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armi nucleari - articolo del prof. Angelo Baracca



Carissimi,
                    vi allego un editoriale che uscira' sul prossimo
"Giano" (se ve lo avevo gia' inviato scusatemi) e una nota aggiuntiva
"a caldo" sull'accordo mediatico Bush-Putin

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Uno spettro si aggira ...

Angelo Baracca

L’ultimo decennio del secolo che si è da poco chiuso ha frustrato le 
speranze che, con il crollo del Blocco dell’Est e la fine della guerra 
fredda, si fosse aperto un processo irreversibile di disarmo. Il primo 
decennio del secolo che si è da poco aperto sembra destinato a frustrare le 
speranze di una progressiva eliminazione degli armamenti nucleari, ed a 
riproporre anzi lo spettro del ricorso effettivo alla loro potenza 
distruttrice. L’inganno utilizzato dagli stati nucleari nel 1999 per 
indurre i paesi non nucleari a sottoscrivere il rinnovo del Trattato di 
Non-Proliferazione (Npt), accompagnandolo con l’impegno alla progressiva 
eliminazione delle armi nucleari, ora si rivela apertamente tale, senza che 
questo sollevi una levata di scudi da parte di coloro che erano stati 
ingannati.
Sono almeno tre anni che sulle pagine di questa rivista denunciamo non solo 
la ripresa di una corsa al riarmo senza precedenti nella storia  trainata 
naturalmente dalla potenza imperiale, sotto la spinta incontenibile delle 
proprie smanie di dominio e delle proprie paranoie (le une funzionali alle 
altre), della lotta ormai senza quartiere per il controllo diretto delle 
risorse e delle aree strategiche, nonchè last but not least dei potenti 
interessi del complesso militare-industriale  ma anche l’impulso senza 
precedenti al perfezionamento delle testate nucleari, per farne un’arma 
“utilizzabile” sugli scenari di guerra del XXI° secolo (mentre il non meno 
parossistico perfezionamento degli armamenti considerati, nonostante tutto, 
“convenzionali” tende a sfumare sempre più la demarcazione tra i due 
settori: e, anche qui, una cosa è non solo complementare, ma funzionale 
all’altra).
In fondo Bush non ha fatto altro, con la grossolana franchezza che 
contraddistingue il suo stile, che portare alla luce del sole, dichiarare 
apertamente, rendere ufficiali queste allarmanti tendenze  latenti 
unicamente per il colpevole ed asservito silenzio dei penosi mass media 
nostrani.

