dopo l'incendio
delle chiese nella Russia sovietica della Rivoluzione d'Ottobre, sono state
instaurate nuove dogmatiche, nuove liturgie e nuove inquisizioni. Alle
religioni della trascendenza sono subentrate le religioni dell'immanenza.
Vogliamo chiamare questi processi "secolarizzazione" o, se dobbiamo essere
schietti e realistici, "sacralizzazione" compensatrice e sostitutiva?
Ma ammettiamo pure che l'operazione di azzeramento della religione riesca in
maniera definitiva e irreversibile: sarebbe senza dubbio un guadagno per
l'umanita'?
Il filosofo Umberto Galimberti, nel delineare con simpatia questa
eventualita', usa delle formule a mio parere piu' istruttive di quanto egli
stesso non sospetti: "La storia umana e' uscita dalla dimensione simbolica
solo da due secoli e limitatamente all'Occidente, che con l'illuminismo ha
promosso il primato della ragione e quel suo corollario che e' l'ateismo,
essendo Dio il fondamento di ogni dimensione simbolica" ("Repubblica", 25
settembre 2001). Se capisco bene, il prezzo da pagare per ottenere
l'ateismo sarebbe la dissoluzione della dimensione simbolica dell'umanita':
ma una umanita' senza simboli, senza sogni, senza poesia, senza arte e'
davvero un'umanita' piu' ricca, piu' felice e piu' pacifica?
Lascio la domanda sospesa: mi basta insinuare il dubbio che distruggere le
religioni attuali sia necessario, ma non sufficiente; che il futuro
post-religioso non e' garantito da nessuna mistificazione e da nessun
fallimento; che non c'e' alcun passaggio meccanico, automatico, scontato
verso un livello di liberazione piu' alto.
In alternativa alla previsione razionalistico-atea, la teologia
post-bonhoefferiana prefigura un secondo scenario: la morte delle religioni
come anticamera della "fede non-religiosa".
Che potrebbe significare questa espressione apparentemente contraddittoria?
Una risposta completa implicherebbe l'analisi di varie religioni, ma a
titolo puramente esemplificativo potremmo limitarci al caso del
cristianesimo: esso dovrebbe tornare ad essere, proprio come sulle labbra e
nella vita di Gesu' di Nazareth, una "fede" piuttosto che una "religione".
Per capirci qualcosa, possiamo restituire la parola a Enzo Mazzi: "Noi siamo
stati educati a cercare un Padre nostro che sta nei cieli, un Dio
onnipotente su cui scaricare la nostra limitatezza, impotenza e
irresponsabilita'. Grandi masse umane, in tutto il mondo, sono indotte a
guardare in alto per cercare Dio. Gridano la loro sofferenza verso il cielo
ed evitano cosi' di indirizzare il loro grido verso la terra. Qui sta una
grande radice di indifferenza, di non-ascolto e quindi di stabilizzazione
della violenza. In sostanza, non voleva dire proprio questo chi ha parlato
di religione-oppio dei popoli? In realta' le orecchie di Dio siamo noi. A
noi giunge il grido di ogni Abele e a noi spetta tutta la responsabilita' di
rispondere. Noi siamo le orecchie e le mani e il cuore di Dio. Questo e' il
messaggio di tutti i profeti, messaggio originario che le religioni hanno
deformato e piegato ad interessi di parte. Non si tratta di sapere che cosa
'fanno' le religioni per la pace, ma cosa 'sono', quale funzione strutturale
assolvono. Singoli 'religiosi', preti, laici, associazioni, comunita', che
operano anche eroicamente per la pace e per la giustizia ce ne sono tanti
per fortuna. La domanda e' questa: come e' possibile operare per la pace
dall'interno di una funzione simbolica, la religione istituita appunto, che
sacralizza il sistema di guerra? Detto brutalmente: e' possibile 'operare'
per la pace ed 'essere' guerra? E come si puo' 'essere pace' senza annullare
la propria identita' religiosa, senza perdere la ricchezza di valori
accumulata dalle religioni? (...) Fra gli obbiettivi che si deve porre una
cultura della nonviolenza - sostiene ancora Balducci - non puo' mancare
l'impegno per aiutare le religioni a morire perche' nasca o rinasca una fede
non-religiosa, la fede dell'uomo planetario".
Vivere una fede non-religiosa significa, insomma, opporsi a qualsiasi
alienazione e a qualsiasi strumentalizzazione. Non puoi trovare il Dio che
non vedi se non passi attraverso le piaghe del fratello che vedi. Non sarai
giudicato in base al numero di candele accese o di ostie consumate, ma di
"corpi" salvati dalla fame, dalla sete, dall'aids, dall'analfabetismo.
