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Intervista a Giulietto Chiesa
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L'informazione blindata a braccetto col potere
Intervista a Giulietto Chiesa
a cura di www.jamiwebs.com/altremappe
D. Esiste una guerra visibile e una invisibile in Afghanistan?
R. Il problema della visibilità della guerra è, per la verità, la cosa che
mi preoccupa di meno perché la guerra è visibilissima. Io non sono fra quei
giornalisti che si lamentano perché non vedono la guerra abbastanza da
vicino. E tra l'altro non credo che sia questo il problema, perché non è una
questione di andare a mettere il naso sotto i bombardieri che buttano le
bombe. Non è questo il problema. Il problema è: la guerra si vede benissimo,
quello che manca è capire che cosa significa questa guerra, perché viene
fatta e che scopi ha. Questo sì che non è visibile. E questo è largamente
manipolato. E sarebbe meno manipolato se ci fossero dei giornalisti capaci
di decifrare i messaggi che vengono dai poteri, non dalla guerra in sé, dai
bombardieri. Una seconda questione riguarda la comprensione dei fenomeni sul
campo. Nel caso specifico l'Afghanistan è una civiltà, una cultura
completamente diversa dalla nostra e sarebbe augurabile che i giornalisti
che vanno lì ad illustrare quello che accade sapessero di che cosa si
tratta.
Spesso non conoscono né la geografia, né la storia anche recente, né la
cronaca di questo paese: come possono essere dei buoni raccontatori e
cronisti se non hanno criteri di interpretazione, se non sanno distinguere
le forze in campo?
Quindi la visibilità è l'ultimo problema: il primo problema
dell'informazione è capire quello che succede e capire coloro che sono
impegnati in questo conflitto, lo soffrono, lo vivono, lo partecipano e
questo è decisivo per capire anche tutto il resto.
D. Secondo te la motivazione data della guerra come 'guerra al terrorismo' è
una giustificazione che ha convinto l'opinione pubblica italiana e quella
americana?
R. Quella americana sicuramente sì, a giudicare dai sondaggi di opinione e
purtroppo anche dalle reazioni del mondo intellettuale. Salvo qualche
eccezione, praticamente tutta l'intellighenzia americana ha accettato le
spiegazioni che le sono state date. Peccato, perché secondo me quelle
spiegazioni sono largamente insufficienti. È chiaro, comunque, che ci ha
creduto la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica americana ed è
anche comprensibile perché il paese è stato duramente colpito nella sua
percezione della propria sicurezza nazionale. Un po' meno è stata accettata
la dizione di guerra al terrorismo in Europa e meno che mai in Italia. Mi
sembra che in Italia ci sia un'opinione pubblica che ha reagito molto
criticamente, non accettando le spiegazioni date, o accettandole con
riserva. Più o meno tutti percepiscono che la cosa è più grave di quello che
appare, molti capiscono che l'argomentazione della lotta al terrorismo non
spiega il comportamento degli Stati Uniti e quindi che c'è dell'altro.
Una parte (forse un'altra metà) invece ha accettato tutto così com'è, come
accetta qualunque altra cosa che viene dai media. Cioè c'è una parte della
popolazione che è già stata in qualche misura intellettualmente
'lobotomizzata', che non ha strumenti per difendersi e che è costretta a
nuotare in un mare informativo che non vede e dal quale non riesce a
prendere le distanze, perché non ha strumenti di interpretazione del
messaggio, e quindi ne è puramente e semplicemente oggetto.
Si potrebbe usare un'espressione più forte: vittima del messaggio. Perché
questo non è un messaggio né neutro, né oggettivo, né vero: è un messaggio
falso, prostrato agli interessi di coloro che hanno i poteri e ovviamente
neanche obiettivo. Quindi si tratta da vittime: milioni di persone che sono
sottoposte a questo flusso del quale non conoscono le motivazioni, il
meccanismo, il funzionamento e assorbono quello che arriva.