Il budget statunitense per la difesa sembra destinato a raggiungere 
nell’anno in corso la cifra da capogiro di 379 miliardi di dollari (il 40 % 
della spesa militare di tutto il pianeta, più della spesa combinata delle 
14 successive potenze miltari; Poco meno del Pil dell’India, quasi metà del 
Pil del Brasile, quasi un terzo del Pil dell’Italia!). Ma non ci si faccia 
abbagliare solo dall’iperbolicità della cifra: ancor più significativa ed 
allarmante è forse la progressione, dato che nel non lontano 2000 la spesa 
era di “soli” 270 miliardi di dollari! Un risultato che valeva bene la 
perdita delle Twin Towers e di tante vite innocenti.
Fin dalla sua elezione Bush aveva dichiarato l’intenzione degli Stati Uniti 
di lavorare per una riduzione numerica degli arsenali nucleari molto al di 
sotto dei limiti imposti dai trattati Start (Strategic Armaments Reduction 
Treaty): in effetti l’obiettivo, perseguito in modo solo appena più 
sommesso anche dalla precedente amministrazione, è quello di puntare ad un 
radicale rinnovamento qualitativo degli arsenali, in modo tale da 
garantirsi una superiorità sia strategica che tattica veramente 
schiacciante rispetto ai pezzi da mueseo dell’arsenale russo (purtuttavia 
ancora micidiale, ed anzi tanto più pericoloso con il progressivo degrado 
del decrepito sistema d’allarme), ed anche al possibile livello che potrà 
raggiungere in futuro l’arsenale cinese, partendo dall’attuale ventina 
appena di missili intercontinentali (il che non toglie che Washington 
sorvegli da vicino, e con preoccupazione ed enfasi in gran parte 
pretestuose, gli sviluppi dei test cinesi, come emerse clamorosamente con 
la cattura dell’aereo spia americano il 1° aprile 2001).
Il “giallo” della bocciatura nel 1999 da parte del Senato americano della 
ratifica del Ctbt (Comprehensive Test Ban Treaty) si rivela finalmente per 
quello che era: non già uno sfregio della maggioranza repubblicana 
all’amministrazione democratica, ma un passo di una strategia ben meditata. 
Una volta liberi di dire pane al pane  insieme al rifiuto del “Protocollo 
di Kyoto”, alla disdetta unilaterale del Trattato Abm, al rifiuto della 
bozza di protocollo per le ispezioni di controllo della Convenzione sulle 
Armi Batteriologiche del 1972, al boicottaggio della Conferenza dell’Onu 
sul Commercio Illecito delle Piccole Armi, alla mancata ratifica del 
Trattato per l’eliminazione delle mine antiuomo, il boicottaggio della 
Conferenza di Durbans, per citare i casi più clamorosi  è emersa 
chiaramente l’intenzione di non ratificare mai il Ctbt: il Vice Segretario 
alla Difesa Wolfowitz ha richiamato apertamente la possibilità di 
circostanze “in cui si dovrebbero contemplare” test nucleari, mentre il 
capo della National Nuclear Security informava il Congresso della sua cura 
per “migliorare l’operatività dei siti dei test”. L’amministrazione Bush ha 
anche ridotto i finanziamenti per i programmi si nonproliferazione, 
compresi gli aiuti alla Russia per arrestare la diffusione di armi di 
distruzione di massa.
Da molti anni, come abbiamo documentato da tempo, gli Stati Uniti stanno 
investendo cifre ben superiori (come media annuale) a quelle dei tempi 
della guerra fredda in progetti per la realizzazione di sistemi sofisticati 
di simulazioni virtuali dei test nucleari che consentano di progettare e 
realizzare testate completamente nuove senza la necessità di test 
effettivi. L’amministrazione Bush aveva proposto immediatamente un aumento 
di più di 1,5 miliardi di dollari per il progetto e lo sviluppo di nuove 
testate nucleari.
In questo quadro, la proposta lanciata in marzo da Bush di realizzare una 
nuova generazione di testate nucleari di piccola potenza (low yeld), capaci 
di penetrare profondamente nel terreno (300 metri di granito) prima di 
esplodere per distruggere bersagli rinforzati profondi, incominciò a 
circolare ufficialmente più di un anno fa. Del resto è ovvio che se il 
presidente di una nazione lancia una proposta come questa, essa gli è stata 
prospettata, ed è stata elaborata in precedenza dai tecnici del settore 
(come quando Reagan quasi 20 anni fa lanciò il progetto delle “Star Wars”, 
che i grandi laboratori nazionali di ricerca militare avevano elaborato). 
Si tenga presente anche che l’idea non è del tutto nuova: già tre anni fa 
circolava in Russia la proposta di realizzare una nuova generazione di 
mini-nukes (0,4 kilotoni) da utilizzare sul campo di battaglia.

Washington, d’altra parte, non ha mai rinunciato all’opzione del first use 
dell’arma nucleare: quattro anni fa ridicolizzò la timida proposta del 
Ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, di rivederla. E la Russia 
ha rinnegato la tradizionale politica del no first use nella Nuova Dottrina 
Miltare e Nucleare adottata nel 2000.
Siamo seduti su di una “polveriera” nucleare che potrebbe esplodere da un 
giorno all’altro.
Due paesi dotati di capacità nucleare e missilistica, l’India e il 
Pakistan, l’uno a maggioranza induista l’altro mussulmano, si affrontano 
quotidianamente sulla contrastata frontiera nord-occidentale, in un clima 
di tensione crescente, aggravata dal succedersi di attentati terroristici. 
Uno dei due paesi è retto da un generale impostosi con un colpo di stato ed 
è percorso da tensioni esplosive, aggravate anzichè attenuate dalla guerra 
sull’Afganistan. Ma neppure il overno dell’altro gode di buona salute. Da 
un giorno all’altro potrebbe accadere l’irreparabile.
Poco lontano da lì Israele sta appiccando il fuoco ad una situazione già 
esplosiva. Se quell’area dovesse esplodere (non dimentichiamo la ferma 
decisione di Washington di attaccare l’Iraq) e Israele dovesse sentirsi 
ulteriormente minacciato, come non ha esitato a riversare la propria 
superiorità militare sui pressochè inermi palestinesi, potrebbe facilmente 
decidere di fare ricorso al proprio formidabile arsenale nucleare, che 
ormai, dopo lunghi anni, ha ufficialmente riconosciuto di possedere.