Milioni di persone fanno questo senza nessuna motivazione "teistica" e cio'
e' un bene per l'umanita': i credenti possono attingere tutte le motivazioni
che ritengono dal silenzio, dalla meditazione, dalla preghiera, dalle
celebrazioni liturgiche... ma devono partire dal volto dell'altro e tornare
al volto dell'altro. Questo non lo dice la teologia contemporanea che vuole
rendersi accettabile dagli ambienti no global, ma la teologia contemporanea
che vuole scavare alle radici del messaggio biblico e, in particolare,
evangelico. Questo lo dice ogni teologia che voglia liberare la "fede"
dall'involucro ingombrante della "religione".
*
La prospettiva di Bonhoeffer, ripresa tra gli altri da padre Balducci e da
Enzo Mazzi, nella sostanza mi convince. Ma, se non vedo male, cosi' come e'
formulata potrebbe implicare equivoci comunicativi o, addirittura,
presupposti ingiustificati. La ritengo dunque preziosa, ma perfettibile.
Essa eredita una contrapposizione fra "fede" e "religione" tipica del filone
luterano, suggestivamente riproposto nel XX secolo da Karl Barth. Ma siamo
proprio sicuri che (prima obiezione) il valore, il positivo, stia tutto
dalla parte della "fides" e che (seconda obiezione) il disvalore, il
negativo, stia tutto dalla parte della "religio"?
Per quanto riguarda la prima obiezione, penso che la parola "fede" (sia pur
accompagnata subito dall'aggettivazione "non-religiosa") sia fuorviante per
indicare l'atteggiamento post-religioso piu' auspicabile per l'umanita'
futura. Essa ha precise caratterizzazioni nel vocabolario protestante: e'
dono della "grazia" di Dio, sintomo di "elezione" rispetto alla massa
dannata, espressione di un "affidamento" al Trascendente che sottovaluta -
quando non disprezza - la ragione. Quando la usiamo nella cultura del XXI
secolo, riusciamo (ammesso che lo si voglia) a liberarla dall'impronta
originaria? O non sarebbe meglio trovare qualche altro semantema per
denotare l'atteggiamento di consapevolezza della propria finitudine, di
apertura al Mistero, di ascolto della Natura, di sollecitudine per qualsiasi
sofferenza umana e animale?
Non e' facile, ma se ci riuscissimo (per esempio, in attesa di proposte
migliori, preferirei "spiritualita'" al posto di "fede") potremmo meglio
evidenziare la "laicita'" di tale atteggiamento esistenziale che e' fiducia,
solidarieta', senso critico, liberta'... fuori da ogni limitazione non solo
confessionale, ma anche etnica e culturale.
Per quanto riguarda, infine, la seconda obiezione, penso che non tutto cio'
che denominiamo "religione" sia da seppellire per sempre. Qui avverto la
distanza sia dagli "atei" che dai "credenti non-religiosi". Entrambi sono
giustamente critici verso le religioni come si sono storicamente
configurate. Ma si puo' arrivare ad affermare, per esempio con
quell'articolo di Galimberti, che i "simboli (...) annullano le differenze,
infiammano i cuori, dopo avere assopito o addirittura ottenebrato le menti"?
Ce la sentiamo di sostenere che una societa' in cui il legame con gli altri
e con l'Altro fosse esclusivamente "interiore" (senza luoghi "sacri", senza
tempi "sacri", senza assemblee, senza feste, senza canti, senza balli, senza
anniversari, senza modelli di vita...) sarebbe una societa' piu' matura e
non piu' piatta, piu' anonima, piu' omologata di quella attuale? La condanna
del ritualismo non implica il rifiuto del rito piu' di quanto, ad esempio,
la condanna del moralismo non implichi il rifiuto della morale. Anche in
questo caso, probabilmente, il termine "religione" e' talmente compromesso
dall'uso e dagli abusi da risultare inservibile: ma dopo la necessaria morte
delle religioni sarebbe, dal mio punto di vista, auspicabile la rinascita di
una dimensione "simbolica" costantemente (qui vale in pieno la
preoccupazione dei razionalisti alla Galimberti) sottoposta al controllo
della "ragione" e (qui vale in pieno la preoccupazione dei credenti alla
Mazzi) finalizzata al primato della "fede" - o della "spiritualita'" o, per
usare un termine inflazionato ma eloquente proprio nella sua generalita',
dell'amore.
