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La nonviolenza e' in cammino. 381



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it



Numero 381 dell'11 ottobre 2002



Sommario di questo numero:

1. Aldo Capitini, nell'insieme delle cose umane attuali

2. Giobbe Santabarbara, opporci alla guerra

3 Vincenzo Orsomarso, globalizzazione e globalizzazione dal basso

4. Filomena Perna intervista Pietro Pinna

5. Programma del seminario sulla nonviolenza al Forum sociale europeo di
Firenze

6. Claudia Fanti, resoconto del seminario della Rete di Lilliput sulla
nonviolenza

7. Letture: "Micromega", Non perdiamoci di vista!

8. Riletture: Gerard Houver, Jean e Hildegard Goss. La nonviolenza e' la vita

9. Riletture: Joan Robinson, Liberta' e necessita'

10. Riletture: Tzvetan Todorov,Noi e gli altri

11. La "Carta" del Movimento Nonviolento

12. Per saperne di piu'



1. MAESTRI. ALDO CAPITINI: NELL'INSIEME DELLE COSE UMANE ATTUALI

[Da Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, p.
423 (da un articolo apparso su "Azione nonviolenta" dell'aprile-maggio
1967). Aldo Capitini e' stato il principale promotore della nonviolenza nel
nostro paese]

Nell'insieme delle cose umane attuali due fatti colpiscono: l'enorme spesa
per le armi; l'immenso numero di sofferenti di fame. Sono due fatti
antitetici.



2. EDITORIALE. GIOBBE SANTABARBARA: OPPORCI ALLA GUERRA

1. Non dobbiamo stare a giustificare perche' siamo contro la guerra. Siamo
contro perche' non siamo assassini, e la guerra della commissione di
assassinii consiste. Siamo contro perche' vogliamo vivere,  e pensiamo che
ogni essere umano lo voglia per se', e ne abbia diritto, tutti ne abbiamo
diritto. La guerra e' nemica dell'umanita'.

2. Dobbiamo invece esigere che lo stato italiano si impegni contro la
guerra in adempimento del dettato costituzionale. Se governo, parlamento e
presidente della Repubblica non si impegnano contro la guerra tradiscono un
ineludibile dovere che la legge fondamentale dello stato italiano impone
loro: il ripudio della guerra. Se governo, parlamento e presidente della
Repubblica si esprimono per la guerra commettono gravissimo un reato, si
rendono fuorilegge e golpisti. Negli ultimi anni cio' e' gia' accaduto
varie volte; e' sintomatico della barbarie che assalta e corrode il nostro
paese il fatto che per la reiterata commissione di questi sanguinari ed
infami crimini coloro che se ne sono macchiati non siano stati ancora
chiamati a risponderne dinanzi a una corte di giustizia.

3. Non dobbiamo assumere atteggiamenti che indeboliscono le nostre
posizioni: non diciamo stupidaggini che semplificano cio' che non e'
semplificabile; non facciamo tirate propagandistiche che convincono solo
chi e' gia' convinto; non strumentalizziamo noi stessi. L'impegno per la
pace deve fondarsi sulla verita', sull'onesta', sulla lealta'.

4. E dunque ad esempio:

- diciamo chiaro che siamo contro la violenza e per la nonviolenza;

- diciamo chiaro che siamo impegnati nella solidarieta' con gli oppressi
contro ogni potere e regime oppressivo, e massime contro quelli
terroristici e totalitari: chi e' ambiguo su questo non aiuta la causa
della pace;

- diciamo chiaro che non intendiamo servirci dell'impegno per la pace e la
dignita' umana per altri fini, particolari e di parte, che non siano
appunto la pace e la dignita' umana;

- diciamo chiaro che la guerra comincia gia' col produrre e mettere a
disposizione le armi per condurla; che la guerra comincia gia' con la
rapina che un sistema di dominazione planetario crudelissimo diuturnamente
realizza ai danni dell'umanita' intera e della vivibilita' del mondo; che
la guerra comincia gia' quando tu taci di fronte all'ingiustizia e quando
tu godi dei vantaggi di un'iniquissima ripartizione delle risorse;

- diciamo chiaro che non basta dire l'esigenza della pace, occorre fare
l'azione che pace costruisce.

5. E dunque facciamo qualcosa, e cio' che fare occorre e', ad esempio:

- denunciare i poteri e i potenti che usano del terrore e della guerra;

- dennciare i poteri e i potenti che cooperano al terrore e alla guerra,
anche con la sola indifferenza;

- opporci al loro potere iniquo, ai loro disonesti interessi, ai crimini
loro, in difesa della pace e dell'umana dignita';

- opporci agli strumenti di morte: alle armi e agli eserciti tutti;

- recare aiuto alle vittime tutte di guerra e di fame, di ingiustizia e
terrore: inviando loro soccorsi, accogliendole fraternamente tra noi,
costrunedo rapporti equi e solidali, ed esercitando quella piu' alta forma
di giustizia che e' la misericordia;

- opporci alla guerra nel modo piu' nitido ed intransigente: in difesa
delle vite umane innocenti, e in difesa e adempimento del diritto
internazionale e della legalita' costituzionale; opporci alla guerra con
azioni dirette nonviolente, con campagne di disobbedienza civile, con lo
sciopero generale;

- fare la scelta dell'accostamento alla nonviolenza come rigorizzazione
intellettuale e morale, come teoria-prassi umanizzante; fare la scelta
della nonviolenza, senza della quale l'impegno per la pace resta mutilo ed
inefficace; fare la scelta della nonviolenza, senza di cui sara'
impossibile contrastare la barbarie e le distruzioni.



3. RIFLESSIONE. VINCENZO ORSOMARSO: GLOBALIZZAZIONE E GLOBALIZZAZIONE DAL BASSO

[Ringraziamo Enzo Orsomarso (per contatti: vorsoma@tin.it) per averci messo
a disposizione questo suo intervento, gia' apparso su "L'ora locale",
settembre-ottobre 2001. Enzo Orsomarso insegna a Viterbo ed e' studioso e
saggista di acuta analisi e di forte passione civile]

Dopo i fatti di Genova e le violenze poliziesche operate soprattutto ai
danni di manifestanti pacifici, mentre gruppi di provocatori venivano
lasciati liberi di devastare la citta' ligure, i termini di globalizzazione
e antiglobalizzazione continuano a tenere banco sui mezzi di comunicazione,
ma il tutto viene ricondotto a questioni di ordine pubblico; un gioco
mistificante a cui si prestano molto diligentemente le tante firme presenti
sul libro paga del Presidente del Consiglio.

E' una ragione in piu' per tentare di fare, per quanto molto sinteticamente
e in modo parziale, il punto su alcuni degli elementi di un tema molto
articolato e su cui ormai da tempo si concentra l'iniziativa del "movimento
dei movimenti" come viene definita la complessa rete di raggruppamenti che
contesta la globalizzazione neoliberista e nel cui ambito sta prendendo
corpo un progetto alternativo di globalizzazione dal basso (Cfr. M. Pianta,
Globalizzazione dal basso, Manifestolibri, Roma 2001), fondata sulla
democratizzazione dei processi decisionali in materia di politica economica
e commerciale che riguardano l'intera umanita', ma di fatto assunti solo
dai paesi piu' industrializzati.