Naturalmente questo significa dire che più si estende questo messaggio e la
sua influenza, meno ha valore un discorso sulla democrazia. Cioè riconoscere
questo significa dire implicitamente e inesorabilmente giungere alla
conclusione che gli spazi di democrazia si stanno riducendo. In Italia c'è
una società che per ragioni storiche ha tradizionalmente sviluppato una
dialettica politica molto ricca e una società civile molto ricca che
continua, pur affievolendosi, a influenzare parte rilevante dell' opinione
pubblica.
Altri paesi, che non hanno avuto tutto questo, sono molto più indifesi e
sono già stati travolti da questo fiume informativo che ha azzerato o
ridotto quasi a nulla la democrazia. In Italia esiste questa resistenza che
si va affievolendo perché lo strapotere dei mezzi di comunicazione è tale
che i loro metodi, le loro forme, le immagini e i loro concetti diventano
dominanti, però c'è ancora uno spazio democratico su cui si può lavorare per
frenare questo processo degenerativo e in prospettiva tentare di ricostruire
un'offensiva democratica, diciamo così, per il controllo democratico dei
media. Questa possibilità in Italia ancora esiste anche se il contesto
mondiale non è rassicurante, perché i processi che sono andati avanti di
concentrazione e di dominio del sistema della comunicazione di massa in
pochissime mani rende la battaglia molto difficile ed anche pericolosa,
perché è pericoloso mettere il piede in questi ingranaggi. Però è un terreno
di risposta che io ritengo inevitabile, a meno di non arrendersi.
D. C'è secondo te un filo, anche dal punto di vista comunicativo, che lega
Seattle, Praga, Genova, l'11 settembre e Kabul?
R. In qualche misura c'è. Ti rispondo per come l'ho vissuta io. Ho scritto
il libro 'Afghanistan, anno zero' dopo il viaggio di febbraio scorso, fra
marzo e aprile con Vauro lo abbiamo scritto. In quei mesi avvertivo che una
crisi si stava avvicinando. Non immaginavo quale sarebbe stata, ma la
avvertivo. Infatti, nel libro scrivevo che i talebani erano ormai in crisi e
potevano crollare da un momento all'altro. L'editore, quando decidemmo di
fare il libro,
si chiedeva e mi chiedeva se non saremmo arrivati fuori tempo massimo
pensando che sull'Afghanistan non si sarebbe poi detto molto altro. Io ero
convinto che in ottobre-novembre sarebbe avvenuto un disastro. Dietro questa
previsione c'era una profonda riflessione. Dopo questo passaggio io sono
andato a Genova, perché intuivo che Genova sarebbe stato un appuntamento
molto importante, ho visto gli eventi di Genova e tra l'altro nel libro che
ho scritto subito dopo le giornate di Genova racconto ai lettori che una
delle ragioni che mi avevano portato a Genova era stata la lettura del libro
di Karl Kraus Gli ultimi giorni dell'umanità. Dopo aver visto gli eventi di
Genova io ho cominciato a riflettere su quello che era accaduto lì: cioè mi
sono reso conto di quello che stava accadendo, non tanto e non solo la
repressione, quanto il distacco abissale tra i poteri e la gente. Quello che
mi sembrava di vedere chiarissimo era una personificazione di una tremenda
scollatura: da un lato la gente che confusamente avverte il pericolo, anche
a livello istintivo, dall'altro un sistema di governo che rende gli uomini
che hanno il potere lontani dal resto del mondo. Quelle barriere fisiche che
erano state innalzate intorno alla zona rossa erano l'immagine visibile di
uno stato che non poteva stare in equilibrio: quello spettacolo non mi
faceva pensare a un mondo in pace, mi faceva apertamente pensare a un mondo
che stava andando verso la guerra.
Per tornare alla tua domanda, quello che voglio dire è che c'è una
continuità. In realtà se uno provava a mettere insieme tutti i segnali che
arrivavano, erano tutti segnali di guerra, di crisi, di un dramma terribile
che si sta consumando.