6. MATERIALI. UNA BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE DI MARIA ZAMBRANO
[Riproduciamo qui la bibliografia delle opere apparse in volume di Maria
Zambrano, riprendendola dall'assai piu' ampia bibliografia (cui rinviamo per
l'indicazione di prefezioni e articoli della Zambrano) a cura di Rosella
Prezzo apparsa nelle pp. 151-160 del volume monografico della rivista
filosofica "aut aut", n. 279 del maggio-giugno 1997, interamente dedicato a
"Maria Zambrano, pensatrice in esilio". Maria Zambrano (1904-1991) e' una
delle piu' grandi pensatrici del Novecento]
- Horizonte del liberalismo, Morata, Madrid 1930.
- Los intelectuales en el drama de Espana, Panorama, Santiago de Chile 1937;
seconda edizione ampliata con "Ensayos y Notas (1936-1939)", Hispamerica,
Madrid 1977; in Senderos, Anthropos, Barcelona 1986.
- Pensamiento y poesia en la vida espanola, La Casa de Espana, Mexico 1939;
in Obras reunidas, Aguilar, Madrid 1971. In versione italiana (parziale):
Pensiero e poesia, "In forma di parole", II, 2, 1991, trad. di Antonio
Melis.
- Filosofia y poesia, Publicaciones de la Universitad Michoacana, Morelia
(Mexico) 1939; in Obras reunidas, Aguilar, Madrid 1971.
- El freudismo, testimonio del bombre actual, La Veronica, La Habana 1940;
in Hacia un saber sobre el alma, Losada, Buenos Aires 1950. In versione
italiana: Il freudismo, testimone dell'uomo contemporaneo, "Settanta", IV,
34, 1973; e in Verso un sapere dell'anima, a cura di Rosella Prezzo, trad.
di Eliana Nobili, Cortina, Milano 1996.
- Isla de Puerto Rico (Nostalgia y esperanza de un mundo mejor), La
Veronica, La Habana 1940.
- La confesion, genero literario y metodo, Luminar, Mexico 1943; Mondadori,
Madrid 1988. In versione italiana (parziale): La confessione come genere
letterario, trad. di Federico Ziberna, "aut aut", 265-266, 1995;
(integrale): La confessione come genere letterario, trad. di E. Nobili,
introduzione di Carlo Ferrucci, Bruno Mondadori, Milano 1997.
- El pensamiento vivo de Seneca (Presentacion y antologia), Losada, Buenos
Aires 1944, 1975; Catedra, Madrid 1987.
- La agonia de Europa, Sudamericana, Buenos Aires 1945; Mondadori, Madrid
1988.
- Hacia un saber sobre el alma, Losada, Buenos Aires 1950; Alianza, Madrid
1987. In versione italiana: Verso un sapere dell'anima, a cura di R. Prezzo,
trad. di E. Nobili, Cortina, Milano 1996.
- El bombre y lo divino, F. C. E., Mexico 1955; seconda edizione aumentata
del saggio "El libro de Job y el pajaro", 1973; Siruela, Madrid 1992.
- Persona y democracia. La historia sacrifical, Departamento de Instruccion
Publica, San Juan de Puerto Rico 1958; Anthropos, Barcelona 1988.
- La Espana de Galdos, Taurus, Madrid 1960; La Gaya Ciencia, Barcelona 1982;
terza edizione corretta e ampliata, Endymion, Madrid 1989.
- Espana, sueno y verdad, Edhasa, Barcelona 1965; seconda edizione ampliata,
1982. In versione italiana (parziale): Spagna: pensiero, poesia e una
citta', trad. di Francesco Tentori, Vallecchi, Firenze 1964.
- El sueno creador, Universitad Veracruzana, Xalapa (Mexico) 1965; in Obras
reunidas, I, Aguilar, Madrid 1971; Turner, Madrid 1986 (edizione corretta e
ampliata con gli articoli "Los suenos y el tiempo", "Lugar y materia de los
suenos" e "Sueno y verdad"). In versione italiana (parziale): I sogni e il
tempo, trad. di Elena Croce, De Luca, Roma 1964.
- La tumba de Antigona, Siglo XXI, Mexico 1967; in Senderos, Anthropos,
Barcelona 1986; Mondadori, Madrid 1989; pubblicato con "Diotima de
Mantinea", "Litoral", Malaga 1989. In versione italiana: La tomba di
Antigone. Diotima di Mantinea, trad. e introduzione di C. Ferrucci, con un
saggio di R. Prezzo, La Tartaruga, Milano 1995.
- Obras reunidas, I, (contiene: El sueno creador, Filosofia y poesia,
Apuntes sobre el lenguaje sagrado y las artes, Poema y sistema, Pensamiento
y poesia en la vida espanola, Una forma de pensamiento: "la guia"), Aguilar,
Madrid 1971.
- Claros del bosque, Seix Barral, Barcelona 1977. In versione italiana:
Chiari del bosco, trad. di C. Ferrucci, Feltrinelli, Milano 1991.