Procedendo con ordine iniziamo proprio intorno al termine globalizzazione,
un fenomeno da iscrivere nella tendenza del capitalismo a costruire un
sistema economico mondiale e che negli ultimi due decenni ha conosciuto una
accelerazione senza precedenti interessando  il commercio, la produzione e
la finanza. Si tratta di un movimento favorito dalle innovazione nella
microelettronica nelle comunicazioni e nei trasporti che hanno reso
possibile, grazie anche alla deregolamentazione commerciale e finanziaria e
alla progressiva omologazione culturale, la libera circolazione non solo di
merci ma anche di capitali e monete.

In sostanza le trasformazioni dell'economia globale degli ultimi due
decenni possono essere interpretate come lo sviluppo parallelo e
interdipendente di tre processi:

- il cambiamento tecnologico, con l'emergere di un "nuovo paradigma"
basato, come dicevamo, sulle tecnologie dell'informazione e della
comunicazione;

- l'internazionalizzazione della produzione, con l'affermarsi di sistemi di
produzione internazionali controllati dalle grandi imprese multinazionali;

- la finanziarizzazione dell'economia, con l'emergere di attivita'
finanziarie che hanno un peso fortemente crescente rispetto all'economia
reale e che si sviluppano a scala effettivamente globale.

A quest’ultimo proposito  va precisato che fino agli anni '80 gli stati
avevano mantenuto varie forme di controllo sui movimenti dei capitali e
sulle piu' generali attivita' finanziarie; inoltre i governi avevano a
disposizione diverse misure per controllare le fluttuazioni dei cambi,
iniziate con la fine, nel 1971, del sistema a cambi fissi nato dagli
accordi di Bretton Woods del 1944.

*

L'evento

La deregolamentazione e la liberalizzazione delle attivita' finanziarie
avviate dai campioni del neoliberalismo degli anni '80, Margaret Thatcher
in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli Stati Uniti, hanno rimosso ogni
vincolo nazionale alla mobilita' dei capitali e posto le basi normative
all'espansione illimitata delle attivita' finanziarie e speculative con la
conseguente crescita di peso della finanza sull'economia reale.

E' proprio il passaggio dall'espansione materiale a quella finanziaria
l'aspetto primario del processo di ristrutturazione espresso dal movimento
di globalizzazione degli ultimi due decenni, cosi' come in questa
ricollocazione piu' che nella dislocazione delle attivita' industriali dai
paesi piu' sviluppato a quelli poveri e' corretto ricercare la causa
principale di ogni peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro che
lavoratori "ricchi" e "poveri" hanno subito negli ultimi vent'anni ( Cfr.
Beverly J. Silver, Giovanni Arrighi, Lavoratori del nord e del sud, in "La
rivista del manifesto", luglio, 2001, pp.18-24 ).

Ovviamente, per quanto riguarda le conseguenze del fenomeno, non si tratta
solo di questo, l'enorme volume di flussi finanziari mondiali (ogni giorno
si scambiano 1,5 trilioni di dollari), per lo piu' assunti nei meccanismi
di pura speculazione finanziaria, hanno quale unico effetto quello di far
crescere le rendite finanziarie, concentrate nelle classi piu' ricche dei
paesi piu' ricchi, oltre che creare una forte instabilita' finanziaria.

Ma, come dicevamo sopra, la nuova fase del processo di globalizzazione va
considerata in stretta relazione con lo sviluppo delle tecnologie
dell'informazione e della comunicazione: solo attraverso un sistema
integrato di telecomunicazioni e di computers infatti e' possibile nello
stesso tempo far circolare capitali, integrare e decentrare produzione e
management in un unico, flessibile sistema mondiale interconnesso.

Le imprese hanno la possibilita', grazie al nuovo sistema di trasporti e
soprattutto alle reti telematiche, di articolare la "catena del lavoro" in
un ambito spaziale molto vasto, di delocalizzare, di distribuire le fasi
produttive in territori anche assai distanti l'uno dall'altro e spesso
appartenenti a paesi diversi. Mentre nel modello fordista i "segmenti" che
costituiscono il ciclo produttivo erano centralizzati in un unico ambito
aziendale, nella fase postfordista tendono a decentrarsi, ad
autonomizzarsi, disperdendosi in un ambito spaziale non piu" coincidente
con i "confini fisici" dell'impresa e talvolta persino anche indipendenti
dal suo controllo finanziario.

L'impresa transnazionale si struttura sul funzionamento di commesse
esterne, su catene di sub-fornitura, di fornitori terzi su cui vengono
scaricati i costi della ricerca e sviluppo, della fiscalita', della
manodopera, del rischio di impresa e cosi' via. E' un percorso produttivo
che riguarda l'area sempre piu' vasta del lavoro autonomo, una scelta
occupazionale per molti  obbligata dalle politiche aziendali di snellimento
e governata non dai moderni ceti produttivi ma dai ritmi della produzione
globalizzata.

In questo quadro complessivo la produzione standardizzata di massa viene
principalmente realizzata nelle nazioni dove i salari sono piu' bassi,
mentre l'attivita' di individuazione e soluzione dei problemi e
d'intermediazione strategica si svolge in qualunque Paese dove esistono le
necessarie risorse d'inventiva e le capacita' creative (Cfr. Rech,
L'economia delle nazioni, "Il sole 24 ore", Milano, 1993, p. 150). Una
riorganizzazione della produzione su scala globale che nel Nord, ha
indebolito l'iniziativa dei lavoratori, aperto la strada a nuove forme di
lavoro flessibile e meno protetto e ha ridotto i livelli occupazionali e i
benefici dello stato sociale; allo stesso tempo, la globalizzazione e il
libero commercio, non favoriscono di per se' il miglioramento delle
condizioni di lavoro e delle retribuzioni nei paesi del Sud del mondo, dove
piu' della meta' della forza lavoro e' ancora impegnata nell'ambito
dell'economia informale, in un articolato processo di sfruttamento che
contempla  forme di lavoro tayloriste, pre-tayloriste, addirittura
schiaviste.

Ma la globalizzazione neoliberista non e' un esito iscritto nella storia,
un destino ineluttabile, il mercato globale si definisce come prodotto di
un processo di costruzione politica che necessita di una qualche forma di
ordinamento giuridico e di un potere che ne garantisca l'efficacia.