Quello che è avvenuto dopo non fa che confermare che questi segnali erano
evidenti: i movimenti di Seattle, di Genova, di Assisi sono, visti da un
altro angolo visuale, tutti segnali di allarme. Cioè la crisi produce
effetti inevitabili che si possono tenere nascosti, si possono comprimere,
manipolare, ma questi effetti hanno una valenza automatica. Inoltre la crisi
produce una risposta molteplice, multidirezionale. Quello non è un movimento
compatto, non è un partito. È una cosa molto diversa, dove ci sono dentro
striature di ogni genere: praticamente ciascuna delle grandi sfide con le
quali l'umanità è confrontata, quella ecologica, quella dello sviluppo
sostenibile, la sfida dell'energia, quella dei diritti. Sono tutte sfide che
producono una reazione e nel movimento ci sono tutte queste cose. Non un
fiume, ma centinaia di fiumi diversi dove confluiscono cose diverse, spinte
e moralità diverse. Questo movimento è una febbre, un sintomo di una
malattia. Questa malattia qualcuno ha deciso di curarla con la guerra, con i
bombardamenti. La follia più completa.
Quelli che stanno sul ponte di comando non capiscono che la malattia va
curata, non certo estirpata ammazzando il paziente. Solo dei pazzi possono
pensare di uscirne in questo modo: e sono questi pazzi che comandano. Cosa
possono sperare? Di salvarsi? E i loro figli? Voglio dire che c'è un punto
oltre il quale l'aria è la stessa, anche immaginando visioni fantasiose e
apocalittiche di un mondo in cui i ricchi vivranno sotto delle campane
protette e infrangibili e assolutamente impenetrabili al resto del mondo
fatto di formiche che tentano di assaltare le cupole.
Io dico che non può esserci pace senza un mondo solidale, senza un mondo che
si autogoverna. Si autogoverna con la partecipazione di tutti e non solo dei
più ricchi perché questo non è autogoverno, è imposizione.
Noi abbiamo di fronte due varianti: l'impero, che si sta costruendo
attraverso la guerra e un mondo solidale, cioè un nuovo ordine economico,
morale intellettuale mondiale. Tutti gli uomini dovrebbero essere portati a
scegliere tra queste due varianti: l'ostacolo che noi abbiamo è che non si
può scegliere se non si conosce. La chiave di tutto è lì: nel poter
conoscere le varianti.
E tutto quello che si fa nel sistema mediatico impedisce che si arrivi alla
consapevolezza delle alternative.
D. Secondo te c'è stata una differenza nella rappresentazione mediatica di
questo conflitto rispetto a quelli recenti che lo hanno preceduto (Kossovo,
Iraq)?
R. No, penso di no. La rappresentazione di questa guerra è, se possibile, in
modo più massiccio e più esplicito la ripetizione del Kossovo.
Rispetto all'Iraq forse sì. In realtà penso che l'impegno mediatico per la
preparazione della guerra dell'Iraq è stato debole. La guerra in fondo era
una guerra di passaggio, perché anche in quel momento il presidente Bush
padre non era ancora entrato nella logica dell'impero. Questa è la
differenza. Ai tempi della guerra dell'Iraq l'impero non era ancora formato,
perché l'Urss era caduta da poco e l'America non si era ancora adattata
all'idea di essere l'unico potere. Quindi il presidente Bush era ancora
parte del vecchio mondo e ha costruito la guerra con i vecchi sistemi.
Nel caso della guerra del Kossovo e nel caso di questa guerra la
preparazione mediatica è stata decisiva. Non ci sarebbe stata la guerra del
Kossovo se non ci fosse stato un immenso lavorio mediatico: qui sì
consapevole, organizzato, programmato, progettato minuziosamente.
E siccome il sistema mediatico è diventato determinante per le decisioni
degli stessi poteri, è chiaro che i poteri stessi usano i meccanismi del
sistema mediatico, non c'è da stupirsi. Io vedo una differenza netta fra
Saddam Hussein, piccolo esperimento delle vecchie guerre e Milosevic e bin
Laden, che sono i grandi satana delle nuove guerre mediatiche.
