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Punti di vista a una anno da Genova



Ecco qui sotto e l'articolo su Genova un anno dopo che uscirà giovedì nello 
speciale del manifesto.
Ciao
Mario






Articolo per il manifesto, speciale Genova un anno dopo, 17 luglio 2002


Punti di vista a una anno da Genova
Il ciclo dei movimenti globali

Mario Pianta


Sono molti gli atteggiamenti che si possono avere guardando all'anno 
trascorso dal G8 di Genova. Il più superficiale - ma non meno autentico - è 
un sospiro di sollievo. L'incubo di una cancellazione sistematica dei 
diritti democratici, sperimentata nel luglio di un anno fa, si è 
allontanato, grazie all'estensione dei nuovi movimenti, alla diffusissima 
solidarietà dell'opinione pubblica, alle nuove mobilitazioni sui temi dei 
diritti sindacali. L'insieme della società civile italiana (intrecciata a 
quella internazionale) è oggi più solida e consapevole del ruolo che può 
svolgere. Anche le istituzioni hanno avuto qualche reazione positiva. Le 
inchieste della magistratura sulle violenze delle forze dell'ordine a 
Napoli e Genova sono quello che ci si aspetta debba succedere in uno stato 
democratico, dove dovrebbero concludersi con l'accertamento delle 
responsabilità. Anche le forze politiche hanno avuto piccoli sussulti di 
attenzione in questi dodici mesi, compreso l'affollamento di parlamentari 
al Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel gennaio scorso.
La seconda, opposta, reazione può essere di delusione. Ma come, dopo le 
"gloriose giornate" di un anno fa siamo tornati tutti a casa? Si lascia il 
campo al teatrino della politica nazionale, con appena qualche variante 
sindacale? Una sequenza di cortei meno partecipati e una caduta di 
attenzione nei media può aver condotto a una caduta di adrenalina nei 
militanti più autoreferenziali. Di qui l'ansia sulla "crisi del movimento", 
dimenticando che stiamo parlando di movimenti globali, ben più vasti delle 
tattiche di casa nostra.
Il terzo atteggiamento è tinto di autocompiacimento. Genova, bene o male, 
ha cambiato il corso degli eventi. In Italia ha fermato le tentazioni 
antidemocratiche, ha aperto la via a girotondi borghesi e cortei operai. 
Nel mondo ha messo a nudo l'illegittimità e l'inefficacia del G8 e del 
sistema di governo della globalizzazione neoliberista. E i protagonisti 
sono stati nuovi movimenti, associazioni messe in rete per la prima volta, 
ragazzi alla prima manifestazione: un eccellente esempio di come 300 mila 
piccoli Lillipuziani possono riuscire a legare i Gulliver del potere. E 
riuscire perfino a sopravvivere alla tragedia dell'11 settembre e alla 
"guerra permanente contro il terrorismo" che ne è seguita.
Lasciamo da parte altre varianti minori, come il cinismo della realpolitik 
delle vecchie culture politiche, il diffuso disorientamento dei 
giovanissimi, la nostalgia per l' estetismo dell'azione dei 
"disobbedienti", il diffidente autoisolamento di molti cattolici, o 
l'impazienza di ridurre un movimento globale nell'angusta cornice della 
politica nazionale.
Se c'è del vero in ciascuna di queste reazioni, spesso mescolate in 
proporzioni variabili in tutti quelli che da Genova sono stati segnati, non 
avrebbe senso descrivere lo stato del movimento sulla base di questi 
sguardi rivolti al passato. Piuttosto, per capire che cosa sta accadendo, è 
utile prestare attenzione alla varietà dei punti di vista, dei terreni su 
cui collocarsi e da cui guardare e intervenire sul mondo. Sapendo che non 
si sta guardando una fotografia di forze in campo predefinite, ma che si 
guarda l'immagine mossa  dell'evoluzione di soggetti sociali, identità e 
azioni collettive. Come si può pensare a un movimento (per di più globale) 
senza metterne al centro la capacità di cambiare e di farsi cambiare, nelle 
idee, rappresentazioni, campagne, obiettivi?
Su questo, com'è noto, i principali terreni scelti da chi si muove nella 
società civile sono tre: la protesta, la pressione e il progetto (se ne 
parla anche in Mappe di movimenti. Da Porto Alegre al Forum sociale 
europeo, una raccolta di analisi appena pubblicata da Asterios).
Genova è stata soprattutto una enorme protesta contro il G8 e tutto quello 
che rappresenta, ed è stata efficace. Ma ha senso mettere in cantiere 
altrettante Genova sulla Nato e la Fao, sull'Omc e l'Unione Europea? Qual è 
il valore aggiunto dell'ennesima manifestazione nazionale o di un corteo al 
prossimo Forum sociale europeo di Firenze? Limitarsi alla logica della 
protesta, anche se con lo sguardo rivolto alla Genova del 2001, rischia di 
abbreviare prematuramente il ciclo di vita dei nuovi movimenti e di 