Toni Negri chiama "imperiale" questa determinazione dei rapporti di potere,
una definizione che va distinta da quella di "imperialismo", termine con
cui nel secolo scorso si intendeva l'espansione dello stato-nazione oltre i
suoi confini, la creazione di rapporti coloniali a scapito di popoli che
erano fuori dal processo eurocentrico di civilizzazione capitalistico.
Oggi, non c'e' imperialismo - o quando sussiste e' un fenomeno transitorio-
come non c'e' piu' stato-nazione. L'impero non puo' essere identificato con
qualche potenza nazionale, anche se per il governo americano e' difficile
rifiutare la responsabilita' del governo imperiale. Per Negri e Michael
Hardt, autori di Empire (Exils, Parigi 2000, [ora tradotto anche in
italiano: Rizzoli, Milano 2002]), si tratta di una responsabilita' che va
attenuata non solo perche' ormai la formazione delle elite americane e'
largamente influenzata dalla struttura multinazionale del potere, ma anche
per i condizionamenti che sulla presidenza americana come su qualsiasi
governo nazionale vengono esercitati da soggetti diversi, da espressioni di
istanze anche opposte. Mentre "l'impero e' semplicemente capitalistico, e'
l'ordine del capitale collettivo, cioe' della forza che ha vinto la guerra
civile del XX secolo" (T. Negri, L'"Impero", stadio supreme
dell'imperialismo, in "Le Monde Diplomatique", gennaio 2001, p. 3).

Una tesi originale e provocatoria che cerca di cogliere una tendenza in
atto e che trova alcuni riscontri nel costituirsi delle grandi imprese
multinazionali e della finanza globale in nuove forme di potere che
sottraggono ai governi nazionali la possibilita' di controllare lo sviluppo
economico e sociale, riducendo l'efficacia degli strumenti di politica
economica. Non e' un blocco di soggetti sociali diversificati, localizzati
in un territorio, ma un'elite globale di tecnocrati, manager delle imprese
multinazionali e di societa' finanziarie slegate da radici nazionali e
sociali. Gruppi di potere transnazionale che esercitano il governo del
sistema globale attraverso organismi, quali il Fondo Monetario
internazionale, la Banca Mondiale, l'Organizzazione Mondiale per il
Commercio, il G7-G8, non eletti e che non rispondono in nessun modo a
coloro che subiscono gli effetti delle loro decisioni (Cfr. M. Pianta, op.
cit. p. 57).

Rimane il fatto che l'immenso potere militare, la posizione di controllo
dei principali sistemi di comunicazione, il predominio sull'intera
architettura finanziaria del gruppo dei paesi piu' industrializzati e in
particolare degli USA li rende protagonisti centrali della costruzione del
mercato globale (cfr. L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze,
Laterza, Roma-Bari 2000, p. 8).

Ma l'attuale globalizzazione, come dicevamo, non segna soltanto
l'ampliamento geografico delle leggi del mercato e della "libera" finanza,
ma anche l'estensione della legge del profitto alla natura e alla sfera
della riproduzione sociale; sanita' ed istruzione sono alcuni dei nuovi
territori di conquista e la centralita' della formazione nei paesi del Nord
si riconosce nel passaggio al nuovo paradigma di produzione postfordista
che chiama a lavoro sapere, intenzionalita', competenze comunicative e
relazionali, da ottenere nel quadro di un controllo capillare della cultura
e dei comportamenti dei soggetti, della creazione di dispositivi di
controllo che investono tutti gli aspetti della vita e che si realizzano
nella misura in cui tutti i valori materiali e simbolici vengono ridotti a
prezzi di mercato.

Si sondano tutti i territori collettivi della cultura popolare e di strada
alla ricerca di quei significati che possiedono il potenziale per essere
trasformati in esperienze mercificate, private. Un movimento culturale che
si propone di produrre omologazione culturale e impoverimento delle fonti
di identificazione collettiva dei soggetti, una sorta di desertificazione
culturale su cui impiantare identita' mutevoli flessibili dipendenti dalle
tendenze di mercato.

*

Il movimento e la sinistra

Eppure in questo quadro sociale avviato ad essere  privato di autonomia,
assorbito tra le maglie delle logiche di impresa e mercantile si agitano
nuove forme di insubordinazione e movimenti antisistemici dai tratti
inediti che si insinuano tra le maglie delle reti di controllo e si muovono
in direzione della costruzione di una "societa' civile globale" che bilanci
il peso dell'economia e delle istituzioni sovranazionali. Una prospettiva
che, come precisa Pianta, richiede una combinazione di capacita' di
resistenza, di visioni radicali, di strumenti di riforma e di pratiche
alternative; e nello stesso tempo  un operare in direzioni diverse.
Cercando di dotarsi di strutture, il piu' democratiche e rappresentative,
dove sviluppare identita', visioni e proposte politiche; un percorso
obbligato per andare oltre la resistenza, ri-impossessandosi della
politica, imponendo temi globali anche nelle sempre piu' provinciali agende
politiche nazionali, considerando che gli stati continuano ad avere ancora
un ruolo chiave, come dimostrano una serie di  recenti vicende, tra queste
la decisione del Sudafrica di offrire farmaci a basso costo ai malati di
Aids.

Ma soprattutto la globalizzazione dal basso non puo' fare a meno del mondo
del lavoro, come e' stato possibile costruire reti globali di
ambientalisti, contadini poveri e consumatori non dovrebbe risultare
impossibile rivitalizzare le strutture sindacali internazionali o creare
nuove reti di base tra lavoratori delle imprese multinazionali. A
quest'ultimo proposito va detto che il lavoro oggi e' obiettivo e strumento
della globalizzazione. La competizione non e' solo tra i prodotti, i
mercati, ma anche tra i costi del lavoro ed e' questo che produce nuove
diseguaglianze e nuovi schiavismi; risulta cruciale quindi per il movimento
della globalizzazione dal basso il superamento di ogni sorta di divisione
del lavoro tra sindacati, ambientalisti, pacifisti, donne, difensori dei
diritti umani, politica nazionale, solidarieta' internazionale e
comportamenti auto-organizzati. Non si tratta di un semplice atto di
volonta' ma di una necessita' imposta da un sistema socioeconomico che
Carla Ravaioli ha descritto come solo proiettato verso la crescita
indiscriminata del profitto e portata a travolgere come semplici impacci
diritti umani, ragioni del lavoro e dell'ambiente, istanze sociali di ogni
tipo (cfr. C. Ravaioli, Nuovi orizzonti dopo Genova, in "il manifesto", 15
agosto 2001, p. 18).

La questione diventa quella di favorire l'incontro, confronto,
contaminazione tra soggettivita' nuove  e tradizionali, e' il punto di
partenza per sperare in un blocco sociale portatore di una progettualita'
che vada ben oltre il produttivismo con cui si intreccia tanta parte del
pensiero del movimento operaio, per ricercare le forme di un modello di
sviluppo economico e sociale non governato dal puro calcolo economico.

Sono questioni che chiamano in causa la sinistra nel suo complesso,
politica e sindacale, la cui stessa sorte dipende dalla volonta' e
capacita' di cogliere, interpretare i discorsi del movimento, sollecitare
il confronto e la ricerca, in primo luogo, degli strumenti per il controllo
delle decisioni, per implementare un processo di democratizzazione da
dispiegare  a tutti i livelli: da quello locale sino ad arrivare ai grandi
centri di decisione politica ed economica, alla creazione, attraverso
l'ONU, di una struttura mondiale di regolazione e controllo delle attivita'
economiche e finanziarie.