- El nacimiento (Dos escritos autobiograficos), Entregas de la Ventura,
Madrid 1981.
- Dos fragmentos sobre el amor, Imprenta Dardo, Malaga 1982.
- Andalucia, sueno y realidad, seguito da Teoria de Andalucia di Jose'
Ortega y Gasset, Ed. Andaluzas Unidas, Granada 1984.
- De la Aurora, Turner, Madrid 1986. In versione italiana i capitoli:
L'aurora della parola, trad. di A. Melis, "In forma di parole", II, 2, 1991;
e Il tracciato della scrittura, trad. di E. Nobili, "Il gallo silvestre", 8,
1996.
- Senderos, Anthropos, Barcelona 1986.
- Maria Zambrano en Origines, El Equilibrista, Mexico 1987.
- Notas de un metodo, Mondadori, Madrid 1989.
- Delirio y destino (Los viente anos de una espanola), Mondadori, Madrid
1989.
- Para una historia de la piedad, Torre de las Palomas, Malaga 1989.
- Algunos lugares de la pintura, Acanto, Espasa Calpe, Madrid 1989.
- Los bienaventurados, Siruela, Madrid 1990. In versione italiana: I beati,
trad. di C. Ferrucci, Feltrinelli, Milano 1992.
- El parpadeo de la luz, Rayuela, Malaga 1991.
- Los suenos y el tiempo, Siruela, Madrid 1992.
- La razon en la sombra. Antologia del Pensamiento de Maria Zambrano, a cura
di Jesus Moreno Sanz, Siruela, Madrid 1993.
- Nacer por si' misma, Horas, Madrid 1995. In versione italiana: All'ombra
del dio sconosciuto, a cura di E. Laurenzi, Pratiche, Milano 1997 (contiene
i saggi La donna nella cultura di Occidente; Delirio di Antigone; Eloisa o
l'esistenza della donna, Diotima di Mantinea).
7. RILETTURE. HANNAH ARENDT: TRA PASSATO E FUTURO
Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, pp. 312, lire
23.000. Una perspicua raccolta di saggi della grandissima pensatrice.
8. RILETTURE. SIMONE DE BEAUVOIR: LE DEUXIEME SEXE
Simone de Beauvoir, Le deuxieme sexe, Gallimard, Paris 1949, 1976, 1989, 2
voll. per complessive pp. 416 + 672 (vi e' anche una traduzione italiana
presso Il Saggiatore, Milano 1961, e successivamente ristampata). Un testo
ancor oggi da leggere.
9. RILETTURE. UMBERTO GALIMBERTI: PSICHE E TECHNE
Umberto Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, 2002, pp.
816, euro 15. Un testo di grande ricchezza, che a tutti consigliamo.
10. RILETTURE. HANS KUENG: DIO ESISTE?
Hans Kueng, Dio esiste?, Mondadori, Milano 1979, pp. 954. Uno studio
dell'illustre teologo che ricostruisce con la consueta acribia e
sistematicita' il dibattito di filosofi e teologi da Cartesio ad oggi.
11. RILETTURE. EMMANUEL LEVINAS: TOTALITA' E INFINITO
Emmanuel Levinas, Totalita' e infinito, Jaca Book, Milano 1980, 1990, 1995,
pp. LXXVIII + 320 (recte: 302), lire 36.000. Un libro fondamentale.
12. RILETTURE. SEBASTIANO TIMPANARO: SUL MATERIALISMO
Sebastiano Timpanaro, Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970, 1975,
Unicopli, Milano 1997, pp. XXXVIII + 234, lire 35.000. Uno dei capolavori di
rigore intellettuale e morale dell'indimenticabile Sebastiano Timpanaro.
13. RILETTURE. SOFIA VANNI ROVIGHI: INTRODUZIONE A ANSELMO D'AOSTA
Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Anselmo d'Aosta, Laterza, Roma-Bari
1987, pp. 192. Una presentazione di Anselmo essenziale e rigorosa della
grande studiosa, nella utilissima collana laterziana di profili filosofici.
14. RILETTURE. SIMONE WEIL: QUADERNI, I-IV
Simone Weil, Quaderni, I-IV, Adelphi, Milano 1982-1993, 4 volumi per
complessive pp. 412 + 374 + 428 + 632. A cura di Giancarlo Gaeta, l'edizione
integrale italiana dei Quaderni di Simone Weil, e' una testimonianza e un
monumento della cultura del Novecento, il capolavoro che documenta, attesta,
esprime - e per quanto attiene all'opera scritta risolutivamente e' - il
work in progress e il lascito grande di una delle figure decisive del XX
secolo.
15. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
16. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it
Numero 412 dell'11 novembre 2002