restringerne fortemente l'area di consenso; sul terreno della pura 
resistenza lo spazio politico è limitato, su quello delle manifestazioni di 
piazza lo è ancora di più.
Le opportunità di fare pressioni su chi prende le decisioni chiave sui 
problemi globali pure non sono mancate in questi dodici mesi, ma - come ci 
ha insegnato ancora una volta il vertice romano della Fao del giugno scorso 
- i poteri sovranazionali, come i governi nazionali, non sono disposti, e 
forse nemmeno capaci, ad ascoltare le ragioni e i suggerimenti della 
società civile. Giusto qualche briciola sull'Aids alla conferenza di 
Barcellona di inizio luglio, o su qualche tema ambientale secondario 
nell'ambito del prossimo summit di Johannesburg. Il lobbying è oggi 
evidentemente inefficace.
In tutta la storia (per nulla breve) dei movimenti globali, la capacità di 
avanzare proposte per politiche alternative, per un progetto diverso, è 
stata presente in ciascuna delle maggiori mobilitazioni (Genova compresa) 
ma con un rilievo assai variabile. Esempi di campagne "ad alta 
progettualità" sono quelle per la Tobin tax, per la cancellazione del 
debito del Sud del mondo, per la riforma di Fondo monetario e Banca 
mondiale, per l'accesso ai farmaci nei paesi poveri, il rifiuto degli 
organismi geneticamente modificati, le esperienze di solidarietà, soluzione 
dei conflitti e costruzione della pace nei Balcani e in Palestina. Sono 
campagne che presentano un' alta politicità e un' alta partecipazione 
perché devono costruire intorno al progetto alternativo un ampio 
schieramento sociale che lo sostenga. E, di fronte a problemi globali, lo 
fanno costruendo movimenti globali con pochi precedenti nella storia.
I due Forum sociali mondiali di Porto Alegre sono stati importanti proprio 
perchè hanno offerto per la prima volta ai movimenti globali uno spazio 
esclusivamente dedicato a costruire identità e progetti comuni. Il Forum 
sociale europeo del prossimo novembre a Firenze saprà dare continuità al 
lavoro delle 70 mila persone che sono state sei mesi fa a Porto Alegre? 
Riuscirà cioè a tradurre le critiche condivise al modello neoliberista in 
campagne generali, in esperienze così diffuse e partecipate da diventare 
ineludibili per la politica italiana ed europea? Campagne che potrebbero 
attraversare settori sempre più ampi di società, tradursi in alleanze forti 
con il sindacato sulla tutela del lavoro, in Italia come altrove, chiedere 
che la spesa pubblica in Europa sia restituita ad un ruolo di 
redistribuzione, radicarsi a livello locale in forme di rinnovamento della 
partecipazione, imporre che la democrazia non sia più un guscio vuoto 
quando le decisioni si prendono a scala europea o mondiale.
A un anno da Genova forse questa è la prova più interessante a cui chiamare 
i nuovi movimenti: la capacità di mostrare l'efficacia di una strategia che 
punta alla proposta di alternative, dopo anni in cui l'assenza di una forza 
contrattuale "formale" verso i poteri globali (e nazionali), ha consentito 
ad essi semplicemente di ignorare le proposte della società civile, perché 
"non realizzabili".
Eppure da un mese opera, per la prima volta nella storia, un Tribunale 
penale internazionale che sperimenta - con infinite limitazioni - l'idea di 
una giustizia amministrata non in nome degli stati, ma in nome dei diritti 
fondamentali dell'umanità, e che potrebbe finalmente mettere sotto accusa i 
dittatori di tutto il mondo. E' difficile essere ottimisti, ma qualcosa di 
simile potrebbe accadere anche sul fronte dell'economia, specie se la 
speculazione finanziaria si volgesse contro il dollaro e la crisi 
internazionale dovesse aggravarsi.
Ma mentre i movimenti tessono pazientemente la tela delle proposte sulle 
reti ormai consolidate della società civile globale, il terreno di 
confronto con i poteri globali sembra arretrare sempre più, in una deriva 
in cui i sistemi di regole condivise sono rimpiazzati da puri rapporti di 
forza. Le regole dell'economia assomigliano pericolosamente agli abusi 
contabili delle grandi imprese e società di revisione dei bilanci. Le 
regole sociali ufficializzano privilegi e disuguaglianze. Le regole della 
politica si dimenticano della democrazia. Le regole internazionali tendono 
a esaurirsi nell'unilateralismo degli Stati uniti. Il risultato più 
probabile potrebbe essere una nuova guerra contro l'Iraq. Ci sarà bisogno 
ancora per molto tempo di protestare, fare pressioni e, soprattutto, 
progettare un mondo diverso.

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Mario Pianta, Universita' di Urbino e
ISPRI-CNR, Via dei Taurini 19, 00185 Roma, Italy
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