In questo senso sembra avviarsi il discorso anche all'interno del composito
socialismo europeo (cfr. Sami Nair, La barbarie dal volto mercantile, in
"l'Unita'", 2 agosto 2001, p. 27), finora poco presente nel dibattito sulla
globalizzazione e che necessita di un punto di vista critico per sottrarsi
alla omologazione alle politiche economiche neoliberiste e ai conseguenti
contraccolpi politico-elettorali che non poco sono costati ai democratici
di sinistra italiani.

In questo quadro si colloca il favore espresso dai socialisti francesi per
la tassazione delle transazioni finanziarie internazionali e l'impegno ad
avanzarne la messa in atto nelle sedi internazionali. La Tobin tax  sembra
essere poca cosa, espressione, secondo alcuni, di un "riformismo debole",
ma che di fatto restituisce ai governi nazionali almeno parte del potere di
controllo  sui movimenti finanziari, ma soprattutto mette in discussione
uno dei dogmi della filosofia liberista: l'inviolabilita' della libera
circolazione dei capitali.



4. MAESTRI. FILOMENA PERNA INTERVISTA PIETRO PINNA

[Ringraziamo Filomena Perna (per contatti: f.perna@unifg.it) per averci
messo a disposizione questa sua intervista a Pietro Pinna realizzata questa
estate. Pietro Pinna, primo obiettore di coscienza al servizio militare,
collaboratore di Aldo Capitini e di Danilo Dolci, infaticabile promotore
della nonviolenza, e' una delle figure di riferimento per i movimenti e le
iniziative per la pace. Tra gli scritti di Pietro Pinna cfr. La mia
obbiezione di coscienza, Edizioni del Movimento Nonviolento; numerosi suoi
contributi sono stati pubblicati in vari volumi]

Pietro Pinna rappresenta l'anima antimilitarista del movimento nonviolento.
Il movimento nonviolento nasce in Italia ad opera del filosofo antifascista
Aldo Capitini, negli anni immediatamente successivi alla II guerra
mondiale. La teoria nonviolenta di Capitini, rivoluzionaria (1) nella sua
essenza, doveva offrire, nelle intenzioni del filosofo, una soluzione alla
crisi morale e intellettuale del tempo. Attraverso il rifiuto della
violenza (che secondo l'antifascista perugino caratterizzava  la vita
sociale italiana di quegli anni) si potevano emancipare le coscienze e
scuotere gli italiani dall'"indifferentismo morale" (Carlo Rosselli) che li
caratterizza (2).

- Quando si e' avvicinato per la prima volta al movimento nonviolento?

- Ero giovane, ma non poi tanto. Fino ai trentacinque anni lavoravo in
banca, poi sono andato con Danilo Dolci in Sicilia, dove ho lavorato nel
"Centro studi e iniziative per la piena occupazione".

- Ah, quindi ha lavorato con Dolci. Come ricorda quell'esperienza?

- E' stata straordinaria.

- Quando e' cominciato il rapporto di collaborazione con Capitini?

- Nel 1962. Capitini mi chiese se potevo collaborare con lui ad un progetto
di sviluppo per la pace. Ho lavorato con Capitini a Perugia fino all'anno
della sua morte, avvenuta nel 1968. Poi ho continuato ad occuparmi della
direzione del movimento fino al '90.

- Puo' raccontarmi la storia del suo rifiuto del servizio militare? So che
lei e' stato il primo obiettore di coscienza nel nostro Paese. Quali furono
le motivazioni profonde del suo gesto?

- All'epoca, nel '48, si era appena usciti dalla tragedia della guerra.
Guerra che aveva segnato in maniera indelebile gli anni della mia
adolescenza. Allora non conoscevo i presupposti teorici del movimento
nonviolento. Non avevo letto Gandhi. Semplicemente, avevo vissuto gli
orrori delle stragi, dei bombardamenti, e mi ripugnava l'idea di diventare
parte di uno strumento, l'esercito, che e' essenziale all'azione bellica.
Sa qual e' l'immagine piu' laida della guerra che io conservo nella mia
memoria? E' quella di una casa sventrata. Ha letto Bassani?

- Il giardino dei Finzi-Contini, si'...

- No, non parlo di quel libro. Ma di Una notte del '43, lo conosce?

- Ah, una delle Cinque storie ferraresi... No, mi dispiace.

- Bene, quel racconto narra di un episodio che accadde a Ferrara in quegli
anni e del cui esito io sono stato testimone involontario. C'era stato un
eccidio compiuto dai repubblichini, durante la notte, e il mattino dopo,
mentre andavo al lavoro, ho visto i cadaveri abbandonati per la strada come
monito per la popolazione... Fu allora che i repubblichini crearono
l'espressione "bisogna ferrarizzare l'Italia". Poi sono stato testimone dei
rastrellamenti tedeschi, delle scene di terrore provocate dai
bombardamenti. Non le sembra sufficiente per diventare antimilitarista?

- Lei e' credente?

- Non sono religioso nel senso tradizionale del termine. Non sono ne'
cristiano, ne' induista, ne' mussulmano, ne' buddista... sono religioso nel
senso in cui lo era Leopardi, nel senso, cioe', che credo profondamente nel
rispetto dell'essere umano. Inoltre i valori che il fascismo aveva cercato
di inculcare nei giovani italiani, per me, dopo l'esperienza della guerra,
non avevano piu' senso.

- Che cos'e' per lei l'obiezione di coscienza?

- E' l'impegno a rifiutare la partecipazione alla preparazione e
all'effettuazione della guerra. Nel '48 non esisteva, in Italia,
l'obiezione di coscienza, non era prevista neanche come reato. Il reato per
il quale mi condannarono fu quello di "rifiuto di obbedienza". Prima del
mio c'erano stati solo due casi di obiezione, chiamiamoli cosi'. Si
trattava di due testimoni di Geova.

- Possiamo dire che il suo fu un rifiuto assoluto?

- Si'. Un rifiuto basato su un principio applicato intuitivamente. Don
Milani diceva che e' delinquente non solo chi ruba, ma anche chi para il
sacco. Per me la guerra e' un crimine collettivo. Non volevo sentirmi
complice di questo crimine.

- A quando risale il suo primo incontro con Capitini?

- Lo avevo incontrato casualmente a Ferrara, la mia citta', una domenica
mattina, per strada. Doveva aver partecipato a un incontro sulla riforma
della religione. In quell'occasione avevano distribuito dei volantini con
l'indirizzo di Capitini. Cosi' gli ho scritto. Volevo sapere quali potevano
essere le conseguenze legali del gesto che stavo per compiere. Non mi
rispose. In seguito, quando del mio caso cominciarono ad occuparsi i
giornali, mi scrisse che non mi aveva risposto perche' non voleva spingermi
ad un'azione che mi sarebbe costata molto cara.

- Quando le hanno fatto la prima perizia psichiatrica?