La decisione di Washington di dotarsi di nuove testate di piccola potenza 
da usare effettivamente ben si inquadra nella strategia che viene lanciata 
dalla nuova amministrazione, e che si radicalizza sempre più dopo il 
fatidico 11 settembre. I nuovi eventi hanno un po’ messo in sordina il 
progetto dello scudo antimissili, ma la revoca unilaterale del Trattato Abm 
parla in maniera inequivoca. Fin dalla sua elezione Bush ha rilanciato con 
forza ed ulteriormente elaborato il progetto.
Gli Stati Uniti, insomma, hanno deciso di accentuare l’impostazione 
offensiva della propria politica imperiale e del proprio sistema militare. 
La NATO è ormai declassata al ruolo di irregimentazione dei sudditi fedeli 
di serie A, inglobandovi via via quei paesi dell’ex-blocco sovietico che 
faranno i bravi (anche la Russia, chissà! Intanto Berlusconi fa da 
battistrada). Come alleanza offensiva non sembra più affidabile, o 
all’altezza: ad essa si demandano i compiti di gestire l’ordine e la 
ricostruzione nelle zone conquistate, in modo da liberare le truppe 
statunitensi per nuovi compiti offensivi. Dal fatidico 11 settembre il 
numero di soldati americani di stanza all’estero dovrebbe essere aumentato 
di ben 60.000 unità (dalle 247.000 precedenti: un aumento di quasi il 25 
%): 13 nuove basi militari sono state stabilite in Asia, dalle repubbliche 
dell’Asia Centrale alla Georgia (qui ci sarebbe semmai da registrare il 
fallimento della politica di Putin, che si è accodato al volere americano 
ed ha ricevuto solo schiaffi: dalla denuncia unilaterale del trattato Abm, 
all’entrata diretta degli Usa nelle tradizionali aree di influenza di Mosca).
In questo quadro lo scudo antimissili ben si sposa con la dotazione, e il 
possibile uso, delle nuove armi nucleari. Una strategia a tutto campo, 
volta al pieno dominio dello spazio, in funzione sia difensiva, per 
proteggersi dai possibili attacchi, sia soprattutto offensiva (data 
l’improbabilità di una minaccia diretta suicida; a meno che non faccia il 
gioco della strategia di Washington, come nel caso delle Twin Towers. E 
comunque, in quel caso, l’inaffidabilità del sistema di difesa).

In questo quadro non si può tralasciare di osservare, poi, le pressioni che 
si moltiplicano un po’ ovunque per la ripresa dei progetti di nicleare 
“civile”. Abbiamo sempre sostenuto che nucleare “civile” e nucleare 
“militare” sono due settori indissolubilmente legati, tanto sul piano 
tecnico, quanto su quello economico. Due opere della giornalista Dominique 
Lorentz ricostruiscono il losco ed inquietante passato degli affari 
nucleari. Stati Uniti, Francia ed Israele hanno sempre tenuto le redini di 
questi affari (anche quando De Gaulle abbandonò formalmente le Nato). Le 
prove della force de frappe in Algeria nel 1960 furono franco-israeliane. 
La Francia ha avuto un ruolo di subappaltatrice degli Stati Uniti: tutte le 
centrali vendute da Framatom sono sotto licenza Westinghouse, che ha 
detenuto il 45 % delle azioni di Framatom fino al 1975. Questi paesi, con 
qualche partner, sono stati i gestori diretti della proliferazione 
nucleare: franco-tedesca fu la collaborazione con il Sud Africa dal 1963; 
dopo il conflitto sino-indiano del 1962 fu la volta dell’India; poi del 
Brasile della dittatura militare; la Francia partecipa al programma 
nucleare del Pakistan dal 1976. Nel Golfo Persico si cominciò con l’Iran 
dello Scià, con la commessa di due centrali vendute daifrancesi e due dai 
tedesche, e l’ingresso con il 10 % di capitale nel consorzio Eurodif, che 
tutt’ora dà dirito all’Iran di ritirare la sua parte di uranio arricchito. 
Poi fu la volta dell’Iraq: la Francia costruisce una centrale, gli 
israeliani la bombardano, la Francia la ricostruisce, le bombe della Guerra 
del Golfo la distruggono nuovamente (c’è solo da chiedersi come 
bombardamenti e ricostruzioni abbiano fatto lievitare gli affari). Dopo la 
rivoluzione iraniana gli Stati Uniti hanno cercato, come è loro solito, di 
cavalcare la tigre Khomeini, che poi si è ritorta loro contro. La serie di 
attentati dal 1984 al 1990 potrebbero avere questo retroscena, finchè 
Mitterrand conclude l’accordo con l’Iran nel 1991. Anche i clamorosi test 
nucleari del 1995 sarebbero, secondo la giornalista, franco-americani: in 
effetti subito dopo i due paesi firmarono un accordo sullo scambio di dati. 
Qualche contentino è stato dato anche alla Russia, per portare a termine la 
centrale nucleare iraniana.
Il Pakistan costituisce oggi uno dei principali problemi, ed è probabile 
che l’operazione in Afganistan avesse anche lo scopo non secondario di 
agganciare Islamabad. Il 2 novembre 2001 tre responsabili del programma 
nucleare pakistano vennero arrestati come collaboratori dei Taleban. Che 
cosa accdrebe se le forze fondamentaliste riuscissero un giorno a mettere 
le mani sulle testate nucleari?
Da mezzo secolo le potenze imperialiste fanno il pericoloso gioco degli 
apprendisti stregoni nel nucleare; e oggi cercano di rilanciare un gioco 
che si fa sempre più incontrollabile e pericoloso.