Vorrei fare un piccolo esempio di come l'inganno mediatico diventa parte di
ogni rappresentazione del potere. Il presidente Clinton quando incontrava
Eltsin amava sempre sottolineare il grande coraggio da lui mostrato salendo
su un carro armato contrapponendosi al potere autoritario del partito
comunista dell'Urss. La cosa è divertente perché tutto l'episodio del carro
armato è un esempio di inganno mediatico: quando Eltsin salì sul carro
armato sotto non c'era il popolo, c'era un gruppo di giornalisti occidentali
e la sua salita, presentata come un atto eroico, è totalmente ridicola,
perché fu contrattata con i militari. Non solo non c'era nessun pericolo, ma
non c'era nessun atto clamoroso: era solo un'immagine costruita per i
giornalisti.
E i giornalisti infatti la costruirono, la ripresero, la mostrarono al mondo
e su questo presentarono Boris Eltsin come l'eroe della libertà. Lo stesso
Clinton spesso ha fatto nei suoi discorsi su Eltsin riferimento a
quell'immagine, presentandola come la prova di un evento storico:
un'immagine falsa come prova provata di un evento storico. È talmente
assurdo, ma è così: alla fine Clinton finisce per crederci, pur sapendo che
è falsa.
Quando escogitano e progettano le loro operazioni politico-militari, lo
fanno in base alle immagini che hanno introiettato loro stessi. Insomma noi
stiamo vivendo in un sistema virtuale che è falso e che influenza i
comportamenti di tutti. Un altro esempio più vicino a noi: i 'nostri'
parlamentari, che hanno bulgaramente votato per la guerra hanno subito
esattamente la stessa legge dello spettacolo. Identica. Perché la gran parte
di loro non sa per che cosa ha votato.
D. Colpevolmente, però.
R. Colpevolmente perché sono disonesti e hanno preso una decisione che
riguarda il nostro futuro senza neppure essersi documentati. Ma quello che
voglio dire, al di là di questo, è la questione che lì ci sono 600 persone
che sono i nostri rappresentanti, che noi abbiamo eletto perché loro
interpretino le nostre esigenze che sono in primo luogo vittime del sistema
mediatico, al quale hanno creduto. Questo circolo vizioso rischia di essere
assolutamente ingovernabile. Se persino quelli che dovrebbero prendere le
decisioni nelle periferie non sono capaci di emanciparsi rispetto al
messaggio mediatico, allora la cosa diventa davvero molto preoccupante.
D. Un'ultima domanda. Tra gli osservatori critici del sistema mediatico c'è
la sensazione che vi sia una censura su questa guerra. Quale pensi sia la
chiave di lettura: i reporters che sono pressati dai direttori o che si
autocensurano, oppure che raccontano quello che vedono, ma non vedono tutto
quello che ci sarebbe da vedere?
R. In parte il problema sta nella debolezza del sistema della formazione
politico-culturale-intellettuale degli stessi giornalisti. Si richiederebbe
un altro livello etico soprattutto e un altro livello conoscitivo da parte
di persone che hanno una così grande responsabilità. In realtà credo che i
maggiori responsabili siano coloro che hanno in mano i media e cioè i
direttori, i capi delle strutture perché sono loro, in definitiva, che fanno
l'informazione. Sono loro che decidono cosa la gente può e non può vedere.
Ciò che la gente deve vedere e ciò che non deve assolutamente vedere. Quindi
la responsabilità maggiore è negli staff dirigenti dei giornali e delle
televisioni. Dietro, naturalmente, ci possono anche essere i proprietari, ma
io mi chiederei anche perché questi staff dirigenti si comportano in questo
modo pur non ricevendo per forza delle veline. Il caso della CNN di poche
settimane fa è quello che lo staff dirigente ha imposto delle veline ai suoi
giornalisti (di non mostrare immagini troppo cruente della guerra in
Afghanistan, ndr), ma lo staff non aveva ricevuto a sua volta veline da
qualcuno. Non hanno bisogno di riceverle perché lo sanno già quello che
devono dire, automaticamente. Perché c'è una coazione generale che
stabilisce le regole. Questi uomini che dirigono i giornali sono tutti a
stretto contatto di gomito con i grandi centri di potere: si consultano, si
toccano, si guardano, si sorvegliano vicendevolmente e basta una parola per
capire da che parte si deve stare. Non occorre che il direttore di un
giornale dica all'editorialista quello che deve scrivere: lo sa già. E se
non lo ha capito la prima volta non lo chiameranno più.