- Dopo cinque mesi di carcere.

- Ha sofferto molto in carcere?

- La cosa che mi mancava di piu' era il verde, li' vivevo circondato dal
cemento. Poi ho fatto un periodo di cella di rigore. A volte il caporale,
per troppo zelo, mi portava il rancio un'ora dopo e allora era proprio
immangiabile. Ero un traditore della Patria...

- C'e' stato qualche momento in cui ha sentito di non farcela?

- C'e' stato un momento in cui ho perso la pazienza, invece. Una volta un
colonnello mi chiese se non pensavo a mia madre, al dolore che le davo.

- E lei cosa gli ha risposto?

- Ebbene, a quel punto mi sono seccato. "Mia madre", gli ho detto, "soffre,
ma non per il mio gesto. Pensi lei, piuttosto, a tutte le madri a cui hanno
stroncato i figli in guerra".

- Quale fu l'esito della perizia?

- Sufficiente capacita' d'intendere e di volere. Cosi' si fece il processo
e il mio caso comincio' ad avere qualche eco sui giornali dell'epoca.
Immagini un po': si era in piena guerra fredda. Non poteva essere visto di
buon occhio uno che si rifiutava di servire la Patria.

- Capitini la aiuto' durante il processo?

- Si'. Aveva amici nel Parlamento inglese. In Inghilterra esisteva da tempo
una legge sull'obiezione di coscienza. Ventitre parlamentari inglesi
scrissero a De Gasperi e gli sottoposero il mio caso. De Gasperi rispose
che, in quanto presidente del Consiglio, era soggetto, per la legge
italiana, al Parlamento. E poi, che bisognava essere cauti a introdurre una
legge sulla falsariga di quella inglese in Italia. Si sarebbero svuotate le
caserme.

- A quanto venne condannato?

- A dieci mesi. Il Pubblico Ministero aveva chiesto un anno e mezzo.

- Intanto quanto tempo aveva passato in carcere in attesa del processo?

- Sette mesi. Venni richiamato, non appena si concluse il processo, perche'
il tempo passato in carcere non conta come servizio militare.

- Quindi inizio' tutto daccapo?

- Si'. Solo che a quel punto ero stanco. Alla fine, ero ad Avellino, mi
denunciarono di nuovo. Dopo cinque giorni di istruttoria, con un avvocato
d'ufficio che fece un'arringa contro l'obiezione di coscienza e che
scandalizzo', per questo, Roberto Calo', mi mandarono a Napoli. Sa una
cosa? Ero orgoglioso di trovarmi nel carcere che aveva ospitato, a suo
tempo, Giuseppe Mazzini. Mi condannarono a otto mesi, questa volta.

- E' vero che rifiuto' l'amnistia?

- Si'. Era la fine del '50. Per l'Anno Santo si prospettava un'amnistia.

- E lei fece di tutto, invece, per restare in galera...

- Si'. Mi sbatterono subito in cella di rigore. La cella di rigore di una
caserma e' molto piu' dura del carcere e cominciavo ad accusare la
stanchezza.

- Pero' tenne duro...

- Sa che alla fine avevo tantissimi amici tra le guardie delle carceri
militari? Erano ragazzi dell'ultimo periodo di leva e li aiutavo a scrivere
le lettere alle fidanzate. Avevo girato un po' d'Italia, anche...

- Come e' andata a finire?

- Le autorita' decisero che bisognava chiudere la faccenda al piu' presto.
Senza fare altro rumore. C'era il pericolo che potessi fare proseliti.
Cosi' mi congedarono per nevrosi cardiaca. Sa quanta gente viene congedata
per nevrosi cardiaca? E' una malattia difficilmente riscontrabile. Fu una
comoda scappatoia per loro.

- Torniamo al movimento nonviolento. Puo' riassumere con una formula il
punto centrale del pensiero nonviolento?

- E' molto semplice: disarmo unilaterale, integrale e immediato. Capisce
cosa voglio dire?

- Si'. Molto rivoluzionario...

- Quando, piu' di vent'anni fa, in Italia ferveva il dibattito sul
terrorismo, fui molto criticato perche' dissi che i terroristi sono sempre
dei dilettanti che hanno preso esempio dallo Stato. Lo Stato e' il
terrorista professionista che essi cercano di imitare.

- Il suo antimilitarismo e' radicale e assoluto.

- Certo.

- Che cosa dovrebbe fare uno Stato che decida di seguire i precetti della
nonviolenza?

- Cominciare a cambiare mentalita'. Disarmarsi. Per sempre. A livello
internazionale bisognerebbe, poi, superare il concetto della sovranita'
assoluta degli Stati. L'ONU ha solo un potere fittizio sugli Stati, al
giorno d'oggi, come lei sa bene.

- Secondo lei e' davvero possibile che qualche governo adotti una soluzione
del genere?

- Siccome difficilmente potra' avvenire sul piano politico, il disarmo
unilaterale lo si puo' realizzare dal basso. E' qui che devono dare un
contributo le Chiese, i partiti e tutti gli uomini di buona volonta'... il
popolo, insomma. Questa era l'idea di Capitini.

- Ma il disarmo unilaterale non potrebbe costituire un rischio per lo Stato
che lo adotta?

- Sa cosa rispondeva Capitini a questa obiezione? Che potremmo anche
arrivare a pensare che un popolo che si sacrifichi fino a questo punto
diventi un popolo-Cristo. Un popolo che accetta la croce per salvare
l'umanita'. La pace per tutti e' ancora il problema piu' urgente. Ha notato
che non esistono piu' da tempo i Ministeri della Guerra? Molto
ipocritamente si chiamano Ministeri della Difesa. Dovremmo avere un po'
piu' di onesta' intellettuale e chiamare le cose con il loro nome! Non
possiamo piu' permetterci di accettare queste mistificazioni.

- Il disarmo unilaterale implica nell'ottica nonviolenta una qualche forma
di resistenza alle aggressioni? O corrisponde in pieno al precetto
evangelico "porgi l'altra guancia"?

- Il disarmo unilaterale non e' accettazione passiva. Prevede una forma di
resistenza. La stessa che adottavano Gandhi e i suoi seguaci al tempo della
lotta per la liberazione dell'India dal dominio coloniale britannico. Che
si chiamava resistenza pacifica. E che abbiamo adottato anche noi, durante
le manifestazioni, nei confronti della polizia. Pensi, oltre che a Gandhi e
al successo che ebbe la sua formula nel processo di liberazione del suo
paese, anche a Martin Luther King, a Nelson Mandela... perche' non attuare
questa tecnica  anche nei conflitti tra Stati?

- Pero' siamo lontani da una prospettiva di successo a breve scadenza.

- Capitini diceva che il fuoco si accende sempre da un punto. Anche la
resistenza cecoslovacca per tanti aspetti e' stata ritenuta una lotta
nonviolenta. La nonviolenza offre l'unico antidoto alla minaccia
dell'annientamento dell'umanita'.

- Come giudica la posizione della Chiesa cattolica nei confronti della guerra?