Ultime notizie: anzi no!
Angelo Baracca
Proprio mentre stiamo per andare in stampa arriva la grande notizia 
mediatica: accordo definito storico tra Usa e Russia per ridurre ad un 
terzo la consistenza dei rispettivi arsenali nucleari! Peccato che non ci 
sia nulla di nuovo: anzi, l’accordo risulta piuttosto deludente rispetto a 
quanto da tempo ci si aspettava. Non ci riferiamo tanto agli “imbrogli” che 
l’accordo contiene: come il conteggio delle testate multiple (Mirv: 
Multiple Independently targetable Reentry Vehicles) come una sola testata, 
l’immagazzinamento delle testate anziché la loro eliminazione, l’ormai 
rassegnata accettazione da parte di Mosca dello “scudo antimissili” 
americano. Sono probabilmente i frutti del totale allineamento di Putin 
alla strategia americana dopo l’11 settembre.
I punti veri, naturalmente sottaciuti o mistificati dai mass media, sono 
altri. Da almeno due anni su questa rivista li abbiamo documentati e 
denunciati. L’arseenale nucleare russo sta subendo un processo di 
progressivo ma rapido deperimento, il quale investe l’intero sistema 
difensivo (satelliti di allarme precoce, ecc.): Mosca sa bene che nei 
prossimi anni non potrà mantenere (e con grandi sforzi) più di 1.000 - 
1.500 testate efficienti. Quanto a Washington, si era sentita ventilare più 
volte la proposta di puntare ad una riduzione degli arsenali a questo 
ordine di grandezza: gli Stati Uniti non puntano ormai più alla corsa agli 
armamenti per fiaccare l’Unione Sovietica, e se hanno rilanciato una corsa 
agli armamenti ancora più folle è per ben altri motivi! Abbiamo documentato 
negli articoli precedenti, e ripetuto in questa nota, che l’obiettivo di 
Washington è di puntare ad un arsenale nucleare “di qualità”, totalmente 
rinnovato, con testate di nuova concezione, progettate per l’uso effettivo 
sul campo di battaglia e contro bersagli sotterranei rinforzati.
Il numero di 1.700 - 2.200 testate per parte, previsto nell’accordo, sembra 
quindi ancora nettamente sovradimensionato per entrambi i contraenti. Si 
può pensare che esso sia un primo passo, un primo compromesso per aggirare 
i sospetti e le opposizioni del Senato americano e di certe gerarchie 
miliari. Oppure che esso nasconda astuzie più sottili. Gli Stati Uniti non 
hanno ancora messo a punto i sistemi di simulazione dei test nucleari 
(anche se sembrano in stato avanzato), né il progetto delle “mini-nukes” 
ufficializzato da Bush-II: è probabile che non sia parso ragionevole fare 
il passo più lungo della gamba (tanto che Washington rifiuta persino di 
smantellare veramente le testate! Possono sempre tornare buone). Le vere 
intenzioni e le vere prospettive si vedranno nel corso del decennio da poco 
iniziato, misurando meglio come procedono concretamente i progetti 
attualmente in studio o in corso di realizzazione, vedendo quali saranno le 
effettive capacità ed intenzioni della Cina, l’evolvere della situazione 
internazionale, che potrebbe anche precipitare verso un baratro senza ritorno.
Ancora una volta, purtroppo, non è suonata la campana del disarmo nucleare 
(non ci si precipiti a dichiarare che la “clessidra nucleare” è tornata 
indietro, o si è arrestata), ed è più che mai opportuno non cullare 
illusioni e non abbassare la guardia. Siamo i soliti pessimisti eternamente 
incontentabili? Mettiamo semplicemente in guardia dai conteggi sbrigativi e 
dalle risposte tranquillizzanti. Perché il problema risiede in quale sarà 
l’evoluzione futura, quali sono le vere intenzioni, quale sarà lo stato dei 
rapporti internazionali, come saranno costituiti e a che cosa saranno 
destinati gli arsenali nucleari. La polveriera su cui siamo seduti non 
sarebbe qualitativamente meno pericolosa, oggi, se nel mondo esistessero in 
tutto solo 500 testate nucleari: che rimarrebbero quantitativamente 
sufficienti a causare una catastrofe planetaria senza precedenti e senza 
ritorno. Se si tratterà di testate in parte totalmente rinnovate come 
efficacia, precisione e possibilità di utilizzo (com’è nei piani di 
Washington), in parte vecchie ma sempre meno affidabili e controllabili 
(com’è nelle possibilità di Mosca), in parte nuove (ad esempio 
nell’arsenale cinese), potrebbero essere più pericolose delle circa 15.000 
testate attuali.