Nel caso specifico: l'America dice che ci vuole la guerra e loro
automaticamente sanno che si deve dire che ci vuole la guerra. Ho
testimonianze di numerosi colleghi, anche ad alti livelli, che leggono con
attenzione i giornali americani per sapere qual è il messaggio che viene dai
giornali americani e poi lo applicano, nei dettagli anche.
E quindi, c'è un allenamento formidabile al quale questa gente si sottopone.
In più. Chi vuole fare carriera, sa quali sono gli scalini che devono essere
fatti: li impara cammin facendo. Scalini che compiuti uno dopo l'altro lo
fanno diventare 'affidabile'. Affidabile vuol dire uno che non sbaglia mai.
Che sa sempre da che parte si deve collocare. Ogni scalino è un passo
nell'avvicinamento alla tua affidabilità, cioè al fatto che tu devi capire
che cosa devi scrivere e che cosa non devi scrivere. Che cosa devi scegliere
e che cosa non devi scegliere. E quando sei arrivato in cima tu sei un uomo
totalmente affidabile e a quel punto tu sai a memoria come ti devi
schierare, in ogni momento e su ogni questione. Dalla crisi dei magistrati
alla guerra.
Non c'è bisogno a questo punto di dare loro la velina perché la sanno
automaticamente.
Quello che succede anche ora in Afghanistan, oltre al fatto che come in
tutte le guerre gli americani fanno in modo che alcune cose non si possano
vedere e dire, è che i direttori ti dicono che devi scrivere certe cose e
non certe altre. E molti colleghi sono irritati di questo perché sanno che
se scriveranno in un certo modo i loro pezzi verranno pubblicati in un certo
modo, se scriveranno in un'altra maniera i loro pezzi andranno in prima
pagina. Considera che il discorso che ho fatto prima sugli scalini non
riguarda gli inviati sul terreno: queste persone spesso subiscono degli
ordini e se tu scrivi delle cose un po' diverse da quello che dovresti
scrivere te lo fanno anche capire chiaramente. In un pezzo è richiesto il
'colore', anche se viene dalla guerra. È l'interpretazione degli eventi che
ti viene imposta e in ogni caso tu non sei quello che determina il
contenitore: il contenitore dove vanno a finire i tuoi pezzi lo determinano
loro e questo contenitore li può anche travisare.
Questo è quello che è successo anche a me con le mie corrispondenze dalla
guerra in Afghanistan: io facevo le mie corrispondenze con il mio taglio, e
poi loro sopra le mie corrispondenze ci mettevano il commento di Gianni
Rondolino che se ne stava lì a disquisire su Tacito e sui grandi storici
della guerra dell'antichità romana e scriveva per lo più delle pure
scemenze.
Però i suoi commenti erano sopra il mio pezzo e non in fondo alla pagina,
per cui chi apriva il giornale leggeva prima Rondolino e poi la mia
corrispondenza.
E quello era un contenitore buono per far capire la guerra? Neanche per
sogno, perché Rondolino è un personaggio che scrive quello che interessa ai
padroni del giornale o altri, io provavo a scrivere la verità su quello che
avevo visto in Afghanistan. Il lettore veniva sottoposto a una scelta che
sovvertiva il rapporto corretto: prima si imponeva il commento e poi il
racconto degli eventi. Il contrario della logica.
Quindi gli inviati che sono sul terreno fanno quello che possono. Per quanto
mi risulta nelle redazioni di tutti i giornali ci sono molti giornalisti che
sono insofferenti della situazione alla quale sono costretti. Gente che non
vorrebbe altro che fare il suo lavoro un po' meglio, ma non glielo lasciano
fare. E quindi se ci fosse qualche sponda esterna che li aiuta a difendersi
sarebbe molto utile. Ma non sono loro il problema centrale. Il problema
centrale sono i gruppi redazionali che comandano i giornali: quelli
decidono, quelli stabiliscono e i lettori sono soggetti a loro, come tutto
il resto del paese inclusi i loro giornalisti.
Insomma è lì che si deve puntare perché se si deve sparare qualche bordata
bisogna spararla lì.
3.12.2001
www.disinformazione.it