- Secondo me, per la Chiesa la questione della guerra e' il banco di prova
definitivo. Purtroppo la guerra e' accettata in pieno.

- Mi parli un po' di quei sei anni passati con Capitini.

- Il movimento allora era come un bambino in fasce. Aveva costantemente
bisogno del nostro lavoro, delle nostre attenzioni. Il movimento agiva in
due direzioni principali: il pensiero  (asfittico senza l'azione) e
l'azione (cieca senza il pensiero).

- Che bella immagine...

- Il nostro giornale, "Azione nonviolenta", sembrava un bollettino
parrocchiale. Non si aveva neanche il tempo per chiacchierare, per
discutere, il lavoro assorbiva tutte le nostre energie. Eravamo in dieci
all'inizio, nel movimento. Poi subito dopo siamo arrivati a un centinaio,
una bella conquista.

- Com'erano i rapporti con le forze dell'ordine? Avevate problemi durante
le manifestazioni?

- I rapporti con la polizia ci impegnavano tantissimo. Non avevamo molte
conoscenze giuridiche in proposito. Ce le siamo fatte con il tempo e
l'esperienza.

- Si ricorda la prima manifestazione?

 - Si', era a Milano. Ci avevano detto che non potevamo manifestare. Allora
siamo usciti per strada, uno alla volta - sa, per fare una manifestazione
ci vogliono almeno tre persone -  con la scritta "una legge per l'obiezione
di coscienza" sulla camicia. Alla fine ci siamo ritrovati tutti in caserma.
E poi adottavamo il principio gandhiano della resistenza pacifica. A volte
li sconcertavamo un po' i poliziotti.

- E le marce per la pace?

- Ebbene, ricordo quelle degli anni settanta, con Pannella e i radicali.
Pannella era allora un antimilitarista molto rigoroso...

- Come vede il futuro dell'umanita'?

- C'e' una sola speranza, secondo me, per il nostro futuro. Il disarmo. Il
ripudio della guerra. Senza mistificazioni di sorta (una guerra di difesa
e' pur sempre una guerra). Ma non e' un obiettivo che riusciremo a
realizzare a breve termine. Noi abbiamo solo iniziato.

- E il futuro del movimento nonviolento?

- Credo che sia ormai un concetto affermato in culture anche molto diverse
tra di loro che la pace sia una necessita' fondamentale per tutti. Ma il
cammino che dobbiamo percorrere e' ancora lungo.

* Note

1. Cfr. il saggio di  Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una
biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Segantini, Pisa
1998.

2. Come osserva Antonio Vigilante in Religione e nonviolenza in Aldo
Capitini, (intervento alla Tavola Rotonda su "Nonviolenza e religione",
Perugia, Centro San Martino, 23 settembre 2000, disponibile su Internet
all’'ndirizzo:
http://www.citinv.it/associazioni/ANAAC/scritti/vigilante1.htm) le cause di
questo indifferentismo morale erano da Rosselli ricondotte all'influenza
negativa dell'educazione cattolica, "pagana nel culto e dogmatica nella
sostanza", che ha impedito la nascita negli italiani d'un pensare autonomo,
libero, responsabile; e il fascismo non era che il risultato ovvio della
storia di un popolo abituato da secoli all'obbedienza, al lasciar fare).



5. INCONTRI. PROGRAMMA DEL SEMINARIO SUILLA NONVIOLENZA AL FORUM SOCIALE
EUROPOEO DI FIRENZE

[Ringraziamo Enzo Mazzi per averci inviato il programma (ancora
provvisorio) di questo importante seminario]

Forum sociale europeo, Firenze 6-10 novembre 2002

Seminario: La nonviolenza come rivoluzione? alle radici della violenza e
della guerra nelle sistemazioni religiose e culturali, in particolare in
quelle che connotano l'identita' europea.

Si sta diffondendo la convinzione che la nonviolenza non e' piu' solo
utopia da profeti e sognatori, nobile ma irrazionale idealita', come finora
e' stata considerata.

La nonviolenza sta soppiantando il suo opposto, cioe' la violenza, come
nuovo fondamento della razionalita'.

La lotta per la sopravvivenza della specie ha inventato l'antagonismo e la
guerra e le ha dato i connotati della razionalita', informando di violenza
tutti gli aspetti della civilta': economia, culture, diritto, religioni,
relazioni interpersonali e di genere. Oggi, di fronte al baratro della
mostruosita' distruttiva degli arsenali bellici e di fronte alla percezione
nuova che ha l'umanita' di essere un'unica famiglia in una minuscola
fragile casa, la stessa lotta per la sopravvivenza sta scoprendo la
nonviolenza come unica riserva di vita.

E' un vero processo rivoluzionario lento e sotterraneo che a noi
vedenti/ciechi e' appena percepibile per segni. Ed e' una rivoluzione
globale che cioe' investe tutti i campi del convivere. Investe in
particolare le religioni e i grandi sistemi ideologici.

Occorre aprire gli occhi, andare oltre il pacifismo settoriale che condanna
la guerra e le sue cause politiche/economiche, ma e' timido di fronte alle
cause profonde.

E' urgente analizzare le radici della violenza ovunque esse si annidino, in
modo da partecipare piu' consapevolmente ed efficacemente alla scommessa
della nonviolenza come processo rivoluzionario globale e non solo come
istanza moralistica. Riteniamo che sia questo il modo piu' autentico per
recuperare in positivo, nell'orizzonte nuovo della nonviolenza, i valori
della liberazione nelle esperienze perennemente generative delle religioni
e culture e in particolare del cristianesimo e del marxismo.

Il seminario si rterra' a Firenze giovedi 7 novembre o venerdi 8 novembre,
alle ore 14,30, alla Fortezza da basso.

Intervengono:

- Enzo Mazzi (della Comunita' dell'Isolotto): Alle radici della violenza e
della guerra nelle sistemazioni religiose e culturali, in particolare in
quelle che connotano l'identita' europea.

- Giulio Girardi (teologo della liberazione, Forum Mondiale delle
Alternative): La funzione della violenza nei grandi sistemi ideologici:
liberale/capitalista e marxista/comunista.

- Eliasabeth Green (teologa, pastora valdese): Le radici della violenza e
della guerra nella cultura patriarcale.

Moderatore: Romano Madera (antropologo e psicanalista).

Promotori: Comunita' cristiane di base, Pax Christi, Associazione Culturale
Punto Rosso-Forum mondiale delle alternative, ARCI, Centro ecumenico Agape
(valdesi), Noi siamo Chiesa, Cgil Lavoro Societa', Cambiare Rotta, Beati i
costruttori di pace, Rete di Lilliput e altri in via di definizione fra cui
Fiom, Agesci.

Nota: il programma del seminario e' ancora suscettibile di modifiche.



6. INCONTRI. CLAUDIA FANTI: RESOCONTO DEL SEMINARIO DELLA RETE DI LILLIPUT
SULLA NONVIOLENZA

[Questo articolo e' apparso su "Adista" n. 73 del 2002. Per contatti:
"Adista", notizie, documenti, rassegne, dossier su mondo cattolico e
realta' religiose, via Acciaioli 7, 00186 Roma, tel. 066868692 -
0668801924, fax 066865898, sito: www.adista.it]

"Non ho nulla da insegnare - diceva Gandhi -. La nonviolenza e' antica come
le montagne". E se e' vero che l'umanita' sembra particolarmente
predisposta a smarrirne spirito e messaggio, c'e' anche chi, tuttavia,
l'antico insegnamento non l'ha dimenticato. E ora vuole rilanciarlo, e
tradurlo in azione.

E' questo il tentativo - e, ancor piu', la scelta di campo - della Rete di
Lilliput, che il principio della nonviolenza considera parte del suo stesso
Dna. Ma e' in particolare negli ultimi mesi che la Rete ha dato il via a
una serie di gruppi di studio, seminari, training e percorsi di formazione
sul tema, culminati nel seminario "La nonviolenza: attivarsi per un mondo
diverso", svoltosi a Ciampino dal 27 al 29 settembre.

E' in questa sede che Lilliput ha lanciato la proposta di dare vita, presso
ogni nodo della Rete, ai Gruppi di Azione Nonviolenta (Gan): uno strumento
di azione - secondo la definizione del Gruppo tematico su nonviolenza e
conflitti - attraverso cui le campagne lillipuziane possono agire con il
metodo nonviolento, secondo la gandhiana "legge della progressione", che
prevede il passaggio graduale dalle forme piu' blande di azione a quelle
via via piu' incisive e radicali, fino alla realizzazione dell'obiettivo
stabilito (per poi passare ad uno nuovo). I Gan sono chiamati ad agire
sulle conseguenze dei fenomeni globali nel tessuto locale, attivando un
conflitto, attraverso il metodo nonviolento, sul tema piu' sentito dalla
comunita'; possono costituire, riuniti tra loro in una rete diffusa sul
territorio nazionale, un presidio democratico di fronte all'involuzione
autoritaria in corso nel nostro paese; e possono operare anche in appoggio
ai corpi civili di pace all'estero.

E tanto piu' necessari sono i Gan di fronte all'attuale contesto
internazionale: "mai prima d'ora - ha affermato Pasquale Pugliese,
referente Gan per il Gruppo tematico sulla nonviolenza - l'umanita' si era
trovata dinanzi a una disparita' economica di tali proporzioni. E a un
tentativo cosi' chiaro di trasformare in senso violento il conflitto,
sociale ed ecologico. Di fronte a tale situazione, la Rete di Lilliput e'
chiamata a impegnarsi in una doppia direzione: sui contenuti, al fine di
ridurre il nostro impatto sull'ambiente, la nostra impronta ecologica, e
sulla metodologia, allo scopo di trasformare il conflitto in senso
nonviolento, superando cosi' la scissione storica tra etica e politica, tra
mezzi e fini".

Dal dirsi nonviolenti al fare nonviolenza, tuttavia, ce ne e' di strada da
fare: non basta certo limitarsi a non tirare pietre contro le vetrine.
Occorre avviare, per prima cosa, percorsi di formazione teorico-pratica
alla nonviolenza, una formazione che - come da piu' parti e' stato
sollecitato - sia immediatamente mirata all'azione, sia essa stessa gia'
costruzione di azione. "Abbiamo una grande responsabilita' - ha concluso
Pugliese - rispetto alle altre componenti del movimento: noi siamo quelli
che parlano di nonviolenza. E gli altri si aspettano da noi che cominciamo
a farla".

La riflessione sulla nonviolenza non puo' non ripartire in qualche modo da
Genova. "Gia' durante il 2001 - e' stato sottolineato - e soprattutto in
occasione dei tre giorni di Genova, ci si e' resi conto che non sono
sufficienti le dichiarazioni di intenti. I drammatici fatti durante il G8
hanno aperto gli occhi a molti lillipuziani convincendoli che nonviolenza
non e' solo affrontare a mani alzate la polizia in una piazza. In tanti
hanno compreso che il metodo nonviolento va studiato, condiviso e
soprattutto applicato". Ma molti lillipuziani non ci stanno a fare un
processo a Genova: il progetto di formazione alla nonviolenza avviato prima
del G8 - ha affermato in particolare il nodo genovese - "e' stata
l'esperienza piu' strutturata, pensata e voluta degli ultimi anni,
producendo anche risultati interessanti, come il blocco di piazza Portello.
I Gan non possono non ripartire da li'".

*

Se e' vero, come dice il teorico della nonviolenza Johan Galtung, che la
violenza e' sempre sbagliata, non e' detto che la nonviolenza funzioni
sempre. Ma e' un fatto, ha sottolineato Alberto L'Abate dell'Universita' di
Firenze durante il seminario della Rete di Lilliput, che "se la lotta
armata tende a compattare l'avversario, quella nonviolenta punta invece a
dividerlo, ricevendo inoltre l'appoggio di terzi". Diverse le condizioni
che determinano l'efficacia di un'azione nonviolenta: L'Abate sottolinea,
tra l'altro, l'esigenza di un lavoro di informazione e controinformazione
diretto all'allargamento del consenso, l'importanza di un'accurata
preparazione, con tanto di simulazioni dell'azione da compiere, la
necessita' di operare su piu' livelli, compreso quello interno alle
istituzioni, e in collegamento internazionale (come insegna Porto Alegre);
l'utilita' di cogliere le circostanze esterne facilitanti (come e' stata
Cernobyl nelle lotte contro il nucleare). Necessaria, infine, in ogni lotta
nonviolenta, l'esistenza di un progetto costruttivo chiaro, di una visione
del futuro verso cui muoversi.

E' qui che il tema della nonviolenza si incrocia con quello di un modello
alternativo al sistema capitalista. Non c'e' piu' molto tempo per agire,
sottolinea Nanni Salio del Centro Studi Sereno Regis, se non vogliamo
essere travolti dalla catastrofe planetaria: c'e' chi addirittura indica
nel 2030-2050 il punto di non ritorno. Eppure, secondo Salio, un modello
alternativo e' gia' sotto i nostri occhi: il modello di economia
nonviolenta basato sulla semplicita' volontaria, "quel tipo di economia di
autosufficienza gia' praticato, per quanto non volontariamente, da una
parte significativa dell'umanita'".

Secondo l'economista Alberto Castagnola, pero', la situazione reale e'
quella di "un unico modello dominante, imposto come assoluto, senza
possibilita' di alternativa: una situazione estremamente violenta - di un
grado di violenza che non ci e' ancora forse perfettamente chiaro -, in cui
siamo obbligati a pensare tutti allo stesso modo". Di fatto, secondo
Castagnola, "lavoriamo senza avere un modello alternativo" e con "un
livello di coscienza ancora basso", "quasi infantile": "cerchiamo di
sottrarci ai condizionamenti del sistema con comportamenti minimali, magari
bevendo meno coca-cola". In verita', sottolinea l'economista, "noi
lavoriamo all'interno del sistema stesso: le nostre attivita' sono solo
controprove del fatto che e' possibile avere un modello alternativo, non la
dimostrazione che questo modello alternativo e' gia' presente".

Il potenziale della Rete, tuttavia, non e' stato ancora impiegato come
potrebbe: "nessuno si e' mai chiesto cosa fare di questa massa critica di
700 gruppi, che tipo di forza puo' avere, che tipo di incisivita' puo'
raggiungere".

L'interrogativo riguarda, secondo Deborah Lucchetti del nodo di Genova, la
capacita' di analisi strategica: "qual e' la strategia che proponiamo? Per
arrivare dove? Intorno a quali obiettivi e finalita' vogliamo mobilitarci?".

Castagnola suggerisce delle direzioni verso cui muoversi: la questione
ambientale, i bilanci partecipativi, il problema, ancora tutto da studiare,
di quella poverta' di massa creata dalla globalizzazione. E, naturalmente,
la nonviolenza: "tutti i partecipanti di un nodo - conclude - dovrebbero
sapere cos'e' la nonviolenza attiva e almeno la meta' di loro dovrebbe
essere pronta a scendere in strada secondo questo metodo".

*

Sulla scelta irreversibile e "finalmente chiara" della nonviolenza attiva
si sofferma anche padre Alex Zanotelli nell'intervento conclusivo del
seminario: una scelta, che, afferma, "deve diventare visibile, deve farsi
cultura, anche all'interno della Chiesa. E' Gesu', il primo disobbediente
della storia, che ha inventato la nonviolenza. E, se questo e' vero, allora
dobbiamo concludere che Dio non e' violento, e che dunque nessuna violenza
ci si puo' mai aspettare da Dio. La violenza viene da ognuno di noi, e'
qualcosa con cui ciascuno deve fare i conti". Ma la trasformazione
personale non basta: "in base alla teoria marxista - ha affermato Zanotelli
-, se cambia il sistema cambiera' di conseguenza anche l'uomo; in base a
quella cristiana, se cambia la persona cambiera' di conseguenza anche la
societa'. In realta', bisogna combinare le due dimensioni: quella della
conversione dei valori e quella della traduzione dei valori in strutture,
culture, antropologie". Zanotelli pone infine l'accento sull'importanza
della comunita': "i Gan non devono ridursi ad operazioni meccaniche, ma
diventare piccole comunita', che consentano di riscoprire quella dimensione
affettiva che viene negata dall'Impero. E sono le diverse comunita' e
gruppi che formano quello che chiamiamo societa' civile organizzata, la
quale deve diventare sempre piu' un soggetto politico forte, portatore di
valori nuovi e disposto ad operare con l'unico metodo della nonviolenza".

Zanotelli non risparmia qualche critica ai lillipuziani: "la Rete di
Lilliput e' stata creata per aiutare la base ad avere un maggiore impatto
politico e a reagire in maniera forte di fronte alle emergenze. Eppure,
riguardo alla legge Bossi-Fini, e' mancata una reazione decisa della Rete.
Ora mi attendo una risposta forte ed efficace sulla guerra". "La guerra -
ha detto - va scongiurata a tutti i costi e se Berlusconi seguira' George
Bush nell'attacco alla popolazione irachena dovra' farlo contro l'opinione
pubblica italiana. La Rete di Lilliput e la societa' civile italiana devono
muoversi compatti per esaltare il dissenso alla guerra espresso dal 70% dei
cittadini italiani".

*

Se Zanotelli ha avanzato alcune critiche ai lillipuziani, non sono mancate
neppure, da parte della Rete, delle riserve sul suo intervento conclusivo,
risultato, secondo alcuni, troppo sbilanciato sul versante cattolico. Ed e'
cosi' che, sulla mailing list lillipuziana, si e' tornati a parlare della
necessita' di marcare la propria indipendenza da Zanotelli (senza con cio'
negare l'importanza di averlo "come alleato e come grande amico") e,
soprattutto, di non cadere nell'identificazione della Lilliput come
organizzazione cattolica: rischio contro cui insorge la non insignificante
componente laica (atea, libertaria, comunista) della Rete. Una discussione
non nuova, come dimostra la recente polemica con Luigi Manconi, il quale,
oltre a definire tra l'altro Lilliput come "la forma contemporanea
dell'antica attivita' 'missionaria' dell'associalismo cattolico", aveva
ravvisato persino la vicinanza di una parte dei lillipuziani all'area
Buttiglione, scatenando le durissime reazioni di questi ultimi (v. "Adista"
n. 63/02).

Quanto alla critica di Zanotelli sui ritardi della Rete, la Lilliput ha
risposto sottolineando la priorita', per i prossimi mesi, dell'impegno
contro la guerra in Iraq: attraverso la campagna "Pace da tutti i balconi"
(v. "Adista" n. 71/02), la partecipazione alle diverse iniziative in
programma, la realizzazione di azioni dirette simboliche, per esempio
davanti a basi Nato o industrie di armi, e il lancio della "Campagna di
obiezione di coscienza del/la cittadino/a per il disarmo economico e
militare", con l'indicazione degli strumenti disponibili per esprimere il
rifiuto della violenza "sui due lati della cultura del dominio: il modello
economico (della produzione, degli scambi e dei consumi) e il modello
difensivo (della tutela da aggressioni e della tutela del diritto)".



7. LETTURE. "MICROMEGA": NON PERDIAMOCI DI VISTA!

"Micromega", Non perdiamoci di vista!, supplemento al n. 3/2002 di
"Micromega", pp. 96, euro 5. Una appassionante raccolta di interventi di
alcuni dei protagonisti del movimento che si batte per la legalita' e la
democrazia nel nostro paese.



8. RILETTURE. GERARD HOUVER: JEAN E HILDEGARD GOSS. LA NONVIOLENZA E' LA VITA

Gerard Houver, Jean e Hildegard Goss. La nonviolenza e' la vita,
Cittadella, Assisi 1984, pp. 152. Un colloquio con due grandi figure della
nonviolenza.



9. RILETTURE. JOAN ROBINSON: LIBERTA' E NECESSITA'

Joan Robinson, Liberta' e necessita', Einaudi, Torino, 1971, 1972, pp. 154.
Una introduzione della grande economista allo studio delle scienze umane.



10. RILETTURE. TZVETAN TODOROV: NOI E GLI ALTRI

Tzvetan Todorov, Noi e gli altri, Einaudi, Torino 1991, pp. XX + 482. Uno
dei grandi libri di Todorov, che qui analizza "la riflessione francese
sulla diversita' umana". Con una folgorante premessa dell'autore. Noi
crediamo che Todorov sia un autore indispensabile per una cultura della
dignita' umana e della nonviolenza.



11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova
il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.

Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:

1. l'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dellâambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dellâuomo.

Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.

Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio,
l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.



12. PER SAPERNE DI PIU'

* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org;
per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it

* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in
Italia: http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it

* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it



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con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it



Numero 381 dell'11 ottobre 2002